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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

L'immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell'artista danese Viggo Rhode (1900-1976). L'ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

La Terra vista da Anticoli Corrado

nel febbraio del 2016

 

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(Lunedì 29 febbraio 2016. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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(Lunedì 22 febbraio 2016. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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(Mercoledì 24 febbraio 2016. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

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Harper Lee e Il Buio oltre la siepe sono su ScuolAnticoli cliccando qui.

(Venerdì 19 febbraio 2016. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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«Sia che si tratti del suo discorso di rettorato (con cui [...] respinse la “tanto decantata libertà accademica”), oppure del ciclo di conferenze di fine giugno-inizi luglio 1933 nelle università di Friburgo, Heidelberg e Kiel [...], Heidegger [...] fece campagna attiva affinché la Costituzione accademica ancora in vigore venisse abrogata a vantaggio di un “Costituzione” che applicasse il Führerprinzip hitleriano. [...] Concretamente, la nuova “Costituzione” universitaria concepita secondo il Führerprinzip stabilì che i presidi di facoltà non fossero più eletti dal corpo insegnante, ma nominati direttamente dal rettore-Führer. Quanto allo stesso rettore, non furono più i docenti a eleggerlo, bensì fu designato dal ministero. L’università perse così qualsiasi autonomia nei confronti del potere politico [cioè del regime nazista]. Nel Baden, la nuova “Costituzione” universitaria entrò in vigore il 1° ottobre 1933, e Heidegger, nonostante l’opposizione dei colleghi, assegnò la presidenza della Facoltà di Giurisprudenza al giovane Erik Wolf, che gli era fanaticamente attaccato ed era un propagandista entusiasta della dottrina razzista ed eugenetica del nazismo. Come scrisse nel suo diario uno dei precedenti rettori dell’Università di Friburgo, Josef Sauer, “Questa è stata opera di Heidegger: finis universitatum».

(Da Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, di Emmanuel Faye, a cura di Livia Profeti, Roma, 2012, L’Asino d’oro edizioni, pp 68-69).

(Mercoledì 17 febbraio 2016. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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(Mercoledì 17 febbraio 2016. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

Giordano Bruno è su ScuolAnticoli in

Campo dei Fiori, storia di un monumento maledetto e in Scritti di Antonio Gramsci su Giordano Bruno.

 

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(Lunedì 15 febbraio 2016. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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ScuolAnticoli sta per compiere dieci anni. Rivediamoli insieme...

L’Istituto che quasi mi uccise

Gli anni più belli di Mario Draghi, e i più brutalmente istruttivi di Luigi Scialanca... cliccando qui

 

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C’era una volta... ― comincia così, come una fiaba, il racconto Assoluzione che Francis Scott Fitzgerald scrisse nel 1924 a ventotto anni: C’era una volta un sacerdote dagli occhi freddi e umidi che, nel silenzio della notte, versava fredde lacrime. E c’era un ragazzino bellissimo e molto vivace, dell’età di undici anni, che un pomeriggio entrò nella sua stanza stregata...

“Padre” Schwartz (così si chiama il sacerdote dagli occhi freddi: dal tedesco schwarz, nero, come del resto lo sono tutti) esce il meno possibile dalla stanzetta in cui cerca una piena unione mistica con Nostro Signore. Ma in estate ― è estate, infatti, per sua disgrazia ― dalle quattro del pomeriggio al crepuscolo una calda follia lo raggiunge anche lì: un profumo di saponette a buon mercato, un fruscio di fanciulle svedesi sul sentiero accanto alla sua finestra, la terribile dissonanza delle loro risa argentine, il terribile frumento del Dakota che gremisce la valle del Fiume Rosso... “Padre” Schwartz, allora, prega a voce alta affinché scenda presto il crepuscolo. E poiché la preghiera non ha effetto, angosciato ― è la vita che lo angoscia, e nella vita soprattutto i segni insopprimibili della presenza umana ― abbassa lo sguardo sul disegno del tappeto e porta la sua mente a cupe meditazioni in labirinti grotteschi.

Finché, un pomeriggio, alla porta della stanzetta ― che è stregata dal cupo meditare del “padre” l’unione con Dio e il perdersi dei rapporti umani in labirinti grotteschi ― bussa un ragazzino bellissimo e molto vivace di undici anni, a nome Rudolph Miller.

Perché bellissimo?, non possiamo non domandarci, sùbito inquieti. Non c’è che “padre” Schwartz nella stanzetta, dunque è per lui che Rudolph è bellissimo. Lo sarebbe anche per noi, ché i bambini sono tutti bellissimi. Ma poiché lo è, invece, soltanto negli occhi freddi del “padre” (dove non dovrebbe, poiché il “padre” è angosciato da quel che è umano e bello) come non spaventarci? Dato che qui, in questo mondo, c’è “padre” Schwartz, la bellezza di Rudolph non può più essere una delle infinite umane bellezze delle quali noi, i lettori, siamo felici come del frumento maturo del Dakota o della dissonanza delle risa delle fanciulle: in un mondo in cui a trovarlo bellissimo ci sono gli occhi freddi di un “padre” Schwartz, la bellezza di Rudolph ci fa temere per lui.

Entra dunque nello studio del “padre” un ragazzino bellissimo e molto vivace, e il “padre”, sorprendendosi a fissare i suoi occhi accesi da puntini splendenti di luce color cobalto, è spaventato dalla loro espressione. Ma poi si accorge che il piccolo visitatore è in uno stato di abietta paura, e questo ― che in noi accresce l’inquietudine ― nel prete ha un effetto tranquillizzante: nel mondo capovolto di “padre” Schwartz, la bellezza di un ragazzino è angosciosa e spaventosa, la sua abietta paura rassicurante.

Qualche tempo prima, entrato in un granaio, Rudolph aveva udito un tale e una ragazza dirsi cose impure e li aveva ascoltati sentendosi pulsare forte i polsi per una strana, romantica eccitazione. Per un mese, dopo, era riuscito a non andare a confessarsi. Ma un sabato suo padre lo aveva agguantato per il collo mentre giocava: “Vacci subito” aveva detto. “Non tornare finché non ti sarai confessato.” E Rudolph aveva dovuto ubbidire, poiché non ci sono vie di fuga per un bambino, quando i genitori sono dalla parte delle ombre nere: si era recato in chiesa, era entrato nella grande bara collocata perpendicolarmente del confessionale, dove “padre” Schwartz lo attendeva sotto forma di smorta ombra immobile dietro la grata, e aveva confessato per primi i “peccati” più lievi, i più facili da ammettere. Poi quello di non credere di essere il figlio dei suoi genitori ― “Hai pensato, vuoi dire, di valere troppo per poter essere il figlio dei tuoi genitori?” aveva domandato il “padre” ― e infine, con uno sforzo, l’episodio del granaio. Ma dei polsi che pulsavano forte non era riuscito a parlare. E nondimeno, quando “padre” Schwartz alla fine gli aveva chiesto se non avesse detto bugie, Rudolph aveva risposto: “Oh, no, padre, non dico mai bugie.” Ma non era vero: non aveva parlato dell’eccitazione che lo aveva pervaso; e perciò, negando di aver detto bugie, si era macchiato di un peccato terribile: aveva mentito in confessione.

Sul momento, tornando a casa di suo padre (non a casa sua: di suo padre) sollevato di essere passato dalla chiesa opprimente a un aperto mondo di campi di frumento e di cielo ― lo stesso frumento del Dakota che per “padre” Schwartz è terribile ― Rudolph aveva rinviato la piena consapevolezza di ciò che aveva fatto. Poi, riempiendosi i polmoni d’aria pungente, aveva ripreso il proprio vero nome, Blatchford Sarnemington ― il nome di un bambino che vale troppo per poter essere Rudolph Miller, figlio dei suoi genitori ― e come Blatchford era entrato nell’angoletto segreto della sua mente in cui era al sicuro da Dio, in cui architettava i sotterfugi con i quali, non di rado, truffava Dio; e celato in quell’angoletto aveva riflettuto sul modo per meglio evitare le conseguenze della bugia. E lo aveva trovato: il giorno dopo, avendo sulla “coscienza” il “peccato” di aver “mentito” in confessione, doveva a tutti i costi evitare la comunione. Troppo grande sarebbe stato il rischio a cui si sarebbe esposto se avesse fatto infuriare Dio fino a quel punto: la comunione fatta senza essersi purificata l’anima gli si sarebbe tramutata in bocca in veleno ed egli avrebbe dovuto allontanarsi insozzato e dannato per sempre dalla balaustra dell’altare. Bisognava, dunque, che l’indomani mattina bevesse acqua “per sbaglio”, ponendosi così, secondo le leggi della Chiesa, nell’impossibilità di ricevere quel giorno la comunione.

(Da bambini non si può non imbrogliare Dio, se si ha cuore sé stessi, la salute mentale, la sopravvivenza psichica e talvolta anche fisica. Ma come imbrogliare, bambini, il sentimento di bassezza insinuato fin dai primi anni dall’idea di Dio? Sia la schiavitù, che sembra alleviarlo, sia la ribellione, che sembra liberarne, invece lo accrescono: senza il genio dell’immaginazione, senza un atto creativo più potente dell’onnipotente ― Dio non c’è, nel mondo che è il mio ― dal labirinto non si esce).

Suo padre, però, lo aveva scoperto. Carl Miller ― un uomo che due cose legavano alla vita: la fede nella Chiesa Cattolica Romana e una mistica adorazione per James J. Hill, il costruttore dell’Empire; non il figlio, no, né un qualsiasi altro animale umano o non umano realmente esistente: per vent’anni egli aveva vissuto solo con il nome di Hill e con Dio, e per tutta la vita non aveva fatto che rielaborare decisioni prese da tempo da altri: mai aveva saggiato nelle proprie mani l’equilibrio di una sola cosa ― Carl Miller aveva udito un suono furtivo giungergli dalla cucina, era stato in ascolto, la leggerezza dei passi gli aveva detto che non si trattava di sua moglie, e allora, con la bocca lievemente socchiusa ― immagine del godimento di chi ha scoperto, prima o poi, che colpire e ferire e uccidere almeno col pensiero nel nome di Dio è l’unico sollievo possibile dal sentimento della propria bassezza, se non si esce dal labirinto ― si era precipitato giù per le scale e aveva spalancato la porta della cucina.

Sorpreso col bicchiere in mano, Rudolph, tradito, come ogni innocente dinanzi all’aguzzino, dalla sincerità della propria immaginazione, aveva commesso uno sbaglio: aveva detto di essersi dimenticato di dover fare la comunione ― e questa, come sappiamo, era una bugia ― ma che non aveva ancora bevuto neanche una goccia d’acqua: e questa era la verità ma lo costringeva a comunicarsi, cioè a indurre in tentazione i fulmini ricevendo il Corpo e il Sangue del Cristo con il sacrilegio nell’anima. E così era stato aspramente redarguito per una negligenza di cui non era colpevole ― Se sei così smemorato da non ricordare la tua religione, aveva detto suo padre, bisognerà fare qualcosa di drastico al riguardo. Cominci col trascurare la tua religione e sùbito dopo diventi un bugiardo e un ladro, e allora ti aspetta il riformatorio! ― mentre per la sincerità la sua situazione non era migliorata in alcun modo. Sincerità incompleta, certo ― irrisoria, anzi: non aveva bevuto, solo questo aveva detto a suo padre di tutto ciò che gli era accaduto e lo tormentava, solo questo minuscolo pegno era riuscito a pagare alla sincerità di cui il rapporto tra un padre e un figlio (come potrebbe essere) era colmo nella sua immaginazione ― ma come avrebbe potuto dire tutto, come essere così pazzo da fare come se non fosse vero Dio e fosse vero il padre ideale che non esisteva che nella sua immaginazione? Sarebbero state percosse feroci, lo sapeva, e ― ciò che più paventava ― sarebbe stata la ferocia selvaggia, sfogo dell’uomo incapace (cioè dell’uomo reso impotente dal disprezzo religioso per sé stesso) che dietro le percosse si sarebbe celata.

Eppure la lealtà di Rudolph verso il padre era stata totale, alla fine, anche se solo entro i confini del rapporto con lui, quando un’enfasi non voluta nel tono di voce di quest’ultimo ― E in chiesa, prima di fare la comunione faresti bene a inginocchiarti e a chiedere a Dio di perdonare la tua sbadataggine ― aveva agito come una sostanza catalizzatrice con la confusione e con il terrore del bambino: un’ira sfrenata e orgogliosa si era gonfiata in lui, egli non l’aveva nascosta (così manifestando al padre con piena sincerità quel che sentiva) e con rabbia aveva scagliato il bicchiere nel lavandino.

Era stato brutalmente picchiato, per aver per un attimo creduto più in suo padre che in Dio: il tonfo sordo di un pugno sul lato della testa, trascinato o sollevato quando istintivamente si avvinghiava a un braccio, conscio del vivo dolore di colpi e torsioni. Aveva respinto la madre, disprezzandone la nervosa impotenza, quando ella aveva tentato di applicargli sul collo la tintura d’arnica. E poi, in chiesa, prima della comunione, lo aveva colmato una lagrimosa esultanza. Mai più sarebbe riuscito a porre con facilità un’astrazione di fronte alle esigenze della sua quiete e del suo orgoglio. Un confine invisibile era stato oltrepassato, ed egli era divenuto consapevole del proprio isolamento... conscio del fatto che esso si applicava non solo ai momenti in cui era Blatchford Sarnemington, ma anche a tutta la sua vita interiore. Fino a quel momento, fenomeni come le “folli” ambizioni, i meschini pudori e timori, altro non erano stati se non riserve private, non riconosciute dinanzi al trono della sua anima ufficiale. In quel momento capì inconsciamente che le sue riserve private si identificavano con lui stesso: la pressione dell’ambiente lo aveva spinto sulla strada solitaria e segreta dell’adolescenza.

Così ― mentre suo padre (troppo tardi per non pensare, noi lettori, che non sia che un fatuo ghiribizzo da demente) guardandolo inginocchiarsi dinanzi all’altare si sentiva orgoglioso di lui e incominciava a essere sinceramente, e non solo formalmente, dispiaciuto di quel che aveva fatto ― Rudolph rabbrividiva udendo la campanella della comunione. Non c’era motivo per cui Dio non dovesse fermargli il cuore, aveva pensato. Nelle ultime dodici ore aveva commesso una serie di peccati mortali, uno più grave dell’altro, e stava ora per coronarli con un empio sacrilegio. “Domine, non sum dignus...”

Ma ormai era Blatchford Sarnemington per sempre, il ragazzino che valeva troppo per esser figlio di Carl Miller, e la sua vera identità era il suo isolamento: aveva preso la comunione e poi, solo con sé stesso, madido di sudore, immerso fino al collo nel peccato mortale, tornando al banco aveva udito il picchiare secco dei suoi zoccoli biforcuti risuonare forte sul pavimento e aveva saputo che era il nero veleno chiuso nel suo cuore.

Domine, non sum dignus... Il ragazzino Rudolph Miller ― il ragazzino Blatchford Sarnemington ― porta fino in fondo la ribellione comunicandosi immerso fino al collo nel peccato mortale ma... non la porta fino in fondo. Non osa il Non est Dominus, sum dignus, l’atto creativo più potente dell’onnipotente ― Dio non c’è, nel mondo che è il mio ― non osa disconoscere la creazione del mondo ricreandolo per sé senza Dio, e dal labirinto non esce. E nel labirinto dove si può andare a finire se non nelle fauci del Minotauro ― dell’uomo che la volontà di unirsi a Nostro Signore ha separato dall’essere umano ― e cioè nella stanzetta stregata di “padre” Schwartz? Dio abbandona ai “padri” i figli che i padri abbandonano a Dio, se i figli non riescono a farsi padri di sé stessi e creatori del proprio mondo.

E Rudolph infatti è lì, ora: il bellissimo ragazzino dagli occhi di smalto celeste, dalle ciglia che si aprono intorno a quegli occhi come petali di fiori, ha confessato a “padre” Schwartz il proprio peccato. [...] I gelidi, umidi occhi di “padre” Schwartz sono fissi sul disegno del tappeto [...] e dalla brutta stanza [...] si alza una rigida monotonia frantumata di tanto in tanto dai riverberi nell’aria secca del picchiare di un lontano martello. I nervi del sacerdote sono tesi fino al punto di rottura e i chicchi del suo rosario strisciano e si contorcono come serpenti sul panno verde che riveste la scrivania. Il sacerdote non riesce a ricordare cosa dovrebbe dire. Tra tutte le cose esistenti nella sperduta cittadina svedese, egli è soprattutto conscio degli occhi di quel ragazzino... gli occhi bellissimi con le ciglia che se ne staccano con riluttanza incurvandosi all’indietro come per riunirsi di nuovo a essi...

Non vi dirò cosa accade dopo. Lascerò “padre” Schwartz lì dov’è ― mi piacerebbe che il lettore di queste righe senta, ora (come ho sentito io leggendo Assoluzione) che non si può non accorrere a difesa, padre o non padre che si sia, là dove un “padre” e un bambino sono soli l’uno dinanzi all’altro, e che senza perdere un istante corra a continuare da sé queste pagine ― e aggiungerò, con Francis Scott Fitzgerald, solo che Rudolph, qualsiasi cosa accada nella stanzetta stregata, sente che le proprie intime convinzioni sono state confermate: esiste in qualche luogo qualcosa di ineffabilmente splendido, e questo qualcosa non ha niente a che vedere con Dio. E intanto, fuori della finestra, lo scirocco turchino tremola sul frumento, e fanciulle dai capelli gialli camminano con sensualità lungo strade che annodano i campi, gridando cose innocenti, eccitanti, ai giovani che lavorano nei solchi tra il frumento. Gambe si delineano sotto la cotonina non inamidata e le vesti sono calde e umide sull’orlo delle scollature. Per cinque ore la vita ardente e fertile ha bruciato nel pomeriggio. Di qui a tre ore scenderà la notte, e in tutta la regione quelle bionde fanciulle nordiche e quegli alti giovani delle fattorie andranno a coricarsi accanto al frumento, sotto la luna.

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(Giovedì 4 febbraio 2016. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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Amanda Gefter, Due intrusi nel mondo di Einstein - Un padre, sua figlia, il significato del nulla e l’inizio di tutto

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Due intrusi nel mondo di Einstein, di Amanda Gefter (Raffaello Cortina Editore, 2015, pp 493), è un libro interessantissimo: un immenso, suggestivo panorama della Fisica e della Cosmologia contemporanee, spiegate in maniera comprensibile anche a un profano (colto) ma senza eludere la complessità dell’argomento (chiarezza che la traduzione italiana conserva benché, a mio giudizio, non brilli per correttezza nella coniugazione dei verbi) e un’avvincente autobiografia, scientifica e allo stesso tempo esistenziale, della giovane autrice. Che si pone (e risponde, incontrando grandi scienziati, intervistandoli e riflettendo sulle loro teorie) domande di basilare importanza non “solo” per la conoscenza dell’Universo, ma anche per la comprensione di quel che significa essere umani.

Cos’è l’Universo? Cos’è il nulla? L’Universo è emerso dal nulla? L’Universo è nulla? L’Universo è infinito, è sempre esistito e sempre esisterà? Vi è, in esso, qualcosa di invariante, cioè che non dipenda da chi l’osserva? O esso dipende del tutto da chi (e come) lo guarda, cioè da noi? Siamo noi i creatori dell’Universo? Domande sulle quali, dalla prima all’ultima pagina, occhieggia (è proprio il caso di dirlo) lintrigante schema dell’Universo partecipativo di John Wheeler.

Intervistata nell’ottobre del 2014 dal sito Science Book a Day, Amanda Gefter ha risposto così alla domanda se stia lavorando a un nuovo libro: I’m really excited about the new book I’m working on. It’s still early in the process so I have to be a bit cagey. But when my father and I were reading Wheeler’s journals at the American Philosophical Society in Philadelphia, I came across the name of one of Wheeler’s students of whom I’d never heard. That was odd, considering Wheeler’s students all went on to become renowned physicists Richard Feynman, Hugh Everett, Kip Thorne, etc. So I started looking into it, and found a rather incredible story about this unknown guy who studied physics with Wheeler but went on to figure out some incredible things about how the mind works. And for me, personally, that’s the question that still keeps me up at night what is consciousness? And I think it’s ultimately a question of fundamental physics what kind of objective reality can support subjective experience? How does the reality wrought by our consciousness relate to the supposed reality “out there”? The new book will explore this strange tension between physics and philosophy of mind but again, these heavy ideas will be woven into a very human narrative.

Considerate attentamente queste parole: Strange tension between physics and philosophy of mind [...] woven into a very human narrative... Proprio questo mi ha colpito, leggendo Due intrusi nel mondo di Einstein: la Fisica e la Cosmologia contemporanee (molto più di ogni altra scienza, molto più avanti di ogni altra scienza, ivi comprese, e di gran lunga, le cosiddette neuroscienze) sono entrate in una strange tension con quel che sappiamo della mente umana. Tra non molto, nessuna scienza potrà più dirsi tale se non sarà anche scienza dell’essere umano. La Fisica (con la Cosmologia in qualche modo costretta, da un secolo, a seguirla) ormai sa di trovarsi a questo fondamentale hic Rhodus, hic salta da cui non si torna indietro. E non è certo un caso, io penso, che proprio da una giovane donna come Amanda Gefter le venga un impulso decisivo in questo senso.

Ha detto Carlo Rovelli, illustre fisico italiano e fra i primi al mondo: Ho amato questo libro dalla prima pagina. Dice l’essenziale, e l’essenziale qui è la passione per il fascino della Fisica. Un libro da bere d’un fiato. È quello che ho fatto io, ma... con tutto il rispetto per Carlo Rovelli, non userei il verbo bere: io, con l’autrice, ho “litigato” dall’inizio alla fine, e non sono d’accordo con le sue conclusioni! Eppure, se non l’avessi letto, non avrei conclusioni mie da contrapporre alle sue.

Sì, è in atto una strange [and wonderful] tension between physics and philosophy of mind!

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(Domenica 31 gennaio 2016. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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(Domenica 24 gennaio 2016. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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