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I preti feroci.
O meglio di come una cultura che eserciti il potere politico non possa non essere di tipo clericale.
Il Politecnico, n° 30, giugno 1946.
Elio Vittorini, Diario in Pubblico 1929-1956
Bompiani Editore, Milano, 1970. |
Nessun
grande nome di scienziato o di poeta, di filosofo, di scrittore, e
nessuna grande opera sono venute al mondo dall’America tra il Seicento
e il Settecento, per due secoli interi. Il fatto è un fatto. La
rivoluzione culturale ch’ebbe luogo in quei due secoli, da Galileo
all’Enciclopedia francese, non fu segnata da nessun nome americano. I
grandi nomi vennero dalla Francia, vennero dall’Italia, vennero
dall’Olanda, vennero dall’Inghilterra, vennero anche dalla Germania;
e tutto il nuovo che fu detto trovò espressione massima in testi della
vecchia Europa: tutti i sovvertimenti di concezione furono resi illustri
da uomini della vecchia Europa.
In
America gli anglosassoni “sembra” che si comportassero come vi si
comportavano i francesi e gli spagnoli. Sembra ch’essi pure vi fossero
propriamente coloniali: provinciali. Ma era questo? Non era questo. Mai
vi fu stanchezza o desiderio di evasione nel movimento che portò tanti
inglesi in America. Essi non volevano semplicemente fuggire. Il meno che
volessero era arricchirsi, migliorare le proprie condizioni sociali,
cambiar destino; era dunque volontà di vita e volontà di costruirsi
una società nuova nella quale potessero esser vivi.
La
rivoluzione culturale che aveva luogo in Europa mirava anche a questo:
costruire una società nuova. Rifletteva i mutamenti già avvenuti;
rifletteva le possibilità che quei mutamenti contenevano per mutamenti
ulteriori. Continuava ad aver dinanzi a sé, tuttavia, la vecchia società
col suo ordine mentale. Fu allora in questo rivoluzione: in un impegno
intellettuale. Invece di porsi come “forza” per cambiare il mondo,
si pose come “ragione”.
Forza
e Ragione
Al
contrario, in America, tutta la cultura fu protesa ad essere
“forza”. Non aveva dinanzi a sé una vecchia società da
distruggere, tanto meno aveva da distruggere un vecchio ordine mentale;
era nella natura; e andò avanti nel suo scopo di costruire una società
nuova. Che cosa “diceva” di nuovo? Non aveva bisogno di “dire”
qualcosa di nuovo. Era cultura di per se stessa nuova: il proselitismo
di tutto il nuovo che si diceva in Europa; e poteva semplicemente
limitarsi a “ripetere” quello che di nuovo si diceva in Europa,
purché lo applicasse, lo realizzasse. Il suo impegno non era
intellettuale. Per essa non si trattava di cambiare l’interno
dell’uomo. Il suo uomo si presumeva già cambiato e non c’era che da
costruire un mondo con lui. Essa si proietta con lui sull’esterno.
Perciò è politico il suo impegno. La sua forza è un esercizio di
potere, la sua azione è governo. È rivoluzione? Non è nemmeno
rivoluzione. L’Europa può trarre da quanto avviene in America
conseguenze che sono culturalmente rivoluzionarie per l’Europa. Ma per
l’America stessa niente di quanto vi avviene è rivoluzionario. È un
principio di storia. Cioè: l’inizio di un mondo. Ed ecco,
necessariamente, che l’America non partecipa con grandi nomi e grandi
opere alla cultura rivoluzionaria d’Europa; ma ecco anche che la
cultura moderna viene ad avere in America, dico nella cultura americana,
una sua storia naturale che si stacca dalla storia di tutta la
precedente cultura come da una preistoria, con un inizio che è nascita
e non rinascita, con uno sviluppo che è infanzia, e con un
Seicento-Settecento che equivale, per il modo in cui si pone, a quanto
nella antica cultura mediterranea o nella cultura del medioevo fu detto
periodo sacerdotale o clericale.
Questo
vediamo subito dopo la letteratura di scoperta, o contemporaneamente ad
essa, e lo vediamo sotto una forma molto curiosa, molto primitiva, di
letteratura religiosa che ha in sé lo stesso sangue della letteratura
critica europea e che tuttavia non è critica. La natura critica della
letteratura europea diventa una naturale possibilità di controversia
nell’americana. Cioè: la inclinazione intellettualista di quella a
disintegrare un ordine o un altro di concetti, diventa in questa una
semplice facoltà di parteggiare per un metodo di costruzione od un
altro. E senza pregiudizio per la costruzione, la quale va avanti con
l’un metodo o l’altro insieme, con tutti i metodi insieme, di
governo, di potere, di sperimento nello stesso tempo che di esegesi o di
apologetica.
Qui,
chiunque voglia affermare un nuovo principio, o una nuova sfumatura di
principio, si sposta più a sud o più a nord, o solo un po’ più
addentro nella rossa foresta d’aceri, e fonda una comunità nuova.
Quaccheri ed egualitari, derisi in Inghilterra anche durante il periodo
repubblicano di Cromwell, qui hanno fondato le città loro.
Congregazionalisti lo stesso. Presbiteriani lo stesso. Sono fuggiti da
un’Inghilterra monarchica e hanno fondato in America le città loro. E
lo stesso i reazionari cavalieri. Sono fuggiti dall’Inghilterra del
Parlamento e hanno potuto fondare qui, tra Virginia e Carolina, i
principati schiavisti delle loro piantagioni.
La
società è di nuovo agricola, per tutto il Seicento, ha la sua base
sulla coltivazione del suolo, e si sviluppa in un senso agricolo che
vorrebbe riprodurre nella immobilità di una chiesa l’immobilità
della agricoltura, ma non è immobile ancora, e non lo sarà, non si
fermerà, si rende mista di commercio (e commercio di compagnie,
commercio in grande con popoli indiani) mentre ancora si sviluppa nel
senso che vuole, e inoltre pone il proprio senso voluto, il proprio
senso agricolo, o meglio la propria necessità di edificarsi sulla
coltivazione del suolo, con un criterio che esclude ogni possibilità di
patriarcalismo o di sfruttamento feudale e che pensa invece di
stabilizzare nella terra, sui solchi della terra, nel lavoro della terra
e intorno ai frutti della terra, tutto il progresso civile già
conseguito o dibattuto nell’Europa che non è più, e da un pezzo,
un’Europa di contadini e di feudatari. Gli uomini che in America
fondano città o comunità non sono venuti da contadini, sono venuti da
borghesi, e se accettano di essere contadini vogliono esserlo in un modo
speciale che non possa mai significare asservimento economico a grandi
proprietari o a magistrati. Essi vogliono esserlo, cioè, come contadini
di una città ideale dove la condizione di lavoratore della terra sia
l’ideale condizione umana.
Le
città ideali
Perciò
sono tutte città ideali che sorgono nell’America anglosassone, città
in ognuna delle quali si mira ad applicare un ideale, a realizzare un
concetto di “regno di Dio sulla terra” e ad esercitare il potere
come un esercizio di cultura. Città? Sono libri, potrei dire. E sono
esse che equivalgono ai grandi nomi che in Europa sono Descartes o
Spinoza; queste Plymouth, queste Northampton, queste Boston e Salem,
queste Providence, queste Hartford.
Il
momento della fondazione, nella maggior parte di esse, fu legato
all’idea di coloro che giungevano dall’Inghilterra come i più
perseguitati, in quanto più radicali. Erano semplici borghesi delle
città e delle campagne, piccoli proprietari o artigiani, e l’idea
loro era la congregazionalista, detta anche separatista o indipendente,
terza come corrente sociale e come idea politico-religiosa nel
succedersi delle tendenze che si manifestarono all’interno della
rivoluzione inglese. Prima a manifestarsi era stata quella
d’iniziativa monarchica che, sotto il nome di anglicana, voleva
soltanto confermare gli interessi della corona e dei feudatari
nell’ambito di una chiesa diventata rigidamente nazionale e cioè
nemica dell’universalismo cattolico, ma autoritaria ancora tanto da
far obbligo ad ogni inglese di appartenervi, di sostenerla materialmente
e di osservarne le leggi. Seconda era stata la presbiteriana, che
esprimeva gli interessi di grandi proprietari terrieri, dei banchieri e
delle grandi compagnie commerciali, che voleva perciò una democrazia di
privilegiati in cui il diritto di controllare la chiesa e lo stato fosse
determinato da ragioni di nobiltà o di ricchezza, e che, culturalmente,
raccoglieva la formula calvinista d’una chiesa di eletti per dare una
consistenza più moderna al principio di casta. L’idea
congregazionalista si formò contro entrambe queste più vecchie
tendenze come protesta dei piccoli mercanti, dei piccoli proprietari e
degli artigiani che si vedevano negata la partecipazione ad ogni potere
dall’una e dall’altra. Essi affermarono che la chiesa era di tutti i
fedeli, che tutti i fedeli avevano dunque diritto a governarla, e,
calvinisti essi pure, portarono la formula della chiesa di eletti a
prendere un significato di dittatura democratica, analogo a quello che
prese il club dei giacobini nel 1793, e il partito bolscevico
russo nel 1918.
La
chiesa, che peraltro implicava il concetto di stato, e il concetto di
società, doveva essere una congregazione di santi (leggi: di
eroi, di combattenti, di “attivisti”). Era di tutti i fedeli e
aperta al governo di tutti indistintamente i fedeli, ma i
“peccatori”, e tra essi i tiepidi, i molli, i furbi, i vili, gli
inerti, non potevano considerarsi fedeli, così la chiesa doveva chiuder
loro le porte in faccia e tenersi separata dalle altre chiese che
invece li accoglievano nel proprio seno e rispecchiavano i loro
interessi. Giudicando come peccatori i seguaci delle altre chiese, i
congregazionalisti esprimevano, evidentemente, una condanna sociale;
essi condannavano i nobili anglicani che avrebbero voluto sottoporre il
popolo alla loro autorità assolutista; condannavano i grandi
proprietari, banchieri e mercanti presbiteriani che avrebbero voluto
concentrare nelle loro mani il potere; e logicamente escludevano gli uni
e gli altri dal governo di tutti, dalla democrazia, come forze di per se
stesse antidemocratiche e anti-sociali.
Perseguitati
da anglicani e presbiteriani insieme, dalla monarchia, dai vescovi,
dalla nobiltà e dai grandi capitalisti, furono questi puritani
progressisti a fondare, presa la via dell’esilio, quasi tutte le prime
colonie d’America, e tutte, in esse, le città “ideali”. La
cultura, allora, è le città stesse, è il loro reggimento, è le loro
assemblee e i loro governatori; è il costume di “eroi” che si
impone, per unanime volontà popolare, ai loro cittadini; è
l’irrespirabile atmosfera di rigore sotto la quale, in esse, si vive.
Si vive, in esse, come dentro a libri, come se si fosse, noi uomini,
parole di libri, con ognuno una funzione di parola che non può
smentirsi; ed è questa vita la cultura, né occorre, fino a quando dura
così, che si traduca in una letteratura qualunque, anche minore, anche
spicciola, di sostegno o di commento.
Già
la letteratura che ho chiamato di scoperta ha registrato l’inizio
dello straordinario fenomeno in opere venute alla luce, come quella di
William Bradford su Plymouth, molti anni dopo il tempo in cui furono
scritte. Questa cultura vuole certo che si scriva come vuole che si
legga, vuole librerie, vuole stamperie, vuole scuole, considera
l’istruzione un dovere verso Dio perché ad ognuno sia dato il mezzo
di difendersi dalle seduzioni della tirannia, e fin dal terzo decennio
del Seicento fa obbligo, con dichiarazioni di assemblee, di mandare a
scuola tutti i bambini; essa certo vorrebbe tradursi anche in nomi di
scrittori e titoli di opere scritte; ma la sua effettiva traduzione in
letteratura comincia solo dopo che qualcosa si guasta nelle “città
ideali”, e dopo che, in esse, l’edificazione dell’“ideale”
prende un indirizzo ambiguo.
L’equivoco
sono i presbiteriani a introdurlo. Arrivano in America quando le città
dei congregazionalisti sono in piedi da appena dieci anni o quindici;
prima alla spicciolata, i più dotti, in momenti che anch’essi hanno
qualche dispiacere nell’Inghilterra di Giacomo I e di Carlo I, poi a
grappoli di gente già baldanzosa nel periodo che vide la loro
affermazione sul suolo inglese tra il 1635 circa e il 1642, ancora sotto
Carlo I. Non erano dei perseguitati: avevano solo fama di esserlo,
alcuni di loro, i preti e dotti di loro, perché si erano ribellati, per
esempio, a un vescovo e avevano perduto una prebenda, o perché da
anglicani che erano e conformisti avevano d’un tratto cambiato, non
senza motivo d’interesse, il loro parere social-religioso; e gli altri
che seguirono in spedizioni compatte emigravano per euforia, contando di
aver ottimo in America quello che avevano buono in Gran Bretagna.
Entrarono, pastori e pecore, nelle Chiese già costituite. Vi trovarono
accoglienze festose, in genere: e anche onori, i capi, per la fama che
avevano di uomini almeno fieri, se non proprio di martiri. Perciò di
buon grado essi accettarono, a gloria della comune origine da Calvino,
il principio della democrazia congregazionalista; ma subito si
adoprarono a volgerlo, sotto specie di reggimento teocratico, in
principio oligarchico secondo quello che era innato in loro, interesse
di classe e inclinazione di casta, più che malizia o malafede.
Le
prime notevoli opere scritte del periodo clericale nella letteratura
americana nacquero sotto il segno di questo innesto, da Le chiavi del
Regno dei Cieli, di John Cotton (1644) a Il ciabattino di Aggawam,
di Nathaniel Ward (1647); ed erano opere che intendevano mostrare come
il semplice fedele non potesse presumere di accostarsi da solo alla
verità divina, come tanto meno potesse presumere di amministrarla, come
toccasse dunque a un sacerdozio illuminato, agli eletti, a coloro che
possedevano le chiavi del regno dei cieli, di guidarlo nelle cure dello
stato, e come, “necessariamente, la democrazia deve diventare
aristocrazia nell’esercizio del potere”.
Pur
erano sinceri questi preti; era per correggere la costruzione ideale e
stabilire il miglior reggimento cristiano ch’essi lavoravano. Il
popolo lo stesso, e finiva per creder loro e seguirli, appunto per
l’ansia di stabilire un miglior reggimento cristiano nel quale non
esistesse più alcun potere di nobiltà o di ricchezza, come invece ne
esisteva ancora nelle democratiche “città ideali”, e tutto fosse
potere di santità, di dottrina, di conoscenza della volontà celeste.
Era una spinta alla teocrazia, che muoveva dal desiderio di una
giustizia sociale assoluta. Era, cioè, spinta all’adempimento dello
sforzo iniziato. Ma non poteva portare che a una deviazione della
democrazia, e fratturò, in definitiva, il grande sforzo.
Nei
preti, i presbiteriani associati ai congregazionalisti, fu determinata
ideologicamente anche dalla preoccupazione di giustificare presso la
chiesa presbiteriana della metropoli il fatto di aver aderito al
congregazionalismo. Essi cercavano, con lunghe epistole, di provare come
non fosse vero affatto che la congregazione era democratica, come fosse
una calunnia chiamarla democratica, come invece il suo principio
operante fosse oligarchico; e per conciliarsi il popolo in questa
smentita di qualcosa che pur era o era stato popolare, gli raccomandava
la oligarchia sotto la sua forma più cruda e appassionante, più
clamorosa, di intolleranza e di dittatura popolare.
Una
democrazia come teocrazia
Nel
popolo, d’altra parte, la volontà democratica aveva una consistenza
fortemente irrazionale. Era legata alla convinzione, implicita in tutti
i movimenti sociali manifestatisi nell’ambito cristiano del
protestantesimo, che si trattasse di applicare rettamente la legge
rivelata “di Dio” per avere giustizia e felicità sulla terra. Solo
a pochi passava per la testa che la “legge” fosse in noi uomini,
mutevole secondo il mutare di noi uomini, giusta nella misura in cui
risponde alle esigenze ultime del nostro essere mutevole, e che perciò
si dovesse trarla continuamente, sempre fresca e viva, dalla fonte
perenne che ne siamo noi. La legge era, per il popolo puritano, nella
Scrittura ebraica, dettata da Dio stesso, buona una volta per tutte, per
ogni tempo e ogni luogo. L’abiezione che era stata nel mondo, specie
attraverso la Chiesa cattolica, e tutta l’ingiustizia, tutta
l’infelicità che v’erano state, si dovevano semplicemente al fatto
che la legge di Dio (intendi: la legge ebraica) non era mais stata
applicata. Dunque si trattava, per avere un regno di giustizia sulla
terra, di impedire che gli uomini potessero continuare ad applicarla
falsamente, e di affidare l’esercizio del potere a degli uomini che ne
assicurassero un’applicazione onesta e sincera. A questo mirava
l’istanza democratica del popolo anche in America: a decidere per
volontà popolare chi dovesse applicare la legge. Si limitava cioè a
volere giudicare, e condannare o eleggere; a ripetere sulla terra quello
che si riteneva fosse ormai, nei cieli, l’opera di un Dio che aveva
creato e non creava più, legiferato e non più.
Perciò
non era contrario al sentimento popolare che il prete John Cotton
dicesse, “necessariamente, la democrazia deve diventare aristocrazia
nell’esercizio del potere”. E non era contrario al sentimento
popolare che tutti i presbiteriani associatisi al congregazionalismo
esaltassero come qualità aristocratiche le qualità della democrazia
congregazionale. Non scaturiva dalla volontà del popolo l’arbitrio
oligarchico che i preti rivendicavano? Il popolo non poteva non amare
che i suoi preti esercitassero un potere assoluto: erano gli uomini in
cui credeva, i suoi eletti, e che il loro potere fosse assoluto
significava più che mai tutto il potere alla santità, alla dottrina,
alla giustizia (in una parola, alla cultura) e niente di niente ai
peccatori, ai peccaminosi interessi della nobiltà e della ricchezza.
Nell’opera
principale di un altro prete, The Christian Commonwealth (anno di
pubblicazione 1659, autore John Eliot) risulta chiaro che la
trasformazione della primitiva democrazia in teocrazia e da governo di
tutti i fedeli in dominio di casta del clero, avveniva sotto
l’impressione popolare che così si dovesse escludere ogni residua
prepotenza di ricchezza e di nobiltà, di interessi profani (interessi
non di cultura) dall’amministrazione della cosa pubblica. Che poi
fosse esattamente l’opposto, e che la cultura stesse perdendo
un’altra volta il potere con la decadenza della democrazia stessa per
segnare proprio il trionfo degli interessi profani (e dei più profani
ch’erano i falsamente sacri), non lo sapevano nemmeno i preti, lo
sapeva la storia, o non lo sapeva, uomo chino sulla storia, che qualche
isolato, e indica solo come la cultura sia suscettibile di mutarsi ogni
momento in anti-cultura, e come il popolo sia facile a usare contro di sé
(o contro il suo immediato avvenire, l’immediato suo progresso) il
peso della sua volontà democratica.
Ma
era vitalità, come da millenni non si vedeva più, che si esprimeva,
anche così, dal grembo del popolo. Era la sua vitalità di popolo fatto
di uomini nuovamente agli inizi, nuovamente duri, e nuovamente audaci,
nuovamente allo sbaraglio pur in questo mondo ch’era moderno e
ch’era già stato, cioè, mondo antico. Che cosa affermava di sé nel
sostenere il dominio oligarchico dei preti? La propria intolleranza per
coloro che riteneva indegni di appartenere alla sua “chiesa”. O in
altri termini, la propria volontà di esercitare una dittatura su coloro
che chiamava, nel suo linguaggio calvinista, “peccatori”,
“reprobi”.
Ferocia
della purezza
A
questo punto la cultura americana ci dà la possibilità di definire il
carattere che è il suo principale ancora oggi, e che costituisce il suo
apporto qualificativo alla cultura di tutto il mondo. È in esso, potrei
dire, almeno per quello che oggi è diventato, la capacità culturale
americana di “americanizzare” la cultura di tutto il mondo. Quale
carattere? I padri pellegrini si erano portato in America, come legge
spirituale, il “feroce” concetto calvinista della necessità di
lottare a morte contro il “peccato”. S’erano anche portata, più o
meno travestita da questo concetto, la sete di arricchimento a tutti i
costi ch’era naturale della classe in ascesa cui appartenevano. E in
America avevano trovato un ambiente dov’era necessaria, per non
perire, la stessa “strenua tensione” in cui vivono gli animali dei
boschi. Così il concetto della necessità di lottare a morte contro il
“peccato” s’era identificato in loro con un concetto della vita
stessa come strenua lotta: ferocia con ferocia. Inoltre, la convinzione
che i comandamenti di Dio fossero in eterno quelli della legge ebraica,
e che le parole di Cristo, non essendo state codificate in nuove tavole,
non solo non li smentissero ma nemmeno li modificassero, aveva eliminato
dal loro animo ogni velleità spirituale di transigere con
l’avversario e di compatirlo. La pietà è debolezza per loro, un
principio di corruzione, e ogni compromesso è la corruzione stessa. La
cristiana purezza, al contrario, coincide con tutto ciò che
l’imperativo di lotta suggerisce. Da questo nasce, per le generazioni
che si susseguono, un oscuro sentimento di non potere non esser
“feroci” quando si è nuovi, e un gusto, quindi, della “ferocia”
come gusto stesso della novità, un gusto stoico e fresco
dell’esistenza.
È
la cultura dei preti, appena diventa letteratura, tra Seicento e
Settecento, a rivelarcelo: la voce ch’essi fanno nel dire le cose pur
trite che dicono, un John Cotton, e un John Eliot, un Nathaniel Ward,
uomini che ripetono argomenti inglesi di ortodossia e d’intolleranza,
ma che trasformano ogni inglese e piatto argomento in mortale vetriolo
americano, mortale e perciò vivo, perciò vitale, solo per il fatto di
venir su con l’estro della spietatezza dritto dal gusto popolare; e la
voce che fanno, più terribile ancora nel dir cose europee anche più
note, anche più trite, un Thomas Hooker e una Anne Hutchinson, un Roger
Williams, i quali ripetono, invece, argomenti di non conformismo e
d’insubordinazione, di libertà, mettiamo, di tolleranza, mettiamo, ma
trasformandoli non meno in vetriolo e arma segreta, vitale in quanto
mortale, anch’essi per il fatto che traggono il linguaggio loro dal
fresco gusto spietato dell’esistenza proprio del popolo americano:
voce che è ruggito da una parte, e voce che è ruggito da un’altra
parte, voce che è ruggito da ogni parte, come da ogni parte è nel
popolo l’impulso a porre la propria forza d’innovazione in senso di
qualità eccessiva, d’iperbole e di ruggito.
Anne
Hutchinson, ho nominato; e Thomas Hooker, Roger Williams. Questi
sono i “feroci” della resistenza a chi voleva imporre (oh,
ferocemente!) il dominio di casta dei presbiteriani entrati nelle
“città ideali”. Preti feroci contro preti feroci. E validi gli uni
e gli altri, nella storia della cultura, proprio per questa loro comune
qualità d’esser feroci, che è vitalità loro.
Essi
difendevano, Hooker, la Hutchinson e Roger Williams, il principio
democratico delle “città ideali” contro la deviazione portata dal
principio oligarchico dei presbiteriani. Thomas Hooker era un
presbiteriano lui stesso, ma venuto in America (1633) nell’idea di
trovarvi la sua chiesa più democratica che in Inghilterra, e, visto
invece il pericolo di quello che vi accadeva, si mise dalla parte dei
congregazionalisti più coscienti; lavorando con essi a ravvivare lo
spirito di indipendenza delle congregazioni in quanto spirito che poteva
salvare la democrazia. La Hutchinson, stabilitasi in America l’anno
1634, reagiva particolarmente al pregiudizio che la legge ebraica
cosiddetta di Dio fosse valida per ogni tempo. Essa indicò negli
Evangelisti, con grande scandalo, un valore rivoluzionario che non si
era codificato perché voleva appunto ammonire che gli uomini avevano da
fabbricarsi la legge, volta per volta, creandola di continuo in loro
stessi. Convinto, in questo stesso senso, del valore rivoluzionario
ch’era negli Evangeli, e non per una volta ma per molte, non per una
chiesa, ma per una successione infinita di chiese, Roger Williams, il più
illuminato dei preti mangiapreti, rivendicò all’uomo, in un libro
famoso scritto in polemica con John Cotton (The Bloudy Tenente of
Persecution, 1644) il diritto di giungere alla verità attraverso
l’errore, ed esplicitamente, mica implicitamente, portandosi sul
terreno che oggi diciamo politico al fianco dell’inglese Lilburne e
dei suoi levellers (livellatori), se non proprio per sostenere la
loro confusa proposta d’eguaglianza economica, per proclamare con
essi, primo tra i primi a proclamarlo, come il potere sia anche potere
di modificare il mondo e abbia, proprio per questo, la sua unica fonte e
la sua giustificazione nella volontà del popolo.
Essi
erano gli isolati che stavano chini sulla storia. Vedevano che la
deviazione oligarchica era reazionaria, e che il popolo stesso,
assecondandola con la sua spinta alla teocrazia, agiva in senso
reazionario. Ma non è da credere ch’essi pure, la Hutchinson,
Williams, non volessero una chiesa comprensiva dello stato, e un potere
culturale comprensivo del potere politico. Anch’essi volevano, in
sostanza, una teocrazia: poiché non miravano a porre nel mondo delle
istanze di interpretazione del mondo, miravano a quello cui tutti
miravano, a modificare il mondo; e dovevano per forza ripromettersi di
schiacciare l’intolleranza, e in essa la reazione, con l’esercizio
popolare di una dittatura. Nei loro scritti, infatti, e nelle loro
prediche, schiacciavano e come! Pestavano, incenerivano. “Col latte”
diceva Roger Williams di scrivere quello che scriveva contro gli
apostoli della persecuzione. E certo era latte. Doveva nutrire e far
crescere. Ma che latte era? Lasciava distruzione sul volto di chi non
fosse un suo seguace che si nutriva. Era, pur nel colore del latte, un
latte caustico di fuoco più anche di quanto fosse caustico il sangue
col quale scrivevano il feroce John Cotton, il feroce Nathaniel Ward, e
il feroce Mather padre, il feroce Mather figlio...
Fine
del clericalismo
Il
puritanesimo, ad ogni modo, quando giungiamo ai due Mathers (una ventina
d’anni dopo la polemica di Williams con John Cotton) aveva esaurito il
suo compito. Esercita ancora, in effetti, il potere; Increase Mather, a
Boston, dico Mather padre, tiene in pugno dal suo pulpito, per circa
mezzo secolo ( e precisamente dal 1664 a una decina d’anni prima che
morisse, decrepito, un giorno del 1723), tutta l’organizzazione
politica del Massachussets disponendo dei magistrati regi come di suoi
sagrestani; ma non è più cultura, è già tradizione che maschera
degli interessi e dunque pseudo-cultura o anti-cultura, la solfa tonante
del presbiterianismo che si ripete, col rombo ormai di quando il tuono
si smembra attraverso il cielo. La volontà di costruire
“nell’ideale” s’è ridotta ad accanimento di continuare la
costruzione nello “pseudo-ideale”; e l’“ideale”, sui libri, è
dichiaratamente “pseudo-ideale”; cade in ognuno la speranza che si
riponeva sull’unità operativa del pensiero; né più la polemica è
di clericali contro clericali, di teocrazia contro teocrazia;
aspirazioni laiche di indipendenza del potere temporale da ogni influsso
confessionale di cultura si sostituiscono in essa alle teocratiche per
entrambe le parti; riappaiono scrittori che non siano dei preti; e
persino chi è prete, tra coloro che scuotono il giogo della chiesa
costituita, non combatte più da prete, e porta nel combattere ragioni
che non sono da prete, porta, come John Wise, ragioni fondate, invece
che sull’Evangelo o sulla Genesi, sull’esperienza umana.
La
voce più forte, tuttavia, in questa decadenza del puritanesimo politico
e politicante, è ancora quella d’un prete reazionario. Essa è la
risentita, la selvaggia, essa la feroce, tra 1680 e 1728, cioè la più
viva e vitale: di Mather figlio che, per essere nipote, via madre, di
John Cotton, ebbe a nome di battesimo Cotton e fu Cotton Mather. Egli
non vede che la teocrazia, nella società americana divenuta
principalmente mercantile da principalmente agricola che era, è una
forma sorpassata; e il grande urlare che fa in sua difesa riesce assurdo
al punto di assumere un significato molto suggestivo, molto letterario,
di anticipazione romantica. I lazzari del puritanesimo si raccolgono
intorno a lui, ardono intorno a lui i roghi delle streghe, né rimane
una sola superstizione che non abbia da lui assetto metafisico. Pur egli
coltiva le scienze, crede nelle scoperte; e promuove, col padre, la
campagna delle vaccinazioni contro il vaiolo; sostiene, dal pulpito, che
il sole è il centro del nostro sistema. La Santa Madre Chiesa
Cattolica, in quello stesso tempo, saltava su a mordere come una vipere
chiunque osasse parlare di terra che si muove. Che pasticcio è dunque
questo Cotton Mather? Il pasticcio era nell’ostinazione del
puritanesimo a porsi ancora come forza politica e sociale, quando la
spinta rinnovatrice propria dell’uomo non l’abitava più da un pezzo
e già si apriva altre strade. Ma era vigore la sua ostinazione, era il
troppo giovane vigore americano che non poteva invecchiare in niente di
nato in Europa che di per sé invecchiasse, e doveva lo stesso avere una
funzione di vita nella vita.
D’altra
parte, il puritanesimo resta perfettamente vivo come pensiero non appena
abbandona la preoccupazione di essere pensiero anche politico e si
ritira sul terreno specifico della filosofia religiosa. Esso può ancora
dare, nel limitarsi, un forte contributo alla vita, sotto forma di
agitazione morale, e dà in Jonathan Edwards l’uomo che tanti aspetti
chiarisce pur oggi del modo di pensare americano in genere e della
americanità in genere.
Siamo
in pieno Settecento, con Edwards. Nato solo tre anni prima di Benjamin
Franklin, ha una affermazione che viene scavalcata molto presto nello
sviluppo laico della cultura ma che certo è più significativa
dell’affermazione di Franklin stesso. Prende inizio da un’ondata di
risveglio religioso che ebbe luogo nel suo tempo, il great awakening,
chiamato il grande risveglio, e passato d’impeto su tutto il
New England con centinaia di quelle manifestazioni collettive che sono
dette da allora revivals e che tuttora percorrono a tratti,
brividi di tutto il popolo, la pelle dell’America, avendo tuttora una
funzione formativa nell’apporto non ancora compiuto né completo del
Nordamerica alla civiltà umana.
L’uguaglianza
del peccato
Nulla
ha questo awakening in comune col freddo furore (eroico,
costruttivo) dei puritani che un secolo prima si erano applicati a
risolvere entro un concetto religioso ogni problema anche pratico
dell’uomo. Qui l’uomo è interessato solo come peccatore, come
portatore di un’anima che la natura minaccia di perdizione. Né qui
agisce volontà di non peccare; tanto meno di costruire un mondo esterno
in cui non si possa peccare. Il movimento è emotivo, qui; ansia di
redimersi che mira ad uscire dal terrorismo puritano della
predestinazione e della necessità irrespirabile di non peccare; perciò
si può dire che sia, indirettamente, e senza volerlo, una sollevazione
anti-puritana. Animatori sono decine di sacerdoti che pure ci hanno
lasciato dei libri; forse più responsabili nel movimento, di quanto lo
sia stato Jonathan Edwards, ma di personalità molto meno rilevante; e
girano di villaggio in villaggio, erranti pastori d’anime dall’abito
spesso lacero, traendo all’adunata con trombette, con tamburi, con
voci rauche e rozze musiche. Le popolazioni escono dai villaggi dietro a
loro, e da un villaggio, da un altro, da un terzo, da un quarto, si
trovano a cantare inni in diecimila su un declivio coperto d’erba
gialla, su una radura, e il coro stesso li porta su insieme, essi si
battono il petto insieme, bussano alla porta dell’uomo, in diecimila
uomini, e non hanno risposta, e gridano i peccati loro, chiamando da
tutti i peccati loro senza aver risposta. Ma fanno professione
d’uguaglianza nel peccato. E che cos’è questo? Non è professione
d’uguaglianza in assoluto? Essi si costruiscono, per chiese loro,
delle miserabili capanne; sempre si radunano nei luoghi più poveri;
vogliono essere poveri; affermano, in ogni manifestazione, un gusto da
poveri che contrasta fortemente con la pratica di decoro borghese dei
presbiteri; e così, voglio dire anche così, il movimento del great
awakening contribuisce a liquidare nel popolo il prestigio del
puritanesimo costituito, certo più di quanto non fece la lunga serie di
dottori che (tra il 1720 e il 1780 circa), chiamandosi Woolman,
chiamandosi Chauncey, sgombrarono il terreno della filosofia dal residuo
materiale teologico della predestinazione e della grazia, del Dio di
collera, della costituzionale depravazione umana, ecc....
Questi
dottori intendevano con la loro opera opporsi proprio
all’irrazionalismo del great awakening. Gran parte di quanto
scrissero era diretto contro Jonathan Edwards in persona. Pensavano,
essendo dottori, di tagliare alla radice le possibilità vitali di
Edwards e di tutti gli hot men, togliendo loro fondamenti
teorici. Ma non tolsero che alla chiesa ufficiale, la quale viveva ormai
soltanto di ragioni ideologiche e conservava il suo potere soltanto per
giustificazioni ideologiche. Il great awakening aveva vita,
invece, nella sua forma, non nelle sue ragioni ideologiche, e non
riuscirono a togliergli nulla. Era più vivo di loro appunto per il
fatto di aver vita nella sua forma.
Nello
stesso senso è più significativo di loro (e di un Franklin) Jonathan
Edwards. Pure egli aveva amato Locke e Berkeley, pure amava studiare a
freddo, e lo mostrò in più d’un trattato, le reazioni
dell’intelletto umano. Ma ecco, si aggrappa all’esperienza dei revivals
e scopre sulla loro strada, fattosene animatore, cose sotterranee
dell’uomo che ci indicano come fosse “crudele” l’ideale di
purezza che gli americani cercavano fin dal principio per l’uomo. Personificazione della purezza, Dio è fatto di collera, e ha orrore di noi; Egli ci tiene tutti nelle Sue mani, sospesi sul fuoco dell’inferno come ragni abbietti, fissandoci con occhio che ci aborre. Non è ferocia la purezza? Tutta l’America lo pensa, da quando ha cominciato a formarsi sul fianco del vecchio mondo. Essa si è fatta una vocazione di ferocia per raggiungere, attraverso ferocia, la purezza. Edwards considera la scoperta del continente americano, nella sua coincidenza con la Riforma, come un’opera della Provvidenza “per il glorioso rinnovamento del mondo”. E se oggi può sembrarci ridicolo che egli identificasse il cammino del rinnovamento con i revivals e le conversioni in massa, resta ancora oggi, lui stesso, l’americano che più di tutti ci ha reso comprensibile la novità dell’America per il mondo. Anche la sua ingenua identificazione, del resto, conta. È un segno dell’ottimismo costituzionale degli americani: come vederli, malgrado tutto, convinti di poter raggiungere, con l’accanimento loro, lo stato di purezza o felicità che dir si voglia. Chi cavalca la tigre non può scendere, si dice. E perché, nella vita umana, si dovrebbe scendere? La vita degli uomini è tigre, è tensione, e torna giusto che ne sia mangiato chi voglia scendere. Ultimo dei preti feroci, Jonathan Edwards è allo stesso tempo il primo nella linea di scrittori che si chiamano Poe, Hawthorne, Melville, Whitman, eccetera. |
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Elio Vittorini
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