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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Mon oncle

 

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Per il bambino era meglio diventare come il padre, avere un lavoro e una famiglia,

o come lo zio, senza un lavoro e senza una famiglia? (Virginia, a.s. 2009-2010)

 

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Titolo: Mio zio

Titolo originale: Mon oncle

Regista: Jacques Tati (1908 - 1982)

Paesi di produzione: Francia e Italia.

Anno di produzione: 1958

Attori principali: Jacques Tati (monsieur Hulot, zio di Gerard), Alain Bécourt (Gerard), Adrienne Servantie (madame Arpel, mamma di Gerard e sorella di monsieur Hulot), Jean-Pierre Zola (Charles Arpel, papà di Gerard)

Durata: 1h 52’

 

Il regista

 

Jacques Tati

Il commento di Luigi Scialanca

 

Il Nulla, ne La storia infinita, vuole distruggere tutto. In Mon oncle, invece, che è di vent’anni prima, voleva costruire tutto. Ma tra i due Nulla c’è poca o nessuna differenza.

 

Con Mon oncle, splendido frutto della maturità di Jacques Tati, il 1958 compie uno di quei balzi in avanti che solo il genio umano può concepire e si ritrova nel 2012: in un mondo, il nostro, ormai del tutto incapace di star fermo, e dove milioni di microscopici mutamenti fervono come in una pentola in perenne ebollizione producendo cambiamenti giganteschi. Tramutando tutto in nulla?

 

Come nel 1979-2012 di Michael Ende, nel 1958-2012 di Jacques Tati è in corso una lotta all’ultimo sangue, che però non sembra così drammatica, tutt’al più patetica, e al tempo stesso è così divertente da apparire inoffensiva: la lotta del nuovo contro il vecchio, del futuro contro il passato, della velocità contro la lentezza, della modernità e del progresso contro le anticaglie che non si rassegnano ad adeguarsi o a sparire. Solo che il cosiddetto “nuovo” è rappresentato (e perciò inficiato) da monsieur e madame Arpel, che vivono, pienamente soddisfatti di sé, in una casa avveniristica ed ipertecnologica “dove tutti gli ambienti comunicano”, come essi dicono agli ospiti, ma dove gli esseri umani, ridotti a ingranaggi, comandati a bacchetta e costretti a una sorta di danza ininterrotta dagli scatti e i rumori dei loro perfetti macchinari, non comunicano più e stanno perdendo la capacità di soffrire e di gioire gli uni degli altri: stanno perdendo gli affetti, cioè, e con essi scompaiono anche loro: li sta divorando il nulla.

 

Il campione del “vecchio”, invece, è monsieur Hulot, fratello di madame Arpel e “pecora nera” della famiglia, che risiede in un delizioso vecchio quartiere di stradine tranquille, di graziosi edifici cresciuti un po’ alla volta secondo l’estro, di balconi fioriti, di bistrot, di mercatini: un quartiere dove i cani randagi trovano da mangiare e non rischiano d’essere investiti, i bambini giocano per la strada e i grandi coltivano le virtù e i piaceri della reciproca compagnia, della lentezza e del lavorare senza strafare, cesellando la propria opera, per quanto umile, con la dedizione che fa sentire ogni uomo un artista.

 

Tra gli Arpel e Hulot, “messo in mezzo” come tutti i bambini, strattonato dal “nuovo” trionfante (ma così deserto) e tuttavia misteriosamente attratto dal “vecchio” morente (ma intanto così vivo) il piccolo Gerard, figlio dei coniugi Arpel e nipote di monsieur Hulot, è un bambino che è felice solo quando lo zio viene a prenderlo con la sua bicicletta motorizzata, o con il carretto dell’amico rigattiere, e lo porta in quel rione che fa inorridire papà e mamma, ma che a lui sembra un villaggio delle favole.

 

Certo, monsieur Hulot è un gran pasticcione e alla sua età non ha ancora un lavoro “serio”, ma... è davvero così? È lui che ha un cattivo rapporto con la realtà? O non è piuttosto la realtà che gli si è resa impraticabile? E che perciò, non comprendendo più il suo valore, lo sta perdendo insieme a tutto ciò che egli rappresenta, e alla fine lo respinge e lo scaccia così come demolisce il suo quartiere?

 

Nel 1958-2012 di Mon oncle, come nel 1979-2012 de La storia infinita, la possibilità di vivere da esseri umani si sta riducendo: è legata alla speranza che non si estingua la specie degli Hulot, le cui chances di sopravvivenza sembrano dipendere da quelle del suo ambiente, minacciato di distruzione.

 

Per vivere da esseri umani, tuttavia, cambiamento e continuità sono entrambi indispensabili. Se potessimo solo cambiare saremmo come le pietre, oggetti inorganici del tutto passivi continuamente rimodellati dagli agenti atmosferici e tellurici. Se potessimo solo continuare, d’altronde, saremmo come gli altri animali, che non vivono che per conservarsi vivi. E però certi nostri cambiamenti sono distruttivi, talora fatali; certe nostre continuità sono così orribili da dar dei punti alla morte stessa; e il famoso “giusto mezzo”, ammesso e non concesso che da qualche parte ve ne sia uno, tra il cambiamento e la continuità non è possibile: o si cambia, e la contuinuità non c’è più; o si continua, e non c’è cambiamento.

 

Non vi è che una soluzione, per monsieur Hulot: nel cambiamento, non lasciare indietro gli affetti; nella continuità, non lasciarli andar via senza di noi.

 

Monsieur Hulot non è un eroe, non è Atreju, non lotta con tutte le forze contro il “nuovo” che, come il Nulla ne La storia infinita, sta sconvolgendo a tal punto il suo ambiente, il “vecchio”, che nel “nuovo” risulta quasi impossibile perfino rimanere umani, perfino la continuità dell’umanità: la sua resistenza è “passiva”, “gandhiana” ― il che non le impedisce di essere entusiasmante, come quando nel cuore della superfabbrica di plastica di monsieur Arpel, così meccanizzata che anche gli operai sembrano robot, Hulot si sdraia sul pavimento e lascia che le cose vadano (male) per il loro verso senza di lui ― ma nella difesa degli affetti è, al contrario, del tutto “attiva”, determinata, forte ed efficace: mentre gli operai-robot, armati di martelli pneumatici, fanno a pezzi il suo mondo senza dar segno di emozione, come se spazzassero una stanza, Hulot si ferma a raccogliere un mattone (rosso) caduto da un muretto e lo rimette a posto: un gesto d’amore (di amorevole continuità) che nessuno potrebbe impedirgli di compiere ― e che non salva né il suo quartiere né niente, certo, ma che salva l’umanità che è in lui.

 

Simmetricamente ― brutto avverbio razionale, molto apprezzato dai cattivi “cambiamentisti” come dai cattivi “continuisti” ― monsieur Hulot è pronto (e perfino volenteroso) a ogni cambiamento pur di non perdere la propria continuità, cioè la continuità dei propri affetti: pronto (e perfino volenteroso) a entrar nelle fauci del Nulla in cui “gli ambienti e gli oggetti comunicano” e gli umani no, pur di sottrarne il nipotino e di non abbandonare alla loro rovinosa deriva la sorella e il cognato; pronto a tramutarsi in una rotellina del mostruoso ingranaggio della Plastac pur di strappare un sorriso, con quella sua inettitudine che è irriducibilità, alle impiegate e agli operai che lo servono; e pronto perfino a partire, ad andarsene forse per sempre, pur di mettere monsieur Arpel e il piccolo Gerard l’uno accanto all’altro a condividere il dolore ― che è pur sempre un affetto ― della separazione da lui.

 

Il finale di Mon oncle, così, non è pessimista come (sottilmente) lo è, invece, il trionfalistico finale de La storia infinita che tutto risolve per Bastian e poco per noi: vedere monsieur Hulot, quando scopre di non poter più dare un buffetto sul naso alla ragazzina che è diventata una donna, gioire del cambiamento di lei benché lo privi di una continuità e lì per lì lo metta un po’ in imbarazzo; vedere monsieur Arpel, dal canto suo, quando scopre di essere ancora umano, dopo tutto, poiché la partenza del cognato gli dispiace, emozionarsi a tal punto da mandare involontariamente un passante a sbattere contro un lampione e da scoprire, così, con grande gioia del piccolo Gerard, che “comportarsi da bambini” può essere talora assai piacevole e divertente... ― vedere ciò, nel “minimalistico” finale di Mon oncle, non è meno avvincente che veder di nuovo al galoppo il cavallo bianco di Atreju. Anzi: lo è di più. Forse perché ci suggerisce l’idea che tra il cambiamento e la continuità, nel mondo umano, il rapporto non sia del tipo “tutto o niente”, ma “qualcosa” che li tiene entrambi; e che quel “qualcosa”, ognuno a suo modo, siamo noi.

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Le migliori domande dei bambini sul film

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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