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Il piccolo Adolf non aveva le ciglia
1998 - Rizzoli Editore, Milano
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Il delirio nazista che vi siano realtà perfette |
La copertina del libro. |
1941...
Mi guardava, fumava e agitava nervosamente una gamba. “Gregor non ti permetterà di andartene,” mi disse preoccupata. “Nel codice delle SS non è previsto che una moglie lasci il marito. Semmai succede il contrario.” “Con Gregor ho chiuso,” risposi decisa, “ho chiuso con tutti i von Wittig. Ho chiuso con lui, con la sua famiglia, col nazismo.” Pronunciando le ultime parole avevo abbassato la voce, ma Herta mi rivolse un’occhiata preoccupata. “Sei matta?” sibilò. “Qualcuno potrebbe sentirti.” E si guardò intorno. “Se non fosse per i miei, mi darei da fare per emigrare,” le bisbigliai. “I tuoi non ti seguirebbero?” domandò lei. “No. Sono anziani, non se la sentono.” “E come stanno?” “Male,” risposi. “Mia madre è esaurita, mio padre, invece, sta peggio. Non sa perdonarsi di avermi trasmesso il suo credo nel nazismo. Non mangia, sta dimagrendo a vista d’occhio e l’ho visto piangere. Non sopporto di veder piangere mio padre, gli voglio bene. È stato un buon genitore. E poi, non è stato l’unico ad aver convinto un figlio della bontà della sua fede politica, no? Non è stato l’unico.”
(Parte prima, capitolo III) |
1941...
Sospirò, tentò un sorriso e posò una mano sulla mia. Ma io sussultai e mi sottrassi alla sua carezza. Lui mi fissò con sdegno: “Non posso permetterti gesti di... Come osi? La gente ci guarda!” E afferrò la mia mano, stringendola con cattiveria fino a farmi male. “Sono tuo marito,” mi ripeteva, offeso nel suo stupido orgoglio, “e, finché siamo in pubblico, pretendo il tuo rispetto. Salva almeno le apparenze, Herrgott noch mal! Che cosa sei diventata? Non ti riconosco più.” Sentivo sulla mia mano la sua forza dispotica. “Sono tuo marito,” continuò, “e quello che è avvenuto non ha cambiato nulla. Niente e nessuno potrà esimerti dai doveri che tu continui ad avere verso me e verso la nazione. Io sono un membro delle SS, non dimenticarlo mai!” Il suo bel volto si era trasformato in quello di un felino in procinto di sbranare una preda, le labbra erano serrate, l’ira attraversava i suoi occhi chiari. Ora mi ripugnava e non avrei più sopportato di farmi toccare dalle sue mani. La nostra intesa si era congelata in un’estraneità cattiva e insanabile come una cancrena. “Non ti amo più,” dissi. Lui storse la bocca proprio nel momento in cui un gruppo di clienti chiassosi lo riconobbe, salutandolo da lontano con grida complici. Ma appena furono seduti, Gregor mi rivolse uno sguardo furente: “Ora ascoltami,” bisbigliò minaccioso. “Io di questa storia ne ho abbastanza. Dopo cena tu e io torniamo in Behrenstrasse come si conviene a due che sono marito e moglie. Sono stanco e penso di avere avuto anche troppa pazienza. Ma adesso basta, si torna alla normalità. A casa la domestica si occuperà di te e il nostro medico di famiglia ti prescriverà una cura per i nervi. Un’ultima cosa, a scanso di equivoci: non aspettarti da me alcuna partecipazione emotiva riguardo all’accaduto, non posso concedertelo. E colgo l’occasione per ribadire che sono fiero di vivere in una nazione che si assume il carico morale, politico e pratico, di sollevare i propri cittadini da certi impegni gravosi che condizionerebbero negativamente il resto della loro vita. Sono sincero, non posso dire una cosa che non penso. D’altronde, tu lo sapevi già. E ora ordiniamo da mangiare, mi è venuta fame. Dopo cena torneremo a casa nostra. Da lì potrai telefonare ai tuoi genitori per comunicare loro che hai deciso di rimanere al fianco di tuo marito.” Fece scattare il suo accendino d’oro per accendersi una sigaretta e, guardandomi con aria tranquilla, aggiunse: “Mi è venuta voglia di cenare con dello champagne.” “Non ti amo più,” ribadii. Un’ombra di tediata impazienza oscurò per un attimo il suo volto. “Dunque quando parlo non mi stai a sentire?” mi apostrofò con tono freddo e seccato. “Il fatto che tu mi ami o meno non ha più alcuna importanza. Non lo hai ancora capito? Buon Dio, svegliati.”
(Parte prima, capitolo III)
1941...
Ma una mattina Frau Hecke non si presentò al servizio. Gregor dichiarò con un ghigno che le aveva dato un giorno di ferie. Pochi minuti dopo suonarono alla porta e mio marito fece entrare tre individui, uno dei quali dava l’impressione di essere un medico Mi spaventai. Non mi fidavo di Gregor e fui colta da un brutto presentimento. Gregor mi disse con tono serafico: “Questo è il dottor Zwicke, Grete, l’ho chiamato perché tu hai bisogno di aiuto.” “Io non ho bisogno di alcun aiuto!” “Oh, sì che ce l’hai,” rispose. “Glielo dica lei, dottore.” Questi mi si avvicinò sorridendo, ma senza alcuna benevolenza. “Buon giorno, mia cara signora, io sono qui per aiutarla. Lei ha un problema di nervi, cara ragazza, se ne rende conto? Oh, nulla di irreversibile, ma ha bisogno di cure. Di cure specialistiche.” “Io non ho bisogno di cure!” sostenni, guardando in direzione di Gregor, ma lui evitò il mio sguardo. Allora mi avvicinai al telefono per chiamare i miei genitori, ma mio marito mi strappò dalle mani il ricevitore. “Nessuna telefonata,” ordinò duramente, e scorsi nei suoi occhi una luce nuova, più pericolosa. “Cosa succede, Gregor?” gli domandai. “Cerchi di essere ragionevole,” intervenne Zwicke. “Lo dico per il suo bene, cara. Lei ha bisogno di essere curata in una struttura idonea e i suoi genitori non mancheranno di essere informati in quale clinica sarà ricoverata.” “Clinica?” gridai. “Di quale clinica sta parlando?” Zwicke mi si accostò e disse con tono mellifluo: “Si calmi, cara, deve calmarsi. E non creda che non la capisca. Lei ha sofferto, lo so. Lei ha terribilmente sofferto per quel duro colpo che le ha riservato il destino. Sono cose che possono sconvolgere la mente. Ma lei ha sbagliato, cara signora, a non voler accettare un intervento deciso dall’alto, un intervento atto a renderle la vita più facile. Questa sua resistenza mentale le ha causato un danno al sistema nervoso. Oh, nulla di irrimediabile, ma lei ha bisogno di essere curata.” Stavo per rispondergli con fermezza, ma improvvisamente mi ritrovai sotto gli occhi una carta. “Firmi!” mi ordinò con improvvisa violenza. “Lei deve firmare questo documento.” Indietreggiai. Ero in pericolo, ora lo sapevo. Ora ne ero terribilmente cosciente. “Io non firmo niente!” gridai, facendomi coraggio. “Oh, sì che firmerà,” replicò Zwicke con occhio perfido. “Gregor, fai qualcosa,” lo supplicai senza dignità, “aiutami!” Gregor ebbe un moto di impazienza e disse, seccato e irremovibile: “La faccia finita, dottore, proceda.”
(Parte prima, capitolo III)
1997...
Hans se n’è andato da ormai più di mezz’ora e Rudi e io ci stiamo trattenendo un poco nella veranda, in attesa che la cameriera ci porti la consueta tisana. Rivolgo un ultimo sguardo al lago silenzioso, poi raggiungo il mio posto preferito, una panca in vimini davanti a un piccolo tavolo da giardino laccato di bianco, e inspiro il familiare profumo della pipa di Rudi. Continuo a trovarlo irresistibile, questo mio vecchio marito, lui lo sa e spesso ne approfitta. Il fascino che esercita su di me sembra inesauribile e inattaccabile dal tempo. Cerco i suoi occhi e avverto un’estrema tenerezza. E il solito pensiero mi assale: quanto tempo ancora? Rimaniamo alcuni attimi a guardarci, silenziosi e grati di ogni momento che il cielo è ancora disposto a concederci.
(Parte prima, capitolo V)
1941:
Viaggiavamo ormai da moltissime ore e nel pomeriggio terminò la provvista di acqua. Cominciammo a soffrire una terribile sete. Una volta il bus si fermò, così ci permisero di espletare i nostri bisogni. Era una strada dimenticata da Dio e fummo costrette a sbrigarcela su un campo desolato. Alcune pazienti tentarono la fuga e subito si scatenò una grottesca caccia alla lepre, finché tutte le fuggiasche non furono catturate e risospinte sul bus. A quel punto il viaggio proseguì. Giungemmo a destinazione che era quasi buio. Il bus si infilò in una specie di capannone. I soldati cominciarono a far uscire in malo modo le pazienti dalla vettura. Alcune brontolavano assonnate, altre, svegliate di soprassalto, cominciarono a lamentarsi: “Non voglio morire col gas...” La donna arrivata morta fu gettata per terra come un sacco di patate. Le due infermiere che ci avevano accompagnate non si erano rivelate di alcuna utilità. Avevano preferito chiacchierare con i soldati. In breve fummo tutte fuori dal bus. Sentii un orribile puzzo di capelli strinati, ma la mia mente si rifiutò con ostinazione di andare in fondo a un agghiacciante sospetto. Serrai la bocca e respirai angoscia. Speravo solo che la fine giungesse presto. Una vecchia psicopatica del mio stesso dormitorio di S. si scagliò improvvisamente contro l’ufficiale delle SS, sputandogli in faccia: “Porco! Sei un porco assassino come il Führer!” La SS, dapprima paralizzata dalla sorpresa, con un gesto di collera incontenibile scaraventò la donna al suolo. “Verfluchte Sau!” gridò, bianco d’ira, cominciando a tempestarla di pedate violente con i suoi stivali di vernice nera. E, non soddisfatto, saltò sul corpo della vecchia pestandolo alla maniera dei contadini quando pigiano l’uva. In pochi istanti la donna si irrigidì e sotto la sua testa cominciò a formarsi una pozza di sangue che finì col mescolarsi orribilmente alla polvere del pavimento. L’ufficiale si fermò, soddisfatto, e sul suo volto si addensò un ghigno di convinto disprezzo: “Un insetto di meno,” pronunciò sarcastico, assestando al cadavere un ultimo calcio. Venimmo condotte in una baracca che sorgeva proprio accanto al capannone. Lì ci dissero di attendere di essere chiamate coi numeri che all’istituto S. ci avevano segnato sull’avambraccio con la matita copiativa.
(Parte prima, capitolo VI)
1941:
Un giorno, avendo capito che non riusciva più a reggere la pressione nervosa del suo lavoro, la ragazza andò dal direttore a rassegnare le dimissioni, ma furono seccamente respinte. Poiché a Berlino aveva prestato giuramento, le dissero, ormai non poteva più tirarsi indietro, e da quel giorno la tormentarono con lezioni di “strategie sociali del Reich.” Facevano di tutto per motivare l’esistenza di posti come quello in cui lavorava, adducendo come scusa il fatto che il Führer aveva bisogno di molti ospedali per i soldati feriti al fronte. Ed era per questo che si dovevano svuotare edifici dove si mantenevano in vita soggetti inutili a sé stessi e alla nazione. Dicevano che Hitler non sopportava il pensiero che un soldato ferito al fronte per difendere la patria dall’invasore non trovasse un letto in un ospedale, perché in quel letto giaceva un paziente incurabile, un vecchio, un ritardato mentale, un alcolizzato o un pazzo.
(Parte prima, capitolo VII)
1939:
“Prima dovevo sapere chi fosse la ragazza che desideravo frequentare,” rispose lui con un certo, quasi feroce candore, “ma per fortuna le informazioni hanno dato risultati più che soddisfacenti. Lei è perfetta.” Perfetta. Non capivo perché, ma il termine mi irritava. Non lo trovavo affatto lusinghiero. “La sua famiglia è da generazioni di puro ceppo ariano,” dichiarò Gregor in tono sempre più enfatico, “me ne congratulo! Lei è una ragazza preziosa.” Tacqui, ma lui cercò di giustificarsi. “È una legge di Himmler,” disse, “intendo quella sulle informazioni. Le SS non possono rischiare di contaminarsi con donne impure...” Si schiarì la gola. “Impure dal punto di vista della razza, lei capisce, non è vero? E lei è perfetta, magnifico!” “Non sono sicura di voler essere perfetta,” risposi allora, “la perfezione talvolta è noiosa.” Ma già ne ero pentita. “La perfezione non è affatto noiosa,” ribatté lui, “noiosa è l’imperfezione. Noiosa e portatrice di complicazioni. L’imperfezione è un lusso che un moderno Stato non può permettersi, mein Fräulein. Occorre risparmiare le spese sociali e sanitarie stanziate per sostenere i soggetti inutili a sé stessi e alla comunità, e spenderle a favore del tessuto sociale sano e utilizzabile. Uno Stato compassionevole è uno Stato debole. E la debolezza non porta vantaggi, le false pietà sono controproducenti.”
(Parte seconda, capitolo I)
1940...
Ho sentito il bambino muoversi. “Stai tranquillo...” gli ho mormorato. “Tu nascerai privilegiato.”
(Parte seconda, capitolo II) |
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Helga Schneider è nata in Polonia e ha vissuto in Germania e in Austria. Dal 1963 risiede in Italia. Oltre a Il piccolo Adolf non aveva le ciglia, ha pubblicato Porta di Brandeburgo (Rizzoli, Milano, 1997), Il rogo di Berlino (Adelphi, Milano, 1995), Lasciami andare, madre (Adelphi, Milano, 2001) e Heike riprende a respirare (Salani, 2008).
Le altre opere di Helga Schneider in Righe di Libri:
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