Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
La Terra vista da Anticoli Corrado nell’ottobre del 2013
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(Venerdì 18 ottobre - lunedì 18 novembre 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
(Lunedì 28 ottobre 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com)
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Halloween. La Festa di chi non si fa spaventare da nessuno. (Martedì 28 ottobre 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: Luci della città, di Charlie Chaplin. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
“Dev’essere ricco...” dice la Nonna quando la Ragazza ― la povera fioraia ambulante, cieca solo perché non ha i soldi per operarsi ― le racconta che lui le ha comprato tutti i fiori e l’ha accompagnata a casa in automobile. “Sì. Ma è più che quello” replica la Ragazza, lo sguardo fisso che per un attimo si riempie di gioia, ravvivato dalla speranza, dalla possibilità, forse già dalla realtà dell’amore.
Son poche le didascalie di Luci della città. Che Charlie Chaplin volle muto, benché gli amici lo sconsigliassero, contro il mondo intero che da tre anni impazziva per il cinema sonoro e non chiedeva altro. Muto ma insieme sonoro, intessuto di musica bellissima, commovente, e di suoni invece buffi, grotteschi. Come se la voce umana vera, la voce degli affetti le rare volte che trovano voce, solo la musica possa “recitarla” senza falsarla e avvilirla. E al sonoro macchinalmente riprodotto, perciò, e alla tecnica che gli ha permesso di invadere le sale cinematografiche, non si possano affidare che i piccoli o grandi rumori che talvolta “sfuggono” suggerendo quel che altrimenti non si oserebbe immaginare: come il gracidio disumano che intontisce la folla attraverso i microfoni e gli altoparlanti dei comizi; o i fischi incontrollabili che interrompono indecorose esibizioni salottiere; o le percussioni ― quando non i colpi di pistola ― che ritmano la violenza di ogni incontro-scontro, negli anni del capitalismo trionfante.
Le didascalie sono poche, dunque, in Luci della città, e pochissime dicono qualcosa che solo il linguaggio verbale può dire: “Sto guidando?!” ― “Venga ogni volta che lo desidera, signore” ― “Signora, paghi quel che ci deve o la sfrattiamo” ― “Un medico viennese guarisce i ciechi” ― “Magnifico! Così potrò vederla!” ― “Sei in ritardo per l’ultima volta: levati dai piedi!” ― “Questo è per l’affitto. E questo per i suoi occhi” ― “Ho fatto una conquista” ― “Sì, ci vedo adesso” ― the end. E una delle più importanti è quella che ho citato all’inizio: “Dev’essere ricco...” ― “Sì. Ma è più che quello”.
Più che ricco dev’essere l’uomo che la Ragazza potrebbe amare. Che forse già ama. Non s’innamorerebbe mai di uno che fosse solo ricco. E questo è il massimo di umanità possibile, nella città che il capitalismo trionfante plasma a sua immagine. O meglio: il massimo di umanità possibile a chi, in quella città, non è il Vagabondo. Compresa la Ragazza. Che del Vagabondo non dirà, alla fine, che è “più che povero”. Poiché in quella città ― che è anche la città della Ragazza, la città che nemmeno lei riesce davvero a sconfiggere dentro di sé ― un ricco può, sia pure assai di rado, arrivare a esser più che solo ricco. Ma un povero no: un povero non potrà mai essere più che quello, agli occhi dei sudditi del capitalismo trionfante resi ciechi dalle luci accecanti della città. Compresa la ragazza.
Doveva essere, nelle intenzioni originarie di Charlie Chaplin, un film sulla cecità. Divenne, invece, un film sulle vittime della “cecità” altrui: su quelli che gli accecati non vedono e non vogliono vedere... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Lunedì 28 ottobre 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
L’Italia è il Paese più ignorante del mondo? Balle.
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Spiegare un Film a un Bambino: Paris, Texas, di Wim Wenders. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
Travis è un uomo che ha fatto della vita un deserto. Che ha reso vuota e arida la mente annullando gli affetti che la fecondavano (l’amore per il figlio, per la moglie, per il fratello, forse per un lavoro). Che è andato via, lontano, facendo sparire anche sé stesso dalla vita di chi lo amava. “Sono stato in Messico...” confesserà; e il Messico, come la Finlandia, o il Nepal, o magari una Galassia lontana lontana, altro non è che uno dei mille luoghi che ogni uomo e ogni donna possono scegliere come proprio personale “Aldilà”: dove poter “essere” (anche per sé stessi) un po’ come morti e dimenticati da tutti.
È in un deserto, infatti, che incontriamo Travis: assetato, stremato e solo (come il folle urlante che egli incontrerà a Los Angeles su un viadotto altrettanto deserto) Ed è per questo che all’inizio sospettiamo che Travis sia pazzo. Dubbio che si fa più insistente quando scopriamo che si è chiuso in un volontario mutismo, da cui non esce neanche per rispondere a suo fratello Walt (che si è precipitato da lui non appena l’hanno informato che Travis è riapparso, sfinito dalla sete e dalla stanchezza, in uno di quei luoghi dove aiutare, derubare e uccidere sono modalità di rapporto non ben distinte). O quando vediamo che a Travis, anche dopo che ha accettato di tornare a Los Angeles con Walt, basta guardarsi allo specchio, in una camera d’albergo (e vedersi così diverso da un essere umano da disperare di recuperarne l’aspetto semplicemente con una doccia e una rasatura) per scappar via un’altra volta.
Costui dev’essere pazzo, pensiamo. E lì per lì (non sapendo ancora dove si stia dirigendo) non ci rassicura nemmeno il fatto di vederlo avanzare in linea retta, senza curarsi dei sentieri tracciati da altri né di tutto ciò che lo circonda, come un uomo che sa con precisione dove vuole andare e che desidera arrivarci al più presto: anche i folli, infatti, possono avere mete precise, e non meno folli di loro.
Ma Travis non è pazzo. Cominciamo a capirlo vedendo che non è riuscito ad annientarsi del tutto, tant’è vero che riappare e si lascia riprendere. E che non ha del tutto annullato i propri affetti, tant’è vero che l’amorevole presenza del fratello riesce, a poco a poco, a riconquistare la sua fiducia.
Scopriamo, allora, che la meta verso cui Travis si dirigeva con tanta determinazione non è una meta da folle: è Parigi. E non la Parigi di Francia (che per uno nella sua situazione sarebbe in effetti un traguardo da pazzo) ma la Parigi del Texas: il luogo, cioè, dove suo padre e sua madre, facendo l’amore per la prima volta, lo hanno concepito: “Il mio punto di partenza...” spiega Travis a Walt... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Mercoledì 16 ottobre 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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La democrazia? Solo tra gli oligarchi. E il popolo? Si fidi. Oppure si impicchi - Eugenio Scalfari si sente ormai così sicuro, che il suo fascismo di sempre neppure lo nasconde più. (Immagine tratta da Segnalazioni - Testo di Eugenio Scalfari - Commento di Luigi Scialanca). (Lunedì 14 ottobre 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: Genio ribelle, di Gus Van Sant. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
L’eccezionalità e la genialità di Will Hunting sono quelle di ogni ragazzo o ragazza del mondo. Non solo i “geni” come lui, infatti, ma tutti gli esseri umani hanno qualcosa di assolutamente prezioso da non sciupare, non sprecare e non distruggere: sé stessi e le proprie vite.
È ciò che l’amico Chuckie intende dire a Will quando gli rivela che anche lui ha in mente un’immagine di come Will potrebbe essere. E che nemmeno lui, perciò, contrariamente a quel che pensa Will, lo accetta com’è: “Devi capire cosa ti piace fare, e devi riuscire ad andartene da qui. Non lo devi a te stesso, lo devi a me”. Esser degni di sé, vuol dire Chuckie, è un compito in cui ogni essere umano è tenuto a impegnarsi totalmente, qualunque sia il livello delle sue capacità. E chi fallisce in questo compito, oltre che perdere sé stesso, infligge una delusione a tutti gli altri e spinge anche loro verso il fallimento.
Capito ciò, quel che dobbiamo domandarci è perché mai Will Hunting (come tanti altri) sia così deciso a far niente della propria vita. E rispondere non è facile.
Vediamo, infatti, che egli non ha soffocato le sue capacità. Al contrario, non ha mai smesso di coltivarle, benché in segreto. In qualche modo, dunque, Will non ha rinunciato a sé stesso: tant’è vero che ha continuato a leggere e a studiare per conto proprio, impadronendosi di un’enorme cultura e imparando a servirsene con la più disinvolta sicurezza; e soprattutto non ha mai smesso di “divertirsi” con la Matematica, permettendo così al suo genio creativo di sopravvivere.
Ma come usa il sapere? Come “si diverte” con la matematica?
In realtà, Will si serve del suo genio e delle sue conoscenze come di un’arma contro gli altri. Non per creare qualcosa, ma solo per sconfiggere quelli che considera nemici (gli adulti in genere, specialmente chi è o si considera investito di un qualche potere, e i ragazzi cosiddetti “per bene”) o tutt’al più per affascinare qualche bella studentessa con cui spassarsela per un po’. Come se l’immensa ricchezza umana di Will, e la sua intensa e complessa vita interiore, non esistano che per difendersi dagli altri, per erigere contro di loro una barriera di anaffettività e renderla sempre più dura e impenetrabile.
Will, infatti, è un ragazzo selvaggio. Tremende delusioni e inenarrabili violenze si sono abbattute su di lui quand’era bambino. Ed egli, credendo di non poter sopravvivere se non indurendosi, si è chiuso in una corazza di spietata diffidenza che uccide la sua umanità impedendogli di attingere gli affetti, positivi o negativi, di cui son piene le idee, il sapere, le opere d’arte, ogni realizzazione umana; e naturalmente lui stesso, e tutti gli altri, e fra gli altri soprattutto le donne. E così le sue migliori qualità e capacità, ogni volta che le esprime da dentro la corazza, si tramutano fatalmente in armi micidiali... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Lunedì 7 ottobre 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Giovedì 3 ottobre 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
“La mente cosciente non è più al centro del comportamento umano, è bene farsene una ragione” (da Le Scienze di ottobre, pag. 8) Le Scienze di ottobre presenta il libro che uscirà col prossimo numero (novembre 2013), L’animale sociale, di David Brooks, e la presentazione mi pare così interessante che la trascrivo qui di seguito per intero (Clicca qui per scaricarla in pdf - e qui per scaricarla in word). Fermo restando, naturalmente, che solo la lettura del libro potrà dirci se esso mantiene quel che sembra promettere...
I successi di Erica e Harold
Harold ed Erica sono due persone di successo, hanno raggiunto ottimi risultati nelle rispettive vite professionali e in questo percorso trionfale si sono anche sposati. Sono partiti però da posizioni sociali ed economiche molto diverse, e nessuno dei due è un genio. Harold è stato il classico ragazzo bianco della classe media statunitense. Atletico ma non troppo, e con qualche lampo di idealismo, non è poi così ambizioso. Dopo gli studi universitari entra nel mondo del lavoro come consulente e alla fine arriva ad avere un ruolo come intellettuale di riferimento in un think-tank, uno di quei centri studi che travasano idee e strategie nella vita pubblica degli Stati Uniti. Erica invece è per metà sino-americana e per l’altra metà messicana-americana. Nata e cresciuta in una famiglia povera, riesce a fondare una propria azienda e finisce per diventare una personalità importante nella vita politica degli Stati Uniti.
Entrambi sono personaggi immaginari, creati dalla mente del columnist del New York Times David Brooks per il suo libro L’animale sociale (The Social Animal: The Hidden Sources of Love, Character, and Achievement, di David Brooks, Random House of Canada, 2011, 224 pages)) allegato al numero di novembre de Le Scienze e in vendita in libreria per Codice Edizioni, in cui l’autore tenta di rispondere alla domanda: come sono riusciti Harold ed Erica ad arrivare tanto in alto, superando le peripezie che accompagnano ogni esistenza?
Non è un interrogativo di immediata soluzione: come spiega Brooks, anzitutto bisogna abbandonare il primato, per lui presunto, della razionalità e del quoziente intellettivo. Seguendo la vita dei suoi due personaggi nei vari capitoli, dall’infanzia alla vecchiaia, e con il conforto di studi di scienze cognitive, neuroscienze e psicologia, Brooks opera una piccola rivoluzione copernicana. Il successo sociale e privato dei suoi due protagonisti è dovuto principalmente alla parte inconscia della mente, quella che per lungo tempo è stata derubricata a componente primordiale che deve essere addomesticata per prendere decisioni assennate e quindi corrette. Al contrario, per Brooks “le componenti mentali inconsce costituiscono la porzione più estesa della mente, dove matura gran parte delle decisioni e dove hanno luogo molti dei più significativi atti del pensiero. Questi processi sommersi sono il semenzaio della realizzazione nella vita”.
Sono l’istinto e la competenza non cognitiva che sbrigativamente e con un pizzico di banalità chiamiamo buon senso a dettare la nostra vita, molto più della mente razionale. Tanto per essere chiari, Brooks cita un dato: la mente umana può gestire in ogni momento 11 milioni di elementi di informazione. La stima più generosa è che un individuo possa essere cosciente al massimo di una quarantina di essi. La visione della razionalità padrona dovrebbe dunque essere rovesciata: è l’inconscio a fare tutto il lavoro, la coscienza potrebbe limitarsi a dare un senso a quello che l’inconscio fa di propria iniziativa.
Il territorio d’azione di queste competenze sottovalutate o addirittura dimenticate è quello dei legami invisibili tra gli individui, delle relazioni sociali che possono emergere da questi legami e che a loro volta danno vita a strutture di tipo diverso e con differenti ruoli, che siano politici, religiosi, economici o della cerchia stretta di amici. La socialità è uno dei tratti distintivi della nostra specie, ed è il regno della mente interiore, come la chiama Brooks in un singolare ossimoro semantico con l’esteriorità del risultato dell’opera di questa mente. La mente cosciente non è più al centro del comportamento umano, è bene farsene una ragione. (Clicca qui per scaricarla in pdf - e qui per scaricarla in word). (Mercoledì 2 ottobre 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: Buffalo ’66, di Vincent Gallo. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
La prima immagine di Buffalo ’66 è quella di Billy, all’età di sette anni, con il cagnolino Bingo. La seconda è quella di Billy che esce di prigione dopo avervi trascorso cinque anni. Siamo nel ’96, Billy Brown ha trent’anni. Lo vediamo tornare in libertà, da grande, subito dopo averlo visto da piccolo con un cucciolo tra le braccia, e non sappiamo come mai il tenero bambino sorridente di allora si sia tramutato nel pregiudicato di oggi. Ignoriamo tutto di lui, tranne il poco che vediamo: che è stato in prigione, che è vestito male, che ha i capelli lunghi e la barba mal rasata, e che cammina piegato in avanti con le mani in tasca e le spalle curve, come uno che vuol chiudersi in sé stesso perché niente di buono si aspetta dagli altri e niente di buono pensa di poter dare loro. Eppure, fin dal primo istante, ci sembra che Billy non sia cattivo. Che non sia davvero cambiato in peggio, da quando aveva sette anni.
Sarà perché ci fa pena. Perché fuori non lo aspetta nessuno, anche se è inverno e il carcere è a qualche chilometro da Buffalo. Perché non sa dove andare, tanto che si sdraia su una panchina a pochi metri dal cancello e rimane lì a tremare in mezzo alla neve. Perché, quando gli scappa la pipì, chiede che lo facciano rientrare in prigione come se fosse il solo luogo dove può immaginare di trovare rifugio. Perché non ha il coraggio di ribellarsi e neanche di far la faccia brutta a chi lo scaccia, lo respinge, gli nega il minimo aiuto. Fatto sta che non riusciamo a giudicarlo male nemmeno quando si scaglia sull’unica persona che invece gli ha dato una mano ― una ragazza che gli ha prestato venticinque centesimi per telefonare a casa anche se Billy l’ha presa a male parole un’istante prima ― e la trascina fino alla macchina di lei minacciandola di darle un sacco di botte, se cercherà di scappare o rifiuterà di ubbidirgli.
Ma la ragazza non sembra spaventata. Gli strattoni e le parolacce del giovane non le piacciono, glielo si legge in faccia, ma è altrettanto chiaro che non ha paura. E la sua mancanza di timore conferma la nostra: ci dice che la ragazza sente, lì con lui, quel che noi, che siamo dall’altra parte dello schermo, possiamo solo dedurre da quel che vediamo: che Billy, malgrado tutto, non è cattivo.
Impressione che si rafforza quando Billy, rivelandosi un rapitore molto sprovveduto, scende dalla macchina ― di cui, non sapendo guidare, ha dovuto cedere il volante alla rapita ― si allontana di parecchi metri per fare finalmente pipì e vergognandosi volge le spalle alla ragazza senza pensare che lei potrebbe approfittarne per fuggire. E soprattutto quando Billy, dopo averle ingiunto di fingersi sua moglie davanti ai suoi genitori ― ai quali ha nascosto di essere finito in prigione ― la minaccia, se non si comporterà come una brava moglie e non sarà carina con lui, di non essere mai più suo amico! È la “minaccia” di un bimbo a un’amichetta, così estranea alla violenza che sta commettendo, che a questo punto Billy ci fa sorridere, ci intenerisce, e le due immagini che all’inizio non sapevamo come collegare ― l’affettuoso bambino di sette anni e l’indurito pregiudicato di trenta ― diventano una: Billy il cattivo è solo un buon ragazzo sfortunato, in lui c’è ancora il bambino che abbracciava il cucciolo, non è mai cresciuto, e il giovanotto dall’aria poco raccomandabile e dai modi beffardi e violenti nel quale il ragazzino si è nascosto è solo una maschera che a poco a poco è diventata una corazza, e non ha altra sostanza né verità che il peso intollerabile che fa gravare su di lui senza neanche proteggerlo sul serio. Arriviamo così a casa dei Brown ― ai quali la ragazza, che in realtà si chiama Leila, viene presentata come Wendy Balsam, moglie di Billy ― e presto capiamo che è con loro che il tenero e sorridente bambino nato nel ’66 si è trasformato nel cupo teppistello del ’96... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Martedì 1° ottobre 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).
L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.
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