Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
Righe di Libri
Home L'Autore di questo libro Il sito di Pietro Ingrao Indice dei Libri precedenti Biblioteca Il Prof Inserisci un Libro che è piaciuto a Te! |
Clicca qui per scaricare il testo in formato Word (37 kb, 5 pagine)
Clicca qui per scaricare il testo in formato pdf (37 kb, 5 pagine)
La pratica del dubbio
Dialogo con Claudio Carnieri
2007, Manni editori, San Cesario di Lecce
Clicca qui per visitare il sito di Pietro Ingrao
|
Liquidazione del PCI e accettazione della guerra nell’Italia degli anni ’90 |
La copertina del libro. |
Presto tornai in quelle carceri. E incontrai anch’io storie di uomini feriti, ed estremamente vogliosi di ragionare sul loro destino e sulle regole. E tutto in quei tetri corridoi, celle, cortili in cui esseri in punizione si invocavano dalle finestre, e si urtavano e interrogavano tra di loro: maturi e giovinetti. Presi anch’io a frequentare quel cupo villaggio. Le celle sprangate, i corridoi bassi e bui, i rari brani di piante che fuggivano verso l’alto. E le ansie, le collere, gli sterili raggiri dei prigionieri. E sempre dentro di me il dubbio se quei prigionieri ambissero ad un contatto umano o pensassero ad una frode, a una fuga. Il carcere, la recinzione: da mia moglie riuscivo ad afferrare quanto quei reclusi fossero legati a un mondo altro, spesso sito in paesi lontani ed ora ridotto a brandelli, impastato di urti, desideri e distanze: tra coppie spezzate e per altro verso infrangibili.
Ma il carcere tu come lo sentivi? Come punizione o tutela dell’umano? E coloro che presiedevano a quello spazio recintato che dovevano fare secondo te?
Non lo so. Forse prima di tutto: comprendere. Afferrare le vite doppie, plurime, di quegli esseri imprigionati. Anche qui penso a mia moglie: come ragionava coi “colpevoli” sui vincoli, e dal telefono di casa dialogava con le famiglie lontane e tentava di sanare urti, di avvicinare lontananze. Ecco: mi sembra che mia moglie in quell’universo non usasse (non pensasse) mai la parola “condanna”. E cercasse sempre il dialogo tra i reclusi e i liberi: al di là della nozione di colpa, provando a ricostruire una relazione condivisa.
(dal capitolo Tra quattro mura, pp 61 - 62) |
Usciamo un momento da quelle mura. Tu vivi quella esperienza del carcere verso la metà degli anni Ottanta. Poi, alla fine del decennio, in quel 1989, d’improvviso si produce, proprio nelle file del nostro Partito, una dirompente crisi politica. È la vicenda della Bolognina, ed ebbe come protagonista Achille Occhetto, allora segretario del Pci. E Occhetto era quel segretario verso il quale avevi tenuto un atteggiamento di attenzione e di appoggio al XVIII Congresso del Partito che fu un momento critico molto importante dell’ultima storia dei comunisti italiani, segno delle difficoltà a rinnovare davvero le culture del Partito in direzione dell’ambientalismo, del femminismo, delle pratiche diverse che erano maturate nella seconda metà degli anni Ottanta, anche in contrasto con l’atmosfera del craxismo imperante. Il 24 novembre il Comitato Centrale, con il 67,7%, approvò la proposta di Occhetto di cambiare il nome al Partito avviando una fase costituente. Tu ti opponesti fin dall’inizio. Perché?
Quando in Italia esplose la vicenda cruciale della Bolognina in verità io ero lontano dall’Italia, in viaggio nel Sud della Spagna. Dalla costa della Toscana Laura ed io c’eravamo mossi verso la penisola iberica. Approdati alla sponda spagnola eravamo calati verso il sud, fermandoci alle tappe rituali: l’affascinante cielo di Barcellona, poi Madrid che ci parve fredda e rituale, sino alla splendida Siviglia dove giurammo con Laura che saremmo tornati a vivere la primavera. E poi ci spingemmo sino alla tappa finale, che era Cordova famosa nel mondo. Furono ore di emozione e di godimento, nel salire fino a quell’altura che sembrava una incredibile invenzione mentale. Trascorrendo per quei rilievi costellati di palazzi, di duomi e di fasce turrite, sembrava di entrare nella favola. Tornavano d’improvviso brani dell’ambiguo fluttuante Medioevo conteso aspramente fra europei ed islamici. Ora noi, sulle alture di Cordova, restavamo basiti dinanzi a quelle sedi di re e di principi che sembravano segnare una testimonianza opulenta dell’urto tra mondo islamico e imprese di re cattolici. Laura in realtà aveva dubbi. Diceva: è maniera, grande maniera. E forse correva col pensiero alla trama di città della sua penisola istriana. Poi, venne il momento del ritorno nella capitale italiana. Chissà perché quel ritorno lo collego nella memoria ad uno splendido tramonto. Ma qui i miei ricordi si fanno incerti. Non so dirti se già la sera, all’arrivo a Madrid, trovammo la notizia amarissima della morte di Dolores Ibarruri, quella cospiratrice simbolo. Di certo ricordo un calare triste della notte: quelle notti lunghe di Spagna, in cui la vita sembra dilatarsi con lo scender del buio...
Il
giorno che seguì fu sconvolgente. Accompagnammo alla sepoltura ―
Poi quando il pianto e l’emozione vennero spegnendosi ci ritrovammo nel ricordo: con un manipolo di compagni carissimi ad evocare vicende lontane, giorni amari e la figura di quella donna memorabile, la sua voce roca e perentoria, il suo vestito nero, il suo volto tagliente come quando l’avevo vista a piazza San Giovanni per i funerali di Togliatti. Eravamo molto stanchi e presto con Laura rientrammo in albergo. Ma non ci fu tregua. D’improvviso squillò il telefono da Roma. Era Achille Occhetto. Fu brevissimo, come incalzato dalle cose. Mi chiese di non fare dichiarazioni pubbliche al mio rientro a Roma prima d’essermi incontrato con lui. Quell’invito enigmatico presto mi fu chiarito dalle telefonate che si inseguivano e tutte rimandavano a un evento che s’era compiuto a Bologna, anzi alla Bolognina; e sembrava aver messo a rumore tutto il mondo politico italiano. Seguirono ore senza pace, pressato da giornalisti che chiedevano commenti su eventi per me ancora confusi e dubbi. Che era avvenuto? Tenni fede all’impegno assunto con il segretario, e rifiutai risposte alle telefonate dei giornalisti che ormai incalzavano da Roma. Cominciai a capire quello che stava accadendo in Italia solo la mattina seguente sull’aereo che mi portava a Roma, sfogliando i giornali italiani. All’aeroporto romano trovai Reichlin, un amico carissimo, e neppure con lui feci commenti. Fissai per l’indomani mattina l’incontro con il segretario a Botteghe Oscure. Poi venne per me una notte agitata e lunghi dialoghi con Laura che cercava di rasserenarmi non nascondendo tuttavia i suoi dubbi e interrogativi. Al mattino di buon’ora ero a Botteghe Oscure. Il dialogo con Occhetto fu breve e gelido. Il segretario provò a spiegarmi la sua iniziativa, ma il mio rifiuto concluse rapidamente il nostro colloquio.
Presto
fui a Montecitorio assediato da un nugolo di giornalisti, e resi pubblico ―
Non pensasti a un compromesso, a una possibile mediazione?
No, sentivo che era inutile. Conoscevo, mi erano chiare le forze borghesi che avevano alimentato quella proposta occhettiana che colpiva alla radice la fonte e la storia di quel partito che si nominava comunista. Entravano in pericolo il volto e l’ideologia di un soggetto politico che durava da più di mezzo secolo, coinvolgendo innumerevoli storie di vita umana. Di fatto si avviava la liquidazione del Pci. Ebbi subito chiaro che quella era la posta del pronunciamento della Bolognina.
Entra dunque in crisi quel Partito che era stato una forza fondamentale del movimento operaio italiano a partire dal primo dopoguerra. E questo mentre l’area sotto l’influenza moscovita era in subbuglio e tornava a essere centrale l’azione armata: la guerra, con l’irrompere di nuove forme dell’urto armato. Che provasti?
Avvertivo l’inizio di un’altra fase della vita del mondo. Ne parlammo in un incontro, per me memorabile, con i compagni spagnoli a Barcellona. E tutta quella nostra discussione in Catalogna fu concentrata sui modi con cui si compiva la mutazione. Prima c’era stato ― questa fu la mia lettura ― un torbido, ambiguo passaggio, teso a rilegittimare l’intervento delle armi in nome di un bisogno di giustizia. E intorno a noi, nel vasto mondo, non sembrava ci fossero dubbi. Il 1991 fu l’anno cruciale. A gennaio con l’operazione Desert Storm una coalizione con a capo gli Americani intervenne contro l’Iraq che aveva invaso il Kuwait. Anche l’Italia partecipò nel concerto delle 27 nazioni che affidavano la parola alle armi. Era una decisione che cancellava l’articolo 11 scritto in Costituzione. Ma il blocco democristiano-socialista non ebbe dubbi, e si schierò con l’America. Presi la parola in Parlamento, dove, in pesante solitudine, dichiarai il mio dissenso. Non trovai consensi nemmeno dai miei banchi. In seguito scrisse parole di consenso una figura che apprezzavo molto: Giuseppe Dossetti. E nacque con lui un sodalizio stretto che durò fino alla sua morte. Quell’anno vide l’esplosione della guerra civile in Jugoslavia, l’indipendenza di Slovenia e Croazia, insieme però con l’inizio di un’aspra tensione interna che si aggiungeva alla crisi e al crollo del dispotico regime albanese. E venne poi la grave azione militare della Nato in Serbia, giustificata in nome della democrazia e della liberazione dei popoli schiacciati da Milosevic. Furono i giorni dei sermoni sulla “guerra giusta.” Qualcuno ― in Europa ― si spinse addirittura ad evocare un termine supremo e antico parlando di “guerra santa.” In quella vicenda dei Balcani furono lanciate ed alimentate ― almeno da parte di alcuni degli attori in campo ― anche la speranza e l’immagine di una purificazione della guerra: come se essa sganciandosi dal fango del territorio e muovendo nella purezza delle grandi altitudini potesse e volesse colpire soltanto (con la sapienza delle tecniche moderne) i mezzi militari dell’avversario. Fu quella che io definii l’illusione della “guerra celeste.” Ne sgorgò quella rappresentazione consolante del pilota americano che muoveva dalla sponda atlantica e ― adempiuto lo sgancio della bomba intelligente ― tornava puro da macchie al focolare domestico, nella patria americana. Quale errore! Tornarono presto i conflitti in Afghanistan; e l’attacco dal cielo si mischiò rovinosamente alla cancellazione delle città, alle stragi civili, alla macchina delle armi che si spingeva nel ventre degli altopiani come nei ghirigori della terra. Caddero le giustificazioni etiche, i sermoni moraleggianti. In verità in Italia sino ad ora non sono stati cancellati i vincoli formali che, in molte Costituzioni europee e nella Carta delle Nazioni Unite, vennero posti nel dopoguerra al ricorso alle armi. Quei vincoli stanno ancora lì: scritti in quelle leggi solenni. Semplicemente accade che essi vengono scavalcati o cassati. Nel mio Paese l’articolo 11 della Costituzione, che consente solo la guerra di difesa, è in realtà stracciato: senza che su ciò ci sia scandalo o sorpresa, e nemmeno discussione. E se c’è qualcosa che mi spaventa, è il fatto che il senso comune non si allarma. Non trema più. Tu che mi ascolti sfoglia i libri, porgi l’orecchio alle parole dei governanti. Scorri le pagine dei dibattiti parlamentari. Troverai che è sparita la parola “disarmo”. Non la usa più nessuno. È in questo senso largo che io parlo di una “normalizzazione” della guerra. S’è liquefatto lo spavento, l’orrore che scosse la mia generazione e ci fece giurare che mai più sarebbe tornato il massacro. Come mentivamo! E ciò è avvenuto quasi senza scandalo. Non si riuniscono in ansia i parlamenti. Non suonano a stormo di spavento le campane delle chiese. Né i sindacati preannunciano scioperi. In tempi ormai lontani i promotori della guerra, gli aggressori, usavano presentare la loro iniziativa armata come puro atto di difesa. Ora dalla sponda americana, dal Paese che si considera guida del mondo, a legittimare l’attacco armato è stata messa in campo la guerra di prevenzione. L’uccidere di massa per prevenire la guerra di massa. Quante menzogne!
Torniamo un po’ indietro. Ci fu ― ricordi ― in quel primo conflitto iracheno una mossa grave, già nel 1990: partì da Saddam Hussein e fu l’aggressione al Kuwait, paese chiave per la produzione di petrolio. Quale fu la tua valutazione?
Non credo che ci sia discussione fra noi due ― come dire? ― sulla caratura di Saddam Hussein, e sulla sua grave, sanguinaria responsabilità per l’incendio che ha bruciato e brucia ancora in quella parte del Medio Oriente. Io discuto e arrossisco per la mia parte, per come l’Occidente e l’URSS, finché c’è stata, hanno portato ― in una sciagurata concatenazione di eventi ― guerra e repressione in Medio Oriente: e che durano ancora oggi, da anni e anni ormai. Su questi eventi inauditi, larga ― molta! ― parte del nostro popolo se non indifferente è stata inerte. E ― se vuoi ― scrivo sulla lista anche il mio nome. Non c’è stata rivolta del mio popolo: nemmeno condanna di massa. Oggi finalmente la Repubblica italiana ritira le sue truppe da quelle terre: ma non osa condannare la guerra che continua.
(dal capitolo Tra quattro mura, pp 62 - 69) |
|
*
Torna in cima alla pagina Clicca qui per segnalarci un libro che ti ha colpito Home
*
Clicca qui per visitare il sito di Pietro Ingrao
Pietro Ingrao è nato a Lenola, in provincia di Latina, il 30 marzo 1915. Fra il ’34 e il ’35 frequenta a Roma il Centro sperimentale di cinematografia come allievo regista. Negli anni prima della guerra si laurea in Giurisprudenza e Lettere e Filosofia all’Università di Roma, dove entra in contatto con altri studenti antifascisti e, tramite questi, con l’organizzazione clandestina del PCI. Fra il ’42 e il ’45 entra in clandestinità e opera tra Milano e la Calabria. Il 26 luglio 1943 organizza con Elio Vittorini, a Milano, il grande comizio di Porta Venezia.
Lavora all’edizione clandestina de l’Unità di Milano. Nel 1944 entra nel comitato clandestino della federazione romana del PCI. Nel ’47 è nominato direttore de l’Unità, incarico che ricoprirà fino al ’56. Nel ’48 entra nel comitato centrale del PCI e viene eletto deputato per la prima volta: sarà rieletto per dieci legislature consecutive fin quando, nel ’92, chiederà di non essere ricandidato.
Nel ’56 entra nella segreteria del PCI, dove resterà per dieci anni. All’XI Congresso del PCI, nel 1966, rivendica “il diritto al dissenso”. Nel 1968 è eletto presidente del gruppo parlamentare comunista della Camera dei Deputati. Nel ’75 è nominato presidente del CRS (Centro di Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato). Il 5 luglio 1976 è eletto presidente della Camera dei Deputati. Resterà in carica fino al ’79. Nell’88, al XIX Congresso del PCI, chiede di non essere rieletto nella Direzione nazionale. Vi rientrerà due anni dopo. Nell’89 si oppone alla svolta di Achille Occhetto che trasforma il PCI in PDS. Ma è contrario a ogni ipotesi di scissione. Nel 1991 aderisce al PDS come leader dell’area dei Comunisti Democratici. Nel ’93, in polemica con il PDS, abbandona il partito. Nel 1998 fonda con Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Valentino Parlato, Fausto Bertinotti e Lucio Magri La rivista del Manifesto.
Opere. Scritti politici: Masse e Potere, 1977; Crisi e terza via, 1979; Tradizione e progetto, 1982; Interventi sul campo, 1990; Le cose impossibili, autobiografia in collaborazione con Nicola Tranfaglia, 1990. Raccolte di poesia: Il dubbio dei vincitori, 1986; L’alta febbre del fare, 1994; Sul calar della sera, 2000.
Clicca qui per visitare il sito di Pietro Ingrao
|
*
ScuolAnticoli è un sito indipendente diretto da Luigi Scialanca. I materiali in esso reperibili possono essere usati da chiunque lo desideri, purché ne citi la fonte e non se ne serva a scopi illegali. Ciò nondimeno, ScuolAnticoli si dichiara fin da ora a disposizione di chiunque vanti dei diritti sul contenuto di questa pagina. |
*
|
*
Torna in cima alla pagina Clicca qui per segnalarci un libro che ti ha colpito! Home