Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
La Terra vista da Anticoli Corrado nel marzo del 2014
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Spiegare un Film a un Bambino: Il dottor Zivago, di David Lean. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
Lara, naturalmente, è l’immagine della Russia. Anzi: poiché Il dottor Zivago è un’opera di valore universale, Lara è l’immagine di ogni Società e dell’Umanità intera. Offesa e stuprata dal vile Komarovskij sotto l’antico regime, è l’immagine di tutti quelli che son trattati come se non fossero umani da chi umano non vuol restare. Sposata e resa madre, quando i comunisti si ergono contro l’oppressione e la violenza dello zar e dell’aristocrazia, dal giovane rivoluzionario Paša Antipov (benché Lara non sia certa di amarlo e neanche di poter fidarsi di lui) è l’immagine della trepidante speranza con cui i popoli hanno sempre accolto chi si proponeva loro come avversario dei nemici dell’Umanità. Abbandonata quando Paša diventa il gelido e feroce Strél’nikov (cioè quando il comunismo si disumanizza in una religione e i comunisti, impazziti, in inquisitori che tentano di forzare gli esseri umani entro i rigidi schemi della loro fede) è l’immagine della delusione e della solitudine di tutti quelli che nel corso del tempo hanno visto deteriorarsi e svanire, nei genitori e negli amanti come nei maestri e nei paladini, la bellissima realizzazione umana che per un momento avevano intravisto in loro. Infine, ripresa e fatta sparire dall’ignobile Komarovskij quando gli antichi violentatori ricompaiono travestiti da “compagni”, massacrano i rivoluzionari e ricominciano a opprimere e sfruttare, Lara è l’immagine della tragica sconfitta e degli orrori a cui da sempre va incontro ogni progetto di cambiamento così poco affettivo, e così poco sapiente della nostra umanità, da non intervenire su di noi altrimenti che coi dogmi e la costrizione.
Sconfitta e orrori di cui non sono responsabili solo i nemici dell’Umanità come Komarovskij, ma anche i generosi rivoluzionari come Paša Antipov, quando anch’essi tradiscono e pervertono la bellezza degli ideali originari poiché, non amando, non capendo e non conoscendo abbastanza gli esseri umani, commettono errori che sono come varchi, aperti nelle loro stesse menti e nella nuova Società in costruzione, in cui è lesto a penetrare il disumano dei Komarovskij. E i Paša se ne accorgono, vedono i Komarovskij infiltrarsi nel “mondo nuovo” e renderlo ogni giorno più simile al vecchio, ma non si rendono conto di averli anche dentro di sé. Ed è proprio questo che li fa impazzire, li fa sbagliare sempre di più, e infine li consegna al fallimento o, peggio, li rende altrettanto disumani dei propri avversari.
Ma la follia e i crimini degli Strél’nikov non devono farci dimenticare che essi, un tempo, furono i Paša, mentre i Komarovskij furono sempre i Komarovskij: quelli, cioè, che iniziano ad aggredire le menti dei Paša quando essi sono ancora bambini, che ostacolano e rovinano tutto ciò che i Paša tentano di valido, e che in ultimo li fanno impazzire o tentano di sopprimerli. Non c’è più niente, nei Komarovskij, degli esseri umani che anch’essi furono quando vennero al mondo; mentre negli Strél’nikov, invece, fino al giorno in cui vengono giustiziati da chi ha fatto loro la posta per tutta la vita, qualcosa dei Paša di un tempo rimane sempre. E Pasternak, infatti, nelle ultime pagine del romanzo, fa incontrare Strél’nikov con Zivago (una scena che nel film non c’è, purtroppo) e pronunciare, a proposito di Lara (cioè della Russia, cioè dell’Umanità, cioè di tutti noi) parole che un Komarovskij non capirebbe nemmeno:
“Il mio era il mondo della periferia cittadina,” dice a Zivago il Paša che ancora sopravvive in Strél’nikov... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Domenica 30 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Lunedì 31 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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C’è chi la pace la vuole davvero, a rischio della vita. E c’è chi prende premi Nobel facendo finta di volerla, a rischio della vita altrui. (Martedì 25 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
C’è un complotto contro noi complottisti? Clicca qui per scaricare il testo in .pdf. O qui per scaricarlo in .doc.
C’è un complotto contro di noi, poveri complottisti? Me lo domando perché, da alcuni anni, il complottismo è quasi il peggior “crimine” intellettuale di cui si possa essere accusati: ancor più grave è forse solo il cosiddetto populismo (a proposito, vi siete accorti che la Costituzione della Repubblica Italiana è orribilmente populista? L’articolo 1 osa affermare, pensate, che la sovranità appartiene al popolo!) e la propaganda della pedofilia viene solo quarta, dopo il “crimine” di libera manifestazione del pensiero senza essere plurilaureati con almeno cento pubblicazioni sull’argomento.
Ma non divaghiamo e torniamo al complottismo. Ho scritto che, da alcuni anni, sembra essere diventato uno dei peggiori “crimini” intellettuali e morali che si possano commettere. Già, ma... da quanti anni? Sono in grado di rispondere con grande precisione: dalle 15 circa (ora italiana) di martedì 11 settembre 2001. Da quel giorno, chi osa ipotizzare che negli Stati Uniti qualcuno abbia permesso la distruzione delle Twin Towers (o, quanto meno, si sia distratto mentre i terroristi la preparavano) viene accusato di complottismo, cioè ― in parole povere ― di essere un complice (per convinzione o stupidità) dei terroristi stessi. (Sùbito hanno preso la palla al balzo quelli che non hanno mai gradito ― ma prima dell’11 settembre non osavano dirlo ― che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale non creda alla versione ufficiale sull’assassinio di John Fitzgerald Kennedy).
Ma in Italia l’accusa di complottismo è più antica dell’11 settembre 2001 (a dimostrazione del fatto che certi Italiani ― i peggiori, gli eredi di chi insegnò il fascismo a Hitler e al mondo intero ― anche oggi hanno ben poco da imparare dai peggiori del resto del pianeta) poiché risale addirittura al 1978, cioè al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro: fu allora, infatti, che si cominciò ad accusare di complottismo tutti quelli che pensavano (e pensano) che i quattro assassini baciapile che si facevano chiamare Brigate rosse non avrebbero mai potuto mirare così in alto senza la complicità di pezzi (deviati) delle istituzioni politiche, militari ed economiche italiane ed estere.
Curioso, no? I primi ideatori dell’accusa di complottismo furono proprio quei quattro scalzacani di ex chierichetti assassini autonominatisi brigatisti: “Abbiamo fatto tutto da soli!” strillano da allora, e a furia di strillare ce l’hanno fatta: da anni, ormai, chiunque si azzardi a dubitare della loro “verità” è additato con feroce disprezzo all’opinione pubblica (mentre gli assassini son tutti a spasso, e coccolatissimi dall’establishment catto-politico pubblicano “libri” e tengono conferenze nelle Università) come uno stupido e pericoloso complottista.
D’altra parte, come non vedere che complottisti mattoidi esistono davvero? Quelli che credono che Elvis Presley non sia morto ma sia stato rapito dai Marziani per insegnare loro a far colpo sulle Marziane, quelli che giurano che le compagnie aeree di tutto il mondo avvelenano con le scie chimiche chiunque non si trovi a bordo dei loro velivoli, quelli che son convinti che le classi dirigenti dell’intero pianeta siano state sostituite nottetempo da ultracorpi alieni ultranazisti (per quanto, forse, quest’ultima idea...). Sì, i complottisti schizzati esistono, e con le loro folli pensate gettano discredito su di noi, complottisti seri. Come evitarlo? Cosa possiamo escogitare, noi che ipotizziamo solo complotti autentici, docg, per distinguerci dai mattocchi e, al contempo, per contraddire chi fa di tutti i complottisti un fascio? A tal riguardo avrei una modesta proposta, che esporrò nei prossimi due (conclusivi) paragrafi.
Non c’è alcun bisogno di complottare. I nemici dell’Umanità sarebbero stupidi, se lo facessero. In primo luogo perché complottare, almeno dai tempi della Carboneria, significa rischiare di essere scoperti con facilità. In secondo luogo perché le pesanti restrizioni comportamentali a cui chi complotta deve sottoporsi per non essere individuato limitano molto l’intensità e l’efficacia delle sue azioni. E in terzo luogo perché una lunga esperienza ha insegnato ai nemici dell’Umanità che i complotti che riescono “meglio” sono proprio i non complotti: quelli, cioè, che per andare a “buon” fine contano sulla complicità spontanea e inconsapevole di ogni altro nemico dell’Umanità che si trovi nei paraggi... Ehm... Non è chiaro?... Mi spiegherò meglio, allora, con un esempio tratto dalla vita di tutti i giorni: che bisogno c’è di complottare ― che so io? ― contro un collega preparato e onesto? Sarebbe stupido e pericoloso, nessun collega incompetente e mascalzone lo farebbe mai: basterà che uno solo attacchi il bravo collega, e ogni nemico dell’Umanità che si trovi nei paraggi (e fino a chilometri di distanza) verrà spontaneamente a dar man forte all’aggressore senza bisogno che lo si preavverta e nemmeno che lo si chiami.
Ecco: i complotti veri, a mio modesto avviso di serio complottista di lungo corso, son fatti così. Non occorre organizzarli. Solo un idiota li organizzerebbe. I tipi come John Fitzgerald Kennedy, o come Aldo Moro, che a torto o a ragione i nemici dell’Umanità odiarono e temettero in un determinato momento storico, furono colpiti, in un certo senso, da chi passava di là. Ma con l’aiuto, più o meno consapevole, di ogni altro nemico dell’Umanità che sùbito colse la palla al balzo e fece del suo peggio per favorire il crimine, proteggerne gli autori, ostacolare le indagini, nascondere le prove, minacciare i testimoni, inquinare le testimonianze, confondere l’opinione pubblica. Tutti partecipi di un complotto? No. Tutti partecipi del medesimo odio e pronti, da chissà quanto tempo, a sfogarlo alla prima occasione.
L’ipotesi vi intriga? Bene: in tal caso tenete presente che essa vale, con ogni probabilità, anche per la crisi economica in atto.
P.s.: Che bisogno c’è di complotti? In qualsiasi parte del mondo, un agente dei servizi segreti, di passaggio in via Fani per puro caso, chi avrebbe involontariamente aiutato, i brigatisti o Aldo Moro? I brigatisti o gli uomini della scorta? E poi, accortosi di quel che aveva fatto, come avrebbe reagito? Solo il 2-3% di loro sarebbero stati ancora così umani da esclamare “Ops!”
(Il ritaglio di giornale è da l’Unità di lunedì 24 marzo 2014). Clicca qui per scaricare il testo in .pdf. O qui per scaricarlo in .doc. (Lunedì 24 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: Romuald e Juliette, di Coline Serreau. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
Il percorso che Romuald deve compiere per arrivare a Juliette è brevissimo, materialmente: all’inizio, i pochi metri che separano il suo ufficio dal corridoio che quella grossa donna di colore sta pulendo; più tardi, i pochi chilometri fra la sua villa nei quartieri alti e il palazzone di periferia dove ella vive. Ma immensa, quasi incolmabile, è invece la distanza interiore di Romuald da Juliette, poiché è la somma della sua distanza psichica dagli altri (dalla moglie, dai figli, dai dipendenti e da tutti gli esseri umani), più la distanza sociale ed economica che separa la ricca borghesia, a cui egli appartiene, dai lavoratori manuali come Juliette, più la distanza culturale e psicologica che divide tutti gli “occidentali”, indipendentemente dalla classe sociale, dai popoli del resto del mondo. Una distanza enorme, i cui addendi hanno però tutti, a ben guardare, la stessa natura e la stessa origine: l’anaffettività di Romuald, dalla quale scaturiscono tutto il suo non vedere, il suo non sapere, il suo non capire.
È per questo che il viaggio di Romuald è in realtà un viaggio dentro di sé, un’avventura nella mente: è “lì” che Romuald deve “andare” a scoprire l’ anaffettività che lo sta rendendo disumano e stupido; è “lì” che poi, una volta che l’abbia scoperta, deve odiarla ed eliminarla; e questo “viaggio”, restituendo misura umana alla distanza che lo separa da Juliette, da sua moglie, dai figli, dai colleghi e dipendenti e dal mondo intero, inevitabilmente trasforma tutti i suoi rapporti, cioè la sua vita... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Domenica 23 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Venerdì 21 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: La tigre e il dragone, di Ang Lee. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
È solo una spada, quella il cui nome è Destino verde? Oppure è qualcosa di più? O vuole esser qualcosa di più ― tutto, forse, quel che l’essere umano è ― ma non riesce a esserlo? Non del tutto?
Il Destino verde, afferma chi la conosce, è “una spada unica al mondo”: di un metallo “speciale”, “è la più leggera di tutte”. Assoluta unicità che ci lascia immaginare che il “di più” che essa forse è, o che vuole essere, sia qualcosa di assolutamente unico. Mentre la sua insuperabile leggerezza ci lascia pensare che quel “di più” ― come se fosse niente, benché niente non sia ― sia qualcosa che nessuno potrà mai pesare né misurare, poiché di ciò che non ha uguale non vi è misura possibile.
Qualcosa che non si può sostenere, nonostante la sua levità, senza una capacità di movimento che la forza gravitazionale non può limitare: questo, forse, è il “di più” che il Destino verde è.
Ma perché Destino? E perché verde, oltre che per il colore del suo metallo senza peso?
Destino è parola che non ci piace, che rifiutiamo... Ma la ripugnanza si dilegua quando capiamo che il Destino, se è il nome di una spada che è unica, non è nelle stelle o nella mente di un dio, non è soprannaturale, non è scritto a priori dove che sia, ma è tanto più saldamente nelle nostre mani quanto più fortemente, abilmente e generosamente lo impugniamo. E neppure il verde ci dispiace: poiché è il colore degli anni che iniziarono quando nascemmo, e naturalmente, quindi, è anche il colore del “di più”, assolutamente unico e imponderabile, con cui da allora forgiamo le nostre vite.
Ma il dubbio ritorna quando apprendiamo che il gran maestro Li Mu Bai, che ci sembrava molto dotato del “di più” che il Destino verde è o vuole essere, ha deciso ― sebbene “avvolto da tristezza infinita”, o forse per questo ― di abbandonare l’addestramento nell’arte della spada e di interrompere la meditazione che per qualche tempo ha creduto il naturale coronamento di quell’arte... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Giovedì 20 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
Il piccolo Egòruška e lo strano, complesso sorriso di Solomòn Clicca qui per scaricare il testo in .pdf o qui per scaricarlo in .doc
Per capire il ’900, non solo letterario (e l’oggi che in parte ne consegue) aver letto il terzo capitolo de La steppa è, forse, sufficiente. E, quasi certamente, indispensabile. È ovvio: per capire d’aver capito, letture ed esperienze non saranno mai troppe. Ma se non si hanno eccessive pretese, se ci si accontenta di capire inconsapevolmente (che è poi ciò che basta per vivere da essere umano, se le condizioni di vita non si fanno troppo disumane) è sufficiente imparare a leggere e poi leggere queste dieci pagine. Cinque, a mio giudizio, sono i capolavori della narrativa del ’900: L’isola del tesoro, di Robert Louis Stevenson (anche se è del 1883), La steppa (anche se è del 1888), Giro di vite, di Henry James (anche se è del 1898), La metamorfosi (1916), di Franz Kafka, e poi, (dopo le disumane, mostruose vicende storiche che lo strano, complesso sorriso di Solomòn aveva preannunciato al piccolo Egòruška, Il giovane Holden (The catcher in the rye, 1951), di J. D. Salinger. Ma con un’importante differenza: a chi non ha letto La steppa, tutti gli altri rischiano di dire ben poco. Poiché dal 1888 è dinanzi al piccolo Egòruška, quantunque sia solo un bambino di nove anni, che distinguiamo l’umano dal disumano...
Il piccolo Egòruška e lo strano, complesso sorriso di Solomòn
Fra le tenebre del crepuscolo apparve una grande casa a un piano, dal tetto di ferro arrugginito e le finestre buie. Questa casa era chiamata locanda, benché non avesse cortile e sorgesse in mezzo alla steppa, senza recinto di sorta intorno. Un po’ discosto dalla casa nereggiava un giardinetto di ciliegi con la siepe; sotto le finestre, con le pesanti corolle reclinate, dormivano dei girasoli. Nel giardinetto crepitava un mulinello, messo lì per spaventare col suo rumore le lepri. Attorno alla casa, all’infuori di questo, non si vedeva e non si udiva altro che la steppa... Clicca qui per continuare a leggere! Clicca qui per scaricare il testo in .pdf o qui per scaricarlo in .doc (Giovedì 13 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Forse a qualcuno sfugge che: 1. La cosiddetta “parità di genere” non passa non per le ottime ma astratte ragioni che qualcuno elenca, ma perché Renzi vuole andar d’accordo con Berlusconi. (Su cosa? Su tutto. Per esempio, su una legge elettorale che perfino un centrista lievemente rosato come Civati definisce “nord coreana”). 2. “Andar d’accordo con Berlusconi” non significa affossare la “parità di genere” per le profonde ma astratte ragioni che qualcuno crede, ma perché le donne italiane restino nella condizione in cui i fascisti come Berlusconi e i catto-nazi-liberisti come Renzi concordemente vorrebbero lasciarle. 3. Un luogo reso disumanizzante da certi maschi più o meno malati di mente non si cambia facilmente, se non si comincia a ridurre per legge la loro presenza. Razzismo? No, profilassi (per poi tornare a una situazione più naturale). Ve lo dice uno che da trent’anni vede con i propri occhi quanto son più umane (anche per i maschi) le classi in cui essi sono uno di meno delle femmine. Detto ciò, sono il primo a denunciare il pink washing: so bene che la discussione sulla “parità di genere” ha il fine di distrarci da una politica economico-finanziaria che toglie la cittadinanza a tutti noi, donne e uomini, e ci tramuta in sudditi miserabili e tremanti. Ma siccome il pink washing è riuscito, e molti stan parlando solo di questo (e per dir cose piuttosto discutibili), ribadisco la mia posizione: la “parità di genere” non passa non per le nobili ragioni un po’ campate in aria che qualcuno va incidendo sul marmo, ma per conservare al Parlamento e al Paese le disumane caratteristiche di ogni luogo in cui manipoli di maschi vecchi, pazzi e violenti fanno il bello e il cattivo tempo. (Mercoledì 12 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: Il verdetto, di Sidney Lumet. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
Frank Galvin è un avvocato che si è dato all’alcol da quando è stato calunniosamente coinvolto in un caso di corruzione. Si è ridotto a correr dietro alle cause di risarcimento per incidenti automobilistici (è diventato, cioè, quello che negli Stati Uniti chiamano un “cacciatore di ambulanze”) e non ha più rispetto per sé stesso: la sua antica immagine di difensore dei deboli e degli accusati ingiustamente è distrutta, cancellata dal fango che gli hanno gettato addosso e dalle troppe volte che anche lui l’ha sporcata per disperazione o per fame. Ma ecco che un vecchio collega gli offre una possibilità: la difesa di una povera ragazza, in coma da quattro anni per la disattenzione degli anestesisti di un ospedale cattolico. L’arcivescovo di Boston, proprietario della clinica, per evitare lo scandalo offre ai parenti della vittima duecentomila dollari. Ma Galvin, recatosi all’ospedale per scattare alla donna qualche foto che lo aiuti a tirare sul prezzo, scorge attraverso l’obiettivo della macchina fotografica ciò che i suoi occhi non riuscivano più a vedere da molto tempo: un altro essere umano. E per lui, a partire da quel momento, niente è più come prima: non solo perché è costretto da ciò che ha visto a rammentarsi che un essere umano non lo si può né comprare né vendere, e quel che si fa in suo nome non può dunque avere altro obiettivo che la trasformazione in meglio della sua esistenza e del mondo; ma anche perché si rende conto che la vita non gli concederà altre occasioni di ritrovare sé stesso, se sprecherà anche questa. Costi quel che costi, egli dev’essere all’altezza di ciò che ha intuito: perché quella ragazza, in un certo senso, è lui stesso; e lo stato in cui l’hanno ridotta non è diverso da quello in cui hanno messo lui. [...] Non è una lotta ad armi pari, quella di Frank Galvin contro l’arcivescovato di Boston e il suo ospedale: è una battaglia fra un essere umano e un’organizzazione. Fra un uomo libero, dotato “solo” d’immaginazione, generosità e intelligenza, e un’istituzione molto ben provvista di mezzi finanziari, di un’immagine pubblica prestigiosa, di influenti amicizie... e di un’arma quasi imbattibile: l’anaffettività. Un’istituzione (nel senso negativo del termine) è un’associazione di individui (il cui numero può variare da due a milioni) il cui fine principale (quale che sia, e anche se benefico) non è la felicità di chi ne fa parte ― né quella delle donne, degli uomini e dei bambini all’esterno di essa ― ma tutt’altro. Un essere umano, infatti, non può mai essere considerato un mezzo per arrivare a qualcos’altro. Un essere umano non può essere che il fine di un’azione. Un essere umano, cioè, non possiamo usarlo. Neanche per scopi positivi. Che egli (e noi con lui) siamo felici e stiamo bene da esseri umani, che la sua (e la nostra) umanità siano incoraggiate e rafforzate da quel che facciamo insieme, e che la sua (e la nostra) vita ne siano quindi migliorate, sono i primi e principali obiettivi di ogni azione da noi intrapresa con lui. Altrimenti, pur valide azioni avranno effetti rovinosi, nobili obiettivi risulteranno impossibili da raggiungere e i nostri rapporti ne saranno danneggiati e forse perfino distrutti, o comunque non riusciranno mai a essere felici, ricchi e creativi quanto possono esserlo i rapporto interumani... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Sabato 8 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Giovedì 6 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: Shining, di Stanley Kubrick. (Con un appendice su Doctor Sleep, di Stephen King) (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
“Sopportano e resistono” dice dei bambini la signora Cooper ne La morte corre sul fiume: sapendo che soprattutto contro di loro infierisce, da millenni, l’odio di chi non vuole restare umano. Contro miriadi di Hänsel e Gretel, trascinati con la forza o l’inganno nel folto di nere foreste, o nei grovigli di vicoli di abbrutite periferie, o negli invisibili labirinti di menzogne di “culture” malate, da chi non vuole che tornino più a casa: da chi vuole, cioè, che le loro menti perdano la configurazione umana originaria che un giorno li indurrebbe a togliere ai disumani il potere usurpato, i cortei di servi e di clienti, le ricchezze rubate, e prim’ancora le rigide maschere con cui si fingono umani. Mentre la buona e severa signora Cooper e tante altre “streghe” come lei, nelle loro casette di dolciumi al centro di quelle foreste, di quelle periferie, o delle istituzioni che creano quei labirinti, continuano ad accogliere i piccoli abbandonati offrendo loro, come una mappa con cui ritrovare sé stessi, la vista del vero aspetto degli esseri umani.
La morte corre sul fiume fu realizzato nel 1955, quando la triste verità che certuni tentano di rendere disumani i figli (o non sanno difenderli da chi li vuole tali) era ancora poco nota e difficile da capire. Ma ventidue anni dopo, quando King scrisse Shining, le cose erano un po’ cambiate: si cominciava a capire che i processi psicopatologici che affliggono le Società umane sono così difficili da debellare (un po’ come l’idra di Lerna della mitologia greca, le cui teste mostruose ricrescevano ogni volta che venivano recise) proprio perché si ripetono a ogni generazione nel rapporto tra gli adulti e i bambini.
È così che quelli che non rimangono umani si “riproducono” e creano i propri successori, i disumani del futuro: abbandonando, ingannando e maltrattando i bambini. Ed è così che a poco a poco, attraverso i secoli e i millenni, accumulano l’immenso “patrimonio” di orribili eventi che pesa su ogni nuova generazione; del quale i piccoli apprendono l’esistenza dai libri di Storia (o da ciò che con i propri occhi vedono accadere intorno a sé); e che ad alcuni di essi ― dopo che con l’abbandono, con l’inganno o con le percosse ne sia stata spezzata la naturale resistenza ― viene imposto di far proprio e incrementare.
Di quella spaventosa eredità (di tutto l’odio e le menzogne e le violenze, cioè, che una parte degli umani hanno sparso fino a oggi) l’Overlook Hotel di Shining è la perfetta rappresentazione. Poiché è stato costruito su un cimitero aborigeno, distruggendo un luogo sacro di quella popolazione, gli “Indiani”, o Pellerossa, che gli Europei paragonarono dapprima ai bambini, per la loro prossimità alla Natura, e che poi, invece, benché essi stessi fossero sbarcati nel Nuovo Continente per sfuggire alle persecuzioni religiose e allo sfruttamento, scacciarono dalle loro terre, ingannarono e massacrarono senza pietà: fatto, questo, che nel romanzo non è menzionato, ma che nel film di Kubrick (che non fu mai tenero con il suo Paese, tanto da finire con l’abbandonarlo per l’Europa) esprime l’idea di un disumano non circoscritto, non limitato a una singola località e situazione, ma esteso nel tempo e nello spazio a gran parte della storia della nostra specie. E in secondo luogo perché è un albergo: un edificio in cui si va e si viene senza fermarsi a lungo, come le generazioni umane sulla Terra, e in cui ogni stanza, corridoio o salone, similmente a ogni luogo del pianeta, è stato prima o poi funestato da qualche orribile evento.
Nel romanzo, la frase che si forma nella mente di Danny è molto precisa: “Questo posto disumano crea mostri umani. Questo posto disumano crea mostri umani...”.
Tutti noi, a poco a poco, scopriamo di risiedere nell’Overlook Hotel... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Mercoledì 5 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Martedì 4 marzo 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).
L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.
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