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Righe di Libri
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Uomini e No
1945, Bompiani editore, Milano 1965 e 2007, Mondadori editore, Milano
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Può l’umano farsi non umano? |
La copertina del libro nel 1965.
La copertina del libro nel 2008. |
L’uomo che si era fermato a guardare i libri guardò l’aria, il cielo, vide il sole sui tranvai, vide un tranvai 27 che ripartiva dalla fermata della Porta, e nella folla di cui era pieno vide, contro i vetri, il gomito e la spalla di una donna. Un grande suono allora irruppe in lui; e spinse correndo la bicicletta, attraversò i binari, raggiunse la piazza. Il tranvai era già lontano, percoteva di squilli il suo binario già oltre la fermata successiva, ma egli montò sulla bicicletta e lo rincorse. Un pezzo corse, e mai rivide, nel nero della folla chiusa dentro il tranvai, il gomito e la spalla di una donna per i quali correva. Pure sapeva di non essersi sbagliato, perdurava in lui il grande suono, e da ogni giornata ch’era stata, settembre e ottobre, novembre e dicembre, uno splendore veniva a lui, e si univa a quello ch’era ora. In piazza della Scala, la donna scese. “Lo sapevo,” le disse, “ch’eri tu.” Lei si appoggiò alla sua bicicletta. “Era,” egli le disse, “come tu sei stata.” Lei gli prese e baciò la mano, lasciò che parlasse. “Correvo, ed era come sei stata. Correva il tram, ed era come sei stata.” Questo in piazza della Scala. Ma lui non sapeva che cosa intendesse dire. Le indicò le case, il sole, il teatro in macerie, e le disse: “Hai mai veduto un inverno simile? È come tu sei stata.” La tolse dalla folla, e la condusse fino al marciapiede di via Manzoni: non dalla parte del caffè Cova, dall’altra. “È l’inverno più splendido che abbiamo avuto da un mucchio d’anni,” le disse. “E sai da quando?” soggiunse. “Sai da quando?” La fermò e di nuovo la guardò. “Dal 1908. Da quando tu sei nata.” Lei era pallida, ma non diceva niente. “Scusami,” le disse. “Ma io ero con te quando sei nata. Non ero con te?” “Sì,” lei rispose. “Sono stato sempre con te,” egli le disse. “Non sono stato sempre con te?” “Sì,” lei rispose.
(dal capitolo II) |
“Ti sembra strano?” Selva disse. “Non è strano. Non ti abbiamo mai veduto con una tua compagna, e desideriamo che tu abbia una compagna. Non possiamo desiderare che tu abbia una compagna?” Guardava ardentemente uomo e donna. “Non possiamo desiderare questo per un uomo che ci è caro? Un uomo è felice quando ha una compagna. Non possiamo desiderare che un uomo sia felice? Io desidero che tu sia felice?” “Grazie,” disse Enne 2. “Grazie Selva. Ma...” “Ma, un corno,” la vecchia Selva disse. “Non possiamo desiderare che un uomo sia felice? Noi lavoriamo perché gli uomini siano felici. Non è per questo che lavoriamo?” “È per questo,” disse Enne 2. “Non è per questo?” Selva disse. E sempre guardava uomo e donna. “Perdio!” disse. “Bisogna che gli uomini siano felici. Che senso avrebbe il nostro lavoro se gli uomini non potessero essere felici? Parla tu, ragazza. Avrebbe un senso il nostro lavoro?” “Non so,” rispose Berta. Ed era come se non avesse risposto, era seria; e alzò un momento la faccia, ma era come se non l’avesse alzata. “Avrebbe un senso tutto il nostro lavoro?” “No, Selva. Non lo credo.” “Niente al mondo avrebbe un senso. Vero, ragazza?” “Non so,” rispose di nuovo Berta. “O qualcosa avrebbe lo stesso un senso?” “No,” rispose Enne 2. “Non lo credo.” “Avrebbero un senso i nostri giornaletti clandestini? Avrebbero un senso le nostre cospirazioni?” “Non lo credo.” “E i nostri che vengono fucilati! Avrebbero un senso? Non avrebbero un senso.” “No. Non avrebbero un senso.” “C’è qualcosa al mondo che avrebbe un senso? Avrebbero un senso le bombe che fabbrichiamo?” “Credo che niente avrebbe un senso.” “Niente avrebbe un senso. O avrebbero un senso i nemici che sopprimiamo?” “Neanche loro. Non lo credo.” “No. No. Bisogna che gli uomini possano essere felici. Ogni cosa ha un senso solo perché gli uomini siano felici. Non è solo per questo che le cose hanno un senso?” “È per questo.” “Dillo anche tu, ragazza. Non è per questo?”
(dal capitolo VIII)
Di chi è quel vestito? Egli lo guarda, ed io lo guardo. Qualche volta lo abbiamo anche toccato. “Non ti lascio solo,” gli dico. “Non ti sono amico?” “Sì,” egli dice. “Grazie.” “Io posso far molto per te.” “Sì?” egli dice. “Sì,” gli dico. “Che cosa?” egli mi dice. “Io ho bisogno di riposare.” E mi guarda. “Lo sai che cosa vorrei?” “Che cosa?” io gli domando. “Un giorno della mia infanzia.” “Non è difficile averlo.” “Metterci dentro la testa.” “Non è difficile,” gli dico. “Lo vuoi?” “Ma con una differenza.” “Che differenza?” “Con la cosa tra me e lei.” “Come?” gli chiedo. “La tua infanzia e questa cosa insieme?” “La mia infanzia e questa cosa insieme.” “Ma non è reale.” “È due volte reale.” “Tu di allora?” gli dico. “E tu di ora?” “Io nella mia infanzia,” egli mi dice. “E nella mia infanzia anche lei. La cosa nostra in un giorno di allora.” “Ma tu,” gli dico, “non conosci lei bambina.” “Io conosco tutto di lei.” “Tu eri in Sicilia e lei era in Lombardia.” “Io ero anche in California.” “Ma non vi siete mai incontrati, nella vostra infanzia.” “E non possiamo incontrarci ora?” “Proviamo,” gli dico. “Possiamo vedere.” “È per metterci la testa dentro,” dice lui.
(dal capitolo XIX)
Selva si mosse, e girò dietro il tavolo, guardò se l’acqua bolliva. “Speravo che tu fossi la sua compagna,” disse. S’interrompeva parlando, eppure non dava più modo a Berta di parlar lei. Continuò: “Un uomo deve avere una compagna. Tanto più deve averla se è uno dei nostri. Dev’esser felice. Che cosa può sapere di quello che occorre agli uomini se uno non è felice? Noi per questo lottiamo. Perché gli uomini siano felici.” Si voltò, e si appoggiò al tavolo con le mani, dalla parte dov’era. “M’intendi in questo che dico?” “È semplice,” Berta rispose. “È molto semplice,” disse Selva. “Un uomo che lotta perché gli uomini siano felici deve sapere tutto quello che occorre agli uomini per essere felici. E deve avere una compagna. Dev’essere felice con la sua compagna.” “Lui non ha una compagna?” Berta chiese. Di nuovo Selva guardò se l’acqua bolliva. “A me lo domandi? Io speravo che fossi tu... Mai ho saputo che ne avesse una.” Venne di qua dal tavolo con la teiera e due tazze. “Quando ti ho veduta,” disse, “ho subito pensato che avresti dovuto essere la sua compagna. Sei come lui la deve volere... Ma, tu,” domandò, “mi credi in quello che dico?” “Perché no?” Berta disse. “Se io fossi stata giovane,” Selva continuò, “avrei potuto esser io la sua compagna. Ma io potrei essere sua madre. E quando ti ho veduta ho pensato che dovevi essere tu.” “Sono anch’io più vecchia di lui.” “Potresti esser sua madre? Non potresti esserlo. Dunque puoi essere sua moglie.” “Ma sono già moglie di un altro.” La vecchia Selva fu attenta con la sua faccia fine. “Sembra strano che tu possa dirlo.” “Pure posso dirlo.” “E lo sei? Davvero lo sei?” “Non so,” disse Berta. “Che cosa significa esserlo? Credo che vi siano molti modi di esserlo.” Disse Selva: “Io non lo credo.” “Credi che vi sia solo un modo di esserlo?” “Vi è un modo che conta più di tutto il resto.” “Anche voler essere buoni conta.” “Sei moglie di un altro perché vuoi essere buona?” “Non so. Forse è per questo.” “È per questo? È stato sempre per questo?” “Forse è stato sempre per questo.” “Ma è terribile,” disse Selva. “Tu stai in una casa, e per essere buona pensi che sia la tua casa?” Berta non rispose. Era come Selva diceva? Non aveva una casa, non aveva nulla, non aveva che uno spettro; si metteva a letto e non dormiva nemmeno... E per essere buona pensava di aver tutto? E pensava di essere moglie di un uomo, per essere buona? Era come Selva diceva?
(dal capitolo LX)
Al largo Augusto, Berta vide che la folla era nel mezzo della strada, e camminava tra i due marciapiedi, tutta in un senso, tutta verso la piazza dov’è il monumento delle Cinque Giornate: ma lei continuò per il marciapiede. Si trovò sola, lungo le botteghe chiuse, eppure continuò, e vide davanti a sé degli uomini fermi, con dei berretti strani e lunghi bastoni neri tenuti sulle braccia, come ne aveva veduti il giorno ch’era stata con Enne 2 in bicicletta, sul corso Sempione. Non formavano file, né erano molti, stavano sul marciapiede sparpagliati, e il sole brillava sulle canne nere dei loro fucili, sui loro bottoni, e anche su un punto dei loro berretti. Scese allora dal marciapiede, si mise con la folla, passò davanti a quegli uomini; e guardava che cosa avessero che luccicava al sole sui berretti. Vide che avevano delle teste di morto in metallo bianco, il teschio con le tibie incrociate; ma vide anche che sul marciapiede, tra quegli uomini e altri più in fondo, stavano allineati come dei mucchietti di cenci; qualche mucchietto bianco, e qualche mucchietto invece scuro, di pantaloni, giacche, cappotti: panni usati. Che cos’era? Guardò, pur camminando, e più da vicino; e vide, fuori da qualcuno di quei mucchi, scarpe. Scarpe anche? Le vide come ai piedi dell’uomo, quando un uomo è steso in terra. C’era gente in quei piccoli mucchi? C’erano uomini? Guardò, quasi spaventata, dietro a sé; nelle facce della folla. “Ma...” disse. Qualcosa per cominciare. E avrebbe voluto chiedere se ognuno di quei mucchietti fosse un uomo; e perché fossero lì, cinque mucchietti, cinque uomini; se fossero uomini catturati, e catturati a che scopo; e perché fossero tutti stesi, perché nessuno fosse seduto, nessuno in piedi, nessuno che si muovesse. Avrebbe voluto saperlo da qualcuno della folla, non vederlo da sé; e invece vide da sé; e vide che erano morti, cinque uomini allineati morti sul marciapiede, uno vestito anche con cravatta al collo come se lo avessero ucciso mentre camminava per la strada, ma tutti gli altri in disordine, uno avvolto nel tappeto d’un tavolo, uno con la giacca sulla faccia e sotto in mutande e camicia, due in biancheria da letto con i piedi nudi.
[...]
Ma c’era anche la bambina. Più giù, tra i quattro del corso, dagli undici o dodici anni che aveva mostrava anche lei la faccia adulta, non di morta bambina, come se nel breve tempo che l’avevano presa e messa al muro avesse di colpo fatta la strada che la separava dall’essere adulta. La sua testa era piegata verso l’uomo morto al suo fianco, quasi recisa nel collo dalla scarica dei mitragliatori e i suoi capelli stavano nel sangue raggrumati, la sua faccia guardava seria la seria faccia dell’uomo che pendeva un poco dalla parte di lei. Perché lei anche? Gracco vide passare un altro degli uomini che aveva conosciuto la sera prima, il piccolo Figlio-di-Dio, e fu un minuto con lui nella sua conversazione eterna. Rivolse a lui il movimento della sua faccia, quella ruga improvvisa in mezzo alle labbra, quel suo sguardo d’uomo dalle tempie bianche; e Figlio-di-Dio fece per avvicinarglisi. Ma poi restò dov’era. Perché lei? il Gracco chiedeva. E Figlio-di-Dio rispose nello stesso modo, guardandolo. Gli rimandò lui pure la domanda: Perché lei? Perché? la bambina esclamò. Come perché? Perché sì! Tu lo sai e tutti lo sapete. Tutti lo sappiamo. E tu lo domandi? Essa parlò con l’uomo morto che gli era accanto. Lo domandano, gli disse. Non lo sanno? Sì, sì, l’uomo rispose. Io lo so. Noi lo sappiamo. Ed essi no? la bambina disse. Essi pure lo sanno. Vero, disse il Gracco. Egli lo sapeva, e i morti glielo dicevano. Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un’altra donna: questo era il modo migliore di colpir l’uomo. Colpirlo dove l’uomo era più debole, dove aveva l’infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e il cuore scoperto: dov’era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere il lupo, far paura all’uomo. Non voleva fargli paura? E questo modo di colpire era il migliore che credesse di avere il lupo per fargli paura. Però nessuno, nella folla, sembrava aver paura.
(dai capitoli LXII e LXIV)
Un camioncino col rancio era passato per il largo Augusto e il corso, e gli uomini con la testa di morto sui berretti mangiavano al sole, mangiavano all’ombra, su ogni marciapiede dov’erano di guardia. La gente li guardava, e due giovanotti che li guardavano sorrisero tra loro. “Buono, eh?” disse uno. “Mica male,” uno di quegli uomini rispose. “Che ci avete dentro? Carne?...” “Eh, sì! Carne!” “Ossa anche?” “Ossa? Come ossa?” Uno sbarbatello delle teste di morto venne dov’erano i due giovanotti e mostrò il recipiente. “C’è carne. C’è pancetta. C’è fagioli. C’è patate.” “Vedo,” disse il giovanotto che aveva parlato. “Ci trattano bene,” lo sbarbatello continuò. “La mattina,” disse, “pane con burro e marmellata...” Aveva piena la bocca, e voglia di parlare. “Il pomeriggio, lo stesso. Pane, con burro e marmellata.” Il giovanotto si voltava indietro, mentre lui parlava. Guardava occhi, nell’attenta folla. E lui dalla testa di morto, sempre piena la bocca, parlava. “La sera, maccheroni e pietanza.” “Di carne cruda?” “Di carne cruda? No, di carne cotta. Più la frutta. Più il formaggio. Più il vino.” “E quest’intruglio a quest’ora?” “Intruglio? Questo è un piatto tedesco. Ha un nome loro non so come si dice. E c’è anche salsiccia.” “Ma guarda!” “Uno come noi può ringraziare Iddio. Di questi tempi che farebbe, se no? Fame, se no!” “Lo credo.” Con la testa di morto sul berretto, quello mosse la sua mascella piena, masticando, in direzione della folla e indicò le facce davanti a sé. “Che fanno loro? Se non sono ricchi sfondati, fame!” Il giovanotto si voltò di nuovo. “Dì,” disse lo sbarbatello. E gli diede una gomitata. “Che vuoi?” “Si serve la patria e si sta come papi,” disse lo sbarbatello. “Che intendi dire?” il giovanotto chiese. “Se vuoi arruolarti ti raccomando io.” “Grazie. Grazie.” Un graduato chiamò, dalle teste di morto, lo sbarbatello. “Tu!” “Vengo,” disse lo sbarbatello. Sorrise con malizia al giovanotto, e gli porse, su dal recipiente, una cucchiaiata colma. “Assaggia,” gli disse, con la bocca piena. “Io?” il giovanotto esclamò. Guardò l’altro giovanotto, e disse, non come allo sbarbatello, ma come a lui: “Mica io sono un antropofago.” Lo sbarbatello delle teste di morto scoppiò, pur come aveva piena la bocca, in una risata. “Ah! Ah!” gridò. “Che ha l’idiota?” disse il graduato, da dove era. “Oh!” lo sbarbatello gridò. “Dice che mica è un antropofago.” Rideva, e altri delle teste di morto, più in là, risero pure. “Che cosa?” il graduato domandò. “Dice che lui non mangia. Che non è un antropofago.” Il graduato si era messo in piedi, e venne davanti alla folla. “Chi non è un antropofago?” Gridò alla folla la sua domanda, poi fece un passo in avanti, ancora masticava, e pareva sicuro che la folla dovesse indietreggiare. Ma la folla non indietreggiò.
(dal capitolo LXXI)
La voce ora urlava nella strozza del telefono, era divenuta implacabile dietro il suo rauco al di là, e invano l’omiciattolo diceva: “Ma un momento! Solo un momento!” “Chiamate Giuseppe-e-Maria,” disse Pipino. “Giuseppe-e-Maria ne avrà bene un centinaio da mandare a casa. Chiamatemi Giuseppe-e-Maria.” Questo era il nomignolo che davano in prefettura al questore. Egli stava parlando con Clemm fuori della porta, sentì Pipino che gridava, e bussò un colpo breve, si affacciò nella stanza. “Vieni. Vieni,” Pipino gli gridò. “Che c’è?” chiese Giuseppe-e-Maria. “Ti ha messo in agitazione lo sbarco?” “Come? Come?” gridò Pipino. “Lo sbarco ad Anzio? Perché lo sbraco ad Anzio doveva mettermi in agitazione? Io non sono in agitazione.” L’omiciattolo parlava nel telefono, aveva fatto un cenno col capo all’ingresso di Giuseppe-e-Maria, ed era un po’ più rosso nelle sue gote di tisico, un po’ più serio, la faccia come scostata da qualcosa. “Guarda che i tedeschi vogliono conti pari entro le diciotto,” disse Giuseppe-e-Maria. “Cosa? Cosa?” Pipino gridò. “Non sei in agitazione?” disse Giuseppe-e-Maria. “Io non sono in agitazione,” Pipino gridò. “Hanno allo scoperto nove uomini,” disse Giuseppe-e-Maria. “Due ancora dell’altra volta, e sette di stanotte.” “E che cosa vogliono?” Pipino gridò. “Vogliono che mi metta a giudicare io?” gridò. “Vogliono conti pari,” disse Giuseppe-e-Maria. L’omiciattolo era corso al telefono interno, aveva lasciato sul tavolo il ricevitore del telefono esterno. “E facciamo quello che vogliono,” Pipino gridò. “Si servano da loro. Non possono servirsi da loro?” Si era alzato in piedi, urlava, e il telefono urlava sul tavolo. “Vogliono fucilare novanta persone?” urlava Pipino. “Vadano in piazza e se le prendano. Non possono prendersele in piazza? Io non rispondo della gente che è in piazza. Se le prendano in piazza.”
[...]
Disse Giuseppe-e-Maria: “E neghi di essere in agitazione?” “Io non nego niente,” Pipino gridò. “Io non sono in agitazione.” Alle quattro e cinque egli non sapeva più che cosa dire e si rivolse con rabbia al suo omiciattolo. “Perché,” gridò, “perché non parlate un po’ voi?” Lo calmò Giuseppe-e-Maria dicendo che non occorreva dare dei detenuti d’importanza. “Come? Come?” Pipino esclamò. “Mica loro,” disse Giuseppe-e-Maria, “ti chiedono delle personalità. Ti chiedono un certo numero di teste. Non altro.” “Possiamo dar loro degli operai?” “Ma si capisce. Possiamo dar loro solo degli operai.” L’idea di poter consegnare al plotone di esecuzione solo degli operai sembrava confortante a Pipino, quasi liberatrice. Anche il suo omiciattolo sembrava trovarla apprezzabile. Come un male minore. Egli si soffiò con cura il lungo naso. Giuseppe-e-Maria rise. L’accordo fu raggiunto.
[...]
Erano le quattro e un quarto. Clemm dettò all’omiciattolo la dichiarazione di prelievo degli ostaggi che lui avrebbe firmato. Dettò la cifra. Centodieci, disse. “Centodieci?” disse l’omiciattolo. Non scrisse. “Perché centodieci?” “Vuol dire,” disse Giuseppe-e-Maria, “che sono undici tedeschi.” “I tedeschi sono nove,” l’omiciattolo disse. Egli aveva la fronte sudata, e Pipino nel suo seggiolone, si era di nuovo presa la testa tra le mani. “Ouh!” Pipino disse. Aveva sbadigliato. “Ci sono anche due cani,” disse Clemm. “Uno ieri sera, il miglior alano della Gestapo. E uno stamattina, la mia cagna Greta.”
(dai capitoli LXXXIX, XC e XCI)
L’uomo, si dice. E noi pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è malato, a chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all’offesa che gli è fatta, e la dignità di lui. Anche a tutto quello che in lui è offeso, e ch’era, in lui, per renderlo felice. Questo è l’uomo. Ma l’offesa che cos’è? È fatta all’uomo e al mondo. Da chi è fatta? E il sangue che è sparso? La persecuzione? L’oppressione? Chi è caduto anche si alza. Offeso, oppresso, anche prende su le catene dai suoi piedi e si arma di esse: è perché vuol liberarsi, non per vendicarsi. Questo anche è l’uomo. Il Gap anche? Perdio se lo è! Il Gap anche, come qui da noi si chiama ora, e comunque altrove si è chiamato. Il Gap anche. Qualunque cosa lo è anche, che venga su dal mondo offeso e combatta per l’uomo. Anch’essa è l’uomo. Ma l’offesa in sé stessa? È altro dall’uomo? È fuori dall’uomo? Noi abbiamo Hitler oggi. E che cos’è? Non è uomo? Abbiamo i tedeschi suoi. Abbiamo i fascisti. E che cos’è tutto questo? Possiamo dire che non è, questo anche, nell’uomo? Che non appartenga all’uomo? [...] Diciamo oggi: è il fascismo. Anzi: il nazifascismo. Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell’uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare? Vorrei vedere Hitler e i tedeschi suoi se quello che fanno non fosse nell’uomo di poterlo fare. Vorrei vederli a cercar di farlo. Togliere loro l’umana possibilità di farlo e poi dire loro: Avanti, fate. Che cosa farebbero?
(dal capitolo CVII) |
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Elio Vittorini nacque a Siracusa nel 1908. Figlio di un ferroviere, trascorse l’infanzia e la giovinezza in Sicilia e a diciotto anni andò a Gorizia per lavorare come assistente edile. Nel 1930 si trasferì a Firenze, dove entrò nel gruppo della rivista Solaria, tra i cui collaboratori c’erano Alessandro Bonsanti, Giacomo Debenedetti, Eugenio Montale, Umberto Saba, Sergio Solmi. Al periodo fiorentino appartengono i racconti di Piccola borghesia (1931) e il romanzo Il garofano rosso (1933-34). Nel 1938 si stabilì a Milano e nel 1941 pubblicò Conversazione in Sicilia, che per lo stile dolorosamente lirico è considerato uno dei romanzi più innovativi del nostro Novecento. A Milano intensificò anche la sua opera di traduzione di importanti autori inglesi (D.H. Lawrence, Daniel Defoe) e americani (classici come Edgar Allan Poe, ma anche autori allora nuovi, come William Faulkner, Erskine Caldwell, John Steinbeck, ecc.), svolgendo un’azione parallela a quella svolta da Cesare Pavese, che condivise con lui l’intento di sprovincializzare la cultura italiana e smuoverla dalle sue concezioni tradizionaliste. Questa attività lo portò a compilare l’antologia Americana, nella quale raccolse proprie e altrui traduzioni accompagnate da commenti critici; pubblicata per la prima volta nel 1941, ma subito censurata dal regime fascista, uscì l’anno seguente in una versione priva delle note critiche e con un’introduzione di Emilio Cecchi.
Dalle sue esperienze nella Resistenza nacque Uomini e no (1945). Fondò allora Il Politecnico, periodico che aveva tra i collaboratori Giansiro Ferrata, Franco Fortini, Italo Calvino. I suoi successivi romanzi furono Il Sempione strizza l’occhio al Frejus (1947) e Le donne di Messina (1949), mentre nel 1956, insieme al rifacimento di Erica e i suoi fratelli, che era rimasto interrotto per vent’anni, pubblicò La garibaldina. Cominciò poi a farsi più fitto il suo coinvolgimento nel lavoro editoriale, e nei primi anni Sessanta diresse importanti collane per alcune case editrici, partecipando intanto attivamente al dibattito sul ruolo delle avanguardie letterarie, sull’internazionalità della cultura e sui rapporti fra letteratura e industria. Sede di questo dibattito furono le pagine del periodico Il Menabò, da lui fondato e diretto insieme a Italo Calvino. Dopo la sua morte uscì il romanzo lasciato incompiuto Le città del mondo (1969), cui lavorava già dai primi anni Cinquanta, e un’opera di saggistica, Le due tensioni (1967).
(dall’enciclopedia Microsoft Encarta)
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Opere di Elio Vittorini nella rubrica Righe di Libri
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