domenica 10 ottobre
Sarebbe
migliore l’Italia se nel 1945 i fascisti fossero stati
ammazzati tutti?
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Diciamo sùbito
che l’unica risposta possibile alla
domanda del titolo è no. Perdonare i fascisti, in
camicia nera o in abito talare, a giudizio di chi scrive
fu un errore gravissimo, che
continuiamo a scontare. Ma vendicarsene sarebbe
stato un errore altrettanto grave, e non l’avremmo
scontato di meno.
Cosa, dunque, si sarebbe dovuto fare?
Cosa si dovrà fare?
Due libri ci hanno indotto a
interrogarci su questi temi: uno del 2009, l’altro del
1960.
“«L’Italia
è un Paese perduto, senza possibilità di riscatto,
moralmente annientato. Qualsiasi impegno è inutile;
sprofondiamo in un medioevo senza ritorno. Ho raggiunto
il limite. Ho cominciato con l’indignazione per
l’immobilità della classe dirigente, per le continue
ingerenze della Chiesa nella vita politica e, a poco a
poco, la mia sensibilità si è fatta più acuta: alla fine
mi bastava accendere la televisione per avvertire
fortissimo il desiderio di non essere più italiano, di
rinnegare un Paese che delega cantanti e ballerine a
discutere del suo futuro. Ora sento che potrei davvero
bruciare il mio passaporto»” (p. 24).
“«Vorrei
che comprendeste uno dei temi centrali del nostro corso,
il tema che potremmo chiamare
dell’emorragia. L’emorragia di forze produttive, di
forze essenziali per lo sviluppo e il rinnovamento è una
costante della storia italiana (...). L’Italia
pare destinata a generare, a intervalli regolari, le
condizioni per lo sviluppo di grandi intelligenze
inidviduali e collettive. Al tempo stesso però, proprio
al manifestarsi del cambiamento, sia esso politico,
sociale o persino scientifico, il Paese sembra far
prevalere istanze di conservazione come la repressione,
il fascismo o la mafia, che inducono gli innovatori a
desistere o a fuggire lontano. Nella seconda metà
dell’Ottocento almeno due milioni di Italiani emigrano
in Argentina: tra loro, insieme alla massa dei
disperati, vi sono intellettuali anarchici ed esponenti
del movimento operaio, gente che ha capito in quale
direzione stia andando il progresso e che, per quanto
lontana dalla Chiesa, conosce perfettamente la sentenza
evangelica: nemo propheta in patria»” (pp 34-35).
“«Nella
scorsa lezione, parlando dell’emigrazione italiana di
fine Ottocento, abbiamo affrontato il tema che ho
chiamato
dell’emorragia, dicendo che spesso le rigidità del sistema
politico e sociale hanno indotto alla fuga le forze
progressiste. In particolare, nel rapporto tra Italia e
Argentina abbiamo testimonianze storiche che attestano
le facilitazioni del governo Crispi per quei
sovversivi, per quegli internazionalisti che
sceglievano di stabilirsi nel vostro Paese liberando
così la madrepatria del pesante fardello del loro
attivismo»” (p. 43).
“«Nel 1973 Licio Gelli era l’uomo di
cerniera tra l’industria bellica italiana e il governo
argentino. I militari lo riverivano come un ambasciatore
e Perón
lo chiamava
mio comandante. La sottomissione di Perón a Gelli non
me la sto inventando, la riferisce Andreotti, che
partecipa a una cena privata con Perón, la moglie
Isabelita e Gelli: solo loro quattro. Gelli associa
Massera alla P2 e convince Perón a metterlo a capo della
marina, anche se c’erano altri dieci ufficiali più in
alto nella scala gerarchica»”
(p. 92).
“«Efrem,
io sto impazzendo perché mi manca quel pezzo di ricordo,
mi manca il dettaglio della sua morte. Ogni tanto mi
siedo nel patio, nelle giornate limpide, e quando sento
passare un aereo guardo in alto e appena lo vedo inizio
a immaginare che nella carlinga si apra un portellone e
che dalla pancia dell’aereo esca un grappolo di uomini.
La mia fantasia è così forte che riesco a vederli:
alcuni di loro precipitano come sacchi, come manichini,
sono quelli su cui il sedativo ha fatto più effetto. Gli
altri però si agitano, mulinano le gambe e le braccia e
sono quasi comici nel loro tentativo di opporsi alla
caduta. Sono quelli che si sono svegliati troppo presto.
Lo sai, Efrem, che c’erano ufficiali che facevano la
cresta sul sonnifero da iniettare ai condannati a morte?
Invece di usare una fialetta ciascuno lo diluivano e una
fiala bastava per quattro o cinque persone. Quelle che
avanzavano le rivendevano alle farmacie. Così la gente
si svegliava proprio mentre stava per essere scaricata
nell’Atlantico»”
(pp 114-115).
“«Quello
lì davanti è l’ammiraglio Massera. Ti dice qualcosa il
suo nome? Videla, Massera, la giunta militare.
(...) Questo è Licio Gelli.
È un uomo accusato di delitti atroci, uno che si dice
abbia organizzato colpi di Stato, attentati. Era il Gran
Maestro della loggia massonica a cui erano iscritti
tutti i farabutti che hanno rovinato il mio Paese. E
anche il tuo. Uno che vendeva armi in tutto il mondo e
che comandava perfino Perón. L’Università Gesuitica di
Buenos Aires gli ha dato una laurea
ad honorem e magari quello è proprio il giorno della
cerimonia. (...) Hai un’idea di quanto abbiano
collaborato con la dittatura i vescovi argentini? E più
in là c’è (...) Pio Laghi, il nunzio apostolico,
il legame diretto tra la dittatura e papa Paolo VI»”
(pp 174-175)
“«Quando
vuoi capire se un uomo è cresciuto in uno Stato libero
oppure sotto un regime poliziesco, basta che tu conti il
numero di domande che pone a uno sconosciuto e,
naturalmente, il numero di risposte che dà a uno
sconosciuto. E non importa se nel Paese in cui ora vive
esistano o meno le libertà democratiche; ciò che conta è
la situazione ai tempi della sua adolescenza, dell’età
in cui si comincia ad assumere il coraggio consapevole
delle proprie parole.
(...) Efrem, che aveva vissuto la sua giovinezza
nell’Italia della Prima Repubblica, non aveva ancora
capito che la gente, in Italia come in Argentina, oggi
ha paura a esprimere opinioni che vadano al di là della
fede calcistica o delle preferenze musicali»”
(p. 188).
“«Dovevamo
salvare l’Argentina dall’ateismo, dai senza Dio.
(...) L’Argentina è sempre stata minacciata dai
comunisti.
È per creare una barriera contro i comunisti che il
cardinale Caggiano organizzò il passaggio nel nostro
Paese dei nazisti condannati a Norimberga. Caggiano,
arcivescovo di Buenos Aires e vicario castrense, non
dimenticarlo. Superiore diretto di tutti i cappellani
militari. Assieme al cardinale Tisserant procurarono i
documenti ai tedeschi e ai patrioti francesi che fino
all’ultimo avevano creduto nel maresciallo Pétain. E sai
chi era che dirigeva la seconda divisione del
Segretariato di Stato vaticano incaricata di rilasciare
i documenti di identità ai rifugiati e agli apolidi?
Montini, il futuro Paolo VI. E me lo ricordo come se
fosse ieri quando l’ammiraglio Massera incontrò Paolo
VI:
Il Santo Padre è rimasto piacevolmente impressionato
dalla personalità dell’ammiraglio Massera e dai temi
della loro conversazione. Questo dicevano i
telegrammi che giungevano da Roma e questo ripeteva il
nunzio apostolico, Pio Laghi. Era stato Pio Laghi a
propiziare l’incontro tra l’ammiraglio e il papa. Laghi
e Massera giocavano a tennis insieme tutte le settimane,
erano grandi amici. Adesso capisci perché non ho niente
da rimproverarmi? Agivamo con il consenso del vescovo,
del papa, di Dio»” (pp 218-219).
Sono brani di Per vendetta, curioso e
interessante romanzo di Alessandro Perissinotto edito da
Rizzoli un anno fa, nell’ottobre del 2009. Perissinotto,
nato a Torino nel 1964, insegna Teorie e tecniche della
scrittura all’Università di Torino. In un’appendice al
romanzo, intitolata La verità e la finzione,
afferma: “«Tratto da una storia vera», quando
troviamo questa avvertenza nei titoli di testa di un
film o sulla fascetta di un libro ci disponiamo a una
visione più attenta, a una lettura più meditata; ci
sembra che la vicenda tratta da una storia vera abbia
più valore e sia più sincera di quella che è frutto di
un’invenzione. Questo libro non è «tratto da una storia
vera» perché, da quando dire la verità è diventato così
difficile, la realtà preferisco raccontarla con la
finzione: come dice Sciascia, «le opere letterarie sono
quelle che meglio del saggio o dell’inchiesta
raggiungono un pubblico più vasto». Però la storia vera
si affaccia qui a ogni pagina, si intreccia
indissolubilmente con quella che ho inventato. Forse è
inutile precisarlo, ma proprio le affermazioni più dure,
quelle più incredibili, proprio le tesi più deliranti a
sostegno della tortura e proprio i coinvolgimenti più
impensabili della Chiesa cattolica appartengono alla
realtà” (e l’appendice, infatti, è seguita da un
elenco di documenti ufficiali e di precisi riferimenti
storici).
Il fascismo non può non essere criminale, sostiene Efrem
Parodi, protagonista di Per vendetta,
“trentacinque anni, professore di Storia contemporanea
nella Piccola Città, nel nord-ovest dell’Argentina,
arrivato in America del Sud inseguendo il miraggio di un
Nuovo Mondo e per dimenticare il proprio passato e lo
squallido presente dell’Italia”. E la Chiesa non può
non essere fascista, dice il prete torturatore che di
Efrem è il principale antagonista. Ma il fascismo e la
Chiesa, in Argentina e in Italia, avrebbero commesso
meno crimini e fatto meno danni se nel 1945, in Italia,
le cose fossero andate diversamente? Se, per esempio,
gli individui come Licio Gelli e Pio Laghi fossero morti
quello stesso anno?
“Doveva parlare dell’amnistia Togliatti per i crimini
fascisti e sapeva che certe analogie con la storia
argentina recente, certe sovrapposizioni tra quella
legge italiana del 1946 e la legge dell’«Obbedienza
dovuta» promulgata da Alfonsin nel 1987, avrebbero
potuto spargere sale su ferite aperte. (...) Nel
preparare la lezione aveva scelto di privilegiare i
documenti, di far parlare i protagonisti della vicenda,
affinché la sua posizione potesse rimanere defilata e il
suo intervento non venisse interpretato come un giudizio
sull’amnistia di cui avevano beneficiato i criminali
della giunta militare. Ne risultò un discorso fatto
praticamente di sole citazioni.
«Per comprendere pienamente la portata, anche
nefasta, dell’amnistia Togliatti, occorre provare a
calarsi nel clima dell’immediato dopoguerra. Anche se
non mi sentirete mai parlare di guerra civile in Italia,
perché con le truppe di occupazione naziste dentro i
confini nazionali questo suona ridicolo, non si può
negare che l’ultima fase del conflitto, intendo dall’8
settembre in poi, oppose Italiani a Italiani, lacerando
il tessuto umano della nazione. Già prima dell’avvento
della Repubblica, i Savoia avevano fatto sapere, per
mezzo del loro portavoce, che un’amnistia per i reati
politici sarebbe stata auspicabile per ricomporre i
dissidi interni. (...) Questo è il testo letto
alla radio per conto del re da Falcone Lucifero: Il
gesto di clemenza che attraverso una larga amnistia
abbracciante i reati dei partigiani e quelli degli
ex-gregari fascisti era ed è nell’intenzione del nuovo
re (e anzi voleva esserne il suo primo atto), questo e
questo solo voleva dire: Italiani, fratelli,
dimentichiamo le passate divisioni, dimentichiamoci le
lotte intestine che han fatto piangere tante madri,
ritroviamoci di nuovo fratelli pacifici e non più
rissosi. L’atto di clemenza che i Savoia chiedono
sembra rivolto innanzitutto a loro stessi, ed è
soprattutto l’invito a dimenticare che carica tutto il
discorso di imperdonabile ipocrisia: auspicano qualcosa
di più di un’amnistia, chiedono un’amnesia. Vogliono
cancellare il ricordo della loro non-opposizione al
fascismo, della loro collaborazione, delle leggi
razziali controfirmate dal re, fino ad arrivare al
ricordo della fuga ingloriosa e della loro sostanziale
incapacità a regnare. Notate poi come i reati dei
partigiani vengano sùbito associati a quelli dei
fascisti, anzi, come vengano elencati prima di quegli
altri. La preoccupazione non è la giustizia, ma un
generico appello alla fratellanza, o come direbbero in
Italia con calco romanesco, a un volemose bene.
La domanda a cui cercherò di rispondere adesso è la
seguente: tra la legge Togliatti e il colpo di spugna
desiderato dai Savoia, ci sono sostanziali differenze?
La risposta è duplice. Da un lato possiamo affermare
che il richiamo alla pacificazione nazionale fatto
proprio dalla monarchia è condiviso da quasi tutte le
forze politiche; dall’altro, però, dobbiamo riconoscere
che i legislatori repubblicani non pensano affatto a una
sorta di pietra tombale da mettere sul passato e sono
ben attenti a distinguere tra reati minori e reati
gravi. Sentite queste parole di Togliatti: Vi è
infatti una esigenza non solo giuridica e politica, ma
morale, di giustizia, per cui coloro che hanno commesso
delitti, la cui traccia è lungi dall’essere stata
cancellata, contro il Paese tradito e portato alla
rovina, contro le libertà democratiche, contro i loro
concittadini, o contro i più elementari doveri di
umanità, devono continuare a essere puniti con tutto il
rigore possibile. Un disconoscimento di questa esigenza,
anziché contribuire alla pacificazione, contribuirebbe a
rinfocolare odii e rancori.
La riprova di questa volontà di giustizia,
fondamentalmente estranea all’iniziativa monarchica, è
nell’articolo 3 della legge, che esclude dai benefici
dell’amnistia i reati che siano stati compiuti da
persone rivestite di elevate funzioni di direzione
civile o politica o di comando militare, ovvero siano
stati commessi fatti di strage, sevizie particolarmente
efferate, omicidio o saccheggio. Concentriamoci su
queste parole: sevizie particolarmente efferate.
(...) Cosa ne direste se vi leggessi qualche
stralcio di sentenze della Cassazione secondo le quali
non possono considerarsi sevizie particolarmente
efferate le percosse ai genitali o le ferite con un
coltello sotto le unghie? Oppure se vi raccontassi
dell’applicazione dell’amnistia a un ufficiale delle
Brigate Nere che, dopo aver interrogato una partigiana,
la fa violentare bendata da tutti i suoi squadristi? Per
la corte, lo stupro di gruppo non costituisce
sevizia e tanto meno sevizia particolarmente efferata,
ma soltanto la massima offesa al pudore e all’onore di
una donna, anche se essa abbia goduto di una certa
libertà essendo staffetta dei partigiani. Avete
capito? Se quella ragazza fosse stata una verginella
Figlia di Maria forse il reato sarebbe stato più grave,
ma poiché era una donna libera lo stupro non solo
non è considerato sevizia, ma non è neppure un così
grande attentato all’onore.»”
A questo punto Efrem “si accorge di quanto sia
ridicolo il suo tentativo di tenere separate le due
storie, come se la Storia non fosse una sola, come se la
mancata punizione dei criminali fascisti italiani non
avesse avuto ripercussioni sulla nascita della dittatura
argentina”. E continua:
“«A beneficiare dell’amnistia furono persino alcuni
componenti della banda Koch. Non ho il tempo per
affrontare compiutamente il caso, vi espongo solo le
linee essenziali. Pietro Koch fu al comando di un
reparto speciale della polizia fascista che si macchiò
di crimini orrendi, dalla consegna alle
SS
di innocenti da fucilare alle Fosse Ardeatine fino alla
tortura. A Milano avevano requisito un’intera palazzina
e l’avevano trasformata in quartier generale, con tanto
di filo spinato, celle e sale di supplizio. Nel corso
degli interrogatori i prigionieri politici erano presi a
calci, sbattuti contro il muro. Con una scopa li
tenevano fermi e aprivano l’acqua bollente della doccia,
poi li facevano correre nudi fino alle celle, in mezzo a
due file di poliziotti che li manganellavano. Pare che
uno degli scagnozzi di Koch, un frate, padre Ildefonso,
suonasse canzonette napoletane al pianoforte per coprire
le urla degli interrogati. Bene, proprio padre Ildefonso
fu tra quelli che la scamparono e che vennero in America
del Sud a diffondere, se mai ce ne fosse stato bisogno,
il verbo del totalitarismo. Alcuni di loro furono
persino riabilitati, cioè videro completamente
cancellate le loro colpe».
(...).
“«Vi leggo ora l’incipit di una lettera che,
il 28 giugno del 1946, i partigiani bellunesi inviarono
al ministro Togliatti: Signor ministro, le inviamo
la seguente istanza perché siamo certi che lei ci
comprenderà, essendo lei un comunista come noi. Lei
signor ministro ha fatto scarcerare tutti i fascisti,
con delitti sulle loro coscienze, gente che certamente
andrà a rafforzare le file dei neofascisti. Ci
domandiamo noi partigiani: è giustizia questa? Abbiamo
combattuto i fascisti perché? I nostri sacrifici non
sono certamente da lei riconosciuti, i nostri martiri
non son vendicati!»” (pp 81-86).
Alla fine i protagonisti di Per vendetta, Efrem e
la sua giovane allieva argentina Alicia, non hanno più
dubbi su ciò che si sarebbe dovuto fare in Italia nel
1945 e su ciò che, non essendo stato fatto in Italia, si
sarebbe dovuto fare nella seconda metà del ’900 in Sud
America. I fascisti dovevano essere giustiziati tutti,
dal primo all’ultimo. Solo il loro sterminio avrebbe
messo fine al micidiale “contagio” che il fascismo
mussoliniano aveva propagato nel mondo a partire dalla
fine della Grande Guerra e che l’Italia repubblicana,
nata dalla Resistenza, invece non osò o non seppe
estirpare, con le tragiche conseguenze che ben
conosciamo ― di abissale, incurabile inciviltà, di
dilagante oscurantismo morale e civile, di complotti, di
stragi ― che sono sotto i nostri occhi ancora oggi e che
a partire dal nostro Paese si vanno nuovamente
diffondendo in Europa e nel mondo. È Alicia ad
affermarlo per prima: interrompendo la lezione di Efrem,
si alza e gli legge questo brano di Una questione
privata, romanzo che il partigiano Beppe Fenoglio
scrisse (forse non a caso) nel 1960 del famigerato
governo Tambroni e dei moti di Genova:
“Erano cinque o sei uomini di quella collina che,
riparati nel bosco, spiavano le mosse dei fascisti
laggiù in Santo Stefano. Erano tutti ammantellati e uno
portava a tracolla una coperta arrotolata. Avevano anche
fagottini di roba da mangiare. Se i soldati avessero
puntato di sorpresa alla loro collina, essi erano pronti
ed equipaggiati per fuggire e restar lontani per
ventiquattro ed anche quarantott’ore.
Senza parlare, solo guardando di sottecchi la sua
straordinaria infangatura, tornarono ai loro
osservatorî, indifferenti allo stillicidio che gli
infradiciava i berretti e le spalle. Il più anziano di
loro, ed anche quello che sembrava sopportare con più
buon umore la situazione, un uomo con capelli e baffi
bianchi e occhi umorosi, domandò a Milton: «Quando dici
che finirà, patriota?»
«Primavera,» rispose, ma la voce gli uscì troppo rauca e
falsa. Diede un colpo di tosse e ripeté: «Primavera».
Allibirono. Uno bestemmiò e disse: «Ma quale primavera?
C’è una primavera di marzo e una primavera di maggio».
«Maggio,» precisò Milton.
Rimasero tutti sbalorditi. Poi il vecchio domandò a
Milton come avesse fatto ad infangarsi così.
Milton arrossì, inspiegabilmente. «Sono caduto in
discesa e sono scivolato di petto per molti metri».
«Verrà pure quel giorno,» disse il vecchio guardando
Milton con troppa intensità.
«Certo che verrà,» rispose Milton e richiuse la bocca.
Ma il vecchio insisteva a fissarlo con un’avidità
insoddisfatta, forse praticamente insaziabile. «Certo
che verrà,» ripeté Milton.
«E allora,» disse il vecchio, «non ne perdonerete
nemmeno uno, voglio sperare».
«Nemmeno uno,» disse Milton. «Siamo già intesi».
«Tutti, tutti li dovete ammazzare, perché non uno di
essi merita di meno. La morte, dico io, è la pena più
mite per il meno cattivo di loro».
«Li ammazzeremo tutti,» disse Milton. «Siamo d’accordo».
Ma il vecchio non aveva finito. «Con tutti voglio dire
proprio tutti. Anche gli infermieri, i cucinieri, anche
i cappellani. Ascoltami bene, ragazzo. Io ti posso
chiamare ragazzo. Io sono uno che mette le lacrime
quando il macellaio viene a comprarmi gli agnelli.
Eppure, io sono quel medesimo che ti dice: tutti, fino
all’ultimo, li dovete ammazzare. E segna quel che ti
dico ancora. Quando verrà quel giorno glorioso, se ne
ammazzerete solo una parte, se vi lascerete prendere
dalla pietà o dalla stessa nausea del sangue, farete
peccato mortale, sarà un vero tradimento. Chi quel gran
giorno non sarà sporco di sangue fino alle ascelle, non
venitemi a dire che è un buon patriota».
«State tranquilli,» disse Milton muovendosi. «Siamo
tutti d’accordo. Piuttosto di pensare di perdonarne uno
solo...»
Passò via senza completar la frase e prima che fosse
fuori portata sentì uno di quei contadini dire
pacificamente: «Non è strano che a quest’epoca non abbia
ancora nevicato?»
(Beppe Fenoglio, Una questione privata, Torino,
Einaudi, 2006, pp 81-82).
Ammazzare o perdonare? Oggi che, da Destra e da Sinistra
― o, per meglio dire, dall’estrema Destra che
ormai è la stragrande maggioranza della Destra italiana
e da quella parte della Sinistra che sarebbe più esatto
chiamare “sinistra”, fra virgolette e con
l’iniziale minuscola ― si riscrive la Storia a favore
dei “ragazzi di Salò” e si accusano i Partigiani di
indiscriminati massacri e la neonata Repubblica italiana
di aver bandito e perseguitato per decenni fascisti e
“repubblichini” con spietata ostinazione, è doveroso
ribadire fino a sfiatarsi che è vero esattamente
l’opposto: la Repubblica perdonò tutto e tutti, perdonò
il perdonabile e l’imperdonabile, e permise così a
decine di migliaia di criminali e pervertiti (altro che
“ragazzi”!) di tornare a inquinare indisturbati la vita
culturale, economica e politica del Paese: Applicata
con grande larghezza di interpretazione (a cui si
prestavano alcune espressioni del provvedimento stesso,
forse per la fretta con cui era stato preparato)
l’amnistia del giugno 1946 ebbe come risultato la
scarcerazione di quasi tutti i fascisti in prigione e
poi la revisione a favore dei fascisti stessi di molti
processi che si erano precedentemente conclusi con
condanne severe molto spesso meritate. E questi fatti,
insieme alle persecuzioni che negli anni successivi vi
furono contro gli ex partigiani, resero la situazione
generale del Paese assai pesante per molti antifascisti
ed ex combattenti della guerra di liberazione
(Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna,
vol. XI, La fondazione della Repubblica e la
ricostruzione. Considerazioni finali (1945-1950),
Milano, Feltrinelli, 1988, p. 78).
Il ministro della Giustizia era Palmiro Togliatti,
segretario del Partito comunista italiano, e l’amnistia
del ’46 è quindi passata alla Storia come amnistia
Togliatti anche se del governo che la decise,
presieduto dal democristiano Alcide De Gasperi, facevano
parte i rappresentanti di tutti e sei i partiti
antifascisti, compreso il Partito d’azione. Ma i
protagonisti di quella decisione furono soprattutto
democristiani, socialisti e comunisti, che nel governo e
nell’assemblea Costituente erano di gran lunga
maggioritari avendo ottenuto, insieme, il 74% dei voti
alle elezioni del 2 giugno. E democristiani, socialisti
e comunisti, decidendo per l’amnistia, furono tutti
ugualmente succubi di un’ideologia religiosa ―
prim’ancora che di una Chiesa e di un papa, Pio XII,
pesantemente compromessi con il fascismo e il nazismo ―
che in duemila anni non è mai riuscita neanche a
immaginare che perdono e vendetta non
siano le uniche alternative di rapporto possibili nei
confronti di chi “pecca” e commette crimini.
Come potrebbe essere altrimenti? Non è questione solo
del Cattolicesimo: non c’è religione al mondo, in
realtà, che fantasticando l’esistenza di un divino
superiore all’umano non si fondi e non diffonda l’idea
dell’assoluta inferiorità dell’Essere umano non
solo dinanzi al divino, ma altresì dinanzi a ogni altro
essere vivente che di un Dio sia invece in grado di fare
a meno. E quindi non c’è religione al mondo che abbia
mai anche solo immaginato, per gli Esseri umani e le
Società colpiti da malattia mentale, la possibilità
di una cura: che abbia mai anche solo immaginato,
cioè, che gli Esseri umani e le Società malati possano
trasformarsi e realizzarsi diversi, liberi
dalla religione medesima e dalla follia fascista e
nazista ― quale che sia il nome che l’una o l’altra
epoca le dà ― che riempiendoli di bugie e d’odio di sé e
degli altri li rende, di sé e degli altri, i mortali
nemici: homines hominibus lupi. Poiché gli Esseri
umani e le umane Società, nella mistificazione che ne
fanno e ne predicano la religione “nostra” e tutte le
altre, sono creduti privi dell’immaginazione creativa
che li distingue dagli altri animali ― solo Dio
sarebbe capace d’immaginare e creare ― e dunque come
potrebbero immaginarsi e realizzarsi migliori? Alla
stregua di ogni altro animale, anche l’Essere umano, per
le religioni, può solo essere controllato e “corretto” a
forza di lusinghe e di minacce, premi e punizioni,
Paradisi e Inferni. E quando “pecca”, o commette
crimini, il rapporto degli altri con lui non ha altra
scelta che fra il perdono e la vendetta:
che certo sono esiti non uguali per chi li subisce, ma
che sono invece del tutto identici nel far credere
impossibile la trasformazione individuale e collettiva,
e dunque altrettanto disperanti e mortiferi per le
Società che credendola impossibile delirano di non
essere capaci di immaginare e realizzare il nuovo.
Cosa, dunque, si sarebbe dovuto fare nel 1945? Cosa, in
futuro, si dovrà fare?
Nel 1945 non ci sarebbe dovuto essere perdono,
questo è certo. Per nessun fascista, poiché anche
un solo fascista perdonato è un fascista
abbandonato dalla Società, cioè quasi certamente
costretto a rimanere fascista per tutta la vita e a
continuare a produrre e a diffondere fascismo in
misura via via crescente e sempre meno resistibile a
mano a mano che la Società, non curata, torna a produrre
le situazioni nei confronti delle quali il fascismo,
cambiato nome, appare a sempre più individui, non
curati, la vendetta che sarebbe l’unica alternativa al
perdono. Ma nemmeno ci sarebbe dovuta essere vendetta,
questo non è meno certo. Per nessun fascista,
poiché anche un’unica vendetta su un fascista non può
che rendere altrettanto e più fascisti gli individui e
le Società che la consumano, condannandoli a riprodurre
e a diffondere in misura via via crescente e sempre
meno resistibile situazioni nei confronti delle
quali sempre più individui, non curati, vedono il
fascismo, cambiato nome, come l’unica alternativa al
perdono.
Nel 1945, a giudizio di chi scrive, i fascisti, quale
che ne fosse l’età anagrafica e la condizione
lavorativa, avrebbero dovuto essere tutti pensionati
dallo Stato (naturalmente, per quanti di loro avevano
commesso crimini, solo dopo aver scontato le pene
detentive loro comminate attraverso regolari processi) e
messi così in condizione di vivere dignitosamente e
serenamente per il resto della vita, o comunque fino a
quando non si fosse trovata una cura alla loro malattia
ed essi avessero dato prova di desiderare sinceramente
di essere curati. Liberi di andare e venire. Ma
esclusi da tutte le professioni e da ogni attività
lavorativa, anche umile. Esclusi da ogni rapporto o
contatto con gli altri, e quindi da ogni possibile
relazione umana ― ivi compresa, ovviamente, la
partecipazione al confronto delle idee e alla vita
culturale e politica del Paese ― fatte salve le
relazioni indispensabili alla sopravvivenza come, per
esempio, il diritto di rivolgersi a un medico in caso di
malattia. I cittadini italiani, inoltre, cioè i non
fascisti, avrebbero dovuto essere avvertiti, e da quel
momento istruiti fin dall’infanzia, che ogni contatto
con un fascista, oltre che vietato dalla legge, sarebbe
potuto essere pericoloso per la loro salute mentale. E
tutto ciò si sarebbe dovuto protrarre, come si fa con le
malattie contagiose, fino a quando al fascismo ― quale
che ne fosse il nome in futuro ― non si fosse immaginata
e trovata una cura, e prim’ancora fino a quando non si
fossero debellate le religioni e le “filosofie” che
impediscono d’immaginarla e di trovarla. Sarebbe stata
vendetta? E peggiore della morte? Forse no. Magari, al
contrario, un’esclusione di tal fatta sarebbe stata
essa stessa una cura, o almeno la sua intuizione,
già per il solo fatto di aver osato immaginarla e
imporla e ― i fascisti ― accettarla e subirla. E magari,
come ogni cura, entro un certo lasso di tempo essa
avrebbe dispiegato i propri benefici effetti e da sé si
sarebbe resa non più necessaria. |