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Il rogo di Berlino
1995
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Il nazismo come odio e disprezzo per i bambini |
La copertina del libro. |
Adolf Hitler è solo un bohémien vanitoso che viene dalla strada. Che alcuni lo temano, ecco una cosa che veramente va al di là della mia comprensione.
(Stralcio di un discorso pronunciato dal Presidente del Reich, Hindenburg, in occasione di una riunione con il generale Schleicher e il vescovo di Münster, il 4 febbraio 1931.) |
Vienna, primavera 1971.
Salimmo in fretta le scale del vecchio palazzo viennese e il cuore mi batteva così forte che non fui capace di suonare il campanello. Lo fece Renzo, mio figlio. L’avevo cercata a lungo e ora, a distanza di trent’anni da quando mi aveva abbandonata in una Berlino già molto scossa dalla guerra, avevo ritrovato mia madre; viveva a Vienna, nella sua città. Io, invece, nata in Polonia, vissuta nella Germania nazista e rimpatriata in Austria (paese natio anche di mio padre), ormai mi ero stabilita in Italia; avevo un marito e un figlio. Quando la porta si aprì, vidi una donna che mi somigliava in modo impressionante. L’abbracciai piangendo, sopraffatta da un’incredula felicità e pronta a comprendere, a perdonare, a mettere una pietra sul passato. Lei iniziò subito a parlare, a parlare di sé. Nessun tentativo di giustificare il suo abbandono, nessuna spiegazione. Raccontava. Molti anni addietro l’avevano arrestata nel campo di concentramento di Birkenau, dove faceva la guardiana. Vestiva un’impeccabile uniforme “che le stava così bene.” Non erano ancora passati venti minuti che già apriva un maledetto armadio per mostrarmi, nostalgica, quella stessa uniforme. “Perché non te la provi? Mi piacerebbe vedertela addosso.” Non la provai, ero confusa e turbata. Ma ciò che disse subito dopo fu anche più grave dell’aver rinnegato il proprio ruolo di madre. “Sono stata condannata dal Tribunale di Norimberga a sei anni di carcere come criminale di guerra, ma ormai non ha più nessuna importanza. Col nazismo ero qualcuno, dopo non sono stata più niente.” Mi raggelò. E se lei, nel 1941, aveva deciso di non volere questa figlia, ora ero io a non volere questa madre! Io e mio figlio tornammo in Italia col primo treno. Renzo piangeva deluso. Come avrei potuto spiegargli il motivo per cui io non avevo trovato una madre né lui una nonna? Aveva solo cinque anni. Perdetti mia madre per la seconda volta. Non so se sia ancora viva. Ogni tanto qualcuno mi chiede se l’ho perdonata.
(pp 9 - 10)
Berlino, autunno 1941.
Mia madre era una signora bionda che gridava Sieg Heil! quando Adolf Hitler si esibiva nei suoi comizi. Talvolta portava anche me, e un giorno mi smarrì tra la folla, ritrovandomi solo quando la piazza si fu svuotata. Mia nonna me lo raccontava molto spesso, caricando le parole di tutto l’odio che nutriva per quella nuora. Dopo la nascita di mio fratello Peter, mia madre scoprì di aver sbagliato carriera. Ben presto si convinse che servire la causa del Führer fosse più onorevole dell’allevare i propri figli; così ci abbandonò entrambi in un appartamento di Berlin-Niederschönhausen e si arruolò nelle SS. Era l’autunno del 1941 e le forze tedesche se la passavano male sul fronte russo. Ci accolse zia Margarete, la sorella di mio padre, partito da tempo per il fronte. Lei viveva in una villa a Berlin-Tempelhof e aveva una figlia, Eva. Era sposata con un conte, anch’egli in guerra. Nella villa di mia zia si ignorava che cosa fossero gli alimenti razionati; sulla tavola c’era sempre una grande abbondanza di tartine al fegato d’oca, salumi assortiti, succo di mele e pane fresco. Spesso mi abbuffavo a più non posso, per poi vomitare subito dopo sotto gli occhi costernati della zia. Io avevo quattro anni, mio fratello Peter diciannove mesi. Un giorno zia Margarete spedì due cablogrammi: uno a mio padre, con cui lo informava della fuga della moglie, notizia questa che gli causò un’itterizia; l’altro alla nonna paterna che, seduta stante, affidò il proprio già malridotto podere alla sorella maggiore per precipitarsi dalla travagliata Polonia nell’altrettanto travagliata Berlino. Mia nonna arrivò col suo odore di pollaio e di biscotti ai semi di anice, posò la borsa da viaggio e l’ombrello sul bordo della piscina vuota, gettò uno sguardo sprezzante al maggiordomo in livrea coi baffetti alla Hitler che ossequiava la zia con ridicolo zelo, e si mise a imprecare come uno stalliere. Definì mia madre una Nazihure, una troia nazista, e cominciò a discutere del nostro destino. Aveva le idee chiare.
(pp 11 - 12)
Berlino, autunno 1944.
“No,” ribadisco, “non voglio venire nel bunker del Führer!” “Sei stupida!” sbraita Peter. “Anche tu!” Mio fratello mi fissa incredulo, e il suo viso si sta sempre più rabbuiando. Non riesce proprio a concepire che qualcuno possa non condividere la sua passione per il Führer. E con tono di stizza astiosa mi dice: “Invece dovrai venirci, (...), vedrai!” “Non ci vengo!” grido, indignata per la sua prepotenza. “Non ci vengo perché il Führer è cattivo! Non voglio vedere il Führer perché manda i bambini nei campi di concentramento e fa bruciare i libri degli scrittori!” Peter mi lancia uno sguardo sconcertato come se gli avessi fatto a pezzi un idolo e protesta, furioso: “Nei campi di concentramento ci vanno solo i bambini ebrei, ma noi non siamo bambini ebrei!” E si mette a tirare calci a un buffet coi cristalli già frantumati. (...) Mi sento debole, sola e infelice. Nessuno mi vuole bene. Volevo restare con la nonna, e invece mi hanno costretta a vivere con la matrigna che non mi sopporta. (...) Voglio un cielo azzurro, non attraversato dagli uccelli neri. Voglio respirare un’aria che non sappia di cadaveri e notti che non esplodano sopra la mia testa. Voglio un Dio che fermi la guerra! Voglio vedere il mare. Dicono che è grande, azzurro e puro. Voglio vedere una spiaggia. Dicono che quelle del Mar Baltico siano bianche, con morbide dune dietro le quali si allineano verdi strisce di pini. Dicono che in tempo di pace la gente va in vacanza. Voglio andare in vacanza! Voglio andare al mare! E invece è confermato che andremo nel bunker della Cancelleria del Reich. Sotto terra! Una vacanza da talpa.
(pp 60 - 61 e 67 - 68)
Berlino, dicembre 1944.
(...) Tubature per il riscaldamento, il ronzio dei ventilatori. Voci indistinte giungono da tutte le direzioni, si sentono dei rumori attutiti che non riusciamo a identificare, si vedono porte d’acciaio. Mi sembra di essere in un labirinto. Alla fine ci arrestiamo dinanzi a un posto di blocco, dove staziona un gruppo di donne SS; sono bionde e si somigliano tutte. Marianne deve firmare un registro, scambia due parole con una ragazza con la faccia da Gretel, ed entrambe fanno alcune battute in dialetto berlinese; poi proseguiamo. Mi sento frastornata. Da più parti squillano dei telefoni; ho un lieve senso di panico, un piccolo attacco di claustrofobia che però passa subito. Peter ha rinunciato a scalciare e si guarda intorno con occhi sbarrati. Giungiamo in una sorta di saletta d’attesa; Hitler ci fissa da un immenso ritratto: baffetti accuratamente tagliati, sguardo pungente, sembra che voglia ipnotizzarci. Goebbels, sull’altra parete, ha un’espressione ufficiale ― è lui il responsabile delle missioni speciali di Hilde ― ; siamo circondati da grandi croci uncinate. Ci raggiunge un’altra donna SS, grida Heil Hitler!, noi rispondiamo Heil Hitler! Poi chiede a Marianne: “Il tragitto si è svolto senza incidenti?” Lei risponde: “Come l’olio!” “Venite con me,” ci esorta la SS. Ci conduce in una camerata piena di letti a castello e armadietti di ferro, e ci ordina: “Sistemate le vostre cose, prego!” Ripongo pigiama e camicia da notte in un cassetto dell’armadietto, e sistemo lo spazzolino da denti che non ho più usato dai tempi del collegio di Eden. Opa ha detto che ci daranno il dentifricio. Sono curiosa di sapere che cosa ne farà Peter: lui non sa nemmeno che cosa sia; in tutta Berlino non se ne trova più un solo tubetto. “Lavarsi le mani!” Il nuovo ordine giunge secco, militaresco, così ci spostiamo in una stanza da bagno con tanti lavandini; sembriamo un gregge di pecore stordite. Per fortuna Marianne ci è sempre accanto, rimanendo il nostro punto fermo. Appena porgono a Peter il tubetto del dentifricio, lui lo schiaccia nel mezzo e grida, sdegnato: “Preferisco le salsicce!” Marianne reprime un sorriso divertito e dice: “Avrai anche quelle, ma ora lavati i denti!” Dopo aver obbedito, pur con mille complicazioni, e dopo aver tentato di mangiare il dentifricio, il mio prepotente fratellino strilla: “Voglio vedere il Führer!” Marianne risponde, calma: “Il Führer non è qui, e tu non devi strillare.” “Dov’è?” Peter ha puntato i piccoli pugni sui fianchi: ha la faccia scura, l’occhio cattivo, un piede che pesta ritmicamente per terra, il labbro inferiore che trema irritato. “Il Führer è al fronte, Peter.” “Ma io sono venuto per vedere il Führer!” insiste lui con voce delusa e stridula mentre dà un pugno sul lavandino. Il piccolo dispotico si finge orco. “Lo vedrai, il Führer,” lo rassicura Marianne. “Quando?” “Presto.” Da quel momento in poi Peter è sicuro di voler restare nel bunker. “A tavola!” ordina qualcuno. Ci spostiamo in una saletta da pranzo con lunghi tavoli e panche di legno; fra le travature dei muri in cemento scintilla l’umidità. Finalmente sento odore di cibo! Ci disponiamo lungo i tavoli e cominciamo a mangiare, ad abbuffarci, a divorare tutto in fretta come se temessimo che qualcuno possa all’improvviso ordinarci di smetterla. Hitler ci osserva dall’ennesimo ritratto, guarda fettine di manzo affogate nella salsa e accompagnate da maccheroni scotti, guarda patate bollite, guarda pane nero, Apfelsaft e pere sciroppate in scatola. Mentre assaggio una pera, qualcuno grida nel corridoio: “Mille unità in volo su Berlino!” Peter mormora, deluso: “Anche qui?” “Tranquillo,” fa Marianne che gli siede accanto, “questo bunker ha una copertura di cemento di tre metri e mezzo, nessuna bomba può torcerti nemmeno un capello.” Peter si rilassa e ricomincia a masticare. A qualcuno di noi viene da vomitare, per cui andiamo nel bagno, ci liberiamo e al ritorno chiediamo una nuova porzione di tutto. Mentre pranziamo, sopra la nostra testa infuria l’attacco, ma il frastuono del cannoneggiamento giunge attutito e il rumore delle batterie antiaeree somiglia al brontolio di un temporale lontano. I giorni trascorrono veloci. Dormiamo in una camerata con due file di letti a castello; dormono con noi anche le due madri, mentre Marianne è stata sistemata altrove. Ogni mattina un medico ci visita accuratamente, controlla il nostro peso, ci somministra vitamine e medicine a seconda del caso. Appena arrivati ci hanno fatto il test per la tubercolosi. Ci mettono perfino sotto la lampada al quarzo, e due volte al giorno ci costringono a ingoiare quella roba repellente che è l’olio di fegato di merluzzo. Esiste anche una sala di ricreazione con libri per i più grandi e giochi vari per i più piccoli. Peter e Marianne giocano spesso a domino, ma io preferisco guardare.
Un giorno ci comunicano che il Führer verrà a salutarci e Peter si illumina di gioia. Sembra che gli abbiano promesso di incontrare Babbo Natale in persona! Ci preparano con puntiglioso impegno all’incontro. Innanzitutto, in presenza del Führer non si deve parlare ad alta voce. Nel caso in cui egli ci chieda qualcosa, si deve rispondere “sì, mein Führer,” oppure “no, mein Führer.” Naturalmente è d’obbligo il saluto nazista. Peter non sta più nella pelle. Vedere il Führer è il suo grande sogno. Per lui il Führer è un punto di riferimento, è il capo dei capi, il padre di tutti; per lui il Führer è Dio. Io sono meno entusiasta. Ciò che ho sentito dire a Eden sul Führer non mi è piaciuto per nulla. Mi ha spaventata. Arriva il fatidico giorno. Io e Peter siamo in prima fila, entrambi molto tesi; a una bambina è venuto il mal di pancia e l’hanno allontanata. Peter salta da una gamba all’altra, ha il viso pallidissimo. Ci troviamo in una sala oblunga, ovunque grandi croci uncinate. Lungo il muro sono disposte alcune sedie; sulla parete in fondo un ritratto di Hitler è affiancato da due grappoli di bandiere germaniche. Nella sala ristagna un caldo umido che infastidisce. Sono nervosa. Fino all’ultimo momento ci ripetono le stesse cose: parlare a bassa voce, non perdersi in chiacchiere dinanzi al Führer, fare il saluto nazista senza strillare. Aspettiamo immobili come soldatini di piombo. Nel silenzio si potrebbe sentire uno spillo che cade. Ma ecco, sentiamo dei rumori e da una porta sulla sinistra entra un gruppo di giovani SS che si dispone lungo la parete di fronte a noi. Li segue una donna in uniforme che regge un cesto. Nella sala c’è un silenzio assoluto, mentre il mio stomaco si contrae in uno spasmo nervoso. E finalmente arriva lui, Adolf Hitler, il Führer del Terzo Reich! Avverto un leggero ondeggiamento tra le file mentre il Führer avanza lentamente. Tutti scattiamo sull’attenti, alziamo la mano e gridiamo Heil Hitler! Abbiamo urlato troppo forte, e il viso del Führer tradisce un guizzo di fastidio. Mentre Hitler avanza verso di noi, io lo fisso senza fiatare. Quante cose ho sentito dire su di lui, dalle più entusiastiche alle più spregevoli! Cammina piano, le spalle lievemente curve, il passo strascicato: non posso crederci! Sarebbe questo l’uomo che ha fatto delirare le folle? Io vedo invece un vecchio dai movimenti stentati. Noto che ha un lieve tremolio alla testa e che il braccio sinistro pende inerte lungo il suo fianco come se fosse di gesso. Sono davvero incredula! Hitler comincia a dare la mano ai primi bambini della fila, rivolgendo loro brevi domande di circostanza. Sento le loro voci, sommesse, intimorite, impacciate, che mormorano: “Sì, mein Führer. No, mein Führer.” Infine tocca a me. Il mio cuore perde un paio di colpi e arrossisco violentemente. Temo di svenire, di stramazzare ai piedi del Führer, anche se è l’ultima cosa che desidero accada. Adolf Hitler mi tende la mano e mi fissa negli occhi. Ha uno sguardo penetrante che mi imbarazza. Nelle sue pupille c’è uno strano luccichio, come se un folletto ci ballasse dentro. La stretta del Führer è molle e ne sono sconcertata. Sarebbe questa la mano dell’uomo che guida il destino della Germania? La mano è calda e sudaticcia come quella di un malato febbricitante. Ne ricevo un’impressione sgradevole e sono tentata di ritirare la mia, ma mi domino. Allora imprimo sul mio viso un sorriso forzato e nello stesso tempo sbircio le SS. Mi fucilerebbero se si accorgessero del mio disagio? Dinanzi al grande Führer del Reich non ci si può sentire a disagio! È un crimine! Ma loro non badano a me, continuano a tenere lo sguardo fisso sul Führer impugnando saldamente il mitra. Adolf Hitler mi chiede: “Come ti chiami?” “Helga,” rispondo. Mi dimentico di dire mein Führer. Segue una pausa. Ho l’impressione che il Führer cerchi qualcosa da dire, qualcosa come: “Soffrite molto per questa guerra?” Oppure: “Come va la distribuzione dei viveri in città?” Invece mi chiede: “Ti piace stare nel bunker della Cancelleria, Helga?” “Sì!” È una bugia. Non mi piace stare nel bunker perché soffro di claustrofobia. Mi fa sentire sepolta, rinchiusa in una bara. L’unica cosa che riesce a compensare il mio senso di prigionia è il cibo che arriva regolarmente, ma per il resto quasi preferisco la cantina della Lothar-Bucher-Strasse benché la detesti. Lancio nuovamente uno sguardo alle SS: hanno capito che ho mentito al Führer? Sì, lo so, un “ospite speciale del Führer” ha il dovere di sentirsi bene nel bunker, ha l’obbligo della gratitudine. Ma ancora una volta loro mi ignorano, e io provo sollievo. Allora alzo gli occhi e fisso il copricapo di Hitler con l’aquila e la croce uncinata, poi il mio sguardo scivola su un volto dal colorito grigiastro, che somiglia davvero poco a quello dei tanti ritratti appesi nel bunker. La faccia che ho davanti è sciupata. Intorno agli occhi si spiega un fitto ventaglio di rughe e la pelle delle guance è floscia. Solo i baffetti ben tagliati mantengono un barlume di consistenza fra quei lineamenti sfatti. Quando la mano di Hitler si ritira dalla mia provo un senso di rilassamento. Lui allunga il braccio verso il cesto, estrae una barretta di marzapane e me la porge. È finita. Il Führer passa oltre e tocca a mio fratello. “Come ti chiami?” “Peter!” risponde lui. Troppo forte, noto con ansia. “Come va, Peter?” Peter emette un interminabile sospiro, infine grida, estasiato, spontaneo, irruente: “Io sto bene, Herr Hitler! Che bella fibbia, Herr Hitler!” Non è possibile, mi sembra di essere in un incubo! Annientata, volto lo sguardo e vedo il dito impudente di Peter sfiorare la fibbia del cinturone del Führer! Credo di morire. Che cosa succederà? Le SS gli spareranno un colpo nel piccolo cuore? Getto uno sguardo ansioso alle SS e noto con sollievo che una di loro maschera un sorriso divertito. Allora mi tranquillizzo. Poi sento la voce del Führer che risponde: “Quando sarai grande, giovanotto, anche tu potrai avere una fibbia come la mia.” Segue il rito del marzapane, poi il Führer passa oltre. Terminata la prima fila, pronuncia qualcosa come “buona fortuna a tutti;” strilliamo di nuovo Heil Hitler!, ancora una volta troppo forte, e lui esce, seguito dalle guardie del corpo. Rimane solo la donna, che continua a distribuire il marzapane. L’atmosfera si distende. Deutschland, Deutschland, über alles! Questo è dunque il grande Führer del Reich, il capo delle Forze Armate tedesche, il capo di tutti noi! Questo è l’uomo dal quale dipende il nostro destino. Ci ha augurato buona fortuna. Heil Hitler!
(pp 75 - 82)
Berlino, inizio d’anno 1945.
...suona l’allarme, e due minuti dopo comincia un rabbioso martellamento di fuoco. Un rivolo di calce scorre lungo il tubo dell’acqua, i muri tremano. Avrò il tempo di crescere? Opa avrà il tempo di invecchiare? Il bambino piccolo riprende il suo pianto di protesta e Frau Fichtner, sommersa dalle nere pieghe del suo vestito di taffetà, grida: “Qualcuno tappi la bocca a quel mostriciattolo! Come se di baccano non ne avessimo già abbastanza, qui dentro!” “Brava!” esclama Herr Hammer, ironico, mentre batte le mani. “E brava la nostra bigotta! Sarebbero queste la sua bontà e la sua tolleranza cristiana, Frau Fichtner?” E sputa, sdegnato, per terra. La madre del bimbo, una giovane sposa timida e introversa, si guarda intorno costernata. Il fischio lamentoso di un “organo di Stalin” preannuncia il solito schianto. Mi curvo sul letto di Peter e lo vedo seduto, con Teddy sotto l’ascella e gli occhi spalancati. Ha un’aria testardamente incredula. E mentre il mortaio ci sta assordando, Peter china il capo e stringe i pugni, in un gesto struggente. (...) Peter era crollato all’improvviso. Durante la permanenza nel bunker della Cancelleria aveva ancora fatto sfoggio di arroganti alzate di testa e di indomabili ribellioni, ma ora dava l’impressione che qualcosa dentro di lui si fosse spezzato. Non potevo sopportarlo!
(pp 100 - 101 e 105)
Berlino, febbraio 1945.
Vivevamo come talpe nella cantina-rifugio, intirizziti e svuotati dall’inattività forzata. Si aspettava. Si vegetava. Ci si abbrutiva. Talvolta ci si comportava come bestie. Un giorno Egon stava sgranocchiando un misero tozzo di pane secco che la madre si era tolto di bocca. Era seduto su uno sgabello, teneva il pane con entrambe le mani e faceva sentire il lavorio dei suoi denti al punto che si impadronì di me un assurdo senso di fastidio. Stavo distogliendo gli occhi quando successe una cosa strana. Mio fratello, che fino a quel momento era stato rannicchiato in un angolo con Teddy sotto l’ascella e con il solito atteggiamento mogio e apatico che mi angustiava, a un tratto balzò in piedi e saltò addosso a Egon per strappargli di mano il pane. A quel punto si scatenò in me qualcosa di bestiale. Anziché dividere quei due, mi gettai nella mischia. Non capivo più niente, non sentivo più né voci né reazioni fisiche, era come se la mia mente avesse bloccato ogni altro comando che non fosse quello della assoluta necessità di appropriarmi di quel tozzo di pane. Ero come ipnotizzata. Mi accanii sui due bambini e, quando strinsi finalmente il pane nel pugno, scappai su per le scale come inseguita dal diavolo. Arrivai sul primo pianerottolo e mi fermai, ansante. Tesi l’orecchio per sentire se per caso qualcuno mi inseguisse, ma c’era silenzio. Dappertutto regnava la polvere e le finestre erano andate in pezzi. Continuai a salire fino all’ultimo piano e mi arrestai col fiatone. C’era un’unica finestra bassa, senza vetri e con una sorta di inferriata a forma di croce, davanti alla quale divorai il pane stritolandolo tra gli incisivi come un famelico roditore. Dopo aver mandato giù l’ultima briciola, fu come se mi svegliassi da un brutto sogno e solo allora mi resi conto di ciò che avevo fatto. Rimasi sconcertata al punto da mettermi a piangere, ma non fu un pianto di pentimento, bensì di profonda angoscia. Per un attimo la fame mi aveva trasformata in una bestia! Era atroce, era inconcepibile. Annientata da me stessa cominciai a guardare fuori dalla finestrella e vidi la città in fiamme. Quel rogo sterminato aveva creato un’immensa cappa di fumo color rosso scarlatto che sovrastava la città. Era uno spettacolo terribile, di una spettralità agghiacciante. Mi chiesi, attonita, per quale motivo gli uomini costruiscano le città per poi permettere che vengano incendiate. Di lì a poco udii dei passi e trattenni il fiato. Infine vidi spuntare dall’ultima rampa la bianca testa di Opa e sentii un tuffo al cuore: lui aveva un’espressione dispiaciuta. “È tutto a posto, piccola,” mi disse, e io gli abbracciai le gambe, sollevata. Ridiscendemmo le scale e, una volta in cantina, tutti presero a fissarci. Opa disse loro: “Dimentichiamo l’episodio, Helga non ha colpa. Semmai, se di colpa si può parlare, diamola piuttosto a colui che ci ha tolto ogni dignità, ad Adolf Hitler.” Nessuno rispose ma qualcuno si schiarì rumorosamente la gola. Io invece desideravo scusarmi con Peter ed Egon. A Egon avevano dato un altro pezzo di pane e lui lo stringeva fra le mani guardandomi. Ma quando mormorai: “Scusami, io non volevo,...” spezzò il pane e me ne porse metà. Mi si schiantò il cuore.
(pp 107 - 109)
Aspettammo così a lungo il nostro turno che alla fine non mi sentivo più i piedi. Le suole delle scarpe si erano infradiciate nella poltiglia di neve e i miei piedi sembravano due pezzi di ghiaccio. Finalmente toccò a noi e ciecamente mi buttai sotto il getto per bere; nell’incavo delle mani trattenni più acqua possibile, ma subito gli altri cominciarono a brontolare. Allora smisi, intimorita, e Opa prese a riempire le taniche; ma l’acqua veniva giù lentamente e passò molto altro tempo. Ci rimettemmo sulla via del ritorno. Quanta strada e quanta fatica per due taniche di acqua! Camminavamo lentamente perché le due taniche pesavano. Vedevo il viso di Opa tendersi nello sforzo e avrei desiderato aiutarlo, ma era davvero impossibile. Di tanto in tanto lui si fermava e ansimava, guardava il cielo e mi faceva pena. All’improvviso strillarono le sirene e Opa esclamò, esasperato: “Dio mio, di nuovo!” Si guardò intorno alla ricerca di un rifugio antiaereo, ma nelle vicinanze non ce n’erano. Così ci infilammo nel portone di una chiesa. La grande navata era immersa in una gelida corrente d’aria e uno stormo di uccelli si era appena alzato dileguandosi attraverso un immenso squarcio nella cupola. L’acquasantiera giaceva a pezzi sul pavimento e in fondo, sopra un altare spoglio e crivellato, pendeva sbilenco un Cristo senza tronco. All’improvviso vidi allineata lungo una parete una fila di cadaveri e provai un brivido di ribellione: ne avevo abbastanza di morti! Nel frattempo, fuori era cominciato un rabbioso cannoneggiamento che risuonava, lugubre, nella navata. Sentii il bisogno di urinare. Per un po’ cercai di controllarmi, ma non ci riuscii. Allora lo dissi a Opa, imbarazzata e sentendomi un po’ in colpa, ma lui rispose: “Falla pure, piccola, non avere scrupoli.” Così mi accosciai tra i banchi che sapevano ancora d’incenso, e mi liberai. Ma mentre stavo per alzarmi, un fischio tremendo annunciò la tragedia: un istante dopo un ordigno piombò dentro la chiesa da una delle grandi finestre, andando a schiantarsi contro il muro del lato opposto della navata e abbattendo un cornicione di stucco. I vetri scoppiarono con un fragore secco e assordante e una pioggia di schegge cadde sui banchi e su di noi. Le sentivo sui capelli, sulle sopracciglia e sulla nuca mentre un’eco cristallina risuonava, petulante, fra i marmi opachi e gli angeli di gesso indifferenti. Opa mi aveva spinta sul pavimento facendomi scudo col suo corpo. Quando l’inferno cessò, aprii gli occhi e vidi sotto i banchi un libro di preghiere. Allungai la mano per raccoglierlo ma sentii la voce di Opa che domandava: “Che cosa ho qui sulla fronte?” Alzai gli occhi e vidi del sangue sotto l’attaccatura dei suoi capelli. Lui ansimava, sembrava spaesato, stordito, imbarazzato. Sentivo qualcosa muoversi nel mio stomaco, come un grosso lombrico che facesse delle capriole, ma non era quello il momento di svenire. Domandai a Opa un fazzoletto, bagnai la sua fronte con un po’ d’acqua delle taniche, pulii la ferita, mi resi conto che era superficiale e glielo dissi, sollevata. “Sei una bambina coraggiosa,” mi disse Opa, e io fui fiera di me. Ci mettemmo di nuovo sulla via del ritorno. Appena fuori dal portone giaceva un uomo in uniforme con le budella che gli uscivano dal ventre aperto. “Non guardare,” sibilò Opa, “tanto ormai è morto, poveretto, non c’è più niente da fare.” Rovine e rovine. Nuovi edifici in fiamme. Oltre le rovine, altre rovine e altre case in fiamme. Le strade erano deserte, la gente stava rannicchiata nelle cantine, stanca, sfiduciata, rassegnata. Le strade erano vuote, dimenticate. I morti non si contavano, ma loro stavano bene, ormai. Molti li invidiavano. Ogni tanto Opa si fermava e ansimava. I suoi occhi erano chiari e dignitosi. Il sudore gli colava dalla fronte sulle ciglia, sugli zigomi. Le spalle magre si piegavano dalla fatica. Sentivo che gli volevo bene. Tornammo a casa senza altri intoppi. Appena la matrigna ci vide, gridò: “Dove sei stata, dannata ragazzina? Non perderai mai il vizio di scappare?” Opa rispose, conciliante: “È colpa mia, le ho chiesto di venire con me.” La matrigna rimase perplessa, ma non osò insistere e si informò sulla ferita di Opa: “Che cosa ti è successo?” “Una ferita di striscio,” rispose lui, “non è nulla. Mi ha medicato Helga. È una brava bambina, una bambina coraggiosa.” E mi accarezzò i capelli. Peter mi guardò accigliato: “Quando sarò grande voglio sparare a tutti gli uomini. Ti ho cercata dietro la scale.” “Tutti ti abbiamo cercata,” aggiunse la matrigna lanciandomi uno sguardo di astio impotente. “È colpa mia,” ripeté Opa. “Dove eravate quando c’era l’allarme?” domandò la matrigna. “Quale?” disse Opa con aria svagata per farci sorridere. “Il primo o il secondo?” “Il secondo,” rispose la matrigna. “Dicono che la seconda incursione sia stata pesante.” “In una chiesa,” disse Opa. “Chiesa con uccelli e cadaveri. Ci meritiamo un bicchiere d’acqua!” “Anch’io, anch’io,” pigolò Peter e andò a recuperare il suo bicchiere. Anche gli altri della cantina porgevano ognuno il proprio recipiente. Acqua. Acqua. Preziosa mille volte perché conquistata a rischio della vita.
(pp 128 - 131)
Berlino, aprile 1945.
A un certo punto gli abitanti della cantina fecero una raccolta di oggetti di un certo valore per scambiarli al mercato nero con un po’ di latte in polvere, pane, olio o patate. Ma anche questo non bastò per sfamarci. In cambio di un piccolo tappeto persiano la matrigna ottenne un chilo di piselli secchi! Cominciammo a essere frastornati da una serie di notizie contraddittorie. Una volta la BBC comunicò che i Sovietici avevano sfondato le linee tedesche a oriente e stavano avvicinandosi ai sobborghi di Berlino; da parte sua il Deutscher Rundfunk, organo ufficiale del Reich, continuava a rassicurare i Tedeschi che la XII Armata del generale Wenck “stava infliggendo al nemico la sconfitta finale.” In realtà il venti aprile, giorno del compleanno di Hitler, Berlino si trovò per la prima volta sotto il tiro diretto dell’artiglieria sovietica. Le informazioni più precise erano quelle che portavano gli addetti al turno dell’acqua. Raccontavano che la città era in preda a un caos incontrollabile e che c’era una gigantesca invasione di ratti. Le strade erano gremite di cadaveri che da tempo nessuno sgomberava e il puzzo era così terribile che la gente, già debilitata, sveniva. Non funzionava più alcun mezzo di trasporto, né tram né omnibus né sotterranea né sopraelevata. Il tunnel della sotterranea era stipato di persone che urlavano dalla fame e dalla sete, compresi i bambini piccolissimi. Non esisteva alcuna forma di assistenza medica e le medicine erano introvabili. Prendere l’acqua era ogni volta un’avventura rischiosissima, e chi faceva ritorno alla cantina sembrava un miracolato. Si frugava tra le macerie per trovare qualcosa da scambiare al mercato nero ignorando le sirene e sfidando la morte. Si verificavano suicidi in massa. La paura dei Russi aveva indotto molti quartieri a costruire barricate e trincee anticarro e la gente era in preda a un’angoscia collettiva. Chi era costretto a uscire per un motivo o per l’altro dalle cantine veniva ripetutamente fermato e perquisito. Ronde zelanti setacciavano la città alla ricerca di soggetti da arruolare nei vari reparti speciali, ma la popolazione che sopravviveva nella capitale agonizzante era composta soprattutto da vecchi, donne e bambini in pessime condizioni fisiche...
(pp 144 - 145)
In cima alla scala si sentirono dei passi e dal buio incerto apparve Herr Mannheim, che scese sorreggendo un vecchio decrepito con una gamba amputata. “Questo è il dottor Schreber,” annunciò. (...) Alla luce fumosa della candela il suo moncone aveva qualcosa di insopportabilmente lugubre e Peter ne fu sinistramente attratto. Vi si avvicinò, aggrottò la fronte, strinse le palpebre e domandò: “Dov’è l’altro pezzo di gamba?” Lo zittirono: “Pssst, cosa stai dicendo? Il dottore potrebbe sentirti e dispiacersene!” “Dov’è l’altro pezzo di gamba?” ripeté Peter più forte. Al che il medico (...) rispose: “Me l’ha portato via una granata, bambino mio. Te la sentiresti di promettermi una cosa?” “Sì...” bisbigliò Peter, colto alla sprovvista. “Devi promettermi che da grande non permetterai che ci sia un’altra guerra,” disse il vecchio. “Perché?” fece Peter pizzicandosi le guance. “Perché la guerra non è degna degli uomini.” “Perché?” “Perché in guerra la gente è costretta a comportarsi in un modo innaturale.” “Perché?” “Tu, ad esempio, stai sempre in questa cantina. Ti sembra giusto?” “Sì.” “Per quale motivo ti sembra giusto, bambino mio?” “Se esco mi uccidono.” “E ti pare bello che un ragazzino non possa uscire di casa perché altrimenti lo uccidono?” “È così...” mormorò Peter scrollando le spalle. “Ma ti piacerebbe andare a giocare nel cortile?” insistette il medico. “Sì,” rispose Peter, “per raccogliere una margheritina.” “Solo quello?” “Sì. Perché il cortile puzza. Ci sono i morti.” Il vecchio mormorò: “Povero bambino mio,...” e aveva gli occhi lucidi.
(pp 141 - 142) |
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Helga Schneider è nata in Polonia e ha vissuto in Germania e in Austria. Dal 1963 risiede in Italia. Oltre a Il rogo di Berlino, ha pubblicato Porta di Brandeburgo (Rizzoli, Milano, 1997), Il piccolo Adolf non aveva le ciglia (Rizzoli, Milano, 1998) e Lasciami andare, madre (Adelphi, Milano, 2001), Heike riprende a respirare (Salani, 2008).
Le altre opere di Helga Schneider in Righe di Libri:
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