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Lasciami andare, madre
2001 - Adelphi edizioni, Milano
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L’odio dei nazisti (e dei fascisti) per i loro stessi bambini |
La copertina del libro. |
I grandi non si vedono. Forse ci stanno spiando da dietro la porta, divertendosi della nostra patetica angoscia, del nostro sperduto terrore. Siamo come due scarafaggi caduti sulla schiena. Agitiamo le gambette e urliamo. Il sole è tramontato e dalla finestra penetrano le ombre della sera...
Nel 1941, quando la madre finalmente li abbandona per le SS, Helga e Peter ― i due bimbi che la guardano senza poterle sorridere sulla copertina di Lasciami andare, madre ― cominciano in realtà a venir fuori dall’orrore in cui ella li ha tenuti fin dalla nascita. Eppure mancano ancora quattro anni alla primavera del 1945, ed essi, prima della definitiva liberazione, dovranno ancora rischiare molte volte la vita e sopportare le spaventose esperienze e privazioni raccontate ne Il rogo di Berlino. Dovranno perfino incontrare Hitler, un brutto giorno, nel bunker che sarà la sua tomba. Ma nemmeno lui li spaventerà come la madre. Nemmeno lui riuscirà, come lei e i suoi camerati, a farli sentire ― come il Gregorio Samsa de La Metamorfosi ― due scarafaggi caduti sulla schiena. Poiché il nazismo, come tutti gli orrori umani, inizia ed è in primo luogo nazismo dei genitori contro i figli e dei grandi contro i piccoli. Odio e disprezzo e violenza ― abbandoni, stanzini bui, spaventi e “scherzi” atroci, ricatti e malignità e menzogne ― degli adulti sui bambini. Odio razziale, dell’umano che ha fatto scempio di sé, contro l’umano stesso che nasce umano di nuovo. Tutto il resto, per quanto atroce, viene dopo. Un dopo che a noi sembra un prima ― così come sembrò un prima a chi lo subì come serie di eventi mostruosi di cui non si era avuto quasi alcun segno premonitore ― solo perché il vero prima si svolse e consumò in segreto, fra quattro mura, nel privato di milioni di case tedesche (e italiane). Quel privato di cui Helga Schneider, in questo bellissimo libro, ci permette di varcare per la prima volta la soglia in cerca di una comprensione dell’abbandono materno che immediatamente diventa comprensione del nazismo stesso (e del fascismo). |
“Apri le mani” dicesti. Non lo scorderò mai. Mi avevi trascinata per un braccio, come per raccontarmi un segreto, nella camera da letto del piccolo appartamento nel quartiere di Mariahilf; e avevi aperto un cassetto: un gesto antico, che prelude a un regalo, non è vero, madre? “Apri le mani.” E me le riempisti di anelli, braccialetti, gemelli da polso, ciondoli, spille, un orologio e un groviglio di collane e collanine. Per un attimo guardai tutto quell’oro senza capire. Poi capii, e fu come se mi bruciasse le mani. Dischiusi i palmi, e i gioielli tintinnarono sul pavimento. Mi fissasti sconcertata. “Volevo farti un regalo” dicesti infine con feroce candore. “Potrebbe servirti in caso di bisogno, non si sa mai nella vita.” “Non lo voglio” risposi. Tu allora cominciasti a raccogliere gli oggetti, uno per uno, con accorata meticolosità. Quando sollevasti delicatamente una catenina, ebbi un tuffo al cuore. Era una di quelle catenine che si regalano alle bimbe per il loro quarto o quinto compleanno, una cosetta apparentemente leggera, ma di fattura assai pregevole. In quel momento un’immagine si sovrappose con agghiacciante nitidezza a quella di te che raccattavi il tuo oro: l’immagine di te che sospingi nella camera a gas la bambina della collanina. Fu in quell’istante che tutto si decise. Di una cosa fui certa: io, quella madre, non la volevo. Quella madre che mai mi aveva cercata, e che adesso ignorava il mio bambino, solo nel soggiorno con un album da colorare.
(pp 17 - 18)
“Le sono grata, mi creda” cercai di rassicurarla con il tono più convincente che mi riuscì di trovare. Rincuorata, Frau Freihorst cominciò a raccontarmi quel che era accaduto dopo la mia visita del 1971. Mia madre aveva cominciato a provare dei sensi di colpa ― sentimenti, prima di allora, a lei del tutto ignoti ― nei confronti miei, di mio fratello e di nostro padre. In principio ne fu irritata e cercò di rimuoverli; poi, a poco a poco, quasi le stesse crescendo in corpo un tumore, prese a comportarsi in modo molto strano. “Voglio dire” proseguì la donna con tono mesto “che le venne la smania di eliminare dal suo appartamento tutte le cose che avevano a che fare con il suo ex marito e i due figli. Foto, documenti, oggetti.” “Eliminare come?” chiesi. “Li gettava via nel cassone dell’immondizia, insieme a roba nuova di zecca.” “Roba nuova di zecca?” domandai incredula. “Sì, faceva parte del rito. Doveva gettar via le vostre cose insieme a oggetti che acquistava appositamente. Comprava di tutto, scarpe e libri, pigiami e servizi di piatti, abiti e tappetini. Un giorno tornò a casa con un enorme cactus da appartamento, che fece la fine di tutto il resto. Ah, poi ci fu anche una macchina fotografica, sa, di quelle che fanno le foto istantanee. Anche quella finì nella spazzatura, e può immaginarsi che cosa successe nei dintorni. Si era sparsa la voce che sua madre gettava via roba nuova, e si scatenò una gara penosa a chi riusciva a recuperare dai bidoni gli oggetti più interessanti e costosi. Pensi, il cactus se lo contesero due signore anziane, e una delle due finì pure a terra procurandosi una brutta ferita alla testa. Il marciapiede era pieno di sangue, uno spettacolo indegno. Arrivò l’ambulanza e si radunò una folla di curiosi. E tutto per uno stupido cactus.” Frau Freihorst non badò al mio sconcerto: “Non so come si chiami in termini psichiatrici il comportamento di Traudi, ma secondo me fu un rito di sepoltura. Insomma, per eliminare i suoi sensi di colpa sua madre fece a lei, a suo fratello e a vostro padre dei funerali simbolici. Chi è morto non potrà più domandare rendiconti, capisce?” “Nessuno di noi intendeva ormai chiederle nulla” obiettai. “Ma lei non lo sapeva. Chissà che caos c’era allora nella sua povera testa.” “Ma poi si placò?” domandai. “Sì, ma dovettero curarla. La accompagnavo io. Tre volte alla settimana doveva presentarsi al servizio di igiene mentale del nostro quartiere. All’incirca in quel periodo iniziò anche la sua mania della pulizia.” “Che cosa faceva?” “Puliva dalla mattina alla sera. Intendo il suo appartamento. Puliva e puliva, rovesciando secchi interi sul pavimento, tanto che a volte l’acqua finiva sul pianerottolo. Puliva con furia, e gli interventi delle assistenti sociali non servirono a nulla.” “E questo che cosa voleva dire?” La donna alzò le spalle. “E chi lo sa... Forse voleva pulire il suo passato, sciacquare via... diciamo le brutture. Quella fase durò per circa un anno, poi si interruppe da un giorno all’altro. Trascorse un periodo abbastanza sereno, sembrava ritornata la Traudi che conoscevo. Ma poi iniziò ad avere problemi con la memoria recente... Al principio ci fu la questione dello zucchero.” “Dello zucchero?” “Sì. Lo comprava un giorno e poi il giorno dopo lo ricomprava, e quello dopo ancora. Poteva accumularne fino a dieci chili. Lo stesso succedeva con il pane. Un giorno ne scoprii in una cassapanca una quantità spropositata: doveva averne acquistati dei chili, tutti i giorni, per almeno una settimana. Ma poi le cose peggiorarono ancora. Sovente usciva di casa e si smarriva. Teneva sempre nella borsetta un foglio con su scritto di telefonare a me in caso di bisogno. Sa quante volte sono andata a recuperarla nei posti più impensabili? Un giorno, per esempio, si infilò in un’impresa di pompe funebri. Aveva ordinato una bara bianca per una bambina, con tutto l’occorrente per il funerale.”
(pp 33 - 35)
Si agita, vuole andare a fondo della questione. Mi esaspera. Mi prudono le mani, e allora mi ricordo che nella sinistra stringo ancora quei maledetti fiori. Glieli porgo. Lei sembra scoppiare dalla gioia: prorompe in una serie di gridolini singhiozzanti, e mostra il bouquet ai curiosi che nel frattempo sono diventati moltissimi. Mi sento al centro di un palcoscenico, protagonista involontaria di un melodramma scadente. Quella scena mi sembra volgare e ridicola. Tutto è molto diverso da come me lo ero immaginato. Vorrei essere altrove, vorrei non essere mai venuta qui. Questa donna, mia madre, non merita gli sforzi che ho fatto e le mie buone intenzioni. La guardo: ora estrae dal mazzo alcuni fiori e li getta ai curiosi, senile e patetica, crudele e romantica, Così erano i membri dell’ordine nero di Himmler, comprese le donne come lei, le SS in gonnella.
(p. 42)
Accantona il problema e torna a parlare di mio padre. “Dovevo lasciarlo” ricorda con voce incolore “non avevo altra scelta. Ero così occupata... E lui mi tormentava. Anche mia suocera mi tormentava, non volevano che assolvessi i miei doveri.” “Quali doveri?” chiedo. “Con il partito. E poi avevo giurato, non potevo più tornare indietro.” “Avevi giurato?” “Come membro delle SS dovevo giurare, è normale, no? Dovevo giurare assoluta obbedienza e fedeltà fino alla morte.” “Perché avevi giurato se sapevi di avere due figli da allevare?” mi arrischio a chiedere. Lei alza la testa di scatto. “Volevo giurare! Volevo essere accettata come membro delle SS, lo volevo più di ogni altra cosa.” “Era più importante della tua famiglia?” Annuisce. “Sì, ma tu non puoi capire. Nessuno può capire oggi...” È vero. Sono scoraggiata. Mi sento impotente. D’altronde, lei non era stata che una delle migliaia e migliaia di donne che si erano lasciate abbagliare dalla propaganda ideologica dei nazisti. certo, non tutte si erano spinte sino a entrare a far parte dell’ordine di Himmler. Si accorge che sono soprappensiero e domanda: “Sei triste? Non voglio! Non devi essere triste!” Si alza come se volesse abbracciarmi. Faccio appena in tempo a fermarla: non lo sopporterei, non adesso. “Perchè non mi racconti dei tuoi genitori?” le propongo. Lei sbarra gli occhi. “Dei miei genitori?” ripete disorientata. “Perché dovrei raccontarti dei miei genitori?” “Erano i miei nonni materni” rispondo con pacata fermezza. Nei suoi occhi c’è un autentico vuoto. “I tuoi nonni materni” mormora. Non trova il bandolo della matassa. Infine, per tagliar corto, sbuffa: “Non hai perso niente.”
(pp 56 - 57)
Una pausa. Volge lo sguardo fuori dalla finestra, verso le cime dei vecchi platani che si dondolano nell’aria nebbiosa. “Ich habe doch eine Härteausbildung erhalten” mormora poi, come parlando a sé stessa. Ho subìto un addestramento di disumanizzazione: è forse, questo, un quasi inconsapevole tentativo di giustificarsi? Sì, madre, lo so, l’ho letto nel tuo dossier. Vi addestravano per desensibilizzarvi alle atrocità a cui avreste assistito nei campi di sterminio: e a quelli venivano destinate solo le più dure, le più coriacee, Per questo tu fosti scelta per Birkenau, il campo più selettivo. Ancora un silenzio. Ho caldo e sono sempre più stanca; ma il demone che ho in me mi incita ad andare avanti. “Così non provasti pietà per nessuno? Mai, per nessuna delle prigioniere di Ravensbrück? Nemmeno per la più vecchia, o la più malata?” (...) “In un primo momento... provai una specie di dispiacere” ammette, come se confessasse un cedimento deplorevole “ma lo superai subito. Non potevo permettermi questo genere di cose, voglio dire pena e rammarico per chi meritava di stare in un campo. Dopo di allora non mi accadde mai più. Ero della Waffen-SS, io. Non potevo permettermi il sentimentalismo della gente comune.” Aveva demandato al Führer la sovranità sui suoi sentimenti, e ancora difendeva quella sconfitta.
(pp 65 - 66)
Mentre lei faceva la integerrima SS, io e mio fratello pativamo la fame più nera. Fin dal 1944 il vettovagliamento regolare della popolazione tedesca era cessato quasi del tutto. Si mangiava pane fatto di ravizzone, si macinavano la scorza d’albero e le ghiande per trarne farina ― roba che faceva venire un atroce mal di pancia ― o si ingollavano terrificanti zuppe a base di ortica. “Avevate penuria di cibo?” chiedo. Eva mi lancia un’occhiata di disappunto, mia madre ridacchia. La domanda sembra divertirla. “Noi avevamo tutto” si pavoneggia “i camerati non ci facevano mancare nulla: caffè vero, salumi, burro, vodka polacca, sigarette, sapone profumato. Avevamo calze di seta e champagne autentico, ma quello solo a Natale.” I tuoi camerati, madre. Con quale profondo senso di appartenenza ne parli ancora dopo oltre mezzo secolo, con quale immarcescibile deferenza. “Io ad esempio ero una divoratrice di libri” prosegue animata “e i camerati, quando tornavano da Berlino, mi portavano sempre qualcosa di interessante da leggere.” Raddrizza il busto, fiera. “Non ero una che leggeva solo giornali popolari come certe mie camerate, no, io leggevo libri importanti, capisci? E poi la lettura mi serviva per rilassarmi prima di prendere sonno. Ero un essere umano anch’io, no?” Non riesco a frenarmi: “Come facevi a prendere sonno sapendo che a pochi metri di distanza si bruciavano giorno e notte migliaia di cadaveri?”
(pp 70 - 71)
“Quando eri piccola eri così carina” cerca di blandirmi “così carina che i miei amici insistevano perché pubblicassi la tua foto su una rivista razziale.” I suoi amici... Devo di nuovo concentrarmi. “A che anno ti riferisci?” “Che anno?” ripete. Fa un gesto, come a rimuovere una striscia di nebbia davanti agli occhi. “Stavi ancora... con papà?” indago cauta. “Con Stefan?” Fa spallucce. In ogni caso, quegli amici dovevano essere solo suoi. E tutto a un tratto mi torna vivido un ricordo. Una casa estiva a Kremmen, un piccolo paese non lontano da Berlino. La base in pietra, il resto in legno. Mobili estivi, in giunco e candido pino. Le finestre sono aperte; dalla piazza comunale, bordata di vecchi ippocastani, giunge il suono delle campane. Si entra da un giardinetto antistante, ma tutto si svolge nel retro della casa. In cortile, fra i tigli, starnazza l’oca dei vicini mentre corre dietro a mio fratello Peter per beccarlo. Una piccola porta fatta di assi bombate e incrociate conduce in un giardino di cui ricordo con nitidezza colori, suoni e profumi: i gelsomini, i sambuchi con le cui bacche si può preparare una zuppa dal curioso color vinaccia, le rose canine che danno una marmellata buona e dolce. E il canto felice delle allodole, le rondini sotto il cornicione e due cicogne sul tetto di un vicino granaio. Ancora non mi rendevo conto che eravamo in guerra. La scena si svolge nel salotto. È sera, il sole è ormai basso, la terra in giardino emana un profumo umido e buono. C’è gente. Mia madre ride molto. Oltre a lei ricordo un’altra donna e tre uomini. Gli ospiti sono tutti in uniforme, anche la donna. Poi mia madre solleva Peter, che sgambetta e squittisce. Vuole che dia un bacio sulla guancia a ciascuno degli ospiti, ma lui non è dello stesso avviso. Ogni volta che lei lo avvicina a un ospite, lui fa scattare il capo riccioluto da un’altra parte. È dispettoso. E non intende baciare estranei. Mia madre si innervosisce, la voce si fa aspra. “Piccola peste!” Ma lui, stufo, assesta un calcio nel ventre a un signore in uniforme anziché baciargli la ruvida guancia. Il destinatario lancia un urletto divertito. Mia madre, delusa, rimette a terra il piccolo ribelle, che comincia a strisciare carponi per il salotto emettendo suoni buffi e infantili. Lo vedo come fosse oggi, vispo e incosciente. Io non prevedo nulla di buono e tento di svignarmela, ma mia madre mi acchiappa. Tocca a me. Stessa pretesa. Avverto un crampo allo stomaco. Nemmeno a me piace baciare gli estranei. Ma lei mi guarda severa e io mi rassegno a distribuire controvoglia i miei baci. Ma poi arrivo a un signore che mi è antipatico. Mi è antipatico fin dal primo momento che l’ho visto. È alto e ha occhi che mi fanno paura. Sono occhi molto chiari, simili a quelli dei gatti siamesi. Occhi che sembrano irradiare frammenti di vetro. Eccomi davanti a lui. Il signore si china, mi indirizza un sorriso di ghiaccio, e si protende per ricevere quello stupido bacio. Ma per me è troppo ― gli do un morso sul mento. Lui balza all’indietro, tenendosi il mento con la mano. Mia madre mi scuote e mi sgrida. Io non piango ma odio tutti quanti. Un quarto d’ora dopo. In salotto non c’è più nessuno. Peter ha trovato la paletta dell’immondizia e la calpesta allegramente. Poi ci si siede sopra come fosse uno slittino. Io sono accoccolata per terra e lo osservo. È un vero diavoletto. All’improvviso qualcuno getta sopra di noi una grande rete da pesca. Non sapevo che in casa ce ne fosse una, e non capisco per quale motivo ce l’abbiano gettata addosso, ma provo uno spavento terribile. Grido, e anche Peter grida, si aggrappa a me e grida. Ci agitiamo scompostamente, ma più ci sforziamo di liberarci da quell’abbraccio più ci ingarbugliamo e più strilliamo. I grandi non si vedono. Forse ci stanno spiando da dietro la porta, divertendosi della nostra patetica angoscia, del nostro sperduto terrore. Siamo come due scarafaggi caduti sulla schiena. Agitiamo le gambette e urliamo. Il sole è tramontato e dalla finestra penetrano le ombre della sera. Una trappola. Una trappola tesa da un mondo di adulti diventato all’improvviso cinico e cattivo. (Altre volte mia madre ci aveva spaventati, soprattutto quando ci impartiva le sue implacabili punizioni. Se il motto della matrigna sarebbe stato: voi non dovete pensare ma sapere, quello di mia madre suonava: soprattutto obbedire. Era ipersensibile alla disobbedienza. Non tollerava la più piccola ribellione. Ogni qualvolta io, che ero di temperamento indocile, manifestavo la benché minima insofferenza, mi puniva chiudendomi nello sgabuzzino. A Berlino, quando abitavamo nel quartiere di Niederschönhausen, ne avevamo uno munito solo di una minuscola finestrella, che però mia madre tappava con un cartone perché io rimanessi in quel buio pesto per ore. Un altro castigo che già verso i quattro anni consideravo grave consisteva nel somministrarci una tripla razione di olio di fegato di merluzzo. Anche Peter, che ancora se la faceva sotto quando sentiva nostra madre più nervosa e agitata del solito, temeva quello speciale cucchiaio come il diavolo in persona, e appena lo vedeva si metteva a strillare disperato. Un giorno si difese respingendo il cucchiaio con un gesto così fulmineo che l’olio schizzò in faccia a mia madre. Lei diede in escandescenze e lo rinchiuse, come soleva fare, dopo avergli ugualmente imposto la razione punitiva di olio di fegato di merluzzo, nel grande armadio della stanza coniugale ― mio padre all’epoca era già sotto le armi. Una volta, lì dentro, mio fratello rischiò di soffocare: quando lei lo liberò giaceva sul fondo, il capo abbandonato su una scatola da scarpe. Quel giorno mia madre si prese un autentico spavento e si mise a scuotere forsennatamente il piccolo Peter che sembrava morto o svenuto, mentre probabilmente era solo intorpidito per la mancanza di ossigeno). L’incubo di Kremmen si protrae. Glia adulti non si vedono, e io e Peter siamo ancora prigionieri di quell’orribile rete da pesca. Peter strepita, si aggrappa a me e mi pianta le sue unghiette nelle braccia. Tutti i cardini della realtà sembrano saltati. Ci sentiamo catapultati in un mondo oscuro e ignoto dove una madre si è all’improvviso trasformata in strega per divertire i propri amici con uno scherzo stupido e crudele. Comincio a chiamare mia madre con voce acuta e supplichevole, “Mutti! Mutti!” grido e singhiozzo e la imploro di venire a liberarci. Finalmente arriva. Ride con le lacrime agli occhi. Anche i suoi ospiti ridono. Si sono divertiti, si vede. E io, tra il sollievo e il rancore, odio ancora di più tutti quanti, ma soprattutto odio l’uomo che ho morso, che ora sghignazza sgangheratamente mostrando i lunghi denti aguzzi, che mi fanno pensare a un pescecane con la pancia piena. È finita, mamma ci libera. Da allora sia mio fratello che io soffriamo di claustrofobia.
(pp 80 - 83)
Non avvertii benevolenza nella sua domanda: “Come ti trovi nel bunker?” Non avvertii né pena né solidarietà. No, Adolf Hitler non amava i bambini, così come non li amava mia madre. Poco prima della disfatta mandò centinaia di migliaia di ragazzini incontro a una morte certa. Ricordo due di quelle giovani vittime, che vidi abbandonate sul bordo di un mucchio di macerie: gli occhi sbarrati, i corpi martoriati. Quel che restava della loro uniforme grigio-blu era a brandelli, intrisi di sangue; intorno alla vita avevano ancora la borraccia, alcune bombe a mano, munizioni da fucile e maschere antigas. Era il giorno seguente alla resa. E mia madre? Ha mai amato, fosse anche per un solo momento, i suoi figli?
(p. 97) |
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Helga Schneider è nata in Polonia e ha vissuto in Germania e in Austria. Dal 1963 risiede in Italia. Oltre a Lasciami andare, madre, ha pubblicato Porta di Brandeburgo (Rizzoli, Milano, 1997), Il rogo di Berlino (Adelphi, Milano, 1995) Il piccolo Adolf non aveva le ciglia (Rizzoli, Milano, 1998) e Heike riprende a respirare (Salani, 2008).
Le altre opere di Helga Schneider in Righe di Libri:
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