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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Riconosci i falsi Insegnanti

 

E una!

E due!

E tre!

E quattro!

E cinque!

E sei!

E sette!

E ottooooooooooooooooooooooo!

I testi contenuti in queste pagine sono di fantasia: ogni apparente riferimento a persone reali o realmente esistite è del tutto casuale!

 

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4. La Mammessa

 

Mangia, tesoruccio, mangia!

 

C’è qualcosa di strano, che non sai e non puoi vedere, nell’immenso amore della Mammessa per te e i tuoi compagni: si smorza non appena ve ne andate, come se l’ultimo di voi che esce dall’aula premesse senza accorgersene un invisibile interruttore che lo spegne.

 

Quando suona la campanella, e voi, a uno a uno, vi dileguate come una manciata di giorni di vacanza felici, lei ― o lui, poiché della Mammessa c’è una variante maschile, che potremmo chiamare il Papastro; o loro, poiché c’è anche, variante giovanile, la Giovial Compagnona ― ogni volta all’istante si dimenticano di voi.

 

Prova ad aspettarla, una volta, fuori dalla scuola, e guardala andar via. Se ti vedrà ― ma è improbabile ― un ciao e un risolino imbarazzato e nervoso ti faranno sentire lievemente fuori posto, come quando cambi banco e la vedi cercarti con gli occhi dove nella sua mappa mentale eri seduto fino a poco prima. Però non avrai l’impressione che stia scappando, e nemmeno che si affretti... Non ne ha bisogno, vedi, poiché quella che ti è appena apparsa sul portone è un’altra persona: identica a lei, nell’aspetto, e al contempo del tutto diversa. Come i grandi, tenebrosi criminali dei romanzi di Sherlock Holmes ― che in quattro e quattr’otto cambiavano abito e andatura, s’infilavano una parrucca, mettevano barba, baffi finti, magari una gobba posticcia, e abbandonavano fischiettando il luogo del delitto sotto gli occhi sospettosi ma ciechi di Scotland Yard ― così la Mammessa, in pochi secondi, mentre i suoi tacchetti ticchettavano lungo i corridoi ormai vuoti, si è liberata dei sentimenti scolastici e ne ha indossati altri. Non è più la buona fatina che in classe sembrava amarti più della tua stessa mamma. È quasi un’estranea, ora! E tu, che fino a poco fa parevi starle così a cuore, ora sei solo un puntolino all’orizzonte, o tutt’al più una graziosa farfalla dalle ali azzurre a cui dedicare un’occhiatina di vago compiacimento prima di dimenticarla per sempre.

 

Non ti guarderà nello specchietto retrovisore, ed è meglio; poiché, se lo facesse, avresti la sgradevole impressione che la Mammessa, da dentro la macchina, già non sia più in grado di riconoscerti. Che fra un anno possa già non rammentarsi più il tuo nome, dopo aver faticato tanto per impararlo! Che, fra due, anche la tua faccia possa cominciare a sbiadire, nella sua memoria, come le foto di Ritorno al futuro quando il protagonista combinava pasticci nel passato. Che, fra tre, possa aver bisogno di scartafacci anche solo per ricordarsi d’aver insegnato nella tua scuola. Che già ora, forse, di te non sappia alcunché. Tranne che tu ― certamente! ― le vuoi tanto, tanto bene.

 

E pensare che in classe ti ama davvero! Non sclera mai, la Mammessa, non è mai neanche un po’ infastidita. La sua voce è sempre dolce, come la lira di Orfeo che ammansiva le belve. I suoi occhi sempre teneramente complici, come due belle ciliegine su una torta. I suoi  modi sempre più che affettuosi, soccorrevoli: come le mani d’avorio delle pie anime che nei lazzaretti, lodando il Signore, lavavano i bubboni purulenti degli appestati in agonia. I suoi compiti a casa? Sempre pochi, sempre contrattabili, raramente corretti, quasi mai valutati. Le sue verifiche? Sempre per modo di dire, lasciandoti copiare, rileggere, consultare appunti di nascosto, uscire in cerca d’aiuto, telefonare, fartele svolgere da lei stessa... Ogni tuo bisogno è un ordine, per la sua immensa carità! Vuoi farti una passeggiatina al bagno nel bel mezzo della sua cinguettante lezione? Lei ti ci manda. Vuoi ― spericolatamente sospeso nel vuoto dei corridoi ― trattenerti a chiacchierare con un amico incontrato per via? Lei non ti cerca. Vuoi venire a scuola impreparato, senza compiti, senza libri, magari senza scarpe? Lei lascia correre, tollera, chiude un occhio, abbozza. Vuoi far chiasso nei musei, schiamazzare per le vie delle città d’arte, cantare a squarciagola sui balconi delle camere d’albergo alle tre di notte? Lei si gira dall’altra parte, si toglie gli orecchini, li sostituisce con due tappi di cera e ti manda giù insieme a una pasticca di sonnifero. Non per indifferenza, beninteso, ma per amore. Per onorare il tacito patto che ha stipulato con te fin dal primo giorno di scuola: che tu possa sempre fare tutto quello che vuoi, purché sempre sia buono con lei. Purché lei possa dire ai colleghi, esterrefatti, ammirati, invidiosi: a me non crea mai alcun problema! E alla fine dell’anno, se vuoi essere promosso senza nemmeno uno scappellotto anche se ne sai meno che all’inizio, non preoccuparti: ci pensa lei, la Mammessa! Che ti vuol troppo bene, poverino, per consentire a un paio di colleghi pieni d’odio, che da settembre a giugno ti hanno dato il tormento (perché ritrovassi un po’ di rispetto per te stesso) d’infliggerti anche l’umiliazione di una bocciatura. E che perciò farà di tutto, in sede di scrutinio, per mettere insieme la maggioranza che te la risparmi.

 

Ma tu non sei così, lo so. Mai e poi mai ti comporteresti in quel modo. E talvolta, com’è come non è, hai la penosa sensazione ― a cui non osi credere ― che lei (per questo?!) ti voglia meno bene che agli altri.

 

Non è un brutto segno, credimi. Lo sviscerato amore della Mammessa per voi è del tutto fasullo ― anche se forse nemmeno lei lo sa ― e se per te non ne ha, o ne ha di meno, be’, significa probabilmente che le truffatrici (e i truffatori) di sentimenti intuiscono in te qualcosa che li respinge, e anche da grande ti lasceranno in pace.

 

Forse ti sarà capitato, quand’eri piccolo, di essere inseguito in un incubo da un bandito, da un tipaccio che voleva rapirti o ucciderti. E poi, se quello ti raggiungeva, di metterti a “fare il simpatico”, a fargli credere di essergli amico per rabbonirlo... Ecco, vedi: la Mammessa, in fondo, è una bambinona che da quei brutti sogni non si è mai svegliata. Solo che per lei, nell’inconsapevole incubo a occhi aperti che è la sua vita, i tipacci, i banditi, i mostri... siete tu e i tuoi compagni. Brutti ranocchi che lei ogni giorno, a furia di baci e carezze, costringe a tramutarsi in principini azzurri. Ma principini che per il suo inconscio son sempre dei mostriciattoli peggio dei Gremlins; principini che non smettono mai di desiderare di tornare a essere verdi ranocchi beatamente sguazzanti e gracidanti; verdi ranocchi che da un momento all’altro potrebbero ridiventare delle bestiacce disgustose e malvagie... E che lei, quindi ― pur non sapendo da dove mai le venga questa compulsione ― neanche un attimo può cessare di soffocare e schiacciare sotto il morbido tallone del suo amore.

 

La Mammessa non ha il fegato di calcestruzzo della Strega, la faccia di bronzo del Grande Muro Nero, lo stomaco da ruminante della Capra Giuliva. Per difendersi da voi ― lei, che agli inizi della carriera tremava, ogni volta che doveva entrare in classe, come se vedesse spalancarsi le porte dell’Inferno ― non ha che i suoi baci, le sue carezze, le sue moine. La sua immane, soffice, spugnosa cedevolezza. E ogni giorno, così, prim’ancora di sedersi alla cattedra, prim’ancora di salutarvi, la Mammessa si convince e vi persuade ― avvolgendovi nel rinnovato, tenero abbraccio dei suoi sguardi affettuosi ― che non siete i mostri che sembrate. È vero che si sofferma un po’ di meno sui bravi e un po’ di più sui birboni. Non lo fa per cattiveria: è che di questi ha più paura. Ma non esclude nessuno: c’è posto per tutti, fra le sue amorevoli braccia. Tra le quali, però, i più intelligenti e sensibili finiranno prima o poi col sentir freddo. Con l’accorgersi che son finte, mutile, di pietra. Che non c’è un corpo, attaccato a esse, e neanche una testa.

 

Lo stesso brivido che senti ora, vedendola allontanarsi in macchina senza rivolgerti uno sguardo nello specchietto retrovisore, se provi a domandarti che cosa la Mammessa ti abbia dato, che cosa ti abbia insegnato, che cosa ti resti di lei. Solo le sue coccole? Solo le sue ore sempre uguali, vuote, stucchevoli, indistinguibili come uno zuccherino da un altro se non per l’indimenticabile, vivace, caleidoscopica, presenza dei compagni? Sarà per questo che i ragazzi più in difficoltà si riempiono a poco a poco di rabbia e di disperazione, come se inconsciamente intuissero di non essere stati aiutati ma solo consolati e rassicurati, e non sapendo con chi prendersela ― certo non con lei così buona, che sempre gli ha voluto così bene! ― s’incattiviscono sempre di più, si sfogano con tutto ciò che gli capita a tiro e talvolta finiscono per allagare o riempire di vermi o dar fuoco alla scuola che a furia di baci e di carezze li ha delusi e abbandonati? Sarà perché è vuoto, che quello della Mammessa, che entra da una parte come amore, esce sempre dall’altra come odio?

 

E il bello è che allora, quando esplode la furia dei suoi alunni più fragili e sperduti, lei di solito se n’è già andata ― non rimane mai a lungo nella stessa scuola, ricordi?, s’allontana fischiettando dalla scena del crimine... ― o se ne sono andati loro, o comunque non è nei paraggi, o se c’è se la dorme. Sì, i suoi sono davvero dei delitti perfetti! Nessuno, neanche le vittime, sospetterà mai che sia stata lei, vezzeggiandole, a trascurarle fino a farle impazzire di rabbia. Nessuno oserà supporre che proprio la sua voce flautata fosse la sirena che ogni giorno annunciava che la Mammessa abbandonava la nave prim’ancora di salire a bordo, chiudendosi come in uno scafandro impermeabile nella corazza del suo sorriso, delle sue moine, della sua infinita tolleranza.

 

Coperta dalla comune consapevolezza che la Scuola non può essere feroce come lo è talvolta la vita “vera”, che la Scuola è una “simulazione” della vita reale e, in quanto tale, una preparazione a essa, come le lotte e le cacce giocose in cui taluni animali impegnano i cuccioli ― che la Scuola, insomma, è una sorta di grande Gioco ― la Mammessa il Gioco della Scuola lo vanifica e te lo rovina rendendolo troppo facile: ti spiana lei tutti gli ostacoli, risolve al posto tuo tutti gli enigmi, non ti obbliga mai a tornare al punto di partenza (perfino il Giro dell’Oca è più impegnativo della Scuola come la organizzano lei e i “riformatori” della sua pasta!) e infine ti fa passare al livello superiore come se invece fosse una discesa, un gigantesco scivolo in cima al quale lei stessa ti porta in braccio per poi buttarti giù a capofitto, abbandonarti al tuo destino e andarsene. Dove? Dove non saprà mai se ti sei sfracellato o no. Dove nessuno glielo andrà a raccontare. Dove, in ogni caso, nessun senso di colpa potrà mai raggiungerla, protetta com’è dalla certezza d’averti sempre voluto tanto, tanto, tanto bene.

 

Non riesci a crederci, vero? La Mammessa è così gentile, affettuosa, materna! Al punto che a volte ti vien quasi da pensare ― ma sentendoti un po’ in colpa ― che sarebbe bello se la tua mamma fosse come lei. Come la Mammessa, che sorride sempre; sempre morbida e spumeggiante, come una meringa; sempre così bella, profumata, ben vestita, voluttuosa; che non si arrabbia mai, non lancia occhiatacce, non rimprovera, non accampa pretese, non sa cosa sia il cattivo umore... Eppure proprio questa, vedi, è la cosa peggiore che la Mammessa ti fa! Proprio questo è l’inganno più efferato, che ti confonde le idee sul rapporto interumano insinuando a poco a poco come un virus nella tua mente l’idea che ti ami solo chi da te non si attende nulla. L’inganno che sempre più ti indurrà a fuggire le difficoltà, la ricerca, la lotta, per inseguire ― come Pinocchio nel Paese dei Balocchi ― soltanto ciò che all’apparenza va giù liscio come un soft drink. Non fidarti, ragazzo mio!, direbbe il Grillo Parlante. Come le veline non sono vere donne, anche se il trucco e le luci le rendono più belle delle donne reali, così la Mammessa non è una vera insegnante,  nonostante i suoi trucchetti da illusionista dell’amore, né tanto meno ti vuol più bene di tua madre! Ah, se una volta o l’altra tu e i tuoi compagni trovaste il coraggio di spiegarle che una mamma e una papà ce l’avete già e non ve ne servono altri! Di dirle, con tutto il rispetto: Guarda che è troppo comodo e facile, signora Mammessa, farti credere più affettuosa e perfino più buona dei loro genitori a bambini o ragazzi che in realtà ― a parte l’inconscia paura che ti mettono  ti son quasi indifferenti. Sui quali non hai sogni, né progetti, né ansie, né momenti di smarrimento, poiché nessun potere gli hai mai donato sulla tua felicità! Comodo, facile, signora Mammessa, trattarci come bestiole da addomesticare! Ma noi non siamo cagnolini, che non han bisogno che di carezze, di pappa e di andare a spasso! Siamo esseri umani, creature preziosissime e difficili, ed è per questo che chi ci ama davvero non può sorridere sempre, non riesce a essere sempre affettuoso, e talvolta si sente quasi schiacciato dall’immane responsabilità nostra, benché sia la stessa responsabilità che in mille altri momenti lo riempie di gioia e di orgoglio!

 

Ma è difficile che la Mammessa arrivi a comprendere parole come queste. Amare, per lei, significa far danzare i serpenti a sonagli al suono della sua voce flautata. Che ne sa, lei, dell’amore umano? Chi le ha mai spiegato che l’amore è reciproca realizzazione, o altrimenti non è? Quando mai è andata a cercare chi glielo spiegasse, o almeno ha trovato chi ce la mandasse? Se le parlaste così, c’è il caso piuttosto che pensi di dover raddoppiare i suoi amorevoli sforzi e v’inviti un pomeriggio tutti a casa sua! Che subito vi sembrerà troppo precisa, pulita, elegante, bella, per non essere un luogo dove gli unici sentimenti ammessi siano recitati o le repentine tragedie che rivelano la verità ai vicini attoniti; ma voi ― lo so bene ― siete così generosi che vi convincerete di non averlo notato. E lei, allora, inconsapevolmente grata della vostra soccorrevole cecità, vi abbufferà di dolci troppo barocchi perché li abbia fatti con le sue mani di cera, ma voi non ne dubito ― sarete così gentili da non scoprirlo. E vi farà giocare con i suoi bambini un po’ tristi e rabbiosi, ma che a voi ― mi par di vederlo ― non sembreranno tali poiché per una volta saranno felici giocando con voi. Mentre in un angolo, su una sedia un po’ dura e scomoda, potrà così riposarsi per qualche minuto la tata extracomunitaria che a quei bambini fa da mamma nelle ore in cui la Mammessa finge con voi di esserlo meglio della vostra, e che ogni giorno in quella casa vacilla sotto il peso non tanto della fatica, quanto dell’angoscioso dilemma se sia giusto vigilare su di loro come un automa muto, inespressivo, senza storia e senza sentimenti, o se non sarebbe invece più umano, più bello e più onesto rapirli via con sé, come un Pifferaio Magico, nel suo mondo incomparabilmente più difficile, ma spesso più vero.

 

Seduttrice e istrionica come Circe, la Mammessa ― ma il Papastro e la Giovial Compagnona non sono da meno ― finisce di trasformare in asinelli o in botoli ringhiosi i bambini e i ragazzi che le arrivano già troppo indeboliti per resisterle. E intanto li culla, ingannevolmente materna, in un rapporto che sembra umano e invece è una sorta di droga. Leggera? Leggerissima. E micidiale.

 

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"Il Settimo Sigillo", di Ingmar Bergman (1957): coi falsi insegnanti è meglio non danzare!

Coi falsi insegnanti è meglio non danzare!

 

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