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di Luigi Scialanca
Home Le Opere di Arturo Martini I Testi Perché Anticoli è un paese immaginario? Scarica il testo in Word (253 kb) Scarica il testo in pdf (920 kb) |
C’era una volta un re... Il re fece battere il tamburo! Il re fece battere il tamburo! Si dava uno spettacolo di morte! ...uno spettacolo di morte! Due amanti per aversi amato tanto! ...per aversi amato tanto! furono condannati a morte! ...condannati a morte!... Anch’io batto il tamburo! Si dà uno spettacolo di vita! Venite, noi v’invitiamo!1 (Arturo Martini a 26 anni, nel primo anno di guerra 1915) |
Ai venti e ai trent’anni. A chi li ha o li avrà. E a chi non li ha distrutti. (Anticoli Corrado, 25 febbraio 2007) |
Si ispira a Palinuro, Arturo Martini, per l’ultima sua opera: il monumento al partigiano Masaccio2, ucciso il 29 aprile 1945 ― quattro giorni dopo la Liberazione ― da un gruppo di soldati tedeschi in fuga. Ucciso quando ormai ha vinto, mentre l’orrore nazifascista è ovunque alla fine: il giorno prima, sabato 28 aprile, è stato giustiziato Mussolini; il giorno dopo, lunedì 30, a Berlino si suiciderà Hitler. A trentadue anni ― pensa Martini ― Masaccio è morto come Palinuro, il timoniere di Enea, che in una notte di calma di mare, quando la meta era prossima, vinto dal sonno mentre guardava le stelle per non cedere al sonno, cadde in mare e andò incontro alla morte mentre i compagni si destavano salvi3.
Negli stessi giorni del 1945, per Arturo Martini inizia la resa dei conti dell’epurazione. Sottoposto a processo per aver aderito al fascismo, è privato della cattedra di scultura all’Accademia di Venezia. Al difensore scrive, con la testarda sfrontatezza che gli è propria: Siccome morivo di fame col giolittismo ho creduto a questo movimento, cioè al fascismo... In quanto all’iscrizione antemarcia su Roma, mi pare nobile, perché era una speranza, mentre quelli che si sono iscritti dopo, non furono che degli opportunisti vili e interessati.4 Ma Orio Vergani, che lo conosce da trent’anni e gli è vicino nei giorni della fine, scriverà che l’epurazione lo aveva stroncato. Per guardar la gente a faccia a faccia, beveva dieci aperitivi prima di ogni pasto e consumava un tubetto di simpamina al giorno. Si sentiva demolito... Il dottore disse che l’alcool e gli stupefacenti avevano distrutto i reni e tutti gli organi vitali.5
Nel 1947, finito il Palinuro, Arturo Martini muore, a 58 anni, il primo giorno di primavera.
Ma la sua fine non assomiglia a quella del timoniere di Enea, morto in età imprecisata ma certo giovanissima, o a quella di Primo Visentin, detto Masaccio, ucciso a 32. Arturo Martini non è ormai prossimo alla meta agognata. Non perché non si sia anch’egli proposto una meta ― per lui importantissima, e non meno desiderata di quanto lo erano l’Italia per Enea e i suoi compagni e l’Italia libera per Visentin ― ma perché crede di averla mancata. Poiché ― sebbene parli di sé come di un genio assoluto e guardi dall’alto in basso quasi tutta l’arte e in particolare la scultura antica e moderna6 ― la verità è che da anni il terrore e l’angoscia del fallimento non l’abbandonano un solo istante.
È per ingraziarsi i vincitori che Martini dedica l’ultima fatica al partigiano Masaccio? Non lo crediamo. In tal caso, infatti, non gli riuscirebbe il capolavoro che è... Non che lo scultore non sia capace di piaggeria. Comincia a esserlo, come molti, dicendosi che lo sarà per la sua arte, non per sé stesso, ma quella che all’inizio è una maschera gli si attacca al viso a mano a mano che nella scultura perde la fede. Gli rimane il caratteraccio, a farlo sembrare e forse a fargli credere d’essere ancora l’eroe di una volta, orgoglioso, selvaggio, sprezzante, alieno da ogni compromesso. Ma la sopravvissuta spavalderia non racchiude più la forza e la determinazione di chi difende la propria ricerca come una madre il bambino: è quasi solo carattere, appunto, e sotto di essa, sempre più cavernoso e buio, a poco a poco ingigantisce il vuoto che si sente venir fuori ancora oggi, come uno spiffero gelido, dalle opere realizzate per celebrare il regime (Il leone di Giuda, del ’36, per la conquista dell’Etiopia, La Giustizia corporativa, del ’37, la Storia eroica del fascismo, del ’38, per citarne solo alcune) tanto false quanto roboanti, e da Martini stesso disprezzate...
Ma il Palinuro no. Il Palinuro è opera sincera, appassionata, profonda. Che non si comprende, però, se non s’intravede, nel ragazzo che guarda le stelle nel ’46 e per l’eternità, l’Arturo Martini che nel ’26, mentre scolpisce il Figliol prodigo, è ragazzo per l’ultima volta a 37 anni. Se non si scorge nella solitudine del timoniere di Enea, sospesa tra il cielo e il mare che si contendono la sua attenzione, e nel dividersi del suo corpo da un lato e dall’altro del segno che dalla base del collo gli taglia il petto ― il braccio destro da una parte e il sinistro dall’altra, una gamba di qua e l’altra di là ― lo stesso tremendo spartiacque che nel Figliol prodigo separa il vecchio dal giovane, l’anziano e disilluso maestro dal genio vicino a morire nel fiore degli anni, la disperazione che è definitiva nel ’46 dalle speranze che iniziano a spegnersi vent’anni prima. Se non s’intuisce che il Palinuro è l’artista da giovane, è un ritratto dell’Arturo Martini che nel ’26, giovane per l’ultima volta, nel Figliol prodigo ritrae sé stesso dinanzi a sé stesso: il giovane che mai più sarà, dinanzi al vecchio che sta diventando, che sta scegliendo di diventare, e che accogliendolo tra le vecchie braccia sembra voler fermarlo prima che anche per il giovane sia tardi. Prima che il giovane abbracci il vecchio e torni, docile, a identificarsi con lui.
Là, nel Figliol prodigo del ’26, la gioia del padre nel ritrovare il figlio sconvolta e funestata da cupi presentimenti. Qui, nel Palinuro del ’46, la gioia per sempre intatta del figlio che a casa non arriverà, e al quale non si rivelerà, dunque, nello sguardo del vecchio ― a sconvolgere e funestare la gioia di entrambi ― il presagio che il giovane sia tornato sconfitto per iniziare, sotto gli occhi del padre, a morire come il padre. E in ambedue le opere, il medesimo tremendo pensiero: che non tornare a casa, non esser mai un figliol prodigo e piuttosto morire nel fiore degli anni, sia forse meglio che sottomettersi al destino ― al quale andandosene si tentò di sfuggire, e che tornando si accetta ― che in vent’anni renderà il giovane identico al vecchio.
Come nel Tito Minniti eroe d’Africa, del ’36, dedicato a un pilota caduto a 26 anni, nel Palinuro c’è lo spaventoso dolore dell’adulto per la morte più ingiusta e insensata: la morte del giovane. Ma anche, al tempo stesso, l’orribile sofferenza dell’adulto per l’insensatezza e l’ingiustizia di averlo lasciato morire dentro di sé. Palinuro-Masaccio non tornerà a casa, nessun padre gli si farà incontro tremante, malfermo sulle vecchie gambe, per abbracciarlo e arrestare la sua corsa, per fermarlo in quell’andare verso di lui che sta per tramutarsi in un diventare come lui. Palinuro e Masaccio muoiono giovani, guardando le stelle, mentre alle loro nobili imprese arride finalmente il successo, e giovani e belli rimarranno per sempre. Ai loro padri, affranti dal dolore, sarà almeno risparmiata l’angoscia, che già traspare dai lineamenti del padre del Figliol prodigo, di scorgere negli occhi del ragazzo i primi segni della sua stessa disillusione, della sua stessa sconfitta, del suo stesso fallimento.
Palinuro, solo sul ponte fra le stelle e il mare, è Arturo Martini che nel 1946 rivede sé stesso da giovane, solo nella notte di piazza delle Ville, fra le stelle nel cielo sopra Anticoli Corrado e l’acqua che mormora nella sua Fontana. Quando ancora non si è perduto, ma si sta perdendo. Quando ancora non è morto, ma sta iniziando a morire. Nel 1926, a trentasette anni.
Nel b del 1944, una mattina a scuola (fu l’ultima lezione di quell’anno) ho fatto questa domanda agli allievi: un pomo in pittura vale una Venere. Perché un pomo in scultura non vale una Venere? La domanda era sbalorditiva. Da quella mattina ho cominciato a scrivere7.
Il libro che scrive nel ’44, Martini lo intitola La scultura lingua morta. Intendendo dire, con ciò, che nel corso dei secoli le altre arti si sono evolute, come l’italiano dal latino, ed evolvendosi si sono realizzate: hanno trovato sé stesse trovando ognuna il proprio linguaggio, con il quale sono sempre in grado di esprimere ciò che l’artista ha in mente, qualunque sia il soggetto che egli sceglie di rappresentare, foss’anche l’umilissimo “ritratto” di un pomo nel caso della pittura, poiché ciò che il pittore dipinge non è il pomo né altro, ma il personale ritmo interiore che il linguaggio della sua arte gli permette di trasfondere in esso. Mentre la scultura no, è rimasta a fare immagini, a fare statue, è legata a esse e non può liberarsene (a meno di non buttarsi a capo fitto nelle varie astruserie e astrattezze contemporanee, che per Martini non sono che bestemmie8) poiché non ha una lingua propria, non ha senso di per sé, è solo un imitare la realtà; tant’è vero che non si possono scolpire pomi né altro, ma solo esseri umani e animali, poiché un pomo o un ramo di gelso scolpiti non direbbero nulla, sarebbero addirittura ridicoli...
Una mattina, dopo aver assistito alla gioiosa preparazione e partenza di un pittore per l’aperta campagna, confrontai la sua festa alla mia tristezza e nel rientrare nello studio, che ormai mi pareva una tomba, mi domandai: ma perché, se a tutte le altre arti è data la possibilità di esprimersi con tutta la vasta natura, solo alla scultura questo è proibito? Da quel giorno fui invaso da una completa crisi e non lavorai più9. La scultura non è arte, anche se crede di esserlo, proprio come non è arte la fotografia. La scultura continua da sempre a ripetersi anche quando crede di rinnovarsi. La scultura è morta, anche se non sa di esserlo, e lo studio dello scultore è la tomba di entrambi. È morta giovane, tantissimi anni fa. È finita in mare ai tempi di Palinuro o poco dopo, forse sulla rotta tra la Grecia e l’Italia, e da allora di quando in quando viene ritrovata, ripescata, ripetuta, riproposta. Ma nessuno può davvero farla rivivere. Nessuno può dar vita a una statua.
Coerentemente, Arturo Martini decide di abbandonarla. Sarà pittore. E da pittore sarà il genio che teme in cuor suo di non essere stato come scultore. Già nel ’40, del resto, e precisamente il 16 gennaio, scrive alla moglie, Brigida Pessano: Mi ha fatto piacere la tua lettera dove anche tu mi dici d’aver capito che era venuta l’ora della pittura, e capisco ora perché la scultura e tutto mi dava fastidio. Dunque fede e resistenza ormai questa sarà la mia nuova strada. E nel febbraio: Io farò assolutamente il pittore... La mia conversione non è un capriccio, ma grande e forte come quella di Van Gogh10. E tenta, sul serio, e per alcuni anni disegna e dipinge, e ci sono momenti in cui davvero gli sembra d’aver infine trovato la sua strada ― dipingo dalla mattina alla sera colla certezza di grandi risultati, forse io ero nato pittore e credo che la decisione d’aver fatto lo scultore non sia stato che un fenomeno di miseria11... Ma non è così, ed egli in fondo lo sa, tant’è vero che periodicamente “ricade” nella scultura: Se vuol sapere cosa penso dei miei disegni, scrive al direttore della Piccola Galleria di Venezia ai primi di aprile del ’44, le dirò, liquidandoli in due parole, che qualcuno mi piace perché persegue scopi di profonda ricerca per la mia scultura, mentre gli altri hanno un semplice valore di puro piacere lirico12. Il “rinascimento” dello scultore Arturo Martini come pittore non riesce, il pittore che vuol nascere cinquantenne nasce morto, lontanissimo dalla meta. E però la scultura, a cui Martini torna a dedicarsi quasi con furore, non per questo cessa di essere una lingua morta: Io non sono lo scultore, ma sono uno scultore che ha creduto essere tale, invece come tutti non sono stato che uno statuario13. Poiché la scultura è un’arte da negri e senza pace14! Ma intanto, sempre insoddisfatto di ciò che sta pensando e scrivendo su di essa, non desiste dal cercare un’idea che le permetta di sopravvivere come arte, non solo come statuaria; e fino all’ultimo, pur continuando a dipingere, non per questo dimentica in che cosa e quando è stato davvero grande, davvero sé stesso: I secoli sono fatti da un uomo e questo in fatto di scultura è il mio secolo cioè fatto da me15. E pochi giorni prima di morire: Ritorno a Vado Ligure da dove sono partito e dove ho fatto le mie prime opere che ancora riconosco piene di poesia16.
Poiché Martini sbaglia, naturalmente. Non la scultura, ma lo scultore muore da più di vent’anni. E non si può dire che non lo sappia, non si può sostenere che non voglia vederlo: poiché, mentre ancora si arrovella per dimostrare che il fallimento è della sua arte e non suo, al tempo stesso, nell’anno che precede la morte, Arturo Martini, tornando alla poesia delle prime opere, torna a dar vita nel Palinuro al giovane che muore in vista della meta, tra cielo e mare perdendo la vista e tutto sé stesso mentre volge gli occhi alle stelle per non perdere la rotta prefissa.
Ciò che soprattutto dobbiamo domandarci, dunque, non è se, ma quando il giovane Arturo Martini, perdendo la rotta della ricerca, si metta in testa di tornare alla casa del padre, e tra le braccia del vecchio di cominciare ancora giovane a morire. E la domanda deve premere in special modo a noi, che ad Anticoli in piazza delle Ville ogni giorno ruotiamo, come pianeti e pianetini, intorno alla sua Fontana. Poiché è ad Anticoli che Arturo Martini trascorre gli ultimi anni della giovinezza, gli ultimi in cui è ragazzo. E se qualcosa gli accade, se qualcosa gli succede proprio qui, è molto importante soprattutto per noi appurare se davvero è una sorgente rigeneratrice o se invece è una pietra tombale, quella intorno alla quale il cattivo17 ci ha lasciato a ruotare giorno dopo giorno. Cosa vuol farci, ponendo e scolpendo quel blocco di cemento dove non potremo non vederlo ogni giorno e ogni notte per l’intero corso delle nostre vite? Maledirci per averlo ucciso? O benedirci per le ultime gioie della sua giovinezza, per le ultime stelle intraviste lassù, nel cielo sopra Anticoli, un attimo prima di cadere nel buio?
Stando ai documenti che abbiamo citato, il tormento di sentir morta la scultura (e morto sé stesso come scultore) inizierebbe molto tempo dopo l’addio di Arturo Martini ad Anticoli Corrado. L’episodio dell’invidiata partenza del pittore per l’aperta campagna, raccontato a Gino Scarpa il 26 agosto 1944, sarebbe di circa tre anni prima. Le lettere in cui confida alla figlia e alla moglie il fermo proposito di dedicarsi alla pittura sono del ’40, tutt’al più del ’39. Impossibile, dunque, che la morte della scultura abbia qualcosa a che fare con il periodo anticolano, terminato dodici anni prima!...
Ma le cose non stanno così. L’inizio della crisi è di molto precedente, e a provarlo è un’esplicita affermazione dell’artista (sfuggita, sembra, anche ai più attenti commentatori dell’epistolario) in una lettera del febbraio del ’42 al pittore Guido Farina: nella quale Arturo Martini afferma di aver forse nuovamente trovato nella scultura qualche cosa che ne valga la pena, e che questa ricerca, che gli ha dato risultati importanti, gli ha ridato un tale interesse verso la scultura, interesse che non sentiva più da 15 anni, fino al ringiovanimento e a quella smania che è legata a questa età giovanile18... Quindici anni! E non lo dice per dire, poiché la smania dell’età giovanile non è possibile che sia del ’40 o del ’39! Dunque, quarantadue meno quindici fa ’27: l’anno della partenza da Anticoli!
È quando lascia Anticoli che Martini inizia a disperare nella scultura? È negli anni anticolani che dobbiamo cercare gli eventi che alla disperazione lo consegnano?
Arturo Martini giunge qui a 35 anni, nella primavera del ’24. Se ne va, per non tornare mai più, nell’autunno del ’27. Tre anni e mezzo ― o, per meglio dire, quattro estati e tre inverni ― in capo ai quali egli riparte assai diverso da quello che era prima. Cambiato. Per cominciare a morire, lontano, di una morte che durerà diciannove anni e qualche mese. Che cosa gli accade ad Anticoli? E in primo luogo, perché ci viene? E come?
Non vi sono dubbi che sia Maurice Sterne, se non il primo a parlare ad Arturo Martini di Anticoli Corrado, colui che lo invita a trasferirvisi. Come non vi sono dubbi che i sentimenti di quel quarantacinquenne americano, che disperatamente vuol convincersi e convincere di essere un artista, nei confronti dell’uomo più giovane di lui di undici anni che artista lo è davvero e si vede bene, siano fin dal primo momento di profondo odio ed invidia.
Come potrebbe essere altrimenti, se Martini può e sa creare mentre Sterne è a ciò del tutto impotente? Se il primo non si perita non solo di dirglielo in faccia, ma addirittura di dimostrarglielo? Se la bassezza di Sterne arriva al punto di comprare e presentare al mondo come proprie le opere di colui che osa frattanto chiamare amico? Fino a un punto, cioè, a cui non vi è bassezza che possa giungere senza essere pienamente consapevole di sé?
“La strana vicenda dei rapporti di Martini con l’artista dilettante Maurizio Sterne si svolge dal suo primo soggiorno ad Anticoli Corrado a tutto il periodo romano, che si conclude nel ’28. È una vicenda per più aspetti avvilente, in quanto Martini è costretto a ‘vendere’ il proprio talento a un artista che non ne ha. A propria giustificazione, Martini confessa: La mia miseria a Roma era tremenda. Di qui la decisione di lavorare per Sterne: Sterne mi dava quattromila lire al mese. La vicenda comincia quasi per gioco. Una sera Maurizio Sterne, che ha lo studio a villa Strohl-Fern, conosciuto Martini, lo invita a vedere una scultura, una Vittoria, che dovrebbe mandare negli Stati Uniti. Martini la giudica un disastro e consiglia all’americano di andarsene in Spagna con la moglie a guardarsi Velasquez, il Greco e Goya: al ritorno troverà una Vittoria miracolosamente mutata. Sterne gli dà un po’ di soldi e parte. Al ritorno la ‘sua’ scultura è pronta e, giunta in America, riscuote un largo consenso di pubblico e di critica, tanto che Sterne viene incluso nel gruppo ristretto di artisti invitati al concorso per un Monumento al Pioniere. L’americano è addirittura spaventato da quell’invito e ricorre ancora a Martini. Ed è qui che il ‘gioco’ si trasforma in un impegno gravoso e ambiguo. Martini fa il bozzetto, che viene scelto fra tutti gli altri, dopodiché, senza smettere di lavorare per sé, è costretto a fare anche il monumento per Sterne, messo in opera a Worcester, nel Massachusetts, nel 1929.”19
La “strana” vicenda dei rapporti di Martini con l’artista dilettante ― diciamolo, una buona volta, senza tanti riguardi! ― è una vicenda di opposte trasmutazioni: il giovane povero, ma capace di creare, trasforma in oro la robaccia del vecchio impotente, ma ricco in dollari; e il vecchio ricco, ma impotente, dal canto suo tramuta in anni di servitù gli ultimi di quella giovinezza capace di creare, ma disperatamente povera e ― come vedremo ― smarrita da quasi un decennio in una notte senza stelle. Una vicenda non diversa, in fondo, da quella che vivono negli stessi anni i ragazzi e gli uomini di Anticoli che per non morire di fame emigrano nelle Americhe lasciando le mamme, le sorelle, le mogli, le figliolette: le donne e le ragazze Anticolane che incantano gli artisti non solo per la bellezza, ma anche per la solitudine che dolorosamente le rende libere di sedurli20... Una vicenda che tutto è meno che uno scherzo, anche se per Arturo è forse iniziata un po’ come una beffa, come una smargiassata da ragazzaccio geniale, da giovane Mozart che sghignazzando umilia il suo Salieri. Una vicenda che non ha alcunché di giocoso ― anche se può sembrare poco importante dall’esterno, da lontano, dalle gelide plaghe dell’indifferenza di chi trova normali il disprezzo e lo sfruttamento degli esseri umani ― ed è invece una storia di violenza e di morte, anche se materialmente a nessuno viene torto un capello. Poiché non è possibile, in realtà, distinguere da un tentativo di assassinio il tentativo di distruggere un artista come Arturo Martini. In cui l’artista, essendo autentico, non si distingue dall’uomo.
Ma è davvero sempre e “solo” la miseria che costringe Arturo Martini alle svolte più importanti o più funeste? A far di lui prima uno scultore, poi il genero di un ricco fornaio, poi lo schiavo di un americano, poi un iscritto e un celebratore del partito fascista?...
Certo è che Arturo Martini è poverissimo sul serio: figlio di un cuoco e di una cameriera, vive tutta l’infanzia in una delle torri duecentesche, umide e malsane, del centro di Treviso, abitate solo dai meno abbienti21, lascia la scuola a dodici anni, è facchino alla stazione e garzone per un orefice, ruba dai carri di passaggio la creta per le primissime opere... Non c’è dubbio: la povertà la conosce bene, e per tutta la vita continua a temerla e a dover duramente lottare per tenerla a bada.
Ma sta di fatto che dinanzi alla miseria, fin da ragazzo, Arturo Martini non si perde mai d’animo né mai le permette di allontanarlo o anche solo di distrarlo dalla sua vocazione: frequenta, al ritorno dai tanti lavori e lavoretti, la Scuola Serale e Domenicale di Arti e Mestieri, si perfeziona presso lo scultore Antonio Carlini mentre la madre impegna i nissioi (lenzuola) e anche ne vende per comperargli il gesso22, vince una borsa di studio, va a studiare e a crescere a Venezia, a Monaco, a Parigi. Sta di fatto che questo scultore, che nel ’43 scriverà di esserlo diventato per un fenomeno di miseria, nel ’22 è invece così persuaso di non poter essere altro, e di esserlo come pochi, da definirsi l’unico vero scultore non solo della nostra epoca, ma come da tempo non si vedeva scultura degna di essere chiamata con questo nome23... Può essere così sicuro, di sé e della propria arte, chi le si è dato soltanto per non morir di fame? Può essere così sfrontato da definire un disastro l’opera di un artista più anziano di lui e da offrirgli di rifargliela? Può essere solo un ripiego per sbarcare il lunario, l’arte di un uomo che ancora nel ’25, ad Anticoli, si sente capace di compiere l’opera perfetta24? E che nel ’44, in uno dei molti tentativi di “parlar male” della scultura, tuttavia riconoscerà ben altre motivazioni all’impulso che l’ha condotto a essa: Quanta innocenza sprecata nel credere che facendo bollire dell’acqua mi risultasse il miracolo dell’oro, e questo ha durato trent’anni25? Evidentemente no, poiché l’oro, nel quale qui afferma di aver creduto così a lungo, non è certo il metallo!
No. Il giovane Martini vuole essere uno scultore e sa di essere, come scultore, un genio. Ma poi la scultura inizia a morire, in lui, ed egli ― che non è scultore per un fenomeno di miseria, ma perché scultore, come vedremo, ha scoperto di voler essere a soli due anni ― non potendo salvarla, inizia a morire con essa.
Messe in fila, le parole che Arturo Martini inchioda su Maurice Sterne nelle Lettere sono un documento sconvolgente della lenta agonia, nelle quattro estati e nei tre inverni della cattività anticolana, della sua fiducia in sé stesso e nella propria arte.
È pur vero che con la moglie, Brigida ― che alla partenza del marito per Anticoli è tornata dai genitori a Vado Ligure con la figlia Maria Antonietta, detta Nena, nata nel ’21 ― lo scultore si sforza nei primi tempi di essere rassicurante: Sterne è contentissimo di quello che ho fatto... Sterne mi vuole sempre più bene e fra giorni firmerà il contratto con me... Con Sterne siamo in buonissimi rapporti e andranno sempre meglio26... È rassicurante perché deve esserlo, perché Brigida e i suoceri sono persone che a ogni costo deve tenere a bada lontane da sé. Ma il dramma in corso tra il suo “datore di lavoro” e lui è così violento e disperato, che ben presto Arturo non può più fare a meno di sfogarsi anche con Brigida, benché per tutto il resto continui a tentare in ogni modo di tranquillizzarla...
A Brigida: Sterne ha paura che dopo la sala io abbia un successo e l’abbandoni, ma veramente se il successo venisse io sarei felice di salutarlo27. Devo lavorare per me e per Sterne contemporaneamente, quindi alzarmi alle sei del mattino e ritirarmi a letto a mezzanotte28. Sterne ha paura della mia opera e tenta per mezzo di amicizie di farmi levare la sala... Tu non puoi immaginare quanto soffre Sterne e come mi odia, ma ha tanto bisogno che deve sorbirsi la mia sala con tutta la sua rabbia29. Con Sterne siamo sempre così un po’ tesi ma le cose vanno avanti benissimo (sic)30. Vedo il tempo passare e le mie forze sprecarsi inutilmente, ecco la mia disperazione31. Sono stanco di stare qui a lavorare per Sterne e spero di trovare il mezzo per liberarmene32. Passo giornate d’inferno33. Sterne... non mi lascia un momento libero e quindi nei ritagli di tempo dopo che ho esaurito tutte le mie energie non posso fare granché... Vorrei essere allegro ma non lo posso, vorrei essere libero ma la vita mi tiene legato in questa maniera che non mi è possibile produrre un’opera mia dove il tempo mi sia largo e non affrettato come in questa condizione... Mi sono accorto di essere un uomo maturo senza la possibilità di compiere l’opera perfetta perché non ho né quattrini né tempo34. A Lino (Natale Mazzolà): La miseria mi ha fatto schiavo di un altro: un americano ambizioso e celebre in America (cosa per me inspiegabile) ma che lo diventerà certamente perché io fabbrico per lui statue su statue che lui manda in America col suo nome35.
Talvolta riesce, malgrado tutto, a ritrovare sé stesso: Sono sempre più contento dell’opera mia e ora quasi felice credo d’aver azzeccato nel segno giusto... Ora lavoro con gioia... Ma due righe più avanti annuncia: Sterne mi ha nuovamente pregato di aiutarlo per finire la statua e così ora dovrò perdere del tempo per lui ― pazienza36. Poiché l’americano è sempre lì a spiarlo, e quando si accorge di avergli allentato le briglie, quando intuisce che la vittima si sta riprendendo e potrebbe sfuggirgli, subito torna alla carica, gli rammenta il contratto sottoscritto, lo riagguanta, lo rimette alla catena, spegne la sua gioia nell’umiliazione e nella fatica servile. A Francesco Messina (che ha solo 26 anni, undici meno di lui che ne ha undici meno di Sterne, e che dall’agosto del ’26 fino all’autunno del ’27, quando Martini lascia Anticoli, è quasi il suo unico corrispondente): Lavoro quassù come un negro, ai servizi di un altro artista straniero (così sono costretti gli artisti italiani per vivere) ma quello che è più buffo è che sto creando una vera celebrità in patria sua colle mie mani37. E infine, sempre a Messina, l’8 gennaio del ’27: Caro Messina, rieccomi ad Anticoli amaramente rassegnato a vivere senza spirito e senza cuore. Ancora nuove idee aumentano lo squallore della mia vita fatta per essere chiara e ariosa ― dico nuove idee attorno al monumento e cioè modifiche esperimenti e paure, frutto unico di chi non sa cosa sia il limite ― l’americano rappresenta il languore, la noia e l’afonia più tremenda che può dare una cosa ripetuta nell’infinito. Mi sento legato e schiavo e tiro avanti contando i giorni.38.
I lamenti di Arturo Martini, per la schiavitù e lo squallore in cui l’americano lo tiene, macchiano di violenza e di disperazione tutto l’epistolario anticolano e ogni giorno dei quattro anni che egli trascorre quassù. Dimostrando che Anticoli non ha parte alcuna nel determinare nell’artista la crisi che incrina la sua identità di scultore, ma che al contrario è l’orribile rapporto con Sterne che gliela aggrava sempre di più e a poco a poco gli rende insopportabili il paese e i suoi abitanti, ai quali nei primi tempi ha guardato con interesse, con tenerezza, con un senso di indefinita speranza. Il languore e la noia di Martini, l’afonia più tremenda e la ripetizione all’infinito vengono da lì, dallo star sempre alla catena e soprattutto dal non poter mai sfuggire all’odio e all’invidia di cui è oggetto e contro i quali nulla può, non una parola, non un gesto, poiché l’altro fingerebbe di cadere dalle nuvole... (E magari sarebbe perfino in buona fede, convinto della propria innocenza, quell’americano che ogni mese gli mette in mano quattromila lire e che perciò è capacissimo di sentirsi buono e generoso. E tale è certamente stimato da molti ― ancora oggi c’è chi lo giustifica così, anche nei testi, e un brutto giorno ad Anticoli gli dedicano perfino una via, che però, guarda caso!, è un vicolo cieco ― ma forse non da quegli Anticolani che i padroni li conoscono e ben sanno di che pasta son fatti, e come son bravi a fare gli amichevoli e i paterni, e sorridendo, mentre ti rubano la vita, a darti pacche sulle spalle come se fossi un cane...) Dal non trovar conforto né rimedio in alcunché, poiché tutto, tutto ― il paese, le vie, la natura, gli animali, gli esseri umani ― tutto è intossicato e abbrunato dall’aver sempre addosso l’odio e l’invidia e l’inimmaginabile violenza di chi sfrutta la sua povertà, e l’assoluta sua necessità di mettere al mondo la propria arte, per impadronirsi della sua vita, degli ultimi anni della giovinezza, del suo tempo, del suo genio, del suo nome. E portarseli al di là dell’oceano, in America, dove ancora stanno, a Worcester, Massachussets, Elm Park: il volto della madre, e accanto a esso i volti delle donne e degli uomini di Anticoli, soli e misconosciuti laggiù, sferzati da piogge e da venti stranieri sotto un nome e dei nomi che non sono i loro.
Prima di incontrare Arturo Martini, Sterne è stato in Egitto, in India, in Birmania, a Giava e a Bali. È passato anche per Vienna, dove ha conosciuto una ballerina molto più giovane di lui, l’ha sposata e se l’è portata in Italia. È, insomma, uno dei tanti che dalla seconda metà del secolo XVIII ― da quando l’intellettualità illuminista europea è stata folgorata dal mito del buon selvaggio di Jean-Jacques Rousseau ― girano il mondo in cerca di paradisi incontaminati ove rigenerarsi, culture artistiche primitive a cui attingere, esseri umani allo stato di natura, ancora puri, spontanei, incorrotti dalla civiltà, con i quali... Già: con i quali fare che cosa? Che cosa van cercando, questi signori, nei ragazzi, nelle ragazze e talvolta nei bambini della Polinesia o delle Isole greche, di Capri o di Anticoli Corrado?...
Non tutti, certo. Luminose eccezioni ― citiamo, fra le tante, quella di Robert Louis Stevenson39 ― dimostrano che non sempre gli intellettuali europei e americani che tra ’800 e ’900 viaggiano o si stabiliscono oltremare lo fanno con intenzioni più o meno inconsciamente analoghe a quelle delle grandi potenze che negli stessi decenni si spartiscono la Terra. Ma fra loro ci sono gli individui come Sterne. Che nella migliore delle ipotesi vanno a “comprare” quel che comprare non si può, e qualche volta a far peggio. Poiché dell’arte primitiva si possono depredare le opere e saccheggiare le idee e gli stili per poi spacciarli come i frutti di una personale ricerca creativa, illudendosi, così, in buona o in malafede, di essersi rigenerati... Ma degli esseri umani che cosa si può farsene? Si potrebbe, certo, stabilire un rapporto autentico, fare una ricerca, comprendere, aiutare. Ma per questo ci vorrebbero una capacità di amare e un’intelligenza che questi sedicenti artisti non possiedono più da un pezzo, e la cui perdita ― percepita e sofferta non come una possibilità di crisi e di riscatto, ma come un vuoto e un tormento incurabili, tra lampi d’odio ed effimere tempeste di rabbia ― è anzi proprio la causa della frenesia che li spinge di qua e di là per il mondo sempre bramosi e insoddisfatti. Frenesia che poi, quando scoprono che nessun sollievo possono cavare dal semplice contatto “spirituale” (poiché ovunque li segue e li impesta l’indifferenza che hanno scavato dentro di sè) non di rado li fa delirare di poter “curarsi” riappropriandosi della perduta vitalità giovanile e della distrutta bellezza interiore per mezzo dello stupro dei giovani e talora giovanissimi corpi nei quali le intuiscono o fantasticano ancora presenti e vive.
È una ricerca che non è stata mai tentata, quella sulla violenza psichica ― e talvolta non solo psichica ― che anche ad Anticoli può aver attraversato e funestato i rapporti fra alcuni degli artisti e alcuni dei famosi modelli e modelle, che non di rado erano solo dei bambini. Ed è, purtroppo, una ricerca ormai impossibile, poiché coloro che delle violenze potrebbero essere stati le vittime non ci sono più, ed è difficile ― come ben sa chi indaga su questo tipo di crimini ― che in vita si siano mai lasciati andare a confidarsi con qualcuno. Ma una cosa è certa: la vicenda dei rapporti fra Maurice Sterne e Arturo Martini è una vicenda di violenza, benché “solo” psichica, e dimostra in modo inoppugnabile che ci sono individui, tra i forestieri che visitano Anticoli fra l’800 e il ’900 , che non vengono a creare, ma a distruggere. Che vengono, come vampiri o zombie, ad abbracciare, contaminare e soffocare i vivi nel delirante tentativo di cavarne fuori a viva forza un’ormai impossibile resurrezione.
Eppure c’è chi dice, talora in buona fede, che la turpitudine di Maurice Sterne sarebbe invece meritoria, poiché il suo denaro darebbe modo ad Arturo Martini di dedicarsi all’arte in un periodo in cui senza di esso non avrebbe altra scelta che quella di morire di fame. O di farsi mantenere dal suocero a Vado Ligure. O di trovarsi, per sbarcare il lunario, un’occupazione normale.
Come se lo schiavo dovesse ringraziare lo schiavista e lo sfruttato lo sfruttatore perché li tengono in vita, mentre gli rendono la vita indegna di essere vissuta! Come se il fatto che Martini li voglia e li richieda, i dollari dell’americano, e che essi gli permettano di restare vivo e di scolpire, potesse cancellare l’odio con cui Sterne intanto impalpabilmente lo tormenta e a poco a poco lo avvelena! Come se il denaro male acquistato avesse il potere, dal momento che sostiene il corpo, di alleviare la sofferenza e ridurre il rischio psichico a cui intanto espone chi lo accetta o è costretto a prenderlo! Sofferenza e rischio ai quali è in teoria possibile resistere, certo, ma a cui Martini di fatto non resiste.
Eppure c’è anche chi sostiene, meno ingenuamente, che la costrizione di questi anni di lavoro, nonostante l’insofferenza con cui l’artista li vive, si risolve in un accadimento positivo per la sua formazione, aiutandolo quella disciplina a raffrenare gli impulsi di un temperamento tutto istinto e a mettere ordine nei programmi ambiziosi, che coltiva da tempo e non trova modo di realizzare40... Ma son concetti, questi, del tutto simili a quelli che sostanziano la “pedagogia” di chi asserisce che le sofferenze temprano e le bastonate fortificano; ed è una razionalità, quella da cui tali “idee” scaturiscono, che Arturo Martini non perdonerebbe, lui che fino alla fine continua a sostenere che il diavolo serve in arte più di qualunque angelo41, a paragonare il fare arte ai pugni dell’atleta che picchia alla disperata per abbattere l’avversario che non vuol cedere42, a sostenere che se concludo poco sempre (è) perché cerco l’impossibile43 e che in arte l’espressione è l’antitesi dell’olimpicità greca44, a consigliare ai giovani artisti di sbagliare di più e con più impeto così che ogni sbaglio diventa un pregio, mentre se fatto paurosamente è un gran difetto45, a lodare Picasso per aver detto che il quadro va scannato come si uccide il porco nel cuore46, ad affermare che un artista completo... sente quanto sia smisurata la sua urgenza47 e che le cose fuori della logica sono le uniche vere...48 Lui che proprio a un critico, che della sua opera ha scritto cose che non gli sono del tutto piaciute, risponde rivendicando come un valore il proprio essere rimasto un ragazzo impulsivo: Caro Borgese per giudicare me oltre d’aver un’acuta intelligenza ci vuole anche un grande cuore perché solo con questo istrumento si misura l’impercettibile. Quello che è percettibile in me è la scoria... So che tu sei ora un uomo ma ti aspetto, e i segni sono buoni, che tu diventi un bambino o un ragazzo per passare la porta dell’imponderabile49...
No. La verità è che fino all’ultimo giorno Arturo Martini considera un errore capitale, per un artista, raffrenare gli impulsi di un temperamento tutto istinto, e ricorda il tempo in cui niente in lui si era ancora “raffrenato” come l’epoca migliore: La pagina più autentica dell’arte italiana è ancora quella di Ca’ Pesaro. La santità di quel tempo è tanto immacolata e autentica che sento dopo tanto lavoro e maturità il bisogno di rifarmi anche ora, per veder giusto, a quel tempo...50 E tuttavia l’illustre critico ha ragione, anche se le sue parole tentano di far passare per un accadimento positivo l’evento di cui ci rendono certi: la cattività anticolana, la schiavitù a Sterne (e l’odio che da Sterne ha subito) massacrano il ragazzo geniale, tutto impeto e fantasia e passione, che dai 27 ai 35 anni ― dalla delusione del ’16 al ricovero per nevrastenia del ’17, dal tentativo di suicidio del ’21 alla partenza del ’24 per Anticoli Corrado in cerca anche di una cura ― Arturo Martini non è ancora riuscito a far morire. L’accadimento “positivo” è che la crisi dello scultore si cronicizza, che di lui rimane quasi solo lo statuario, e che per tutta la vita il vecchio artista seguita a rimpiangere il giovane e talvolta a ritrovarne, come per incanto, qualche vestigia nella mente e nel cuore ― e sono i momenti in cui ancora è capace di grandi opere ― ma senza mai riuscire, per quanto cerchi e si disperi, a farlo davvero rivivere dentro di sé.
Valgano a dimostrarlo, se le parole non bastano, le fotografie che ci son rimaste di Arturo Martini prima e dopo Anticoli. La differenza è così impressionante, che si stenta e quasi si vorrebbe rifiutare di ammettere che siano la stessa persona, il ragazzo di 31 anni e il vecchio di 42! E non per i segni fisici dell’avanzare dell’età ― che di per sé, in anni difficili come quelli e in un uomo che ha fatto la fame e sofferto ogni sorta di privazioni fin dalla nascita, significano poco ― ma per l’impalpabile grigiore che sembra essere calato su di lui e in lui, avvolgendo, gonfiando, sacrificando e immiserendo tutta la sua figura, il modo di stare, lo sguardo, la presenza: grigiore che certo non lo ha ancora vinto, si vede, né del tutto forse mai lo vincerà, ma che nondimeno lo costringe e lo sforza come un invisibile cilicio, come un tormento sempre aguzzo, come una malattia mortale che cresce a poco a poco. No, non è stato un accadimento positivo: il giovane artista continua a spegnersi e a morire, in Arturo Martini, negli anni di Anticoli (ma nonostante Anticoli) e per il tempo che il vecchio gli sopravvive non è più il ragazzo, in lui, a dargli la forza di resistere in parte, ma solo il suo ricordo: l’immagine di un giovane Palinuro che dinanzi a San Pietro diroccata e umida come una spelonca, nel buio perfetto di piazza delle Ville, così stanco da non riuscire nemmeno a dormire, per l’ultima volta guarda le stelle sentendo l’acqua muoversi invisibile sotto la sua Arca ― mentre l’americano da qualche parte dorme e ronfa d’indifferenza e odio ― e per l’ultima volta sente vicina la meta dell’eroe dinanzi alla prua, anziché il ritorno del figliol prodigo chiamarlo come una laida sirena mortifera da dietro di sé.
Le quattordici lettere di improvvisa e sentimentale amicizia che Arturo Martini, trentasettenne, indirizza a Francesco Messina, ventiseienne, nell’ultimo anno del periodo anticolano, ci dicono che lo scultore tenta a un certo punto di guarire dal nefasto rapporto con Maurice Sterne rovesciandolo nel suo opposto: opponendogli, cioè, un rapporto in cui lui sia il vecchio e l’altro il giovane; in cui il vecchio sia buono, amico vero, sincero, buon maestro e mentore, quasi un padre putativo, il giovane possa essere felice, riconoscente per tutto ciò che riceverà, e l’affetto tra loro ― anziché dall’odio e dall’invidia dell’uno e dal disperato risentimento dell’altro ― scaturisca dall’eguaglianza nelle capacità e nelle possibilità, dalla più lunga esperienza, dalle maggiori conoscenze che il vecchio metterà a disposizione del giovane, senza nulla volere in cambio, e dalla comunanza d’idee e di predilezioni artistiche.
Scrivimi, scrivimi, dice Arturo a Francesco già nella prima lettera, che mi farai tanto piacere ti stimo moltissimo e ti amo anche come uomo (a parte i secondi fini)51... E dieci giorni dopo: Non ci dev’essere misura nell’amicizia quando questa è così rara e si corre nel desiderio caro e tremendo di averla finalmente intravista e forse raggiunta52...
Tre, soprattutto, sono gli argomenti sui quali sempre ritorna, sentendo di avere in essi qualcosa di buono e prezioso da offrire non per interesse, non per cavar dall’amico ciò che serve a lui, come fa Sterne nei suoi confronti, ma per il suo bene e la sua miglior fortuna: l’arte, l’amore e sé stesso, Arturo Martini. Sull’arte e gli artisti: L’arte è unicamente meraviglia... Tu cavalchi sempre e bravo, ma quando il purosangue, basta con i bastardi, nella nostra categoria nemmeno le bestie devono essere un’imitazione falsa della nostra aspirazione53... L'opera non sia mai inferiore al pensiero primo... Non bisogna né vedere né sentire perché la nostra più grande creazione è nel nostro spirito oscuro e informe54... Carducci disse che l’artista è un artiere ― è stupido stupidissimo ― l’artista è un pigro che ha nel cervello le furie creative e può soltanto essere grande nell’ozio comandando come un generale una guerra senza vederla... L’arte grande dev’essere al di là della vita umana e delle passioni55. Sulle donne e l’amore: Ma santo dio che vuoi di più prendi quello che ti dà e non annoiarla con la tua focosa confusione di amatore che ha tutto e vorrebbe sempre di più che poi si ridurrebbe all’abitudine e alla noia. Discorso mezzo simbolico e mezzo verista (che) mi porta a pensare alla signora Bovary e a quel viaggio che nessun uomo è stato capace di farle fare, per darle la sensazione della fuga e della completa dedizione e dell’amore senza perché56... L’amore, ecco quello che mi manca, il mio amore, quello della quarta dimensione, come l’acqua, il fuoco, il vento e tutte le forze capaci di compenetrarsi57. E soprattutto su sé stesso, poiché è parlando di sé che Arturo Martini sente di poter dar meglio al rapporto con l’amico la forma che deve dargli per purificare sé stesso e il mondo dalla bruttura che nella sua vita e nel mondo è stata introdotta dal rapporto con Sterne. Poiché è parlando di sé, vale a dire, che egli sente ― mettendo in guardia il giovane affinché si difenda dal vecchio e dal rischio di andare alla sua stessa deriva ― di immedesimare e realizzare nella realtà la figura, che al contempo sta formando nel bronzo, del padre che accoglie il figlio, lo abbraccia e lo sostiene ma al contempo lo ferma, lo blocca, come per evitare e quasi impedire fisicamente al ragazzo di andare avanti a morire da vivo com’è accaduto a lui.
Vorrei fare di te, quello che non ho potuto fare di me che in parte, questo è il programma che Arturo assegna alla loro amicizia e che annuncia a Francesco già nella seconda lettera58. È l’opposto assoluto del programma di Sterne ― che è quello di appropriarsi di tutta la realizzazione che riuscirà a impedire a Martini di conseguire ― e per trarlo a buon fine è necessario che il vecchio si ponga dinanzi al giovane con la totale sincerità che quella frase (ciò che di me non ho fatto che in parte) inizia già a perseguire. All’amico, che evidentemente gli si rivolge già come al proprio eroe, innanzi tutto si deve rivelare senza reticenze che cosa significhi, davvero, essere un eroe: Lo so che gli eroi son belli a vederli e a udirne le gesta, ma quando ci si prova, allora solo si sa quanta forza ci voglia... La fame e non per un giorno, ma per mesi e anni, nessun affetto, nessun amore perché l’uomo che soffre non ha tempo da dedicare alle gioie della vita... Così mi son trovato anche per molto tempo e credimi con tutto il mio coraggio ho aspettato la morte...59 Anche per giustificare l’abiezione in cui si è, per poter dire all’amico, che nell’abiezione ti sorprende: Non rimproverarmi se l’americano mi tiene in schiavitù, questa non è che la sosta necessaria di altre marce e per trovarmi riposato per le lotte che dovranno farmi vincere o vedermi seppellire... Avevo bisogno di vivere la ricchezza per provarne il sapore e ora mi sento più libero e più degno di ricominciare la mia miseria...60 Ma perché sentirsi degni della miseria, se non perché ci si sente in colpa? Degno di miseria è chi si sente indegno; e indegno, nel caso di Arturo Martini, non tanto per il denaro che riceve, che spende per vivere e per la sua arte, quanto soprattutto per quel che la schiavitù gli sta facendo. E tuttavia si vuol pur sempre essere un eroe, per l’amico e fors’anche per sé, e allora quel che si sta diventando lo si deve gridare alto e forte, orgogliosamente: quel che si è ora e quel che si sarà d’ora in poi, lo si deve proclamare come un vanto pur nel momento stesso in cui lo si denuncia come un pericolo mortale da cui l’amico, al quale si vuol bene, è al contempo scongiurato di sottrarsi: I pozzi per ristorare le nostre seti insaziabili sono avanti perché le acque che abbiamo lasciate indietro le abbiamo riempite di acido prussico, quindi avanti, avanti sempre anche se sono stanco. Anche gli eroi si stancano credi a me, anche gli eroi vorrebbero fermarsi, ma la tragedia sta qui, che devono malgrado tutto andare avanti forse incantati dalla curiosità del paradiso... Più si farà in me luce e più incomprensibile sarò agli altri. Lavorerò per il tempo, come un pazzo senza più il tempo, fuori dalle stagioni e dalle passioni, e chi mi tocca o si rovina o si salva, dipenderà dalla sua forza. Eravamo di più, molti di più e siamo rimasti in pochi anzi in pochissimi e credo che diventeremo ancora meno. La mia fiducia sta qui, sebbene questo mi renda triste e feroce. Messina guardati da me io sono in fondo un demonio che passeggia sulle rovine61.
Il vecchio sa di non essere più quel che era prima, o almeno sa ― nella migliore delle ipotesi ― di aver fatto di sé solo in parte ciò che poteva e desiderava essere. E dinanzi al giovane, dunque, dev’essere l’eroe ― poiché altrimenti dovrebbe essere lo sconfitto che non vuole e non può essere, e che il giovane abbandonerebbe ― ma al contempo deve manifestarsi per ciò che è, disumanato e sperduto, sofferente, forse distrutto, poiché altrimenti lo ingannerebbe, lo deluderebbe, lo consegnerebbe a un identico destino. E, quel ch’è peggio, sarebbe come Sterne, e il mondo, ancora una volta, sarebbe degli Sterne. Poiché il giovane si fa incontro al vecchio proponendosi con fiducia come allievo desideroso di apprendere; e il vecchio è felice, e vuole e deve accoglierlo, ma sente anche che non sarà un maestro, per lui ― che lo perderà, o peggio lo vedrà lentamente agonizzare ― se nell’abbracciarlo non tenterà di fermarlo, se nel proporsi come eroe non si rivelerà come fallito, se nell’insegnargli ciò che sa, lui che crea, al contempo non lo smentirà, lui che si sta anche distruggendo: Guardati da me, Messina, poiché io sono in fondo un demonio che passeggia sulle rovine.
Il demonio che poco dopo, lasciata Anticoli dopo una breve e infelice puntata a Capo Palinuro62, indossa consapevolmente una maschera d’indifferenza che gli s’incollerà al volto e lo renderà, anche a sé stesso, irriconoscibile e odioso63: Guardo con un occhio solo la gente e sopra tutto infischiandomene... He! he! me ne rido, e che vuoi farci, io non voglio cambiare letto ai corsi d’acqua e al mio poi l’accetto anche quando ci cacano dentro, tanto per queste inezie non cambierò di colore64. Il demonio che inizia a ricercare e fin quasi a pietire la benevolenza del regime fascista: Illustre signor Ojetti... non sono ricco, né lo sono stato mai, da trent’anni, quasi, faccio lo scultore, e Santo Dio, perché nessuno vuol decidersi di darmi una commissione?... Non ne posso più e non posso per vivere fare delle ceramichine tutta la vita... Mi aiuti trovandomi da fare una cosa pubblica, una cosa importante... E che trovino che io sono strambo e che non so fare le statue coi muscoli a posto, le so fare e come, e se tante volte sembrano un po’ ardite anche questo non è colpa mia... Lei lo sa meglio di me cosa può lei fare per un artista e poi creda creda che risponderò alla sua stima65. Il demonio che negli anni ’30 celebra il fascismo e le sue cosiddette “idee” con opere insincere e squallide, che sempre più lo disgustano, e nelle quali, agli inizi degli anni ’40, giunge infine a veder morta la scultura, pur di non riconoscere in esse l’agonia e forse la morte del giovane scultore che un tempo, coraggiosamente, cercava ed esplorava nuove vie: Dopo quarant’anni di lavoro, quando... era giunto per me il momento di alzare la testa, mi sono accorto che nella scultura tempo e possibilità di miracolo erano chiusi per sempre66... La scultura è l’eterna ripetizione della statua... è sempre vissuta di vita parassitaria aderendo come un rampicante alla superficie di un’immagine e assumendone la forma67... L’aspetto della scultura è squallido e triste come quello di un seme posato sul marmo, cioè fuori di ogni possibilità di vita68... Una volta le stelle erano stelle, ora non sono che sistemi. Non ha più ragione il volo, ma il calcolo69. Il demonio che nel ’46, tra le rovine della guerra più spaventosa di tutti i tempi, piange nel Palinuro la vita prematuramente stroncata di Primo Visentin, detto Masaccio, e di ogni giovane abbattuto, distrutto, precipitato in un abisso o in un altro mentre guarda le stelle che per lui sono ancora stelle, non sistemi. Il demonio che solo allora si rende conto di non aver potuto fermare e salvare nessuno, dei giovani della sua epoca, perché ad Anticoli non è riuscito a salvare sé stesso: quando la scultura, non ancora lingua morta, riusciva ancora a farsi sentire e comprendere.
L’amicizia con Messina brucia come paglia nel giro di qualche mese ― le lettere da Anticoli, più due da Parigi di poco successive, resteranno le prime e le ultime a lui indirizzate ― ma non si estingue, con essa, il desiderio sempre intenso e sempre insoddisfatto di Arturo Martini di trovare un amico vero, sincero, con il quale poter condividere ogni cosa: la lotta e la ricerca, il contingente e l’assoluto, la vita e l’arte. Per almeno trent’anni, dal ’16 al ’46, egli continua periodicamente a illudersi di averlo finalmente incontrato70, ma ogni volta rimane deluso. Non tanto per il suo caratteraccio, o per il primato di superiorità che di continuo e quasi ossessivamente rivendica su tutti gli uomini e gli artisti passati e presenti, o per la pretesa di esser sempre compreso e mai criticato, quanto soprattutto perché questo “desiderio” di una sorta di “amore” al maschile ― così assurdo da risultare imbarazzante e insostenibile perfino per lui, oltre che per coloro a cui di volta in volta lo offre ― nella sua mente prende a formarsi dopo la tremenda delusione amorosa del ’16, quando cede all’idea disperata che mai più riuscirà a trovare in una donna l’amore vero e profondo che a lungo ha creduto possibile e cercato (Ah quanto vorrei piangere per un amore, per una donna che avesse qualche cosa che io non potessi capire, come fosse di un’altra tribù con altri riti e credenze diverse71...) E dunque non è affatto desiderio, appunto, ma proprio l’opposto: rinuncia, capitolazione, pensiero e atto radicalmente aggressivo contro sé stesso, contro l’arte e contro il mondo intero. Poiché l’immagine femminile, che quella disperazione colpisce e a poco a poco deteriora ― l’immagine del corpo della donna, che è carne e al tempo stesso è forma ― è ciò che in lui dall’età di due anni fonde in un’unica e splendida realizzazione ciò che è fisico e ciò che è psichico, il misurabile mondo materiale esperibile dai sensi e l’incommensurabile mondo umano che solo la creatività fa trapelare e può scorgere in esso: la vita e l’arte in un’unica realtà interiore.
Neanche per un momento, certo, Arturo Martini vede nella laida e ambigua figura di Sterne l’amico vero che va cercando per creare solo con lui il mondo completo di felicità72 che non crede più possibile con una donna. Ma Sterne, che odia fin dal primo istante il giovane artista ancora vitale che intuisce in lui, con lo stesso odio e più o meno consapevolmente intuisce anche il dramma che egli sta vivendo e lo attira e imprigiona in un rapporto che è una parodia e al contempo una rivelazione di ciò che sta accadendo nella mente e nel cuore di Arturo Martini. Un rapporto in cui lui, Sterne, è il “marito” ― violento, pieno d’invidia per la creatività della donna che fa e mette al mondo i bambini ― e Martini è la “moglie” comprata, posseduta, violentata e distrutta per farne l’ombra di sé stessa, il misero e grottesco simulacro dell’autentica immagine femminile che per gli Sterne è un tormento anche solo intravedere. Un rapporto che Martini sente fin dall’inizio come insopportabile, e al quale tuttavia non riesce a sottrarsi (non tanto nella realtà materiale del contratto che con l’americano ha firmato, e che pertanto deve onorare, quanto soprattutto nella dinamica interpersonale che quel contratto racchiude e cela come un patto col diavolo, e che mai e poi mai Arturo Martini accetterebbe se ancora fosse limpido, lassù, il cielo stellato a cui guardava Palinuro) proprio perché quell’immagine femminile vuol colpirla e deturparla anche lui ― anche lui vuol togliersela dal cuore e dalla mente o almeno renderla inoffensiva per non soffrire più ― e per questo si presta a impersonarla in quella relazione insensata, nella folie a deux che intanto ripugna e suscita pietà nelle donne vere di Anticoli Corrado, nelle ragazze a cui l’America ha rapito il padre e il fratello e il marito, e che dalle finestre e dai balconcini lo guardano, chiamandolo cattivo, attraversare la piazza verso la spelonca di San Pietro.
Per tutta la vita, poi, Arturo Martini combatte la vita in nome dell’arte. Si rifugia ad Anticoli, a costo di consegnarsi a Sterne, per separarsi dalla famiglia che si è fatto quando a un certo punto ha voluto darla vinta alla vita, ma che fin dal primo giorno ha sentito come un intralcio per l’arte. E dopo Anticoli continua a lottare: contro la moglie, contro i figli, contro gli amici, contro tutti quelli che lo amano e ai quali anch’egli vuol bene. La vita sono loro. L’arte, invece, è lui. Poiché solo lui potrebbe metterla al mondo, l’arte, se dal mondo ottenesse la libertà, la solitudine, la tranquillità ― e il denaro, che non gli occorre che per procurarsele ― di cui la vita cerca invece di privarlo73.
Per tutta la vita, dopo la cattività anticolana, Arturo Martini si sente in colpa, combattendo la vita, verso sé stesso, verso gli altri e specialmente nei confronti della moglie e dei figli. Per tutta la vita tenta di giustificarsi, di quando in quando accetta o addirittura propone delle tregue, intavola e poi interrompe delle trattative, è lì lì per lasciarsi sopraffare... Ma poi ogni volta riprende a combattere, e la guerra continua fino all’ultimo giorno. Tanto che alla fine, nel ’47, quando decide e annuncia alla moglie che a primavera tornerà da lei a Vado Ligure, che tra poco, appena farà meno freddo, le spedirà tutte le opere che ha con sé e partirà, a un tratto muore. Così, quando la vita sta infine per sconfiggerlo, la morte se lo prende e una volta per sempre la dà vinta all’arte.
Osservano con indulgenza i biografi ― che narrando la sua vita finiscono prima o poi per schierarsi contro di essa con lui e con l’arte ― che però Arturo Martini finché vive provvede e si prodiga per la sicurezza e il benessere di quelli che lo amano, e ai quali anch’egli vuol bene. Ed è vero, è fondamentale per lui: i suoi cari devono dormire tranquilli, sotto coperta, mentre Palinuro sul ponte guardando le stelle e il mare pilota da solo la nave verso il porto agognato: l’opera perfetta, la parola definitiva, la realizzazione che imprimerà il sigillo di Arturo Martini sul secolo che è già suo e che tra poco, doppiati gli ultimi scogli a fior d’acqua, evitate le ultime invisibili secche, finalmente apprenderà di esserlo e mai più potrà negarlo. E la moglie e i figli, intanto, sì, non solo possono ma devono dormire tranquilli, poiché lui non cederà al sonno, lo spettacolo sublime delle stelle non lo distrarrà dal puro calcolo che dalle stelle desume la rotta, l’impeto che lo rende selvaggio e lo trattiene ragazzo non prevarrà sulla razionalità che al contempo lo fa adulto, civile, prudente. A patto che loro non lo disturbino, mai! Possono desiderare, certo ― e anzi è bello che lo facciano ― di raggiungerlo sul ponte e stargli vicino a guardare le stelle accanto a lui... Possono sognare, sì... Ma avvicinarsi mai.
La vita non deve sparire, non dev’essere annientata, poiché di essa non si può fare a meno e neanche l’arte lo può: solo tenuta a bada, a distanza; e in sicurezza e da lontano guardata, seguita, amata, protetta.
Eppure non è stato sempre così. C’è un tempo, e dura fino ai 27 anni, in cui arte e vita sono una cosa sola, e anche soltanto l’ipotesi che si possa scinderle parrebbe oscena, pazzesca, al ragazzo che vede nell’una la forma e la realizzazione dell’altra...
A due anni, a casa mia, una stanza era stata affittata a una prostituta. Abitavamo dietro alle prigioni. La prostituta spesso m’accompagnava con sé. Una mattina, scesa sul canale, si alzò la sottana e si accucciò sull’acqua... Visione del grande deretano sui tronchi delle cosce, bianco, che esplode. Questo tempio. Estasi. A due anni ho avuto vent’anni. Ho capito la forma. La Saffo, la Pisana, tutte le mie donne sono quella rivelazione74.
A due anni, cioè, Arturo Martini lega per sempre la visione della donna, del corpo nudo della donna diverso dal suo, all’intuizione della forma. Al desiderio. All’attesa.
La forma, nelle cose e negli animali non umani, è quel che non c’è e non può esserci finché non gli è data dallo sguardo, dall’intelligenza e dal lavoro umani. La forma è l’umanità, in quanto materialmente visibile e percepibile dai sensi, che gli esseri umani conferiscono alle cose e agli esseri non umani guardandoli, immaginandoli e realizzandoli. E in quanto tale è anche la loro bellezza, che solo gli esseri umani sono in grado di intravedere, o talvolta la bruttura che solo altri esseri umani sono capaci di immettervi. Ma per scorgerla bisogna cercarla, scoprirla, inventarla, educare i sensi a percepirla: nelle opere della Natura, dove non c’è, bisogna metterla; in quelle degli uomini, dove c’è, bisogna diventar capaci di intuirla.
Solo nel corpo nudo dell’essere umano, la forma, che non è mera figura o, come dirà negli anni ’40 il vecchio Arturo Martini, semplice immagine buona per far statue ― la forma che è umanità e bellezza ― risplende di luce propria fino ad abbagliare e sconvolgere e può essere fisicamente percepita anche da chi non ha esperienza né educazione né studi. Perfino se la si vede per la prima volta a due anni ― anzi: soprattutto a due anni ― sotto le volte del tempio di una povera prostituta che si accuccia sull’acqua tenendo con una mano la sottana e con l’altra lavandosi. Si vede e si sente, e come!, e anche e soprattutto a due anni, poiché la forma ch’è solo umana può poi essere ed è spesso occultata o deturpata nell’insincerità del volto, nell’affettazione dei gesti, nei ghirigori degli abiti e delle pose e dei trucchi, ma niente ― neanche l’abbrutimento di una vita mal vissuta, neanche gli insulti del tempo ― può velarne lo splendore nella nudità di un corpo umano. La si vede e la si sente, certo!, e anche e soprattutto a due anni, e poi quella rivelazione bisogna non perderla, non sciuparla, non distruggerla: conservarla, come in un tempio, nel ricordo, nell’immagine, nella fantasia del tempio che la contiene.
Dare la forma a un pezzo di materia inanimata, creare dal nulla ― nel legno, nel gesso, nella terracotta, nel bronzo, nel marmo ― l’indimenticabile e incomprensibile splendore che il corpo nudo della donna emana da sé, e che a ogni altra cosa dev’essere dato: il desiderio di toccare, di accarezzare la donna nella sua nudità ― di sollevare la cortina delle sottane ed entrare nel tempio ― fin dall’inizio in Arturo Martini è anche desiderio di rifare la medesima bellezza nella materia inanimata affinché la medesima forma sia poi in ogni cosa e dovunque. Di rendere fisicamente umane le figure delle cose rendendole forme. Di essere, insomma, come Dio e più di Dio, che di umano, al mondo, non ha fatto che noi per lasciare a noi il compito di fare di più75.
Ma i desideri che si risvegliano a due anni ― o che forse non si sono mai assopiti ― di realizzarsi devono attendere. Attendere, per entrare nel tempio, che il corpo sia fisicamente e mentalmente capace di rapporto sessuale; attendere, per dare la forma a ciò che non l’ha, che le mani siano fisicamente e mentalmente capaci di trasfondere nella materia inanimata l’innata creatività della mente. E Arturo Martini attende, come tutti ― senza dimenticare quel che ha visto e intuito ― ma non attende tantissimo: l’abbiamo detto, a dodici anni lascia la scuola per la vita e per l’arte, a tredici lavora presso un orefice, a quindici si iscrive alla Scuola Serale e Domenicale di Arti e Mestieri, a sedici gli commissionano i primi lavori, si perfeziona presso lo scultore Antonio Carlini, incontra e conosce ragazze e donne, lavora e s’innamora, crea ed è amato, ama ed impara... Poiché questo è il tempo, per Arturo Martini ― i pochi ma vivissimi anni ― in cui la vita e l’arte non sono ancora nemiche, sono ancora una cosa sola ― forma che traspare dai corpi o che nelle cose s’intuisce possibile ― che sempre e ovunque eccita e seduce il giovane artista a sentirla fra le proprie mani o con le proprie mani a crearla.
Poi, nel dicembre del 1912, il primo grande dolore: la morte del padre. Arturo Martini ha ventitré anni, e da sei (da quando, cioè, a diciassette, il figlio del cuoco e della cameriera trevigiani, povero in canna, si è recato a Milano76 per la grande Esposizione Universale e si è profondamente commosso dinanzi alle opere in mostra) è lanciato in una splendida avventura di ricerca e di realizzazione: a diciotto, grazie a una borsa di studio, si trasferisce a Venezia e prende lezioni dallo scultore Urbano Nono; a diciannove, entusiasmato dalle fotografie di alcune opere di Medardo Rosso che ha trovato in quello studio, è scacciato dal maestro per averle difese; ancora a diciannove, per la prima volta, due sue sculture sono accolte, a Venezia, in una mostra non trevigiana; a venti, col sostegno economico del direttore di un museo e di un industriale, va a studiare a Monaco di Baviera; a ventuno e a ventidue lavora ed espone a Treviso e a Venezia; a quasi ventitré parte per Parigi e dopo pochi mesi, grazie a Medardo Rosso, espone al Salon d’Automne... È lì che lo raggiunge la notizia della morte improvvisa del padre, ed è da lì che deve partire, come un figliol prodigo a cui soltanto morendo si è potuto imporre il ritorno, per rientrare a Treviso: da Parigi, capitale dell’arte europea, dove ancora ragazzo ha già iniziato a farsi spazio tra i più grandi artisti.
È questo lutto a deviare Arturo Martini dalla direzione intrapresa? Non possiamo escluderlo (tanto più che un altro “padre” del giovane artista, il pittore Ugo Valeri, un anno prima è morto tragicamente a Ca’ Pesaro alla stessa età, 37 anni, che Martini avrà nel ’26 ad Anticoli) ma neppure abbiamo elementi per sostenerlo. Sappiamo, però, quel che lo scultore stesso narrerà molti anni dopo: Alla morte di mio padre avevo vent’anni (sic): mi son messo a ridere e ho riso per una notte e un giorno. Hanno chiamato il medico per chiudermi le mascelle77. E sappiamo che la sua vita e la sua carriera artistica, dopo questi eventi, almeno all’apparenza proseguono senza problemi: nel ’14 si avvicina al futurismo; nel ’15 torna a Parigi e di nuovo è costretto a lasciarla dallo scoppio della Grande Guerra. Ma il 26 aprile del 1916, benché sette anni prima sia stato riformato alla visita di leva, il giovane artista è richiamato alle armi e assegnato il 6 maggio all’8° Reggimento di artiglieria a Vittorio Veneto... Poiché in quel momento, in quell’inizio di primavera alla cui fioritura già partecipano sui campi di battaglia i cadaveri insepolti di migliaia e migliaia di giovani italiani e di tutta l’Europa, il fatto che più di ogni altro segnerà l’esistenza di Arturo Martini è appena avvenuto: si è innamorato di una giovane donna di quella classe sociale che ritiene superiore, ha confidato questo amore sospirato e torturante a un amico, pure appartenente a quella classe, chiedendogli conforto e consiglio, e questi ha finito, attraverso un complesso di vicende dolorose, coll’essere preferito a lui da quella donna78.
Il fatto è di pochi mesi prima, cioè dell’inizio del ’16, ma l’amore di Arturo Martini ha già più di due anni, poiché risale almeno all’estate del ’13. La ragazza, che non ne ha più di venti, si chiama Maria Calzavara. E l’amico e confidente è Natale Mazzolà, il carissimo Lino delle Lettere, che nel dicembre del ’18 la sposerà. E che nel 1966 narrerà tutta la storia in un appunto autobiografico mai terminato (giunge solo fino al ’21) e rimasto inedito fino alla sua morte...
Sono nato a Treviso il 7 dicembre 1892 e Martini l’11 agosto 1889, cioè 3 anni e 4 mesi prima di me... Nel 1908, a Treviso, vedo per la prima volta Martini... Mio padre mi addita un giovane magro, serio, vestito di nero, con viso e occhi indimenticabili, e mi dice: è Arturo Martini, un giovane che si fa onore... Faccio conoscenza con Martini, presentatomi da Giovanni Comisso, nel 1913. La simpatia reciproca è immediata, l’accordo perfetto. Ci affezioniamo subito l’uno all’altro e ci comprendiamo senza riserve. Più giovane di lui, portato per natura a pensieri ideali e all’arte, ma non artista... vivo alcuni mesi nel suo mondo meraviglioso, dimenticando la famiglia e gli studi, sempre fuori con lui, di giorno e di notte. Egli in estate compone, fra le altre, due acqueforti... e me le regala in segno di affetto e per ricordo eterno, come egli dice: l’una, il Superuomo, con la scritta: a Lino Mazzolà amandolo più che l’amore... l’altra, il Viandante, con la scritta: in girum imus nocte et consumitur igni... In quei mesi Martini mi confida la sua viva simpatia per una giovine signorina di Treviso, M. C... Ma non sa che anch’io l’ho rimarcata. A entrambi appare una giovane fuori dall’ordinario e infatti è di intelletto superiore e di alto sentire. Martini non le parla mai, solo le scrive79; io non le ho ancora manifestato i miei sentimenti (ciò sarà nel maggio del ’15 al momento di partire per il fronte)... Nel ’16 scrivo a Martini una lunga lettera, smarrita, nella quale gli comunico che mi sono fidanzato con M. C... Purtroppo il suo dolore è aspro e durerà lunghissimi anni, e poi, pure dissolto dal volger del tempo, si muterà in un blando e gentile ricordo80.
Un evento che può sembrare banale: quanti amori, si dirà, cominciano e finiscono, fra i venti e i trenta, nella vita di un giovane uomo che nei suoi amori va alla ricerca di ciò che la vita gli ha lasciato intuire fin dai primissimi anni e ancora non gli ha dato? Tanti, certo! Ma è un fatto che solo a Maria Calzavara, nella vita di Arturo Martini, spetta il nome di amore nell’immensa accezione che egli immagina e desidera realizzata in un amore vero. Poiché è il solo amore, fra tutti, della cui perdita non potrà mai consolarsi; il solo amore, fra tutti, che egli continuerà a ripensare e a rimpiangere finché vivrà.
La crisi è immediata, dolorosissima, devastante. In quello stesso 1916, nel gennaio, Martini scrive a Giovanni Comisso: Non ho consolazioni di sorta ― Mazzolà anche questo amico senza volerlo mi ha portato via l’amore. La fatalità ha voluto intrigare due amici81. Il 26 aprile, benché riformato alla visita di leva nel 1909, è richiamato alle armi. Su sua richiesta? È ciò che fanno pensare le parole con cui ne dà notizia a Comisso, che è già in zona di guerra, il giorno stesso della partenza: Mio Giovanni, parto oggi 6 per il mio reggimento... Voglio anch’io soffrire come gli altri82. All’inizio dell’estate è trasferito a Genova, dove ha chiesto di essere provato come fonditore, e ai primi di luglio, superata la prova, lo assegnano a una fabbrica di proiettili di Vado Ligure. Lì conosce la figlia di un fornaio benestante, Brigida Pessano. E sarà lei, d’ora in poi ― una ragazza della sua stessa estrazione sociale, che tra non molto descriverà come buona, semplice, preparata a tutto come la moglie d’un pescatore disgraziato,... sebbene questa dolcezza mi irriti, in mancanza di meglio, contentiamoci83 ― a impersonare nell’esistenza di Arturo Martini quella vita che togliendogli Maria si è divisa dall’arte e le si contrappone. Tanto che fra quattro anni, quando la sposerà, subito comincerà a sfuggirle, e fin quasi alla morte la terrà a distanza in nome della tranquillità che all’arte è dovuta e a cui la vita attenta.
Già ora, del resto, nel ’16, questo innamoramento, che potrebbe apparire come l’inizio di una rapida fuoruscita dalla crisi, è subito aggredito dalla decisione di farsi rimandare in prima linea: Ho fatto domanda di partire per il fronte, scrive a Comisso, e anche questo fu deciso da me in piena ragione. Partirò fra una settimana... A me non manca che di essere provato nel dare la vita alla prova d’una morte a caso84. Ma dopo meno di due mesi, in una lettera del 9 febbraio 191785, annuncia all’amico di essere stato ricoverato in un ospedale militare per nevrastenia. È la vita, quella stessa vita che era pronto a dar via, che reclamandolo gli si ammala nella mente per non morire del tutto? Nell’aprile, dimesso dall’ospedale, Arturo torna a lavorare come fonditore a Bologna; e da Treviso, durante una licenza, scrive a Brigida insieme alla madre: Sarò felice di morire quando la saprò unita a mio figlio, dice la signora; e il figlio: Sarò fedele al desiderio di mia madre86. Eppure, quasi negli stessi giorni, non riesce a evitare un grave infortunio: Carissimo Giovanni... sono a letto... col piede destro quasi schiacciato da un proiettile, ho tanta paura per qualche conseguenza o imperfezione87. E subito dopo decide di trascorrere la lunga convalescenza (da giugno a novembre) proprio a Treviso, con Lino e Maria, e per loro incide le tavole dell’Istoria d’amore a Nippo: un Idillio tra due amanti, un Amplesso, un Duello tra due uomini e poi il Commiato, la Solitudine, l’Addio dello sconfitto.
Lino, il vincitore, sarà un affermato professionista e amerà la moglie e l’amico per tutta la vita: a lei non farà mancare mai nulla, a lui sarà sempre vicino moralmente e materialmente. Ma il mondo meraviglioso dei pensieri ideali e dell’arte resterà un dolce ricordo un po’ triste, una ricchezza interiore che ormai non è più possibile accrescere, solo conservare, un’ancora di salvezza ― ma così pesante da esser quasi insopportabile ― dalla mediocrità a cui la vita si danna da sé, quando dal mondo meraviglioso dei pensieri ideali e dell’arte si divide per sempre per paura di soccombergli... E Maria? La giovane fuori dall’ordinario, d’intelletto superiore e di alto sentire, sarà qualche volta visitata dal rimpianto, la sposa felice dell’avvocato di successo, per il genio per il quale sarà fino all’ultimo giorno della vita il grande sogno88 che per non essersi avverato lo portò fuori rotta sull’ampio dorso del mare?
All’inizio del 1918, terminata la convalescenza, Martini rientra a Bologna, ma sbaglia reparto e viene condannato per diserzione89. Contagiato dalla Spagnola, in fin di vita, ha una crisi mistica90. Di nuovo convalescente, e ancora duramente provato (Ho passato in questi ultimi tempi tante peripezie, tristissime, sopra tutto per l’anima91) trascorre il resto del ’18 e quasi tutto il ’19 prima a Faenza, poi a Treviso e sempre in contatto con Lino e Maria, che nel dicembre del ’18 si sposano. Solo di passaggio92, ai primi di dicembre del ’18, è per qualche giorno a Vado Ligure con la donna che da un anno e mezzo è la sua “fidanzata”. Poi, alla fine del ’19, sovvenzionato dall’industriale Piero Preda, con l’amico Achille Funi va a vivere a Rovenna, sul lago di Como, nei boschi sulle prime falde del monte Bisbino. Lino e Maria sono loro ospiti la notte di capodanno. Arturo, però, è pieno di complessi e di stranezze ― racconta Amedeo Sarfatti. ― Si è trovato un’amante a Cernobbio, ma non ha il coraggio di scender da solo, nelle tenebre notturne, rotte solo dalle ombre più fitte degli alberi, e tra lo stormir delle fronde, da Rovenna a Cernobbio. Funi deve accompagnarlo e incoraggiarlo fino alle prime case. Poi lui ritorna sù a Rovenna, e Martini lo raggiunge solamente quando le luci dell’alba hanno dissipato i suoi terrori notturni93. Ma nel febbraio del ’20 gli muore la madre94, e tutto cambia: il 18 aprile ― di nuovo, come nel ’16, per darla vinta alla vita che da quattro anni così duramente lo colpisce ― Martini torna da Brigida, la sposa e la porta con sé in quella stessa villetta di Rovenna: come se la moglie potesse adattarsi alla sua vita da artista e la vita far di nuovo tutt’uno con l’arte! Ma non è così, Brigida non riuscirà né ora né mai a condividere l’esistenza del marito, saprà solo chiedergli sommessamente di rinunciarvi per condividere la sua.
Di questi anni, Arturo Martini dirà: Non ero capace di mettere questa mia vita (dai vent’anni, che dura sino ai trentacinque) in una... Non ero nemmeno per terra. Sono passato per i bordelli, i ladri, la pederastia, come un angelo. E tutti mi hanno lasciato stare in pace; i pederasti capivano che non ero dei loro... Ho provato la cocaina sino alla pazzia (1919)... Divento sposo senza accorgermene. Credo di non essere andato sotto un tram per miracolo95.
È nel ’20 che si avvicina ai fascisti? Da Milano, nell’ottobre (dopo la vittoria dei socialisti nelle elezioni comunali) scrive alla moglie che le giornate sono tumultuose e tutto è fermo causa scioperi di protesta e vittoria politica, e che lui ha la febbre del lavoro e lo schifo della città troppo rumorosa e piena di miserie e di gente odiosa96...
A gennaio del ’21 si trasferiscono a Vado Ligure, in casa dei genitori di Brigida, e per Arturo, che fra tre mesi sarà padre, ha inizio la portentosa e tremenda burrasca che fra tre anni lo deporrà in piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, schiavo di Sterne. Burrasca spaventosa, sì, poiché Vado fin dal primo momento è la galera da cui bisogna fuggire a tutti i costi: Veramente questa mia solitudine è poco allegra ― scrive a Piero Preda a marzo ― perché... ho dovuto cambiar metodo alla mia vita per tener buoni i suoceri colla più esemplare delle astinenze al fumo, al vino e al sorriso, anche questo pericoloso quando l’ambiente è severo come questo, roba da galera97. Qualche giorno prima, del resto, ha chiesto un prestito a Mario Broglio per pagarsi una piccola evasione a Milano: Dunque se credete di inviarmi quanto vi sembra strettamente necessario, allora tutto va bene altrimenti dovrò rimanere in prigione qui98. Ma già all’inizio di gennaio, a Vado da pochi giorni, aveva scritto al medico e amico Francesco Mattana: Qui non ho nemici d’arte da abbattere né follie giovanili da raddrizzare, ma qualche cosa di peggio... il pericolo... causato da un’indifferenza cerebrale e fisica che è arrivata a far senza, e senza pentimento, di qualunque bisogno di conoscenza superiore, e non arrivo alle essenze ma a pena a pena alle prefazioni99. E pochi mesi dopo, padre da due mesi, in una lettera a Lino: Qui io muoio sotto la cenere del mio fuoco... Qui mi manca la gioia e quel mio sorriso costante che mi permetteva di camminare sulle onde, tutto è sparito e sono triste e spaventato100. E ai primi di luglio, ancora a Lino: Io piango io piango e non ne posso più, ho tanto bisogno di bontà e di lotta. Per fortuna potrò essere ancora solo, mia moglie resterà ancora per molto tempo qui per allevare il bambino (sic, ma sta parlando di Maria Antonietta, che ha tre mesi) e così sia grazie a Dio101. E pochi giorni dopo, ancora al carissimo Lino: Sono diventato con questa gente sordo muto e cieco altrimenti guai, pensa che cominciano a rinfacciarmi tutto e meno male per me, ma anche quel poco che fanno per la mia bambina102.
Finché la crisi non culmina, nell’autunno del ’21, in un inconscio tentativo (o fantasticheria) di suicidio: Amico carissimo ― scrive a Mario Girardon ― m’è successa una disgrazia: ho voluto uscire imprudentemente con una barca col mare grosso e preso dalla tempesta al largo, le onde portandomi via un remo e vedendo che la barca si riempiva sempre più di pioggia, mi sono buttato in mare e fu un miracolo il mio salvamento. Fin qui non sarebbe niente, sebbene sia svenuto appena toccato terra, la mia vera disgrazia è stata la barca, che lasciata così in balia delle onde battendo contro gli scogli si è fracassata... È l’unico patrimonio di questi poveri pescatori e io non posso lavarmene le mani... Caro Girardon, mi occorrono 400 lire103...
È accaduto davvero? È una bugia? Martini non riparlerà mai più di questo episodio. Ma la storia del naufragio, anche se inventata per ottenere un prestito che permetta di fuggire, ci dice che nell’immaginazione dell’artista, marito da diciotto mesi e padre da sei, a 32 anni c’è già Palinuro che perdendo di vista le stelle sta per cedere al sonno, per finire in mare, per morire in vista della meta. Palinuro che non può tornare, come un figliol prodigo, alla vita di tutti ― alla moglie, ai bambini, alla casa ― poiché la vita di tutti, nemica dell’arte, è il Sonno che prende le sembianze di Forbante e si finge umano; che per chiudere gli occhi di Palinuro prende l’aspetto non tanto dei suoceri, indifferenti e moralisti, quanto soprattutto di una moglie che lo ama, sì, ma che non è d’intelletto superiore né di alto sentire: di una donna con la quale d’ora in poi gli sarà impossibile vivere (anche se a lei e ai figli continuerà a provvedere economicamente e di quando in quando a dispensare o chiedere consigli) e verso la quale, per questa insofferenza, per tutta la vita si sentirà in colpa e proverà il bisogno di giustificarsi.
Al pilota di Enea e al suo triste destino, Arturo Martini continua a pensare per tutta la vita. Verso la fine degli anni di Anticoli, nell’agosto del ’27, si reca a Capo Palinuro e di nuovo ha paura di naufragare, come se la morte in mare fosse il destino a lui assegnato: Come mi ricordo quando imbarcatomi in un piccolo veliero da pesca a Salerno io partii di sera per Palinuro, subito capii come fosse difficile il viaggio, anche la cena fu interrotta perché ognuno doveva guardare avanti tanto era difficile passar in mezzo agli scogli, mi sembrò... un viaggio interminabile, invece durò ben poco, ma verso mezzanotte all’arrivo, che spettacolo! nell’oscurità fatta ancor più nera dai monti circostanti il porto, sembrava di entrare in un posto maledetto, allora io non sapevo niente, solo dopo qualche giorno uno mi disse che quella insenatura era stata la tomba di eroi greci, anzi mi disse qualche cosa d’altro ma non ricordo, ora capisco come alla sera io avessi tanta paura tanto è vero che la mia più di una partenza fu una fuga. La maledizione ancora dura104.
Quel giorno la tragica fine di Palinuro, di cui per la prima volta apprende la storia nel luogo stesso in cui avvenne, si lega nella sua mente a quella altrettanto terribile dello scrittore Ippolito Nievo, che nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1861, a trent’anni non ancora compiuti, mentre da Napoli si recava a Palermo dopo aver preso parte all’impresa dei Mille, fece naufragio e morì in quello stesso mare: Nievo che a sua volta, nell’immaginazione di Arturo Martini, è per sempre legato all’amore per Maria Calzavara perché è stato il suo più fortunato rivale, Lino Mazzolà, che nel ’14 glielo ha fatto conoscere: Nell’estate del ’14 ci ritroviamo a Treviso e riprendiamo i nostri conversari notturni, egli sempre ricordando quella giovinetta. Io gli do da leggere le Memorie di un ottuagenario, del Nievo, e da allora la Pisana è parte delle sue fantasie e dopo 15 anni ne modella la statua105... Come per preparargli un risarcimento e una consolazione, donandogli l’immagine della Pisana, per la perdita che sta per infliggergli portandogli via la ragazza che ad Arturo è parsa realizzare la sua immagine femminile!
Così la Pisana creata da Nievo diventa anche sua, di Arturo Martini, che come Nievo e come Palinuro morirà o forse è già morto in mare guardando le stelle: Siccome l’adoro e forse non ho amato che questa donna nella mia vita (di chi sta parlando, della Pisana o di Maria?) se lo senti scrivi un tuo fioretto sulla Pisana di Nievo, io te lo chiedo per favore a me pare la donna più interessante di tutti i tempi e se lo senti farai un capolavoro, ti abbraccio, Arturo Martini. Intendo della donna del romanzo e non della mia scolpita, povera Pisana106.
Per quindici anni Nievo e la Pisana, dal ’14 al ’29. Nel ’21 il naufragio, realmente accaduto o solo fantasticato, nelle acque di Vado Ligure. Nel ’27 la scoperta di Palinuro nelle acque del capo che porta il suo nome. E dal ’27, per altri quindici anni, il fantasma di Palinuro che insieme a Nievo continua di tanto in tanto a fargli visita come se entrambi volessero chiedergli conto del suo naufragio non ancora o non del tutto avvenuto. Fino a quando, nel ’43, lo scultore non si decide a dargli forma, con la piena consapevolezza che in essa rivedrà sé stesso da giovane, in un’opera che ancora una volta è proprio Lino a commissionargli per primo, anche se poi, dopo alterne vicende, diventerà per l’università di Padova il monumento al partigiano Masaccio: Carissimo Lino... la tua lettera mi è stata cara, ma è stata troppo umana per un uomo che ha vissuto nel vento di Palinuro e ha visto nelle notti più nere della sua vita tanti eroi vagare uguali alla sua inquietudine. Farò il giovinetto, sarà un ritorno breve all’altra sponda come visitassi un vulcano107... E ancora: Tante volte ho pensato che se avessi vissuto un giorno in tutti i secoli io senza eccezione avrei rappresentato l’uomo dell’errore di quel secolo, non so ai tempi dei dogi sarei stato il povero fornaretto, e ai tempi dei greci forse Palinuro e così via in tutti i tempi sarei stato quella figura triste e innocente che ha in sé dalla nascita il suo destino108. E alla fine del ’44: Viaggio ora ai confini della scultura, sperduto come un navigante, quando perde la visione della terra109. Fino alla primavera del 1947, quando la sorte del pilota di Enea torna per un’ultima volta a minacciarlo nelle sue spoglie mortali sullo stesso mare che nel ’21 è stato lì lì per inghiottirlo a trent’anni: Durante il trasporto funebre a Vado Ligure, il furgone ha mancato pochi centimetri di precipitare, ad una curva dopo Savona, in mare110.
Eppure questo tempo di spaventosa burrasca, che tra il ’16 e il ’21 quasi lo conduce al suicidio, è per l’artista anche un tempo di straordinaria creatività. Forse perché il tentativo dei tre anni che precedono la cattività di Anticoli ― stare con la moglie e la figlia e intanto dedicarsi alla scultura, essere nella vita e insieme nell’arte, il figliol prodigo che torna alla casa del padre e insieme l’esploratore alla ricerca di nuove strade ― è l’ultimo tentativo di Arturo Martini di ricostruire e riaffermare l’unità perduta: Ora sono nella nuova stagione e mi abbandono... canto e lavoro ― scrive a Lino da Vado Ligure nel luglio del ’22 ― e non so cosa pensare di tanta facilità nel produrre... sbaglio o rifaccio rarissimo... suono la corda mia più delicata e sottile... vedo chiaro e la mano risponde nel tono giusto. I giganti non sono ancora morti e se la vita m’assiste sarò uno dei più tremendi, opere su opere. La chiarezza, la bellezza... non comprendendo che una bellezza fatta di ricordi di tutti i tempi, come dev’essere la bellezza dell’argonauta che immagina sempre, e al di là d’una siepe o d’un muro, la distesa del mare sempre pronto a riceverlo; ecco la bellezza: l’idea di un aldilà proprio, e nella carne e nello spirito111... È ancora Palinuro, certo!, ma la meta che ha in vista, che pochi mesi fa era il porto che Palinuro non avrebbe mai raggiunto, qui è invece quella dell’argonauta che sente che ce la farà, che realizzerà la bellezza che da sempre ha in mente e che il mondo si attende da lui! E che cos’è mai, la bellezza, se non l’unità della carne e dello spirito e della vita e dell’arte che si esprime come forma in tutto ciò che è umano? Quell’unità, forse perduta, forse non è ancora davvero perduta. Forse la donna ― la donna che ha accanto, questa Brigida non certo fuori dall’ordinario, non certo d’intelletto superiore né d’alto sentire ― forse dopo tutto anche questa è una donna vera, se accanto a lei è pur possibile creare e lavorare così!
E invece no, poiché nell’aldilà che è suo (cioè nella realtà psichica che è umana è fisica, non divina) l’unità interiore gli si sta spezzando per la disperazione di non poter più crederla possibile proprio con una donna, per l’angoscia di sentirsi rassegnare a relazioni in cui e la carne e lo spirito delirano di poter annullarsi a vicenda facendo a meno o dell’uno o dell’altra, per il matrimonio con Brigida concepito come rinuncia a sé stesso, come accettazione di una ben più mediocre unità dello “spirito” come conformismo mentale e della “carne” come procreazione fisica e cura dei materiali problemi famigliari e domestici... Come rapporto incurabile a priori, insomma, per la “genetica” sua natura di realizzazione autodistruttiva. E allora, mentre si domanda se il cielo non l’abbia in qualche modo benedetto, dandogli una donna che è una vera benedizione112, al tempo stesso Martini pensa invece ancora a Maria come a colei che una volta perduta si è perduto tutto: Ricordami ti prego a Maria che non so togliermi dalla mente ― ha scritto a Lino, appena due mesi prima, cercando al tempo stesso di dire e disdire ― e che benedico d’avermi un giorno incoraggiato anche senza credermi, per generosità a lavorare. Dille che parte della mia opera e cioè la migliore sarà sempre dedicata a lei, all’amore perfetto immacolato e senza rimpianti per il mio dolore e la mia solitudine, essendo certo che con me sarebbe stata infelice. Perdonami caro Lino queste mie confidenze, ma in queste c’è gran parte di quello che mi sostiene nella vita e nell’opera. E se mi tengo lontano è per illudermi di qualche cosa che so impossibile e ormai indegna113.
Come se l’Arturo Martini per il quale la vita e l’arte fino ai 27 anni sono una cosa sola, una volta diviso in sé stesso, diviso debba rimanere per sempre tra il figliol prodigo che vuol darla vinta alla vita, tornando a casa e riconoscendo nella moglie e nella figlia l’amore che prova per loro, e l’argonauta che vuol rimanere in mare, guardando le stelle, alla ricerca della perfezione artistica di cui non può dimenticare di essersi sentito capace. Mentre in entrambi, forse, l’artista e l’uomo potrebbero tornare a essere uno e così salvarsi, se Arturo Martini riuscisse a essere o l’uno o l’altro senza riserve...
La separazione degli anni di Anticoli sarà definitiva: Arturo e Brigida avranno un altro figlio, ma insieme non torneranno mai più. Nel ’29, a Monza, lo scultore conoscerà la giovane Egle Rosmini, e da quel momento, pur senza interrompere i rapporti con la famiglia, fino alla morte vivrà con lei. Della quale nulla sappiamo, se non quel che ci lasciano intuire le poche parole che Martini detta su di lei a Gino Scarpa: In gioventù, una favola mi dava un incanto, che poteva durare secoli. L’incanto mi faceva andare per tutte le strade che non volevo. Quando è venuta Egle, che mi portava al centro, il cuore mi si fermava114. Un’immagine in qualche modo “controllante” e astratta, razionale ― “nemica” dell’incanto, delle favole, del cuore ― che ci sembra perfino meno attraente dell’idea che ci siamo fatti di Brigida dal sentimento che l’artista prova e proverà per lei, che mai perderà il potere di angustiarlo per l’incanto della vita che insieme avrebbero potuto vivere se egli alla vita avesse ceduto. E certo molto meno seducente dell’immagine di donna che traspare dal rimpianto che Arturo Martini, per gli anni che gli restano, continuerà a provare per colei che ha irrimediabilmente perduto nel ’16. Ad Anticoli, nel ’25: Salutami tanto Maria che ho sempre altissima nella mia mente e nel mio cuore115. Ancora nel ’25: Maria anima bella sebbene malfidente nella mia amicizia che ora è perfetta almeno da parte mia116. Nel ’29: Salutami Maria grande sogno di me uomo volgarissimo e indegno ma perdonabile, l’amo sempre forse in altro modo, ma tutto il mio grande amore è qui in testa e poi non saprei esserne l’attore117. Nel ’32: Scrivimi ti prego e anche Maria fa che aggiunga una riga perché mi faccia ricordare che io devo morire come sono sempre vissuto nella mischia e gloriosamente118. Nel ’41: Che Maria si ritrovi a suo agio e trovi riposo e forza perché abbiamo tanto bisogno che viva per funzionare da stella a noi naviganti sbandati119. Nel ’43: L’altra notte vi ho sognato nei tempi lontani e felici di Istrana, periodo che forse ha fatto di noi dei poeti120... Maria una sera ha detto che l’arte è più pura della religione, e come è vero anche guardando i due compensi: in questa si domanda come niente il paradiso, mentre nell’altra solo la sofferenza, la fatica e l’oblio del tempo ― nella religione la fosca e tenebrosa costrizione dei sensi ― nell’altra lo spirito, che come tutte le cose perfette e umane ha anche il suo rovescio, che è poi la nostra stessa terra per risalire verso il sole121. Passano ventisette anni dal giorno in cui a ventisette l’ha perduta, ma la stella, per l’argonauta, è ancora e sempre lei.
Non sappiamo, naturalmente, se proprio il rifiuto di Maria Calzavara determini in Arturo Martini la crisi che separa la vita dall’arte, le rende incompatibili, nemiche, e conduce infine alla crisi e forse alla morte della scultura e dello scultore stesso. Ma siamo certi che il male che colpisce l’artista e l’uomo, dividendoli e perciò dimidiandoli, è la crisi dell’immagine femminile che dalla primissima infanzia è per lui umanità e forma, vita e arte. La perfetta unità interiore realizzata nella fantasia-ricordo della prostituta che si accuccia sull’acqua e si lava la coca122 ― immagine che è forma, nudo corpo di donna che svela ed afferma l’umano ― negli anni tra il ’16 e il ’24 si spezza, si scinde: la donna in fondo è solo una donna, la forma che la sua nudità sembra esibire ― e che la scultura è così fiera di saper comunicare alla materia inanimata ― in fondo è solo figura, e trasposta nell’opera d’arte è mera imitazione ed esaltazione del reale, che dell’artista attrae ed esprime solo la sensibilità e il romanticismo; e in luogo della forma perduta, che era concreta e materiale umanità, pretende ora di materializzarsi nell’opera uno spirito che invece è solo astrazione, fantomatica “quarta dimensione” che Arturo Martini cercherà invano di cogliere e definire per il resto della vita: Dai geometri antichi, Pitagora, ho dedotto: siccome ogni oggetto è un mondo, la quarta dimensione dovrebbe essere quel quid che sprigiona un’opera d’arte123... Io vado in cerca di rendere la malinconia, cioè il sentimento della scultura, non con la raffigurazione melanconica di un’immagine, ma con la costruzione124.
Allora, il quid intravisto a due anni con estasi, il tempio della forma, benché ricordato e amato, al contempo comincia a perdersi nei meandri del pensiero, in una crisi della scultura che l’angoscia con cui l’artista la vive non rende però meno astratta: Penso che ci siano due persone in me. L’una ha avuto veramente delle rivelazioni plastiche, come la visione di quella prostituta, da bambino; l’altra tende a delle contemplazioni mistiche125. Allora l’immagine dell’essere umano, la figura umana che al tempo stesso è forma, la scultura che dà forma umana alla materia inanimata, tutto entra in crisi, tutto a poco a poco diventa insoddisfacente e incomprensibile per il pensiero che vuol scindersi dal corpo, per lo scultore che non vuol più dipendere dall’immagine di donna: Quest’arte appartiene soltanto alle immagini; e ogni sforzo per arrivare alla purezza della scultura è negato, dato che la scultura deve dipendere sempre da ritmi imposti dall’immagine126... I concetti di estetica sono stati rovinati, per non aver deciso di eliminare l’uomo. Per quanto mi riguarda escluderei l’uomo per sempre. Credo che si troverebbe il principio della più pura estetica, senza questa figura passionale127. Se un nudo obbliga la forma a uniformarsi alle sue esigenze, come si può parlare di forme per la scultura quando questa deve sottostare rispettosamente alle volontà del corpo umano?128
La vita si fa nemica dell’arte, il pensiero dell’uomo si contrappone all’opera dell’artista, la forma si separa dalla materia: lo scultore inizia a morire, in Arturo Martini, perché il corpo nudo della donna inizia a perdere non la capacità di attrarlo con la sua bellezza o di commuoverlo con le vicissitudini che narra, ma quella di sconvolgerlo ― come a due anni ― per la forza con la quale manifesta fisicamente la realtà psichica che è solo umana: Anche il morto emana una zona di rispetto129... Nascerà un ragionamento,... e non avremo più bisogno della donna130... Eppure, come si vede, ancora nel ’44 Arturo Martini dice nascerà e avremo ― al futuro: segno che la distruzione della fantasia-ricordo creata a due anni non si è mai del tutto compiuta, che l’argonauta, anche se non è mai giunto alla meta, tuttavia neanche è mai morto in mare, come Palinuro, colto dal sonno mentre guardava le stelle, e neppure è mai del tutto tornato ― pentito e supplice ― alla casa del padre come il figliol prodigo: Viaggio ora ai confini della scultura ― continua infatti a pensare l’artista fino agli ultimi giorni ― sperduto come un navigante quando perde la visione della terra131.
Poiché ad Anticoli ― nonostante l’americano e l’autodistruttiva complicità dello scultore con l’odio, l’invidia e l’oppressione di cui è oggetto ― la crisi di Arturo Martini si risolve in una sorta di compromesso che la cronicizza e non la cura; che, proprio per questo, non le permette la (pur ricercata) evoluzione compiutamente negativa che condurrebbe al suicidio l’artista e forse anche l’uomo132; e che “salva” dunque, pur senza ricomporli, e la carne e lo spirito: in modo che al plastico sia concesso in qualche modo di sopravvivere e di serbare quasi intatto in cuor suo il tempio della forma, anche se il mistico per tutta la vita continuerà a compiangerlo e a maledirlo, giudicandolo ― pur fra mille proteste di indiscutibile superiorità su tutti gli antichi, i moderni e i contemporanei ― una sorta di genialissimo “fallito” cui non è riuscita la grande impresa di traghettare l’arte della scultura nella “quarta dimensione”.
Anticoli
Corrado ―
leggiamo
sul Roma della domenica del 28
agosto 1932 ―
non
ha strade, ma sentieri pietrosi ed è fatto133 interamente a scale. Esso è,
quindi, chiuso al transito dei veicoli e perfino delle biciclette. Tutti
i mezzi rotabili si arrestano sulla Piazza che n’è come la porta di
ingresso. E nei vicoli, tenebrosi e stretti, c’è ad ogni ora un senso
grande di pace, appena interrotta dal chiacchierio delle donne che
filano sulle porte delle case, e dal pigolio dei polli. Questi ultimi
sono i padroni delle strade. Vi corrono tra i piedi dappertutto,
razzolando da mattina a sera sotto i teneri sguardi delle proprietarie.
Ma nel tardo pomeriggio, quando il sole ha ceduto all’ombra
refrigerante, eccoli passare in seconda linea, sopraffatti dai maiali
che imprendono la loro passeggiata, senza curarsi di nessuno. Ogni
porta, in basso, ha un buco per far entrare e uscire le galline, che
ogni proprietaria distingue da quelle delle altre per mezzo di nastrini
legati alle zampette. Gli esseri umani dividono le case con i non umani, e per le vie principali e in piazza
delle Ville i bambini stampano nella terra le impronte dei piedi
nudi fra quelle dei cani e dei gatti, dei maiali e dei polli. Le ricopre
e le conserva intatte la neve
finché non si scioglie, le cancella e le tramuta in fango la pioggia a primavera e in autunno,
le riduce in polvere la calura estiva, le porta per l’aria
il vento quando si leva. Pensa che non puoi camminare per la strada
senza incontrarti con maiali di ogni misura e d’
Ma all’inizio dell’autunno di quello stesso 1924 Anticoli è già insopportabile e melanconica136, piove sempre e c’è una umidità da far paura137, una vita da pastori e da cani, la stufa sempre accesa e fuori piove e le giornate sono cortissime... fa spavento la tristezza che invade ogni cosa verso sera138. L’anno non è ancora finito e già è caduta la neve e fa un freddo cane139, e poi di nuovo piove a rotta di collo, si sta male140, e come al solito nei paesi sembra tutto più triste anche per il fango che cresce ogni giorno da trovar difficile staccare il piede141. Finché, dopo l’estate del 1925 trascorsa a Vado Ligure, le lettere a Brigida cessano del tutto, le altre si diradano, ha inizio e continua per più di un anno quasi solo la corrispondenza con Francesco Messina... Anticoli, sempre sullo sfondo, sembra ormai diventata, una volta per sempre, il luogo dove si vive senza spirito e senza cuore142. Da cui fuggire a tutti i costi, al più presto, magari per Parigi: per salvarsi, se ancora è possibile, tutto: la vita, il genio, l’amore. Lo spirito e il cuore.
Eppure non è vero che ad Arturo Martini Anticoli dia solo l’odio e l’invidia di Sterne e il lavoro da schiavo, la pioggia e la neve, il freddo, il fango, la miseria, l’avvilimento. Le misteriose meraviglie143 a cui accenna, senza descriverle, nelle prime lettere alla moglie, ci lasciano intuire che ad Anticoli e nei paesi circonvicini c’è anche dell’altro, e che dell’altro l’artista è venuto a cercarvi. Che egli è qui non solo per evadere dalla galera di Vado e da una vita matrimoniale e famigliare che non sopporta; non solo per costringersi a lavorare giorno e notte come in un eremo finché non avrà realizzato le opere perfette che lo renderanno immortale; non solo per vendersi a Sterne, più che per denaro, soprattutto per aggredire e violentare con lui, in una trista parodia di rapporto sessuale, l’immagine di donna che non riesce più a tenere, che non vuol più scorgere dentro di sé... No, Arturo Martini è qui ― anche se forse non lo sa ― contraddittoriamente anche per tentare di salvarla, quell’immagine che ora odia, per il male a cui gli ha esposto la vita da cui ha preteso invano che gliela realizzasse, ma dalla quale al tempo stesso in qualche luogo della mente e del cuore sente ancora scaturire, insieme alla sofferenza, tutta la bellezza, l’arte, la forma che egli vuol continuare a poter trasfondere nella materia inanimata per rimanere sé stesso: poiché in essa c’è la sua identità, il suo essere colui che avendo in sé il segreto della forma, può donarlo, può insegnare a intuirlo.
Qualcuno, un giorno, non sappiamo chi ― ci ripugna pensare che sia Sterne a parlargliene, ma in fondo potrebbe essere, poiché Martini nel ’24 è ancora in grado di estrarre oro perfino da sostanze anche più vili del piombo ― gli dice o gli lascia intuire che Anticoli è donna: che non è il paese degli artisti (né l’omoerotica caserma di artisti che la violenza di Sterne lo induce talvolta a fantasticare144) ma il paese delle modelle. E allora lo scultore contraddittoriamente viene ad Anticoli anche per recuperarla, l’immagine di donna che ad Anticoli sta pur cercando di guastare e di perdere; e ogni giorno ― mentre si abbrutisce di lavoro fino a notte, quando va a letto vestito perché non ha la forza neanche di cavarsi i pantaloni ― al tempo stesso non può non guardare con desiderio le donne e le ragazze che incontra nei vicoli e che dalle finestre e dai balconcini lo guardano attraversare la piazza andando e tornando da San Pietro. Che gli paiono in attesa di ciò che solo lui comprende, dell’uomo che le porterà con sé nel viaggio che finora nessuno è stato capace di fargli fare per dar loro la sensazione della fuga e della completa dedizione e dell’amore senza perché145: il viaggio in cui gli uomini e le donne si realizzano rendendo vere senza nemmeno accorgersene, solo per il desiderio che senza accorgersene rende desiderabili, le immagini che entrambi crearono a due anni vedendo per la prima volta le donne e gli uomini.
Donne e ragazze del paese immaginario, in perenne attesa ma stanche di aspettare, deluse, tormentate, talora invelenite dal tempo che passa senza mai rivelare loro, in fortuna e felicità, le immagini che non sanno di avere nella mente e nel cuore! Come non ricambiare, guardandole con desiderio, la finta indifferenza che nei loro sguardi tenta di occultare il desiderio? Come non fingere, a propria volta e contraddittoriamente, di non averle viste? Come non distogliere gli occhi? Come non tirare dritto? Poiché Arturo Martini è qui per distruggersi, non per curarsi, e da loro vuol tenersi lontano, non vuol saperne neanche come modelle147, neanche come servette148, vuol vivere solo per l’arte, senza più la vita a intralciarlo, guardando solo le stelle, come Palinuro, per non perdere la rotta. E così, per sfuggire al canto di sirena di una vita che gli par misera e torva, miseramente e torvamente torna a rinchiudersi nell’orribile vita che Sterne gli fa intorno dalla mattina alla sera. Per questo le donne e le ragazze in attesa lo chiamano il cattivo, dalle finestre e dai balconcini guardandolo passare per piazza delle Ville: poiché egli si ribella al desiderio che nei suoi sguardi risponde alla finta indifferenza che nei loro tradisce il desiderio, si ribella e abbassa gli occhi, attraversa la piazza scuro in volto come un cattivo, torvo e misero come un prigioniero trascinato in catene, senza guardare le stelle che nei loro occhi gli indicherebbero la rotta che contraddittoriamente vuol perdere poiché non vuol essere come Palinuro, vuol far morire il giovane argonauta che immagina sempre, e al di là d’una siepe o d’un muro, la distesa del mare sempre pronto a riceverlo. Poiché vuol tramutarsi, e mai gli riesce del tutto, in un demonio che passeggia sulle rovine.
E invece non riesce a farsi puro spirito; o quanto meno non del tutto ― neanche dormendo con Sterne, ché lo opprima perfino nei sogni ― poiché Arturo Martini è qui per curarsi, non per distruggersi, e perciò contraddittoriamente non sempre resiste al silenzioso canto di sirene delle donne e delle ragazze in attesa, che dalle finestre e dai balconcini lo guardano passare chiamandolo il cattivo: ricambia i loro sguardi, le attrae fin sulla soglia di San Pietro diroccata e sconsacrata, va a trovarle di notte o dà loro segreti appuntamenti, nella sua stanzetta, le notti che è solo perché Sterne, ripreso dalle furie del disperato, si è rimesso in viaggio per chissà dove. E allora le ama come il ragazzo che suo malgrado ancora è149, toccandole come le mani desiderano e sanno fare150 da quando a due anni gli occhi videro nel corpo nudo di una donna la forma che invece nel bronzo o nel marmo può solo esser creata dall’arte di chi una volta la vide nel corpo nudo di una donna e mai più la dimenticò: Donna di carne, come la Pisana; ti senti nell’infinito, in certi sogni151... Le ama per il buon odore dei loro corpi di contadine pulite di fuori e di dentro, sane di mente e di corpo per tutto il tempo che dura l’attesa, finché non si chiudono le finestre, finché non si fanno deserti i balconi che si affacciano su piazza delle Ville: il buon odore che in ognuna è diverso, e in tutte è l’odore che è solo umano e che solo cancella la morte. Le ama anche se non vorrebbe, anche se il mattino dopo, svanite le stelle nei loro occhi e nel cielo sopra Anticoli, contraddittoriamente le rinnegherà per essere di nuovo il demonio che è qui per farsi puro spirito, per passeggiare sulle proprie rovine; e ne parlerà e scriverà con disprezzo152 per aggredire e violentare, con Sterne e con altri, l’immagine di donna che non riesce più a tenere, che non vuol più scorgere dentro di sé, ma che le donne e le ragazze di Anticoli, che a lungo hanno atteso, vengono talvolta di notte odorose di buono a restituirgli nel suo pagliericcio e al suo cuore in cambio di un breve viaggio sulla sua nave di argonauta non ancora morto, di ragazzo non ancora del tutto perduto.
E il ragazzo fa l’amore e poi non riesce a dormire, non vuole i sogni che le donne e le ragazze di Anticoli dormendo con lui potrebbero rendergli diversi e opposti a quelli di demoni e di rovine che gli fa sognare Sterne quando c’è e ronfa d’indifferenza e d’odio. È la paura che gli fa la vita a tenerlo sveglio, ma è con amore che contraddittoriamente le guarda dormire e in estate socchiude la finestrella sopra il letto perché un filo d’aria scenda sui loro corpi nudi rendendo loro più dolci i sogni che vuol proteggere mentre non vuol condividerli. E la finestrella, che non è che assicelle malamente connesse, pian pianino ― come per l’incanto che fin da piccolo fa andare Arturo Martini per tutte le strade che non vuole ― prende forma umana: diventa un’apertura in lui, e nel suo cuore e nella mente lascia di nuovo entrare l’immagine di donna che egli non vuol più tenere né scorgere dentro di sé. E con essa anche il sonno, affinché Palinuro suo malgrado si addormenti e perda, nei sogni che le donne e le ragazze gli fanno sognare, la rotta sbagliata che lo porterebbe a morire giovane per non vedersi far vecchio o a tornare a casa sconfitto per passeggiare da vecchio come un demonio sulle rovine del giovane. Affinché dormendo egli sogni ― ricostruendo di notte, accanto a loro che sognano accanto a lui, ciò che fa sparire di giorno ― l’immagine di donna che non riuscirà a far sparire del tutto, e che per il resto della vita (anche quando davvero sarà un solitario demonio arrabbiato con tutti, anche quando sarà un fascista e un celebratore del regime, anche quando religiosamente andrà cercando ovunque lo spirito, la quarta dimensione, Dio e perfino Benedetto Croce) di tanto in tanto tornerà suo malgrado a passargli attraverso le mani nella creta e nel marmo: nella Pisana, nella Madre, nella Donna al Sole, nel Sogno, nella Lupa ferita, ne L’attesa, nella Venere dei Porti, nella Sete, nella Donna che nuota sott’acqua... Perfino nella Saffo, che pare morta (e dalla morte violenta ridotta a pura materia tra la materia, a sasso tra i sassi) e invece morta non è perché la forma ch’è sua ― che non è dello spirito né della quarta dimensione né di Dio né di Croce, poiché è soltanto del suo corpo nudo ― nella scultura è, nonostante la morte.
Poi, quando fa giorno e le stelle scompaiono nel cielo sopra Anticoli, Arturo Martini torna a essere il cattivo. Poiché è qui per lavorare, per dimenticare, per distruggersi, per far di sé stesso un demonio che passeggia sulle rovine. E tuttavia, contraddittoriamente, ad Anticoli Arturo Martini non riesce a farsi puro spirito, o almeno non del tutto. La malattia della vita e dell’arte, da cui non guarirà, non lo porta alla morte: si cronicizza, diventa carattere e storia ― Sono ancora riconciliato con la scultura e capisco ora che quando mi passa la pittura per la testa non sono che momenti di debolezza e di crisi,153 momenti che dureranno tutta la vita!... ― fa di lui l’uomo e l’artista incurabilmente e fieramente diviso che per vent’anni porterà per ogni dove il suo conflitto implacabile facendo di sé, per sé e per tutti, la tempesta perenne che all’arte e alla vita non concederà che sensi di colpa: per la brutta statuaria venduta al regime, per le opere immortali amate e al contempo rifiutate, per le remote visioni di felicità personale e famigliare non più realizzabili di quanto sia possibile agli argonauti giungere in porto...
Ma ad Anticoli, in cambio dell’immagine di donna che qui non gli è stato permesso di far sparire del tutto, Arturo Martini ― allontanandosi sull’ampio dorso del mare sulla sua nave di argonauta ― lascia l’immagine di donna che è la Fontana in piazza delle Ville. Che è di donna (e non astratta) perché è l’immagine antichissima della donna che s’accuccia sull’acqua: antica per lui, poiché ― come abbiamo visto ― è stata la sua prima; e antica per l’intera specie, poiché fu la prima che ogni umano vide alla nascita per le centinaia di migliaia di anni che le donne partorirono senza aiuto, vicino alle rive, lungo i corsi d’acqua. Che è di donna perché è la Madre Primordiale, l’immensa Madre Terra assisa sulle acque che a ogni essere dà vita ma solo agli umani la capacità di riconoscerla e darle forma. Che è di donna, infine, perché ― come tutti sanno ― è l’Arca ove ogni essere agogna di rifugiarsi quando fuori imperversa la tempesta, ma nella quale non è concesso che ai non umani di cercare impunemente il buio interiore. Che non avendo più forma, di ogni espressione fa una lingua morta.
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Post scriptum. Qualche tempo dopo la pubblicazione di Arturo Martini cattivo ad Anticoli Corrado, abbiamo trovato nel saggio Martini a Milano, di Elena Pontiggia, a pagina 17 dello splendido Catalogo della Mostra di Milano e Roma, curato da Claudia Gian Ferrari, Elena Pontiggia e Livia Velani (edizioni Skira) questo soggetto cinematografico scritto da Arturo Martini e pubblicato nel 1934 dalla rivista Quadrivio:
In Romagna gli sposalizi concertati dai parenti avvenivano di solito qualche giorno dopo che i giovani e le ragazze fossero usciti di collegio. In seguito a una cerimonia di queste, due sposini vengono condotti in una villa solitaria, in campagna. Solitudine, oscurità, senso della notte. La fanciulla è molto emozionata: ancora con velo bianco e fiori d’arancio; lui è molto timido. Quando il cameriere si ritira, lei propone di fare qualche gioco per prendere familiarità col marito. Lui si nasconde. Nel rincorrersi, vanno riscaldandosi. Adesso deve nascondersi lei. Il compagno comincia a cercarla. Essa deve aver trovato un ottimo nascondiglio. Il marito gira ansiosamente per le grandi stanze; passi che accelerano; sudore freddo; silenzio. Egli la prega di rispondergli. Si rimette a girare correndo. La chiama con tutto il fiato, con tutta l’anima. Svegliato dalle strane voci, il vecchio cameriere è in ascolto. Improvvisamente il marito ha il sospetto che lei sia fuggita con qualcuno che l’aspettava. Apre le finestre; guarda nella notte: vento, buio, neve. Grida. Il vecchio scende a precipizio. Trova trasformato il giovane padrone: impazzito. Cercano dovunque, sempre chiamando. I contadini della villa si svegliano. Luci e ricerche nei dintorni. Nessuna traccia. All’alba il cameriere va a recare la triste notizia ai parenti. Questi trovano il giovanotto in delirio. Stabiliscono di tener segreta la notizia. Il cameriere rimarrà a sorvegliare il malato. La notizia della fuga non deve trapelare. Pettegolezzi della gente, etc. Comincia l’esistenza solitaria del pazzo nella villa. Sue stranezze. Rapporti coi vicini. A poco a poco egli svende la proprietà. I parenti non riescono a impedirgli di rovinarsi. La fuga della ragazza e la pazzia del giovane mettono le due famiglie sotto una luce sinistra: le due casate si dissolvono. Il pazzo è ammalato, invecchiato. Dopo vent’anni di tormentata esistenza, egli muore. Nella casa in rovina non c’è che l’ufficiale giudiziario venuto per l’inventario degli ultimi oggetti e per mettere i sigilli. Vuol constatare cosa contiene una vecchia cassapanca. Aprono a fatica. Disteso nel fondo, con ancora i veli bianchi, trovano la ragazza morta. Il suo corpo si volatilizza. Il medico, venuto per il decesso del pazzo, crede che la fanciulla dovette morire per asfissia e paura.
Il corpo che si volatilizza. La forma che sparisce. La scultura che muore.
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Anticoli Corrado e Roma, 19 dicembre 2006 - 26 febbraio 2007
(Il testo Arturo Martini cattivo ad Anticoli Corrado è protetto mediante registrazione da ogni forma di sfruttamento non autorizzato)
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Note
1. Arturo Martini, Cantata di prologo. Catalogo della Mostra d’Arte Trevigiana organizzata dall’artista a Palazzo Provera di Treviso tra la fine di ottobre e la metà di novembre del 1915. La scultura lingua morta e altri scritti di Arturo Martini, Milano, 2001, p. 81.
2. Primo Visentin, detto Masaccio. Nato a Poggiana di Riese (Treviso) nel 1913, caduto a Loria (Treviso) il 29 aprile 1945, insegnante, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria. Lasciato l’insegnamento perché richiamato alle armi nel luglio del 1943, Primo Visentin si trova, al momento dell’armistizio, con il 32° Reggimento d’artiglieria divisionale. Invece di tornarsene a casa, si rifugia sul massiccio del Grappa e qui comincia a organizzare i primi gruppi di partigiani. In breve le bande si riuniscono in quella che diventerà la Brigata Martiri del Grappa, comandata proprio da Visentin. La Martiri del Grappa, per tutto il periodo dell’occupazione nazista, conduce azioni audacissime alle quali il comandante partecipa sempre in prima fila. Anche il 29 aprile del 1945, quando ormai i nazifascisti sono sconfitti, Visentin si presenta davanti a un reparto tedesco per intimare la resa ed è colpito a morte da una raffica. (Nota tratta dal sito www.anpi.it).
4. Lettera a Raffaello Levi del 1° agosto 1945. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 264). Ove non altrimenti specificato, tutte le notizie biografiche riportate in questo saggio sono tratte dalla fervida ed esaustiva Nota biografica di Elena Pontiggia, in La scultura lingua morta e altri scritti di Arturo Martini, cit., pp. 142-148.
5. Orio Vergani, Misure del tempo: diario 1950-59, a cura di N. Naldini, Milano, 1990, in La scultura lingua morta, cit., p. 116. La simpamina è un derivato dell’anfetamina venduto in Italia fino al 1972.
6. Un solo esempio, fra i tanti che si potrebbero fare: Michelangelo non ha niente da dire, non ha che dimostrazioni di bravura... La sua l’ho chiamata una volta la scultura della chiave inglese... Ho aspettato vent’anni un concorrente, per mettermi alla ruota per qualche tratto, per misurare le tappe. Sempre solo. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, Milano, Rizzoli, 1968, colloquio del 2 agosto 1944, pp. 36-37; d’ora in poi citato come Colloqui con Arturo Martini).
7. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 20 agosto 1944, p. 90.
8. L’astrazione in arte è una bestemmia come tutte le probabilità che vivono sulla supposizione, fuori dei confronti, l’astrazione è un comodo rifugio senza senso né sesso, buona alla mistica ma non all’arte che è un fatto vivo e fisico, frutto di innesti come il figlio, e mai di un pensiero. Tutte le astrazioni sono onanismi o ibride paludi dove i miasmi sanno di peccato non consumato senza solarità di vita. Quindi l’arte è un mondo fuori di qualsiasi morale religiosa o altro, ma peccato concesso da Dio come è concesso quello per la riproduzione dell’uomo... Il mio libretto appunto avrà un seguito di altri capitoli dove spiegherò la negazione dell’arte come astrazione, essendo invece un fatto di materia o fisico. (Lettera a Giorgio Ferrari del settembre 1945. Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 270-272). Non voglio arrivare né all’astratto né alla decorazione. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 19 agosto 1944, p. 69). L’astrazione è vile, comoda, tutti i falliti sono astrattisti. (Ibid., colloquio del 20 agosto 1944, p. 84). L’opera astratta è offensiva perché va nel campo opposto: non è il creatore che la costruisce, ma l’osservatore. (Ibid., colloquio del 24 agosto 1944, p. 116). L’umanità è in noi tanto potente che qualunque gesto è sempre umano, anche se abbia apparenza arbitraria, mentre l’arte astratta, essendo arbitraria, non ha mai niente d’umano. (Ibid., colloquio del 26 agosto 1944, p. 169).
9. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 26 agosto 1944, pp 160-161. Questo fatto avvenne probabilmente ad Anticoli. Dove lo studio che ormai pareva una tomba era la chiesa di San Pietro in piazza delle Ville, allora sconsacrata e semidiroccata.
10. Lettere alla moglie del 6 gennaio e del 2 febbraio 1940. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 195 e p.197).
11. Lettera a Natale Mazzolà del 27 febbraio 1943. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 225). Notiamo, per inciso, che la miseria che vorrebbe accusare per la sua scelta di essere scultore è anche la fame a cui dà la colpa di averlo indotto a farsi fascista (cfr. nota 3.)
12. Arturo Martini, Presentazione, in forma di lettera a Roberto Nonveiller, per la mostra di disegni alla Piccola Galleria di Venezia, 8 aprile - 5 maggio 1944. In La scultura lingua morta, cit., pp 90 - 91.
13. Lettera a Giorgio Ferrari del 15 settembre 1945. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 272).
14. Lettera a Tullio Mazzotti del 21 gennaio 1946. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 276).
15. Lettera a Giovanni Fallani del 16 dicembre 1945. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 275-276).
16. Lettera a Luigi Velluti del 18 febbraio 1947. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 289).
17. Qui la gente mi chiama il cattivo, però mi ama per interesse. Lettera della prima metà di febbraio del 1925 al carissimo Lino, l’amico di sempre Natale Mazzolà. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 111). Non sarà forse inutile ricordare, qui, che l’italiano cattivo è dal latino d’epoca cristiana captivus diaboli, prigioniero del diavolo (G.Devoto, Avviamento all’etimologia italiana, Firenze, 1968, p. 71.
18. Lettera a Guido Farina del febbraio del 1942. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 214-215).
19. Il racconto è a p. 39 e sg. della biografia critica di Arturo Martini scritta da Mario De Micheli per l’edizione da lui curata de La scultura lingua morta e altri scritti, Milano, 1983. Citato da Umberto Parricchi in Mito e realtà di Anticoli Corrado, in Un paese immaginario: Anticoli Corrado, a cura di Umberto Parricchi, Roma, 1984, p. 284.
20. Al censimento del 1911, su 2.061 Anticolani, 696 sono registrati come temporaneamente assenti (cioè come lontani per lavoro). Nel ’21, gli assenti sono 474 su una popolazione che è scesa a 1.830 abitanti. Nel ’31, 91 su 1.409. Segno evidente del fatto che una parte dei temporaneamente assenti non torna più. Cfr. Tullio De Mauro e Raffaella Petrilli, Storia civile e linguistica di Anticoli Corrado, in Un paese immaginario, cit., p. 62 e sg.
21. In casa mia c’era un senso di povertà veramente grande: non osavo presentarmi per timore di avere i cimici addosso e di passarli agli altri. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 19 agosto 1944, p. 76). Ma per queste notizie e le successive, cfr. anche la nota biografica di Elena Pontiggia a La scultura lingua morta, cit., p. 143.
22. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 25 agosto 1944, p. 126.
23. Lettera a Natale Mazzolà del 17 maggio 1922. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 97).
24. Lettera alla moglie dell’inizio del 1925. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 111).
25. Lettera a Gino Scarpa del 14 ottobre 1944. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 250).
26. Lettere alla moglie dell’estate e dell’ottobre del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 104, 105 e 106).
27. Lettera alla moglie del tardo autunno del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 107). Sterne ha paura che io abbia successo! Martini, cioè, fin dagli inizi del rapporto con l’americano non si fa alcuna illusione sui sentimenti di quest’ultimo: Sterne lo odia, poiché soltanto chi odia teme e si dispera per il successo altrui.
28. Lettera alla moglie del tardo autunno del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 107).
29. Lettera alla moglie del tardo autunno del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 108).
30. Lettera alla moglie del tardo autunno del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 108). Come si possa essere sempre tesi e al contempo andare benissimo non è solo l’equilibrismo di chi non resiste a non sfogarsi con una persona cara nel momento stesso in cui vorrebbe tranquillizzarla, ma anche e precisamente il mistero dell’equilibrismo da funambolo con cui Arturo s’illude di essere in grado di tenersi in bilico fra l’odio e la violenza di Sterne e il precipizio in cui l’americano tenta di spingerlo.
31. Lettera alla moglie del gennaio del 1925. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 109).
32. Lettera alla moglie dell’inizio del 1925. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 109).
33. Lettera alla moglie del gennaio del 1925. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 110).
34. Lettera alla moglie dell’inizio del 1925. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 111).
35. Lettera a Natale Mazzolà dell’inizio di febbraio del 1925. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 111).
36. Lettera alla moglie dell’inizio di febbraio del 1925. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 113).
37. Lettera a Francesco Messina del 5 agosto 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 128). Se si pensa al forte (anche se poco duraturo) sentimento di amicizia che Martini prova per Francesco Messina in questo periodo (sentimento sul quale torneremo) non può non intenerire la scelta dell’aggettivo buffo per descrivere il dramma che egli sta vivendo da più di due anni: scelta evidentemente ispirata dal desiderio di non sfigurare, di non apparire un debole, un vinto, agli occhi dell’amico più giovane, per il quale si propone di essere maestro e un mentore. Ma il dramma è così feroce, e la sofferenza così intensa, che Martini riesce a mantenere l’orgoglioso proposito solo fino ai primi freddi dell’inverno (vedi citazione successiva).
38. Lettera a Francesco Messina dell’8 gennaio 1927. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 135). Il termine noia (come del resto si evince dal contesto) ha ancora, agli inizi del ’900, un significato molto più aspro che al giorno d’oggi: annoiarsi significava essere depressi e al tempo stesso abbrutiti da un senso di vuoto e d’interiore abiezione che una forte sensibilità può avvertire come quasi insopportabile.
39. Che si stabilisce a Samoa (con la moglie e il figlio di lei) per curarsi il corpo, non la mente (che sta benissimo) e che alla sua morte è onorato dagli isolani, da lui protetti e aiutati contro le prepotenze dei colonialisti, con un solenne rito funebre sulla vetta del monte Vaea.
40. Jacopo Recupero, Arturo Martini: talento e destino, in Un paese immaginario, cit., p. 179.
41. Lettera a Giovanni Molteni del 29 agosto 1940. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 202).
42. Lettera alla moglie del giugno del 1941. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 206).
43. Lettera alla moglie dei primi di ottobre del 1941. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 210-211).
44. Lettera a Giovanni Fallani del 24 marzo 1942. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 216-217).
45. Lettera a Olvrado Lebreton del 1944. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 241).
46. Lettera a Giovanni Molteni del 18 luglio 1944. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 246).
47. Lettera a Gino Scarpa dell’agosto del 1944. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 247).
48. Lettera a Natale Mazzolà dell’11 settembre 1944. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 249).
49. Lettera a Leonardo Borgese del 27 aprile 1940. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 199-200).
50. Lettera a Nino Barbantini del 24 agosto 1944. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 249).
51. Lettera a Francesco Messina del 5 agosto 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 128).
52. Lettera a Francesco Messina del 15 agosto 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 128-129).
53. Lettera a Francesco Messina dell’agosto del 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 129).
54. Lettera a Francesco Messina del 19 dicembre 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 134-135).
55. Lettera a Francesco Messina del 19 dicembre 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 134-135).
56. Lettera a Francesco Messina del 7 dicembre 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 133-134).
57. Lettera a Francesco Messina del 19 dicembre 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 134-135).
58. Lettera a Francesco Messina del 15 agosto 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 128-129).
59. Lettera a Francesco Messina del 23 novembre 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 132-133).
60. Lettera a Francesco Messina del 23 novembre 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 132-133).
61. Lettera a Francesco Messina del 23 novembre 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 132-133).
62. Lettera a Natale Mazzolà dell’agosto 1927. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 139).
63. E non solo a sé stesso, se è vero che più di un vecchio amico lo abbandonerà proprio per non dover assistere e sopportare questo suo progressivo cambiamento. Mentre altri, come Giovanni Comisso, cercheranno ancora a lungo di restargli vicino e si allontaneranno da lui solo nel 1938-39, quando nemmeno l’alleanza dell’Italia di Mussolini con la Germania di Hitler, le leggi razziali e l’approssimarsi sempre più minaccioso della guerra mondiale indurranno lo scultore ad ammettere di aver sbagliato, adulando e sostenendo il regime con le proprie opere.
64. Lettera a Natale Mazzolà dell’8 dicembre 1927. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 140-141).
65. Lettere a Ugo Ojetti dell’aprile 1930. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 148-149). Va detto, però, che Ugo Ojetti ha sempre stimato Arturo Martini e scritto con favore sulle sue opere.
66. Arturo Martini, La scultura lingua morta, cit., colloquio del 26 luglio 1944, p. 25.
67. Arturo Martini, La scultura lingua morta, cit., colloquio del 2 agosto 1944, p. 33.
68. Arturo Martini, La scultura lingua morta, cit., colloquio del 12 agosto 1944, p. 47.
69. Arturo Martini, La scultura lingua morta, cit., colloquio del 2 agosto 1944, p. 43.
70. A Giovanni Comisso: Credi, caro Giovanni, che noi formiamo noi due soli un mondo completo di felicità (28 maggio 1918. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 46). A Francesco Mattana: Se vuoi accettare una comune vita eroica... Se vuoi, se la fede ti spinge al sacrificio, io e tu soli nella più infima condotta, troveremo il ristoro, la lotta, la fede, le notti, i giorni e la speranza (1921. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 74). A Natale Mazzolà: Una cosa sola mi preme: stanco, annoiato, disilluso, chiarissimo in tutto quello che è vita, sinceramente ho bisogno di un amico per confortare e ricevere conforti, tanto la vita anche dopo il successo materiale sarà sempre dura e poco divertente (1927. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 136). A Roberto Papi: Caro Papi, come desidero vederti, come vorrei esserti vicino, non ne posso più, ho paura delle stagioni, del tempo e degli uomini, forse anche tu sei così e come si fa per confortarsi a vicenda... Scrivimi più che puoi, non ho che te (1932 e 1936. Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 164 e 178). A Giovanni Fallani: Vedi, anche con te io voglio che sia rispettata una legge, cioè noi due non dovremo mai vederci. Non ho amici e quando li avevo mi hanno tradito e deluso e quindi ti prego consacriamo questa nostra amicizia in questo modo (1942. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 222). A Franco de Gironcoli: Sappi che io cerco un amico da quando sono nato e nessuno ha resistito alle nove prove, io solo posso resistere, quindi tu cerca di arrangiarti (1944. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 244).
71. Lettera a Francesco Messina del 4 settembre 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 130).
72. Lettera a Giovanni Comisso del 28 maggio 1918. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 46).
73. La convivenza con Brigida ― come vedremo più avanti ― per Martini è fin dal primo giorno una galera. Ma è negli anni di Anticoli che questa insofferenza comincia a tradursi in una sorta di teoria psicologica su sé stesso: Carissimo Lino,... non mi rattrista il dirti che per me la vita fu e sarà un grande fallimento... Conosci quel gioco: il tiro della fune? io sono la fune tra due forze contrarie, l’arte e la vita che m’interessa ma mi disturba la creazione. (Lettera a Natale Mazzolà della prima metà di febbraio del 1925. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 111). Per poi precisarsi e consolidarsi sempre di più negli anni successivi, come si evince con grande chiarezza da questa lettera a Giovanni Pessano, fratello del suocero, che evidentemente gli ha scritto per pregarlo di tornare a vivere con Brigida: Il mio destino è di essere solo, e questo fatto che è la mia condizione per poter creare cerco di difenderlo più che posso anche contro gli affetti, al mio cuore tanto cari, ma contrari al mio destino. L’arte è una malattia che va rispettata in me come tale e come tale va trattata delicatamente... Vi ringrazio per Maria (la figlia Maria Antonietta, detta Nena) fate voi quello ch’io non so fare senza avere la colpa. (Lettera del 24 agosto 1939. Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 193-194). (Notare che non dice quello ch’io non so fare e perciò mi sento in colpa, ma bensì quello ch’io non so fare senza avere la colpa... La colpa di che cosa? Con la mancata specificazione lasciando intendere, pur tacendolo, che, se lo facesse lui, si sentirebbe in colpa verso la propria arte). O da ciò che scrive alla moglie: E tu Brigida cara ora che abbiamo trovato la maniera di volerci bene restando così un po’ lontani e più vicini di prima che quasi mi pare di scrivere alla fidanzata, non rompere questo incantesimo perché tu sai che la vita è vile e che un po’ di sogno permette l’illusione di tirar avanti. Chi vuole troppo dalla vita perde tutto, ti abbraccio, Arturo. (Lettera della seconda metà di febbraio del 1942. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 197). O, con più autentica tenerezza, alla figlia: Cara Maria purtroppo chi nasce perseguitato come me dall’arte, quest’arte misteriosa che con tanto egoismo ti porta via tutte le forze... Però ringrazio Iddio anche se apparentemente sembra che ti trascuri perché se non avessi questa attrazione del mistero e della conoscenza dell’arte io mi sentirei perduto e altre disgrazie ci separerebbero ancora più profondamente. Invece se tu mi comprendi, tu devi immaginarmi come se fossi partito per un luogo di esplorazione e di scoperta come anticamente facevano i Cristoforo Colombo e i Magellano e aspettami alla fine della mia fatica per poi con serenità conversare sulla tragedia delle vicende umane sempre uguali e sempre nuove... Il mio bene è il mio lavoro, il mio male è la mia vita lontano da voi e soffro, ma così solo ho trovato la maniera di tirare avanti, e non si può domandarmi di più perché non sono capace di darlo, sarebbe un inferno per me e per gli altri. Dunque scrivimi e voglimi bene e pensami nelle tempeste del mio lungo viaggio... Ma lasciami tutto il tempo che mi occorre per arrivare in porto, tante cose care, tuo papà. (Lettera del 16 marzo 1943. Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 226-227).
74. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 19 luglio 1944, p. 5.
75. Io penso che le armonie delle cose vengono verso di noi come le anime vanno verso Dio. (Lettera a Giovanni Comisso della fine di giugno del 1918. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 46). La fine del mondo... si avrà quando l’artista avrà dato scacco matto, cioè purezza e assoluto, a ogni oggetto relativo alla natura (a ogni realtà del mondo). Poi si rientra nel caos. Io e il padreterno abbiamo tale preoccupazione; lui per ritornare spirito, pentito di essere diventato corpo. Egli ci ha mandati qui per questa funzione (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 2 agosto 1944, p. 30). Ma nel ’45, quando detterà queste parole, Martini avrà ormai completamente perduto l’intuizione del 1891 che lo “spirito” che ogni realtà del mondo tende a raggiungere non è altro che l’umanità che solo nel corpo dell’essere umano è già per natura; e aggiungerà: Sono religioso (ibid.) poiché, come al solito, altro non resta che la fede astratta nell’anima che è di Dio a chi non ha più la visione concreta della forma che è del corpo dell’essere umano.
76. Nel 1906 mi trovavo a Milano con i pidocchi. Ho dormito due notti in un capannone, fatto apposta alla stazione per quelli che andavano a vedere l’esposizione; diciassette anni, cento lire, in viaggio d’istruzione. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 25 agosto 1944, p. 138).
77. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 20 agosto 1944, p. 81.
78. Giovanni Comisso, Prefazione. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 27).
79. Come racconta Giovanni Comisso, di famiglia più che benestante della buona borghesia trevigiana, in questi anni è ancora molto difficile, soprattutto in amore, trovare il coraggio di oltrepassare le barriere di classe: Un giorno, andati a camminare per la campagna, si entrò in un’osteria dove era una festa da ballo, e sotto una trama di bandierette di carta sospese (Martini) mi additò una ragazza bellissima. Ballava con una sua amica e aveva un garofano dal gambo lunghissimo appuntato al petto, che vibrava alle mosse del ballo. Sorrisi a quella ragazza e quando uscì l’accompagnammo per la strada, ma ella non ne volle sapere di lui chiamandolo con scherno San Filippo per la barbetta che gli incorniciava il volto. Invece dimostrò tutta la simpatia per me, dicendomi dove abitava e che andassi a trovarla di mattina presto quando i suoi padroni dormivano ancora... (Martini) apparteneva inizialmente a una schiera di artisti che altre volte ho definito come proletari. Proveniva dal popolo, suo padre faceva il cuoco, i suoi fratelli gli imbianchini; egli si sentiva sempre umiliato non solo per la continua necessità di trovare il denaro alla giornata, ma perché non sapeva scrivere grammaticalmente l’italiano, non sapeva il latino, non aveva fatto studi regolari e conosceva saltuariamente la storia. In quegli anni la differenza e le limitazioni tra popolo e borghesia erano forti e decise. (Giovanni Comisso, Prefazione a Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 27). E alla distanza sociale si aggiunge, nel caso di Arturo Martini, la distanza che quasi tutti da sempre oscuramente percepiscono tra il suo mondo interiore e il loro... Ma di questo lasciamo parlare Martini stesso, anche se la nota è già troppo lunga: Da bambino, mi ritenevano in famiglia un idiota, mia madre invece mi chiamava Dante. Non appartenevo mai alla vita. Fui sempre creduto un mascalzone. La sofferenza di essere giudicato!... Un giorno, il maestro, a scuola, legge il Cuore, Dagli Appennini alle Ande. Non ho capito perché gli altri non sono morti. Gli altri finito il racconto sono usciti da scuola come niente fosse, tutti lieti. Io ho dovuto essere accompagnato a casa dal bidello, e per sette giorni ho pianto. Questa era la misura tra il mio sentimento e quello degli altri... Ho ripetuto due anni la prima elementare e tre la seconda perché mi credevano un asino. Mi chiamavano sempre a rispondere per primo perché io guardavo la bocca che si muoveva, parendomi che venisse fuori lo spirito, e naturalmente questo mio incanto era preso come se io seguissi le parole e avessi capito tutto. Invece ero l’unico che non sapesse ripetere niente. Ma (d’improvviso) venivo sorpreso, come se uno mi prendesse per il petto; e avevo capito tutto... Tutte le mattine il maestro... faceva alzare tutta la classe con queste parole: Preghiamo per il discolo Martini, che finirà in galera. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 19 agosto 1944, pp. 73 - 74). Sono l’invitato di una volta sola. (Ibid., p. 78). La madre di Arvedi, la madre di Comisso (gli) dicevano: Non andar con quello là. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 26 agosto 1944, p. 154).
80. Natale Mazzolà, Appunti autobiografici (1892-1921), 1966, dattiloscritto inedito nel Fondo Mazzolà presso la Biblioteca Comunale di Treviso. Citato ne Il giovane Arturo Martini, opere dal 1905 al 1921, catalogo della mostra del Museo Civico Luigi Bailo di Treviso, 15 ottobre 1989 - 10 gennaio 1990, Roma, De Luca Edizioni d’Arte, pp. 177-178.
81. Lettera a Giovanni Comisso del gennaio 1916. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 38).
82. Lettera a Giovanni Comisso del 6 maggio 1916. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 40).
83. Lettera a Giovanni Comisso dell’autunno del ’21. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 88). La ragazza è brava e spero trovare in essa maggior tranquillità al lavoro e dar fine alla vita disordinata di boemien. (Lettera a Piero Preda dell’aprile del 1920. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 56).
84. Lettera a Giovanni Comisso della fine del 1916. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 43).
85. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 44.
86. Lettera a Brigida Pessano dell’aprile 1917. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 44).
87. Lettera a Giovanni Comisso del 26 aprile 1917. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 45).
88. Lettera a Natale Mazzolà del 6 gennaio 1929. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 144).
89. Sono stato tre mesi in prigione a Bologna per diserzione... Odiavo i compagni, i giudici, i soprusi della guerra; nel caporale della prigione non riconosci più l’uomo... Eravamo quattrocento in uno stanzone dove la paglia, calpestata, era diventata un pulviscolo che accecava. A me colava il pus dagli occhi; ne morivano ogni giorno. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 25 agosto 1944, p. 146).
90. Quando m’è venuto il male e sono stato in punto di morte... ho detto alla mamma... Mamma, stampa questo libretto, e io son contento. Son convinto che è una preghiera... La prima crisi religiosa l’ho avuta alla prima comunione, quando mi attaccai ai fili elettrici. La seconda, mistica, dopo la spagnola. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 25 agosto 1944, pp. 145-146). Il libretto s’intitola Contemplazioni: un “libro muto” pensato come una preghiera e composto solo di piccoli rettangoli neri, allineati sul foglio come note musicali su uno spartito (Elena Pontiggia, Nota biografica, cit., p. 145).
91. Lettera a Giovanni Comisso del 28 maggio 1918. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 46).
92. Lettera a Nino Barbantini del 5 dicembre 1918. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 48).
93. Testimonianza di Amedeo Sarfatti. La scultura lingua morta, cit., p. 112.
94. La mamma è morta, Martini. Telegramma a Piero Preda del 25 febbraio 1920. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 55).
95. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 6 settembre 1944, p. 202.
96. Lettera alla moglie del 10 ottobre 1920. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 59).
97. Lettera a Piero Preda del marzo del 1921. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 69-70). Un ricordo incancellabile, quello della galera di Vado Ligure, che ancora dopo ventitré anni gli farà dire a Gino Scarpa: Ho vissuto sei anni a Vado Ligure, mantenuto, soffrendo del piatto di minestra che mi davano. (Gino Scarpa, Colloqui con Antonio Martini, cit., colloquio del 26 luglio 1944, p. 21).
98. Lettera a Mario Broglio dei primi di marzo del 1921. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 69).
99. Lettera a Francesco Mattana. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 63-64).
100. Lettera a Natale Mazzolà della fine di giugno del 1921. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 79).
101. Lettera a Natale Mazzolà dei primi di luglio del 1921. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 79-80).
102. Lettera a Natale Mazzolà della prima quindicina di luglio del 1921. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 80).
103. Lettera a Mario Girardon dell’autunno del 1921. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 88-89).
104. Lettera a Natale Mazzolà del 26 gennaio 1944. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 239-241).
105. Natale Mazzolà, Appunti autobiografici (1892-1921), cit., p. 178.
106. Lettera a Massimo Bontempelli del 1932. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 161).
107. Lettera a Natale Mazzolà del 16 maggio 1943. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 228).
108. Lettera a Natale Mazzolà del 26 gennaio 1944. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 239-241).
109. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 1° novembre 1944, p. 241.
110. Orio Vergani, Misure del tempo: diario 1950-59. La scultura lingua morta, cit., p. 116.
111. Lettera a Natale Mazzolà della seconda metà di luglio del 1922. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 98-99).
112. Lettera a Giovanni Comisso dell’autunno del 1921. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 88).
113. Lettera a Natale Mazzolà del 17 maggio 1922. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 97-98).
114. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 2 novembre 1944, p. 262.
115. Lettera a Natale Mazzolà della prima metà di febbraio del 1925. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 111-112). Almeno una volta, del resto, verso la fine del ’22, Martini non sa resistere al desiderio di rivedere Maria da sola: Caro Lino, ho visitata Maria la domenica scorsa e l’ho trovata molto bene, tranquilla e riposata come i benefici della cura vengono anticipatamente promessi. Non ti ho scritto prima, perché non volevo vederla fingendomi a Roma, perché sapevo bene il pericolo del mio male (l’amore per lei, n.d.r.) e la certa ricaduta. Invece non ho potuto resistere e sono partito per Alassio, paese noiosissimo, rimessa di donne in disuso tremendo (cioè di donne lasciate sole o abbandonate dai loro uomini, n.d.r.) ma nello stesso tempo triste, ricordandomi il mese delle rondini in partenza nessun paese ricorda più di questo l’autunno carnale. Certamente senza mio consenso Maria si è proclamata la Reginetta d’Alassio, però protestando per la modestia e per l’offesa che mi faceva, ho mutato il titolo in proporzioni europee... Poi mi ha detto che si annoiava un poco e allora le ho promesso di scriverle ogni giorno, non ti nascondo che questo subito l’aveva spaventata, ma poi ridendo siamo venuti a patti chiari e cioè solamente durante la villeggiatura. (Lettera a Natale Mazzolà del dicembre 1922. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 100). Ma il carissimo Lino non deve prenderla troppo bene, se è vero che l’amico, ancora quattro mesi dopo, sente il bisogno di scrivergli: Ti amo malgrado tutto e ti penso perché pensarti oltre che essermi necessario mi è anche caro. Maria non ci deve dividere per troppo amore ― in fondo lascia che la misura e l’intelligenza di tutti tre governi l’esistenza tanto, fino a qui, così saggiamente condotta. (Lettera a Natale Mazzolà del 26 aprile 1923. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 100). E un mese dopo: Sono contento che tu mi abbia scritto e che fra noi due non ci sia ombra di rancore, perché mi sarebbe di gran dolore. (Lettera a Natale Mazzolà del 1° giugno 1923. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 101). Ma poi la corrispondenza tra i due amici, altrimenti sempre fittissima, s’interrompe per ben dieci mesi.
116. Lettera a Natale Mazzolà del 10 settembre 1925. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 122-123).
117. Lettera a Natale Mazzolà dell’Epifania del 1929. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 144).
118. Lettera a Natale Mazzolà del 4 dicembre 1932. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 165-166).
119. Lettera a Maria e Natale Mazzolà del 27 settembre 1941. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 210).
120. Lettera a Natale Mazzolà dell’11 agosto 1943. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 233).
121. Lettera a Natale Mazzolà del 3 settembre 1943. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 234-235).
122. Del resto, quella dei due anni non è che la prima esperienza: All’asilo: ho guardato la coca a una bambina. Caso tremendo, terroristico. Espulsione dalla scuola. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 26 luglio 1944, p. 26). E a 25 anni: Ho fatto anche la Ragazza che si lava la coca. Era stata presentata alla prima secessione fatta da Oppo (1914); là fu scartata per pornografia, e l’aveva raccolta Sprovieri in via del Tritone, dove probabilmente la vide De Fiori, che la imitò. Fu poi donata alla padrona di palazzo Opitz a Treviso (una casa di tolleranza) ed è andata distrutta. Ci tenevo molto, perché avevo indovinato il carattere della prostituta. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 25 agisto 1944, p. 127).
123. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 24 agosto 1944, p. 112.
124. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 26 agosto 1944, p. 150.
125. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 6 settembre 1944, p. 206.
126. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 26 agosto 1944, p. 165.
127. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 7 settembre 1944, p. 210.
128. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 1° novembre 1944, p. 236.
129. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 24 agosto 1944, p. 112.
130. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 5 settembre 1944, p. 181.
131. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 1° novembre 1944, p. 241.
132. Prima di Anticoli: Non ti nascondo che la mia vita è troppo a brandelli per il mondo perché io possa dimenticarla... Sento il bisogno di ricomporla per non cadere affranto dal mio cuore tanto ammalato. (Lettera a Natale Mazzolà della fine di febbraio del 1922. Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 96-97). Perdona l’amico che sente di morire come i fiori fuori stagione. (Lettera a Natale Mazzolà della fine di marzo del 1924. Ibid., p. 102). Dopo Anticoli: Suicidarmi non voglio anche se questo sentimento non mi sia estraneo, spero di no, a meno che non mi assalga qualche male fisico. (Lettera a Natale Mazzolà dei primi mesi del 1927. Ibid., p. 136).
133. Scrivono fatto, con la desinenza o, come se Anticoli fosse un sostantivo maschile. E allo stesso modo scrivono e dicono molti anche oggi. Come se non sapessero, o non volessero sapere, che tutti i nomi di città e di paesi ― tranne Il Cairo ― sono di genere femminile. Come se non sapessero, o non volessero sapere, che femminile non può non essere, è ovvio, specialmente il paese delle modelle.
134. Lettera alla moglie dell’estate del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 103).
135. Lettera alla moglie dell’estate del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 104).
136. Lettera alla moglie dell’inizio dell’autunno del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 105).
137. Lettera alla moglie dell’ottobre del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 105-106).
138. Lettera alla moglie del tardo autunno del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 106-107).
139. Lettera alla moglie del tardo autunno del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 107).
140. Lettera alla moglie del tardo autunno del 1924. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 108).
141. Lettera alla moglie della prima metà di febbraio del 1925. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 112-113).
142. Rieccomi ad Anticoli amaramente rassegnato a vivere senza spirito e senza cuore. (Lettera a Francesco Messina dell’8 gennaio 1927, in Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 135.
143. Questo paese che è stranissimo e pieno di meraviglie... (Lettera alla moglie dell’estate del 1924. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 104). Qui non succede niente, solo non ti nascondo che faccio per riposarmi qualche gita sul mulo per visitare i paesi circonvicini dove ho scoperto cose meravigliose. (Lettera alla moglie dell’estate del 1924. Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 104-105).
144. Anticoli sembra una vera caserma di artisti... (Lettera alla moglie dell’estate del 1924. Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 104-105).
145. Lettera a Francesco Messina del 7 dicembre 1926. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 220).
146. Lettera alla figlia del 1942. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 224).
147. Non ho mai adoperato modello in vita mia... La stessa proibizione del mistico di non avere un modello perché lo ritiene un’offesa verso il suo alto ideale... Prendere una modella, deflorata da mille occhi? (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 6 settembre 1944, p. 202).
148. Bada che anche la servetta può traviare, sta’ in guardia... (Lettera a Francesco Messina dell’agosto 1926. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 120).
149. Sono un ragazzo e cioè quando gioco faccio molto sul serio. (Lettera a Leonardo Borgese del 27 aprile 1940. Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 199-200). Io sono come un bambino. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 12 agosto 1944, p. 44). Nessuno capisce il bambino che è nell’artista e la sua delicatezza. (Ibid, colloquio del 7 settembre 1944, p. 219).
150. Per me un artista è metà donna e metà uomo: lo vediamo dalle mani, io ho le mani da donna, da levatrice. (Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 12 agosto 1944, p. 55).
151. Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, cit., colloquio del 26 agosto 1944, p. 159.
152. A proposito di gusti anch’io butto male, ma quassù è tutto perdonato, dunque volevo dirti che ho, come si dice e si deve dire, per le mani un’americana la quale non è un capolavoro né di bellezza né d’intelligenza, ma conta in suo attivo una fiorente giovinezza e una sana pratica nell’amore. Siamo d’accordo, pochi discorsi e molti fatti, ti giuro che starebbe bene in una caserma di cavalleria. Parte oggi per Parigi e non mi dispiace però mi dispiacerà domani, pazienza. (Lettera da Anticoli a Francesco Messina dell’agosto 1926. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 129). Eppure, nonostante il disprezzo ― o, come avrebbe detto Martini, il cinismo d’aver tutto superato ― che le parole con durezza proclamano, nelle sue avventure anticolane è evidente il desiderio d’innamorarsi davvero: Ebbi parecchi amori con donne straniere e nazionali, una però la più viva e la più bella fu fatale. Ci innamorammo in tale modo da dover ora che è passato, riderne di vergogna. Lo scandalo fu enorme, il marito di lei (celebre nell’arte della pittura) a implorare: nulla serviva, scappammo. Naturalmente dopo pochi giorni il marito la riprese, fu un disastro, questo grande amore raffreddandosi mi faceva capire ogni giorno di più la mediocrità della donna e tutto il belletto intellettuale diventare fango e la bellezza degna di casa da trivio a 3 lire. (Lettera da Anticoli a Natale Mazzolà della prima metà di febbraio del 1925. Arturo Martini, Le Lettere, cit., pp. 111-112. I due periodi che vanno da lo scandalo a 3 lire sono stati espunti dalla trascrizione di questa lettera nel capitolo Arturo Martini: talento e destino di Un paese immaginario, cit., p. 202, ma il fatto che il marito era celebre nell’arte della pittura e che la donna doveva essere fra i venti e i trent’anni riduce a due o tre le “candidate” possibili). E tuttavia (e contraddittoriamente) l’uomo che dei suoi amori anticolani parla in questi termini è il medesimo che negli stessi giorni scrive: Ah quanto vorrei piangere per un amore, per una donna che avesse qualche cosa che io non potessi capire, come fosse di un’altra tribù con altri riti e credenze diverse. (Lettera da Anticoli a Francesco Messina del 4 settembre 1926. Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 130).
153. Lettera alla moglie del 1929. (Arturo Martini, Le Lettere, cit., p. 146). |
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