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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

L'immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell'artista danese Viggo Rhode (1900-1976). L'ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

La Terra vista da Anticoli Corrado

nellaprile del 2014

 

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Genitori, le prove Invalsi danneggiano i vostri figli...

Genitori, le prove Invalsi danneggiano i vostri figli: RIBELLATEVI, per il loro bene. (Mercoledì 30 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

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Genitori, il 6 e il 7 maggio, ancora una volta, i vostri figli saranno costretti a sottostare alle cosiddette “prove Invalsi”. Costretti? Sì. Ma solo se si troveranno all’interno degli edifici scolastici.

 

Vi raccontano, genitori, che le prove Invalsi sono prove di valutazione del sistema scolastico, degli insegnanti, degli alunni. Cercano di convincervi che valutarli è necessario, che si deve sapere quali risultati stiano ottenendo, che bisogna confrontarli con quelli degli altri Paesi... Niente di tutto ciò è vero. Chi dice queste cose è un bugiardo. Oppure, se è onesto, non sa quel che dice.

 

In primo luogo, queste prove stanno già oggi danneggiando fortemente l’istruzione dei vostri figli, perché obbligano i docenti a sottrarre tempo all’insegnamento e al rapporto educativo e didattico (tempo già ridotto dai tagli con cui i governi italiani hanno fatto soldi per le banche derubando i bambini) per addestrare gli alunni, con continue esercitazioni, al superamento delle prove stesse. Ma c’è di peggio...

 

Le prove Invalsi non sono prove di valutazione, ma prove di sostituzione: mirano a sostituire agli insegnanti i computer (o, che per i vostri figli è anche peggio, a tramutare gli insegnanti stessi in computer); a sostituire agli affetti (che rendono umano e vivo ed efficace il rapporto insegnanti-alunni) la razionalità anaffettiva, gelida, ostile all’umano; a sostituire, cioè, al rapporto il nulla.

 

Solo voi, genitori, potete impedirlo. Ed è a voi, perciò, che migliaia di insegnanti chiedono di tenere i bambini a casa, in quei giorni: di stare con loro, se possibile, o di affidarli ai nonni, o riunirli in case di amici, e far loro sentire ancor più del solito il calore degli affetti umani. Poiché in quei giorni nelle aule non ci saranno insegnanti, ma un meccanismo: impersonale, insensibile, freddo, astratto, al quale gli insegnanti dovranno consegnare i vostri figli e poi restar lì come statue, muti, come se non esistessero.

 

Poiché i vostri figli saranno lasciati soli col nulla, il giorno delle prove Invalsi, e sarà il nulla a valutarli. Gli insegnanti dovranno solo premere il tasto Invio dopo aver inserito i dati in apposite griglie, predisposte dall’Invalsi, nelle quali non c’è spazio per descrivere, dei vostri figli, la personalità, le qualità, i punti di forza, i problemi: nulla. E sarà un computer a trarre dai dati una valutazione della situazione scolastica dei bambini senza rapporto con loro, come se neanche i bambini esistessero più.

 

Il rapporto insegnanti-alunni ridotto a nulla, gli insegnanti ridotti a nulla, i bambini ridotti a nulla, solo numeri valutati da macchine... ecco cosa sono le cosiddette prove di valutazione Invalsi: prove di sostituzione del non umano all’umano. Per vedere “se funziona”. Sulla pelle dei vostri figli.

 

È questo che vogliamo per i bambini e i ragazzi? Questa è la Società che vogliamo lasciare loro: un meccanismo senza affetti che decide i destini di tutti per mezzo di gelidi calcoli?

 

Il sistema scolastico, gli insegnanti e i risultati conseguiti dagli alunni devono essere valutati, certo: ma da esseri umani, cioè dagli alunni stessi e dalle loro famiglie. Da voi.

 

Senza dimenticare, però, che i risultati che la Scuola conseguirà non dipenderanno solo dalla Scuola, ma anche dalla famiglia, da quanto i governi fanno per sostenerla (che in Italia è peggio che poco, poiché in Italia i governi hanno sempre fatto di tutto per metterle in difficoltà, le famiglie), dalle condizioni economiche, sociali, civili e culturali del territorio in cui i bambini vivono, dai religiosi a cui i bambini sono affidati, dai media che i bambini frequentano e dai giochi di cui dispongono.

 

Post scriptum. Si obietterà che i test delle prove Invalsi sono predisposti da esseri umani e sono prodotti altamente professionali, migliorati ogni anno: perché, dunque, chiamarli nulla? La risposta è semplice quanto dolorosa: sono nulla perché, per quanto professionali siano, quelle prove non conoscono i vostri figli, non sanno niente, non hanno con loro alcun contatto umano, alcun affetto, alcuna storia di rapporto: nulla, appunto. Tanto che, se invece di un bambino fosse un computer a svolgere le prove, all’Invalsi non se ne accorgerebbe nessuno: lì non la conoscono più, la differenza tra un bambino e una macchina.

 

Post post scriptum. Si obietterà che tenere i bambini a casa il 6 e il 7 maggio non servirebbe, perché le prove sarebbero ripetute in altra data. Ma questa obiezione non esprime che il solito, vecchio disfattismo con cui si cerca sempre di scoraggiare chi lotta per migliorare le cose: un’astensione di massa, uno sciopero generale delle famiglie contro le prove Invalsi servirebbe e come, perché dimostrerebbe che gli Italiani non ne possono più di veder distruggere le speranze, il futuro e l’umanità stessa delle nuove generazioni dagli esperimenti insensati di una classe politica piena ormai solo di odio antiumano.

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(Mercoledì 30 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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San Karol Wojtyla protettore dei preti pedofili?

Karol Woytjla, santo protettore dei preti pedofili. (Domenica 27 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

Giovanni Paolo II ha esercitato un pontificato autoritario, opprimendo i diritti delle donne e dei teologi. Per questo non merita di essere presentato ai fedeli come un esempio... Personalmente, ho pur sempre costituito il primo grande caso di inquisizione promosso da questo papa. Non mi ha dato la possibilità di difendere le mie posizioni teologiche, per le quali mi è stata ritirata la cattedra di teologo cattolico ufficiale nel Natale del 1979. Eppure era palese che Wojtyla non aveva letto neanche uno dei miei libri. Ma questo non lo tratteneva dal condannarli. Di qui si evince come questo papa sia stato intollerante e contrario al dialogo. Del resto, il suo comportamento nei confronti dei teologi sudamericani della liberazione è stato l’esatto opposto di quello che un esempio cristiano dovrebbe rappresentare... Il successore canonizza il papa precedente, una pratica già vista a Roma in epoca imperiale, quando sistematicamente gli imperatori paragonavano il loro predecessore a Dio. I processi di beatificazione e canonizzazione servono al papa per mettersi in mostra. Come un sovrano assoluto, Benedetto XVI ha infranto il diritto canonico per poter beatificare alla spiccia Giovanni Paolo II mediante l’aggiramento dei termini temporali stabiliti e l’approvazione di una delle più dubbie guarigioni miracolose... Il santo sùbito è stata un’esortazione pilotata. Me li ricordo gli striscioni spontanei di piazza San Pietro: tutti di stampa meticolosa, raffinata. Una palese messa in scena da parte di gruppi cattolici, conservatori e reazionari, che sono molto forti soprattutto in Spagna, Italia e Polonia... Anche in Vaticano fa discutere il rapporto decennale di papa Wojtyla con il sacerdote messicano e fondatore dei Legionari di Cristo Marcial Maciel Degollado, colpevole di svariati abusi sessuali. Sino alla fine dei suoi giorni, Giovanni Paolo II ha protetto Maciel. Allo stesso modo, l’entità degli scandali sessuali nella Chiesa è stata sistematicamente nascosta sia da Wojtyla sia dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Ratzinger. (Hans Küng, teologo, intervista al Frankfurter Rundschau citata da La Repubblica di sabato 30 aprile 2011).

(Domenica 27 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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INDEGNO del 25 Aprile: IO. Che non impedisco a politici servi delle tirannie finanziarie, del papato, degli evasori fiscali e delle mafie di tradire la Costituzione e i Diritti umani e dei lavoratori. (Venerdì 25 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

(Venerdì 25 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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La donna, per la quale il mondo non finisce

Hélène Chatelain e Davos Hanich ne "La jetée" (1962), di Chris Marker.

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Chi ha visto La jetéè (1962), di Chris Marker, capirà meglio di altri. Ma anche chi non l’ha visto può immaginare che la fine del mondo non è possibile, non c’è mai stata, né mai ci sarà ― né per uno né per molti, né tanto meno per tutti ― se le donne non vengono distrutte. Non eliminate: distrutte. Non fisicamente: no, ben prima che un solo capello sia torto a un’unica donna, il mondo finisce ― e talora, per uno o per molti, è già finito ― quando le donne sono distrutte nelle menti degli uomini.

Non so se le donne lo sappiano ― penso di sì, anche se forse non ne sono consapevoli ― ma noi, gli uomini, lo sappiamo tutti: se le donne non ci fossero più, se nelle nostre menti non esistessero più come esseri umani, se in noi non ci fossero più donne se non devastate e mostruose, il mondo finirebbe. Per un solo uomo se accadesse a uno, per molti se accadesse a molti, per tutta l’Umanità se accadesse a tutti: un mondo senza più donne se non distrutte sarebbe un mondo finito. E a quel punto la sua fine anche fisica ― per quell’uno o quei molti o per tutti gli esseri umani ― sarebbe solo questione di tempo.

La jetée, dicevo, ci aiuta a capire: la fine di un mondo senza più donne è sempre anche fisica, certo, ma di rado lo è sùbito: ci può volere del “tempo” ― “tempo” materiale ― perché un uomo muoia, e assai di più perché una civiltà si estingua o l’Umanità scompaia dalla faccia della Terra. Però la fine è certa, anche fisicamente, e il “tempo” necessario è di solito ben più orribile della fine stessa.

Ne La jetée, il mondo è stato incenerito da un conflitto atomico. Ma vi sono dei sopravvissuti: a Parigi, acquattati insieme ai ratti e agli scarafaggi nei sotterranei della città.

Perché non sono morti? Si dice che siano “i vincitori”, e in un certo senso è così: non hanno più donne, non ci sono donne se non distrutte in loro, dunque son di quelli che hanno vinto il mondo umano e causato la sua fine. Ma sono ancora lì, vivi, e in niente migliori di prima. Com’è possibile?

Hélène Chatelain ne "La jetée" (1962), di Chris Marker.

Presto capiamo che c’è uno, fra loro, nel quale le donne non sono state annichilite. Uno, fra loro, il cui mondo non è finito. E che gli altri sopravvivono perché erano della sua cerchia: parenti, o amici, o forse soltanto a lui vicini, il giorno della fine, in una vettura della metropolitana.

Non sanno perché son vivi, né tanto meno di doverlo a lui. Nell’ultimo uomo ancòra umano, l’immagine di donna non distrutta non sempre è possente, non sempre reca con sé un mondo infinito di affetti, di idee, di storia: talvolta, come ne La jetée, il solo che ancòra ha una donna ne ha un’unica immagine remota ― unica, ancorché meravigliosa e indistruttibile ― sopravvissuta in lui, di essa quasi inconsapevole, malgrado la devastazione che dall’infanzia a oggi ha imperversato intorno e su di essa.

Eppure l’ultimo uomo non ha (provvisoriamente?) salvato solo sé stesso, ma anche quelli che erano con lui. E loro, benché mostruosi, accanto a lui han perfino “capito” qualcosa, ma senza capire, proprio come lui, né cosa né come: “sanno”, cioè ― ovvero, razionalmente deducono senza capire ― che egli è rimasto almeno in parte umano perché vive in lui quell’immagine di donna; che la sua sopravvivenza dipende da quella dell’immaginazione, e che l’immaginazione a sua volta vive (o muore) in un tempo che niente ha a che vedere col “tempo” materiale (lineare, misurabile, razionalmente controllabile e tuttavia irreversibile) in cui essi, e quel poco che è loro rimasto, continuano intanto a rovinare e perire.

Per l’ultimo uomo c’è ancòra tempo. In lui c’è ancòra il tempo. Il tempo umano, molto più individuale delle impronte o dell’iride. Il tempo multiforme, incommensurabile, irrazionale, incontrollabile, e tuttavia pienamente reversibile, che l’immaginazione dispiega nei primi anni di ogni essere umano.

L’immagine non distrutta della donna è lì, tra i pochi ricordi che l’ultimo uomo ha portato con sé del mondo di prima. Ma non è un ricordo, benché sia fisicamente “esatta” e corrisponda al “vero”. Al contrario, essa si oppone al ricordo entro il quale egli l’ha creata (e tuttavia, necessariamente, è l’immagine di una donna realmente esistita e che ha davvero partecipato alla sua vita, in modo totale, in un momento fondamentale): l’immagine della donna si oppone, nella mente dell’uomo, alla violenza, alla morte, alla disumanità per le quali potrebbe anch’egli rendersi mostruoso, e perciò il tempo umano, che nei devastatori e distruttori della donna si ferma per sempre, in lui continua.

Che ne capiscono quelli là? Solo che nel suo “tempo” (che per loro è quello materiale) il mondo non è finito, e che lui ― lui solo ― può viaggiare in esso con l’immaginazione e riportarne, forse, o predisporre in qualche luogo, se l’impresa non fallirà, mezzi di sopravvivenza altrettanto materiali.

Capiscono niente, cioè. Ma anche, in qualche modo, moltissimo. E iniziano, così, quello che credono un “esperimento” di “viaggio nel tempo” ed è, invece (e loro lo sanno, malgrado ciò che credono) uno “scientifico” tentativo di assassinare l’ultimo uomo sulla Terra affinché scompaia anche l’ultima immagine di donna non distrutta e, con essa, tutto ciò che resta dell’Umanità.

Davos Hanich e Hélène Chatelain ne "La jetée" (1962), di Chris Marker.

Omicidio tanto più necessario, per i “vincitori” disumanizzati, quanto più essi si rendono conto ― come si capisce guardando La jetée ― che l’uomo da quell’unica immagine sta traendo nell’immaginazione una storia d’amore, con quella donna, che davvero può far rivivere il mondo intero e perfino restituirgli un futuro. Ma solo in lui, e in lei. Solo per lui, e per lei. E per quei “vincitori”, probabilmente possibili solo in astratto, che da un’immagine di donna fossero ancora capaci di ritrovarsi “vinti”.

Su La jetée non dirò altro, qui. Non dirò come inizia, né tanto meno come va a finire. Solo una cosa ancòra: le immagini nel “Museo di Scienze naturali” nessuno, mi pare, le ha capite. Quello non è un museo. È una caverna di trenta o quarantamila anni fa (molti di più di quanti se ne possano contare anche nella più vecchia delle sequoie) e la donna e l’uomo sono lì a ricreare dall’inizio la storia umana.

P.s.: Sarà già accaduto? In molti, temo, il mondo sarà individualmente già finito. Ma saranno anche già scomparse intere civiltà, per aver distrutto l’immagine della donna fin nella mente dell’ultimo uomo? Certamente non fu possibile finché i Sapiens vissero in gruppi di poche decine: a nessun maschio, allora, si permetteva di mettere a repentaglio la sopravvivenza di tutti isolandosi a distruggere la donna dentro di sé. Ma oggi, per la prima volta, viviamo entro una civiltà globale. Come andrà a finire?

P.p.s.: Il significato de La jetée era stato intuìto ben prima del 1962. Chi volesse raccontarne l’intera storia ― e potrei essere anch’io ― dovrebbe partire almeno da Bruges la morta (1892), di Georges Rodenbach, e continuare con D’entre les morts (1954), di Pierre Boileau e Thomas Narcejac, con La donna che visse due volte (“Vertigo”, 1958), di Alfred Hitchcock, con Indietro nel tempo (“Time and Again”, 1970), di Jack Finney (l’autore de L’invasione degli ultracorpi), con il pasticcio de L’esercito delle dodici scimmie (1995), di Terry Gilliam, e soprattutto con Eyes Wide Shut (1999), di Stanley Kubrick. Che lo rimanderebbe al solo vero capolavoro, oltre a La jetéè, di questa meravigliosa vicenda: il racconto Doppio sogno (“Traumnovelle”, 1926), di Arthur Schnitzler. Nel quale, la “globalizzazione” essendo ancòra agli inizi, è ancòra possibile una civiltà che si estingue “da sola”. Ma nello stesso modo: per la distruzione delle donne nelle menti degli uomini. A cui i protagonisti scampano perché invece non riescono, nel tempo autentico dei loro sogni, a prendervi parte fino in fondo.

Hélène Chatelain ne "La jetée" (1962), di Chris Marker.

“Ma la mente attratta dalla storia del pensiero umano, affascinata come fosse una bella donna sconosciuta che non si è fermata di fronte al terribile termine tedesco Das Unbewusste, si ferma perché lo sguardo è caduto sulle due pagine del left nuovo che hanno, in un grande nero, la parola: Sessualità. E non so, forse l’ondeggiare dei venti che, come le farfalle in primavera cambiano sempre orientamento andando da un fiore all’altro, fece comparire un video.

È antico, fatto da una famosa attrice che fu la protagonista di film girati da un regista geniale: Il grido, La notte, Deserto rosso, Blow up, Zabriskie point. Guardavo e seguivo la ricerca pensando, credo senza ricordo, all’immagine femminile. Ed accadde, nella trasmissione: Mille libri che mi chiesero subito di parlare dell’immagine femminile.

Detti subito la definizione: per l’uomo è la realtà non materiale senza parola e cammino della nascita e del primo anno di vita. È la realtà che sta sotto il segno della parola “diversa”. Realtà diversa dalla coscienza e ragione, diversa dall’Io cosciente che pensa all’utile per la sopravvivenza. È la realtà che, nel sonno, sono sogni. Nella veglia si vede fuori di sé nell’essere umano uguale e... diverso.

(Massimo Fagioli, Anaffettività è la parola che fa comprendere, in left 12 aprile 2014, pp 44-45).

 

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(Domenica 20 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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"l'Unita'" (di sabato 19 aprile 2014): 80 gradi (di inclinazione della schiena) in 5 colonne. Ma con "l'Unita'" c'è "left", e su "left" si leggono le parole di Massimo Fagioli. E allora, vada per "l'Unita'". Nonostante. (Sabato 19 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

(Sabato 19 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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Spiegare un Film a un Bambino: La vita è bella, di Roberto Benigni.

56. "La vita è bella", di Roberto Benigni (1997), con Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Giorgio Cantarini, Giustino Durano, Sergio Bini Bustric, Giuliana Lojodice, Amerigo Fontani, Pietro De Silva, Francesco Guzzo, Raffaella Lebboroni, Marisa Paredes e Horst Buchholz.

(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)

 

Guido Orefice non sa di essere ebreo fino al giorno in cui i fascisti, per la prima volta, lo chiamano tale. Né, prima di quel giorno, ha mai pensato a sé con un aggettivo che lo qualifichi come appartenente a una qualsiasi categoria. Non è mai stato bianco, né nero, né giallo. Né italiano, né francese, né extracomunitario. Né cristiano, né mussulmano. Né comunista, né fascista. Né questo né altro.

 

Vuol forse dire che Guido è sempre stato niente? No. Vuol dire, al contrario, che egli è sempre stato tutto quello che si può essere davvero: un essere umano. E che, da essere umano, si è sempre messo in rapporto con la realtà attraverso sé stesso, con le proprie sensazioni e idee, e non per il tramite del “pensiero” ufficiale di un qualsiasi gruppo o partito o religione (scritto, è ovvio, fra virgolette, poiché il pensiero, come le sensazioni, non può aver luogo in più individui assieme...)

 

Ma non l’ha mai proclamato. Mai si è presentato a qualcuno dicendo: “Buongiorno, piacere di conoscerla: io sono un essere umano, e lei?” Non ha mai dovuto farlo perché gli esseri umani si riconoscono a vista: basta guardarli, per accorgersi che lo sono. Solo il malato di mente o lo stupido credono che a un essere umano, per esser tale, occorra altro che l’esser nato da una donna. Che gli occorra, per esempio, di essere anche adulto, o maschio, o bianco, o cristiano. O magari d’esser nato qui invece che .

 

Il fatto che Guido non sappia di essere ebreo, ma “solo” di essere umano, significa che quel che accade a lui e alla sua incantevole famiglia per mano dei fascisti e dei nazisti (la persecuzione, la perdita di tutto ciò che possiedono, la deportazione, la schiavitù, la morte) non è una catastrofe che può colpire solo gli Ebrei e solo in un determinato periodo storico, ma, al contrario, qualcosa che può accadere a chiunque e in qualsiasi momento. Significa, cioè, che lo scopo della Shoah non è l’eliminazione degli Ebrei, che quel che i nazifascisti vogliono annientare è piuttosto l’umanità degli esseri umani, di tutti gli esseri umani, e che lo sterminio degli Ebrei (che sono in quel momento i più deboli e attaccabili a causa della millenaria campagna d’odio e di calunnie a cui sono stati sottoposti dal Cristianesimo) è più lo strumento che l’obiettivo della cosiddetta “soluzione finale.” Poiché accanirsi sugli Ebrei serve in realtà a render complici o acquiescenti tutti gli altri, a mortificarne l’immaginazione per i secoli dei secoli, a tramutare la speranza in disperazione, l’amore in odio, l’intelligenza in stupidità, il coraggio in paura. A lasciare, nei cuori e nelle menti di coloro ai quali sarà concesso di sopravvivere, un marchio indelebile, un nuovo (e questa volta effettivo) “peccato originale” che impedisca loro una volta per sempre di tornare ad aver fiducia nella propria umanità. Sterminare gli Ebrei, insomma, serve a rendere disumana l’intera Umanità: questo e non altro è lo scopo più o meno consapevole dei nazisti (e dei fascisti nostrani, loro complici). Poiché nazismo è solo il nome che assume, nella prima parte del ’900, l’antico odio di chi ha devastato la propria umanità contro tutti quelli che sono ancora umani: un odio che è latente in ogni epoca storica e presso ogni cultura, e che è costretto per la maggior parte del tempo a trattenersi, a controllarsi, a intorbidare e avvelenare i rapporti interumani mantenendosi nell’ombra, strisciando in silenzio nel buio e “accontentandosi” di perpetrare continue vigliacche aggressioni agli affetti, alle idee, alle proprietà di quelli che vorrebbe distruggere. Ma che di quando in quando, se non lo si tiene sempre a bada, riesce di nuovo a diffondersi, a dilagare, a esplodere. E allora può assumere qualsiasi nome, vestirsi di qualsiasi casacca, prender di mira chiunque e scagliare contro di lui, questa volta, l’odio che per tanto tempo si è tenuto in corpo contro tutti quanti. Poiché quello che egli vuol far sparire (quale che sia la vittima su cui di volta in volta si scaglia: ieri gli Ebrei, oggi gli Extracomunitari, domani chissà) in realtà è sempre Guido Orefice: è sempre, cioè, l’essere umano in quanto tale, il bambino dell’uomo, di cui non sopporta la vista poiché gli ricorda, momento per momento, quel che egli non è riuscito a rimanere... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Giovedì 17 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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ScuolAnticoli non è più su Facebook e sta meglio di prima. (Mercoledì 16 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

(Mercoledì 16 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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(Martedì 15 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

(Martedì 15 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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Non c'è una "sana e libera" separazione di un corpo umano dalla sua umanità. (Domenica 13 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

Non c’è una “sana e libera” separazione di un corpo umano dalla sua umanità

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Il Partito democratico, i suoi dirigenti, i militanti, gli elettori, sanno o non sanno che l’idea che si possa comprare e vendere un essere umano è idea malata, sintomo di malattia mentale? E che l’idea che in un essere umano si possano separare, per poter venderli e comprarli, il corpo dagli affetti, il corpo dalla mente, il corpo dalla storia dell’essere umano ― in una parola: il corpo dalla sua umanità ― è idea non meno malata e sintomo di malattia mentale non meno grave?

 

Forse non lo sanno più, cioè sono malati essi stessi, ed è per questo che non vedono malattia nell’idea della senatrice Maria Spilabotte e del Partito democratico (con l’autorevole sostegno di Alessandra Mussolini) di presentare un disegno di legge (sedicente) di Regolamentazione del fenomeno della prostituzione (in realtà di Depenalizzazione del favoreggiamento della prostituzione) che propone “due strategie: la decriminalizzazione dell’adescamento e del favoreggiamento, da un lato, l’individuazione [dall’altro] di regole minime che indichino dove si può e dove non si può esercitare” e, naturalmente, una “autorizzazione” statale all’esercizio della prostituzione “sia in forma individuale (comprendendola nelle attività di cui al titolo III del libro V del codice civile ― lavoro autonomo) che in forma cooperativa” al costo semestrale “di euro 6.000 per l’attività full time e 3.000 per la part time: un giusto costo, considerando che su centocinquanta giorni lavorativi si pagherebbero circa 20 euro al giorno, che è già meno del prezzo medio per prestazione stabilito in almeno 30 euro”. Il tutto purché, è ovvio, “le persone autorizzate si assoggettino ai regimi fiscali e previdenziali previsti dalle normative vigenti”.

 

Una delle due: o la senatrice Spilabotte e il Pd non sanno che ciò che chiamano “esercizio della prostituzione” è in realtà, sempre, esercizio di violenza. O lo sanno, ma non sanno... quel che fanno.

 

Scrive così, nel suo disegno di legge, la senatrice Spilabotte: “Una regolamentazione è necessaria, perché... Clicca qui per continuare a leggere!

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(Domenica 13 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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Rivedere ogni film ogni volta diverso, con i bambini...

"Rivedere ogni film ogni volta diverso, con i bambini..." (Martedì 8 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

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Mi dispiace tanto per chi non ha letto Il buio oltre la siepe o non ha, almeno, visto il film. Sono infelici che non sanno di esserlo. E, tra chi l’ha letto o l’ha visto, mi dispiace per chi non l’ha capito neanche un po’ o non ha, almeno, tentato. E tra chi l’ha letto, visto e capito, mi dispiace per chi non l’ha letto o visto con i bambini. E tra chi l’ha letto o visto con loro, mi dispiace tanto per chi, non essendo insegnante, non l’ha riletto o rivisto con altri bambini, e poi con altri ancòra, e ancòra, e ancòra...

I grandi libri e i grandi film sono ogni volta diversi, si sa. Ma letti e visti con i bambini (purché non induriti e istupiditi dalla devastante esperienza di aver avuto accanto certi adulti in quei primi, decisivi anni) essi sono, ogni volta, intensamente diversi. Magari solo per un dettaglio, e spesso apparentemente minuscolo, rileggere un grande libro o rivedere un grande film con una nuova classe è, per un insegnante, un evento sempre assoluto, e tanto più sconvolgente e trasformativo quanto più la classe per prima lo vive intensamente (e lui di riflesso, illuminato da loro). Naturalmente, purché l’insegnante non sia così indurito e istupidito dalle sue devastanti esperienze, da non esser più capace di illuminarsi: ma quelli sono insegnanti che non leggono Il buio oltre la siepe e non ne vedono il film.

Oggi, dunque, ho rivisto Il buio oltre la siepe per la ventesima volta o forse più. E di nuovo è stato diverso (tranne che in quel che non deve assolutamente cambiare: cioè le lacrime che ogni volta riempiono d’un tratto i miei occhi come quelli di Scout nel momento in cui dietro la porta appare Boo, Arthur Radley; poiché sono esse che ogni volta mi dicono che anchio, come Arthur, sono ancora umano), e potentemente diverso, e lo è stato così tanto perché l’ho rivisto con una classe così poco indurita, così poco istupidita, che per tutto il tempo ha brillato nel buio dinanzi a me come una costellazione umana.

E alla fine, nella sequenza di cui vedete qui sopra un fotogramma, mentre “le lacrime riempivano d’un tratto gli occhi” della bambina e i miei e mentre il volto di Arthur “tremava e si offuscava”, ho visto una cosa che, in almeno venti visioni nell’arco di quarant’anni, non avevo mai notato: il ritratto della defunta moglie di Atticus Finch collocato (dal regista?, dallo scenografo?) proprio lì, accanto aBoo (Robert Duvall) che Scout incontra in quell’istante per la prima volta.

Sono andato a controllare sul libro e non vi ho trovato alcun ritratto della mamma di Scout e Jem: non in quel momento, non lì. Perché ce l’hanno messo? Per dirci (alla faccia di Harper Lee, autrice di questo meraviglioso romanzo) che chi ha salvato Scout e Jem dalle grinfie assassine di Bob Ewell non è stato Arthur Radley ma una defunta madre che dall’Aldilà vegliava su di loro tramutata in angelo custode?

Una piccola (grande) macchia su un film bellissimo, indimenticabile, ma evidentemente meno bello, e d’ora in poi meno indimenticabile, del romanzo che in quel momento ha tradito. E ancor meno bello, e ancor meno indimenticabile, dei bambini senza i quali non l’avrei mai scoperto. Nemmeno rivedendo il film (e rileggendo il libro) per altri quarant’anni.

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(Martedì 8 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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Fare ricerca culturale in un piccolo paese...

"Fare ricerca culturale in un piccolo paese..." (venerdì 4 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com). L'immagine riproduce il dipinto "A Boat and Red Buoy in Rough Sea" (1830), di Joseph Mallard William Turner (1775 - 1851).

A Boat and Red Buoy in Rough Sea (1830), di Joseph Mallard William Turner (1775 - 1851)

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“Fare ricerca culturale” (e non di rado, cerca oggi cerca domani, combattere una battaglia culturale) in un paese di mille abitanti ― se tenti di farla davvero, e se hai “armi” e “munizioni” con cui farla ― significa che ogni cosa che dici, insegni, scrivi (e perfino ogni tuo gesto, perfino il tuo modo di camminare, per esempio se un giorno sei un po’ stanco e fai, in salita, un po’ più fatica del solito) suscita negli altri mille ininterrotte reazioni che cambiano la tua vita momento per momento: dal meglio al peggio e dal peggio al meglio, ogni istante e giorno e ogni mese e anno che trascorri con loro, ti vedano o no e tu li veda o no, in contatto con te o che il contatto passi, dall’uno all’altro, di mano in mano e di bocca in bocca.

 

È come vivere su una barca, dove proprio stabile e immobile non sei mai, poiché il mare ti muove sempre e col mare si muove il cielo e soprattutto si muove in lontananza la rossa boa che vuoi raggiungere per intravedere, da lì, un’altra boa da raggiungere ancor più lontana: il mare sono gli altri e son sempre in movimento, sì, e reagiscono a ogni tuo moto e a loro volta muovono te (e naturalmente saresti mosso anche se non facessi ricerca né battaglia alcuna, se ti sforzassi di rimanere immobile come una statua e rinunciassi a muover loro a tua volta: verresti mosso e trasmetteresti ad altri il movimento altrui come se fosse tuo, e sarebbe la cosa più brutta poiché staresti male sempre, senza più alcun meglio, neanche per un attimo, ma solo un continuo peggio).

 

Ecco: “fare ricerca culturale”, in un paese di mille abitanti, è come tuffarti in un ballo che non finisce né s’interrompe mai e che danzano tutti, perfino i più piccoli per mano o in braccio, e ogni tuo passo echeggia nei passi d’ognuno fin in fondo alla piazza, nelle vie e nei vicoli intorno, e di laggiù torna indietro da tutte le parti nei passi mossi dal tuo che tornano a muovere i tuoi che muoveranno i loro.

 

Solo che il ballo talvolta esagera, e allora è come lasciare che ti mettano su un tappeto che tutti tengono insieme per farti volare in aria, ogni volta più sù, così che ogni volta che cadi sia più forte il colpo e più intensa la scossa che trasmetti a ogni mano e, attraverso le braccia, al cuore di ognuno. Mentre tu intanto speri, cercando malgrado tutto di restare vivo, che i mille che reagiscono e sentono e danzano e ti fan volare non si tramutino a un brutto momento in un unico immenso barile di polvere da sparo per farti saltar per aria una volta per sempre.

 

Sì, cambia tutto e cambia sempre, il “fare ricerca e battaglia culturale” in un piccolo paese di mille abitanti: cambia il sapore del mangiare, l’odore dell’aria che respiri, il peso di ogni uscio che apri ogni volta che l’apri, il tuo essere giovane e ancor più il tuo essere vecchio, il tuo resistere o il tuo ammalarti. Cambia perfino il morire o invece ancora no, la continua risposta di mille donne, uomini e bambini alla tua continua ricerca, alla tua continua battaglia tra loro e con loro.

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(Venerdì 4 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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Una macchina più umana di noi?

"Una macchina più umana di noi?" (Mercoledì 2 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

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(Immagine di Pinocchio di Cecco Mariniello)

 

“A chi mette in guardia dalla sempre più forte concorrenza intellettuale delle macchine, c’è chi ribatte: «Basta che gli umani imparino a fare cose più sofisticate»” (Riccardo Staglianò, “Poveri ma connessi”, La Repubblica, 30 dicembre 2013, p. 37).

 

Discorso colmo di disprezzo (o, meglio, di razzismo antiumano) nei confronti di chi, non avendo imparato (sic) le sofisticate cose che hanno appreso a fare gli Staglianò, potrebbe e dovrebbe essere rottamato e sostituito da macchine ben più degne di lui di considerazione e di rispetto.

 

Sfugge, agli Staglianò, che non solo essi (gli Staglianò) ma tutti gli umani fanno già cose più sofisticate di quelle che qualsiasi macchina è ― o mai sarà ― in grado di fare. E che, pertanto, le macchine non fanno né faranno mai “concorrenza intellettuale” ad alcuno.

 

Quel che distingue, per natura, (vale a dire per la storia evolutiva di cui noi Sapiens siamo un esito), gli animali umani dagli altri è, infatti, l’incapacità della mente di produrre rappresentazioni della realtà interamente matematizzabili. È l’immaginazione, cioè: per la quale la mente umana nel suo insieme e ogni suo “contenuto” singolarmente considerato (ammesso che una mente umana si possa suddividere in contenuti delimitati), a differenza dell’Universo di realtà a cui essi si riferiscono, non sono né saranno mai del tutto adattabili a modelli matematici. Né, di conseguenza, matematicamente calcolabili.

 

Vi è un “di più”, nelle produzioni mentali umane, che non permette che esse siano del tutto assoggettabili alla descrizione matematica come lo sono, invece, le realtà a cui tali produzioni si riferiscono. Ma definirlo un “di più” è, in fondo, un antropocentrismo: nei momenti difficili delle nostre vite potremmo essere più propensi a giudicarlo un “di meno”, considerando in quanti e quali errori incorriamo, talvolta, a causa dell’intrinseca instabilità dei nostri contenuti mentali. E tuttavia è proprio quell’instabilità che ci rende creativi: è per essa che siamo costretti a pretendere che sia il mondo ad adeguarsi a noi, poiché noi non siamo né mai saremo in grado di rassegnarci completamente al mondo.

 

Mentre è del tutto evidente che le “macchine”, invece (come grossolanamente le chiamano gli Staglianò) “sanno” e “imparano” a fare solo “cose” (stupefacenti, gigantesche, ma) la cui descrizione matematica le contiene per intero, senza il benché minimo “residuo” di quella creativa “instabilità” da cui scaturiscono tutte le realizzazioni (e, purtroppo, tutte le de-realizzazioni) impreviste e imprevedibili che ogni essere umano è “costretto” (ebbene sì:costretto) a compiere vita natural durante.

 

Quel che nessuna “macchina” è né sarà mai in grado di fare, insomma, è ciò che ogni animale umano non può non fare: essere, per quanti sforzi faccia per “razionalizzarsi” (per ridursi, cioè, alla stregua degli altri animali, vale a dire per disumanizzarsi) sempre almeno in parte irrazionale. Non misurabile. Incommensurabile. E troppo “sofisticato”, dunque, perché una “macchina” possa eguagliarlo.

 

Si obietterà: “Ma il di più di cui tu parli non è misurabile soltanto perché è immaginario!”

 

E io cosa ho detto?

 

Ma se un giorno (forse non lontano) fabbricassimo invece una “macchina” (forse “quantistica”, e contenuta, forse, in un hardware biologico) le cui prestazioni, come quelle di ogni bimbo a partire dalla nascita, risultassero sempre almeno in parte “indescrivibili” matematicamente? Be’, a mio parere non è impossibile: ma quel giorno, semplicemente, avremmo creato un essere umano artificiale, e chiunque lo trattasse come una macchina commetterebbe un crimine.

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(Mercoledì 2 aprile 2014. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).

L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

 

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