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"La Bella e la Bestia", di Jeanne Marie Leprince de Beaumont
"Hänsel e Gretel", di Jacob e Wilhelm Grimm
"Rikki-tikki-tawi", di Rudyard Kipling
"La Metamorfosi", di Franz Kafka
"La Sentinella", di Fredric Brown
"Il Colombre", di Dino Buzzati
di
Jeanne Marie Leprince de Beaumont
(1711-1780)
C’era
una volta un mercante che era ricco sfondato. Aveva sei figliuoli, tre maschi e
tre femmine; e siccome era un uomo che sapeva il vivere del mondo, non risparmiò
nulla per educarli e diede loro ogni sorta di maestri. Le sue figlie erano
bellissime: la minore soprattutto era una meraviglia, e da piccola la chiamavano
la bella bambina, e di qui le rimase il soprannome di Bella, che fu poi cagione
di gran gelosia per le sue sorelle.
Questa
figlia minore, oltre a essere la più bella, era anche la più buona delle
altre.
Le
due maggiori, essendo ricche, erano molto superbe; si davano l’aria di grandi
signore, e non gradivano la compagnia delle figlie degli altri negozianti, ma se
la dicevano soltanto col nobilume. Andavano dappertutto: ai balli, alle
commedie, alle passeggiate; e prendevano in giro la sorella minore, perché
spendeva una gran parte del suo tempo nella lettura dei buoni libri.
E
poiché si sapeva che erano molto ricche, parecchi negozianti, di quelli grossi
davvero, le chiesero in mogli; ma la maggiore e la seconda dissero chiaro e
tondo che non si sarebbero mai maritate, se non fosse capitato loro un Duca o a
dir poco un Conte.
La
Bella (oramai vi ho detto che questo era il suo nome), la Bella, dunque,
ringraziò con molta buona maniera coloro che volevano sposarla: e disse che era
troppo giovane e che voleva tener compagnia ancora per qualche anno al suo
genitore. Ma ecco che tutto a un tratto il mercante fece un gran fallimento e
non gli rimase altro che una piccola casa assai lontana dalla città. Disse
allora ai suoi figli, colle lacrime agli occhi, che bisognava rassegnarsi e
andare ad abitare in quella casetta, dove, mettendosi tutti a fare i contadini,
avrebbero potuto campare e tirare avanti. Le due ragazze più anziane, però,
risposero che non volevano saperne nulla di lasciare la città, dove avevano
molti corteggiatori, ai quali non sarebbe parso vero di poterle sposare anche
senza un soldo di dote.
Ma
le povere figliuole s’ingannavano di grosso, perché invece, quando furono
povere, tutti i loro innamorati girarono a largo. E siccome, a causa della loro
superbia, non erano ben viste, cosi dicevano tutti: “Non meritano compassione:
è giusto che abbiano dovuto ripiegare le corna; che vadano, ora, a far le gran
signore dietro le pecore e i montoni!” Ma al tempo stesso tutti dicevano:
“Quanto alla Bella, ci rincresce proprio della sua disgrazia: è una gran
buona figliuola! è così alla mano coi poveri, e tanto amorosa e gentile!”
Ci
furono parecchi gentiluomini che la volevano sposare, sebbene non avesse più un
soldo di dote: ma ella disse che non sapeva risolversi a lasciare il suo povero
padre nella disgrazia, e che sarebbe andata con lui fra i campi, per consolarlo
e dargli una mano nelle fatiche.
La
povera Bella, da principio, era rimasta molto male dell’aver perduto ogni ben
di fortuna; ma poi si consolò col dire fra sé e sé: “Quand’anche mi
struggessi dal pianto, non varrebbe a farmi riscattare quel che ho perso: dunque
è meglio cercare di essere felici, anche senza un centesimo in tasca.”
Appena
arrivati alla casa di campagna, il mercante e le sue tre figlie si dettero
subito a lavorare i campi. La Bella si alzava la mattina alle quattro, avanti
giorno, e si dava il pensiero di ripulir la casa e di preparare la colazione e
il desinare per la famiglia. Sulle prime ci pativa un poco, perché non era
avvezza a strapazzarsi come una serva: ma in capo a due mesi si fece più
robusta e, faticando tutto il giorno, acquistò una salute di ferro. Quando
aveva finite le sue faccende, si metteva a leggere o a suonare la spinetta: o
anche canterellava e filava.
Le
sue sorelle, invece, s’annoiavano da non averne idea: si levavano alle dieci
della mattina, girellavano tutto il giorno e trovavano una specie di svago a
rimpiangere i bei vestiti e la bella società di una volta. “Guarda un
po’,” dicevano fra loro, “come è stupida la nostra sorella minore: e che
caratteraccio volgare! È contenta come una pasqua di trovarsi nella sua
disgraziata condizione!...”
Ma
il buon mercante non la pensava così. Egli sapeva che Bella aveva molto più
garbo delle sue sorelle a fare spicco in società: e ammirava la virtù di
questa giovinetta e specialmente la sua forza d’animo; perché bisogna sapere
che le sue sorelle, non contente di buttare addosso a lei tutte le faccende di
casa, la punzecchiavano continuamente con mille parole insolenti.
Era
trascorso un anno dacché questa famiglia viveva lontana dalla città, quando il
mercante ebbe una lettera nella quale gli si diceva che un bastimento, carico di
mercanzie di sua proprietà, era arrivato felicemente! Ci mancò poco che questa
notizia non facesse dar di volta al cervello alle due ragazze maggiori, le quali
speravano così di poter lasciare la campagna, dove morivano dalla noia: e
quando videro il padre sul punto di partire, lo pregarono che portasse loro dei
vestiti, delle mantelline, dei cappellini e altri gingilli di moda. Mentre la
Bella non gli chiese nulla, perché aveva già capito che tutto il guadagno
delle merci arrivate non sarebbe bastato a contentare i capricci delle sue
sorelle.
“E
tu non vuoi che ti compri nulla?” le disse suo padre.
“Poiché
siete tanto buono da pensare a me,” ella rispose, “fatemi il piacere di
portarmi una rosa.”
Ciò
non vuol dire che alla Bella premesse la rosa: ma lo fece, per non criticare col
suo esempio la condotta delle sorelle; le quali avrebbero detto che non chiedeva
nulla, per farsi distinguere e dar nell’occhio.
Il
buon uomo partì, ma appena giunto, ebbe a sostenere un processo a causa delle
sue mercanzie: e, dopo mille seccature, se ne tornò indietro più povero di
prima.
Gli
restavano da fare non più di trenta miglia per arrivare a casa, e già si
consolava al pensiero di rivedere la sua famigliola; ma dovendo traversare un
gran bosco, si smarrì e perdé la strada. La neve fioccava da far paura, e
soffiava un vento così strapazzone, che lo gettò per due volte giù da
cavallo. Venuta la notte, egli cominciò a credere di dover morire o di fame e
di freddo, o divorato dai lupi, che si sentivano urlare a poca distanza. Quando
a un tratto, nel voltar l’occhio verso il fondo di una lunga sfilata
d’alberi, vide una gran fiamma che pareva lontana lontana. S’avviò da
quella parte, e poté distinguere che quella luce usciva da un gran palazzo, che
era tutto illuminato. Il mercante ringraziò il cielo del soccorso mandatogli e
si affrettò per giungere a questo castello; ma rimase grandemente stupito di
non trovarci anima viva.
Il
suo cavallo, che gli andava dietro, avendo visto una bella scuderia aperta, entrò
dentro; e trovatovi fieno e biada, il povero animale, che moriva di fame, vi si
buttò sopra con grandissima avidità. Il mercante lo legò alla greppia: e
s’avviò verso la casa, dove non trovò nessuno. Ma, entrato che fu in una
gran sala, vi trovò un bel fuoco acceso, una tavola apparecchiata e molte
pietanze: ma c’era una posata sola.
Essendo
bagnato fino al midollo dell’ossa, per la neve e la molt’acqua che aveva
preso, si avvicinò al fuoco per asciugarsi, dicendo fra sé: “Il padrone di
casa e i suoi domestici mi scuseranno per la libertà che mi prendo! Sono sicuro
che staranno poco ad arrivare.”
Aspetta,
aspetta e nessuno veniva: finché suonarono le undici e ancora non s’era visto
alcuno. Allora, non potendo più resistere, dalla gran fame prese un pollastro
e, tremando dalla paura, lo mangiò in due bocconi. Poi bevve anche qualche
sorso di vino e, messo sù un po’ di coraggio, uscì dalla sala e attraversò
molti appartamenti splendidamente tappezzati e ammobiliati. Alla fine trovò una
camera dove c’era un buon letto: e poiché era mezzanotte suonata e si sentiva
stanco morto, prese la decisione di chiuder l’uscio e di coricarsi.
La
mattina dopo si svegliò verso le dieci: e figuratevi come rimase, quando trovò
un vestito molto decente nel posto dove aveva lasciato il suo, che era tutto
logoro e cascava a pezzi.
“Si
vede bene,” egli disse, “che in questo palazzo ci sta di casa qualche buona
fata, che si è mossa a compassione di me.”
Si
affacciò alla finestra e non vide più un filo di neve, ma pergolati di
bellissimi fiori, che innamoravano soltanto a guardarli. Ritornò nella gran
sala, dove la sera avanti aveva cenato, e vide una piccola tavola, con sopra una
chicchera e un vaso di cioccolata.
“Grazie
tante,” diss’egli a voce alta, “grazie tante, signora fata, della
gentilezza d’aver pensato alla mia colazione.”
Il
buon uomo, quand’ebbe preso la cioccolata, uscì per andare dal suo cavallo; e
passando sotto un pergolato di rose, si ricordò che la Bella gliene aveva
chiesta una, e staccò un tralcio dove ce n’erano parecchie bell’e
sbocciate. Ma in quel punto stesso sentì un gran rumore e vide venirsi incontro
una bestia così spaventosa, che ci mancò poco che non cascasse svenuto:
“Voi
siete molto ingrato,” disse la Bestia, con una voce da far rabbrividire, “vi
ho salvato la vita accogliendovi nel mio castello, e in cambio voi mi rubate le
mie rose, che è per l’appunto la cosa che io amo soprattutto in questo mondo.
Per riparare al mal fatto non vi resta altro che morire: vi do tempo un quarto
d’ora per chiedere perdono a Dio.”
Il
mercante si gettò in ginocchio e a mani giunte prese a dire alla Bestia:
“Monsignore,
perdonatemi: non credevo davvero di offendervi cogliendo una rosa per una delle
mie figlie, che me l’aveva domandata.”
“Non
mi chiamo Monsignore,” rispose il mostro, “ma Bestia. I complimenti non
fanno per me; io voglio che ognuno parli come la pensa: per cui non vi mettete
in capo d’intenerirmi colle vostre moine. Mi avete detto che avete delle
figliuole: ebbene, io potrò perdonarvi a patto che una di codeste figliuole
venga qui a morire volontariamente al posto vostro. Non una parola di più;
partite, e nel caso che le vostre figlie ricusassero di morire per voi, giurate
che entro tre mesi ritornerete.”
Quel
pover’uomo non aveva punta intenzione di sacrificare alcuna delle sue figlie
al brutto mostro, ma pensò dentro di sé: “Non foss’altro, avrò almeno la
consolazione di poterle abbracciare un’altra volta.”
Giurò
di tornare, e la Bestia gli disse che poteva partire a piacer suo. “Ma non
voglio,” soggiunse, “che tu debba andartene con le mani vuote. Ritorna nella
camera dove hai dormito; ci troverai un gran baule vuoto; ché io penserò a
fartelo portare fino a casa.”
Detto
questo, la Bestia se ne andò, e il buon uomo disse fra sé e sé: “Almeno, se
ho da morire, potrò lasciare un boccon di pane a’ miei poveri ragazzi.”
E
tornò nella camera dove aveva dormito, e avendovi trovato delle monete d’oro
in gran quantità, ne empì il baule, di cui gli aveva parlato la Bestia: quindi
lo chiuse e, ripreso il cavallo lasciato nella scuderia, uscì dal palazzo con
tanto malessere addosso, quanta era la gioia con la quale vi era entrato. Il
cavallo prese da sé uno dei viottoli della foresta, e in poche ore il buon uomo
arrivò alla sua casetta. I suoi figli gli furono tutti d’intorno: ma invece
di mostrarsi lieto alle loro carezze, il mercante li guardava e gli cascavano i
lacrimoni dagli occhi. Egli aveva in mano il tralcio di rose, che portava a
Bella: e nel darglielo, disse: “Bella, pigliate queste rose: ma costeranno
molto care al vostro povero padre!” E così raccontò alla famiglia il brutto
caso che gli era capitato.
A
quella storia le due sorelle maggiori si misero a berciare e dissero mille
cosacce a Bella, la quale non piangeva né punto né poco.
“Ecco
le conseguenze,” esse dicevano, “dell’orgoglio di questa monella: perché
anche lei non fece come noi e non chiese dei vestiti? Nient’affatto! la
signorina voleva distinguersi. E ora è lei la cagione della morte di suo padre
e non se ne fa né in qua né in là!”
“Sarebbe
inutile,” soggiunse Bella; “perché dovrei piangere la morte di mio padre?
Egli non morirà, perché il mostro si contenta di accettare in cambio una delle
sue figlie; io voglio mettermi in balìa del suo furore: e sono molto felice,
perché così potrò avere la contentezza di salvare il padre mio e di provargli
il gran bene che gli ho sempre voluto.”
“No,
sorella mia,” le dissero i suoi tre fratelli, “tu non morirai: noi andremo a
trovare il mostro, e periremo sotto i suoi colpi, se non saremo buoni ad
ucciderlo.”
“Non
lo sperate, ragazzi miei,” disse loro il mercante, “la potenza di questa
Bestia è così sterminata, che non c’è caso di poterla uccidere. Mi fa una
vera consolazione il buon cuore di Bella: ma non voglio mandarla a morire. Io
son vecchio; non mi resta che poco tempo da vivere; così, male che vada, posso
scorciarmi di qualche anno la vita; cosa che non rimpiango punto, perché lo
faccio per amor vostro, miei cari figliuoli.”
“Vi
do la mia parola, padre mio,” disse Bella, “che voi non andrete a quel
palazzo, senza di me: voi non mi potete impedire di seguirvi. Sebbene giovane,
io non sono molto attaccata alla vita, e preferisco esser divorata da quel
mostro, che morire dalla pena che mi farebbe la vostra perdita.”
Ebbero
un bel dire, ma la Bella volle a ogni costo partire anche lei per il palazzo del
mostro; e alle sorelle non parve vero, perché si rodevano di gelosia per le
belle doti della sorella minore.
Il
mercante era così stonato dal dolore di dover perdere la figlia, che non gli
passò per il capo neppure il baule che egli aveva riempito di monete d’oro.
Ma appena fu in camera, restò grandemente stupito di trovarlo al piè del
letto. Risolvette di non dir nulla in casa di essere diventato ricco, per paura
che le figlie si mettessero in testa di voler tornare in città, mentre egli
aveva fatto conto di voler morire in quella campagna. Peraltro confidò il
segreto a Bella, la quale gli raccontò che nel tempo che era stato lontano,
alcuni gentiluomini erano venuti per casa; e che, fra questi, ve n’erano due
che amoreggiavano con le sue sorelle. Si raccomandò al padre che le maritasse;
perché ella era tanto buona di cuore, che le amava tutte e due, e perdonava
loro tutto il male che le avevano fatto.
Quelle
due cattive si strofinarono gli occhi colla cipolla per farsi venire i
lucciconi, quando Bella partì con suo padre; ma i fratelli piangevano davvero:
e anche il mercante. La sola che non piangesse era Bella, la quale non voleva
inciprignire il dolore di tutti gli altri.
Il
cavallo prese la via del palazzo, e sul far della sera cominciarono di lontano a
vederlo illuminato, tale e quale come la prima volta. Il cavallo andò da sé
solo nella scuderia: e il buon uomo entrò con sua figlia nella gran sala, dove
trovarono una gran tavola magnificamente apparecchiata per due. Il mercante non
sapeva da che verso rifarsi per mangiare; ma la Bella, sforzandosi di parer
tranquilla, si mise a tavola e lo servì; poi diceva dentro di sé:
“Capisco
bene che la Bestia vuole ingrassarmi prima di far di me un boccone! me
n’accorgo dalla maniera in cui mi tratta.”
Quand’ebbero
cenato, udirono un gran fracasso, e il mercante, con le lacrime agli occhi,
disse addio alla sua povera figlia, perché sapeva che la Bestia era lì lì per
arrivare.
La
Bella, alla vista di quell’orribile figura, sentì fare un cavallone al
sangue: ma s’ingegnò di non darlo a divedere: e quando il mostro le domandò
s’era venuta da lui volentieri, rispose con voce tremante di sì.
“Davvero
siete molto buona,” disse la Bestia, “e io vi sono riconoscentissimo. Buon
uomo! domani partirete, e Dio vi guardi dal tornare in questo luogo. Addio,
Bella.”
“Addio,
Bestia,” ella rispose.
E
il mostro sparì.
“Oh
! figlia mia,” disse il mercante abbracciandola e baciandola, “io son mezzo
morto dalla paura. Fai a modo mio: lasciami morir qui.”
“No,
padre mio,” rispose la Bella con fermezza, “voi partirete domani mattina, e
mi abbandonerete all’aiuto del Cielo. Il Cielo forse avrà compassione di
me!...”
Andarono
a letto con l’idea che in tutta la notte non sarebbero stati buoni a chiudere
un occhio, ma invece, appena si furono coricati nei loro letti, si
addormentarono come ghiri. E la Bella vide in sogno una Regina, la quale le
disse:
“O
Bella, io son contenta del vostro buon cuore. La nobile azione che fate, dando
la vita per quella di vostro padre, non rimarrà senza premio.”
Quando
la Bella si svegliò, raccontò il sogno a suo padre; ma sebbene questa cosa lo
rinfrancasse un poco, non bastò peraltro a trattenerlo dal dare in grandissimi
pianti, quando gli fu forza staccarsi dalla sua figlia adorata.
Partito
che fu, la Bella andò a sedersi nella gran sala, e anche lei cominciò a
piangere; ma, essendo molto coraggiosa, si raccomandò a Dio e fece conto di non
darsi tanto alla disperazione, per quel poco di tempo che le restava ancora da
vivere: perché ella credeva fermamente che la Bestia sarebbe venuta a mangiarla
nella serata.
Intanto,
mentre aspettava, pensò bene di girare e di visitare il castello, del quale non
poteva non ammirare le grandi bellezze. E figuratevi se rimase a bocca aperta,
quando vide una porta sulla quale c’era scritto: “Appartamento della
Bella”. Aprì in fretta e in furia questa porta e fu abbagliata dalle
magnificenze che vi erano dentro; ma ciò che maggiormente la colpì, fu la
vista di una gran biblioteca, di un clavicembalo e di molti quaderni di musica.
“Si
vede proprio che non vogliono che io mi annoi,” disse fra sé e sé; quindi
pensò: “Se io dovessi albergare qui un giorno solamente, non mi avrebbero
ammannito tutte queste belle cose”.
Questo
pensiero rianimò il suo coraggio. Ella aprì la biblioteca e vide un libro sul
quale era scritto a lettere d’oro: “Desiderate e comandate; voi siete qui
signora e padrona!...”. “Meschina me!” diss’ella. “Io non ho altro desiderio che di vedere il mio povero padre e di sapere che cos’è di lui in questo momento!”
Queste
parole le aveva dette dentro di sé, ma quale non fu il suo stupore quando,
gettando gli occhi sopra uno specchio, vi mirò la sua casa, e per l’appunto
in quel momento in cui vi giungeva suo padre con un viso da far pietà. Le sue
sorelle gli andavano incontro; e malgrado le smorfie che facevano per parere
afflitte, mostravano sul viso e a fior di pelle la contentezza provata per la
perdita della loro sorella.
Dopo
un minuto sparì ogni cosa, ma la Bella non poté far di meno di pensare che la
Bestia era molto compiacente, e che non aveva nulla da temere da ella.
A
mezzogiorno trovò la tavola bell’e apparecchiata: e durante il pranzo udì
un’eccellente musica, senza che potesse vedere alcuno. Ma la sera, mentre
stava per mettersi a tavola, sentì il fracasso che faceva la Bestia e fu presa
da un tremito di paura:
“Bella,”
le disse il mostro, “siete contenta che io stia a vedervi mentre cenate?”
“Non
siete voi il padrone?” rispose la Bella, tremando.
“No,”
replicò la Bestia, “qui non c’è altri padroni che voi; se vi sono
importuno, non dovete far altro che dirmelo e me ne andrò subito. Ditemi una
cosa: non è vero che io vi sembro molto brutto?”
“È
vero, sì,” rispose Bella, “perché io non sono avvezza di dire una cosa per
un’altra; peraltro vi credo buonissimo di cuore.”
“Avete
ragione,” disse il mostro, “ma oltre all’essere brutto io non ho punto
spirito, e so benissimo d’essere una Bestia.”
“Non
è mai una Bestia,” rispose Bella, “colui che crede di non avere spirito.
Gli imbecilli non arriveranno mai a capire questa cosa.”
“Sù,
dunque, mangiate, Bella,” le disse il mostro, “e cercate tutti i mezzi per
non annoiarvi, nella vostra casa: perché tutto quello che vedete qui, è roba
vostra: e io sarei mortificato se non vi sapessi contenta.”
“Voi
avete molta bontà per me,” disse la Bella, “e sono contentissima del vostro
cuore: quando ci penso non mi sembrate nemmeno tanto brutto.”
“Oh!
per questo,” rispose la Bestia, “il cuore è buono: ma io sono un mostro!”
“Conosco
degli uomini che sono più mostri di voi,” disse Bella, “e quanto a me, mi
piacete più voi, con codesta vostra figura, di tant’altri che, sotto
l’aspetto d’uomo, nascondono un cuore falso, corrotto e sconoscente.”
“Se
avessi un po’ di spirito,” disse la Bestia, “farei un complimento per
ringraziarvi: ma io sono uno stupido; e tutto quel che posso dirvi è che vi
sono obbligato.”
La
Bella cenò di buon appetito. Ella non aveva quasi più paura del mostro; ma fu
lì lì per morire di spavento, quando egli le disse: “Bella, volete esser mia
moglie?”.
Ella
stette un po’ di tempo senza rispondere: aveva paura di svegliare la collera
del mostro con un rifiuto; a ogni modo disse con voce tremante:
“No,
Bestia.”
A
questa risposta il povero mostro volle mandar fuori un sospiro e gli venne fatto
un sibilo così spaventoso, che ne rintronò tutto il palazzo. Ma la Bella fu
presto rassicurata, perché la Bestia, dopo averle detto: “Addio, dunque,
Bella,” uscì dalla camera voltandosi indietro tre o quattro volte per poter
ancora vederla.
Quando
la Bella fu sola cominciò a sentire una gran compassione per la povera Bestia,
e diceva: “Che peccato che sia così brutta, mentre sarebbe tanto buona!”
La
Bella, per tre mesi, menò in questo palazzo una vita abbastanza tranquilla.
Tutte le sere la Bestia andava a farle visita, e durante la cena si tratteneva
con lei, facendo mostra di molto buon senso, ma giammai di ciò che si chiama
spirito fra le persone del bel mondo. Ogni giorno che passava, la Bella scopriva
nuovi pregi nel mostro. A furia di vederlo, aveva fatto l’occhio alle sue
bruttezze, e invece di temere il momento della sua visita, ella guardava spesso
l’orologio per vedere quanto mancava alle nove, perché la Bestia a
quell’ora era sempre precisa.
Una
sola cosa metteva di mal umore la Bella; ed era che tutte le sere, prima di
andare a letto, il mostro le domandava se voleva essere sua moglie, e rimaneva
mortificatissimo quand’ella rispondeva di no.
Ella
disse un giorno: “Voi mi fate una gran pena, Bestia; vorrei poter sposarvi, ma
sono troppo sincera per darvi a sperare una cosa che non sarà mai. Io sarò
sempre vostra buon’amica. Contentatevi di questo”.
“Per
forza!” rispose la Bestia. “Io son giusto. Io so che sono orrendo; ma vi
voglio un gran bene. A ogni modo, io mi chiamerò abbastanza fortunato se vi
adatterete a restar qui: promettetemi che non mi lascerete mai.”
La
Bella a queste parole fece il viso rosso. Ella aveva visto nello specchio che
suo padre era malato dal dolore di averla perduta, e desiderava rivederlo. “Io
potrei benissimo promettervi,” diss’ella alla Bestia, “di non lasciarvi più
per sempre; ma mi struggo tanto di rivedere il padre mio, che morirei di
crepacuore se mi rifiutaste questo piacere.”
“Vorrei
piuttosto morire,” disse il mostro, “che darvi un dispiacere; io vi manderò
da vostro padre: voi resterete con lui, e la vostra Bestia morirà di dolore.”
“No,”
rispose la Bella, piangendo, “io vi voglio troppo bene per essere cagione
della vostra morte. Vi prometto di ritornare fra otto giorni. Mi avete fatto
vedere che le mie sorelle sono maritate e che i miei fratelli sono partiti per
l’armata. Il mio povero padre è rimasto solo; lasciatemi almeno una settimana
con lui.”
“Domattina
ci sarete!” disse la Bestia “Ma ricordatevi delle vostre promesse... Quando
vorrete tornare, non dovete far altro che posare il vostro anello sopra la
tavola nell’andare a letto. Addio, Bella.”
La
Bestia, mentre parlava così, sospirò secondo il suo uso solito, e la Bella andò
a letto, tutta dispiacente di avergli dato questo dolore.
Quando
si svegliò la mattina dopo, si trovò in casa di suo padre; e avendo suonato il
campanello accanto al letto, vide venire la serva, la quale cacciò un
grand’urlo di sorpresa. Il buon uomo di suo padre, a quell’urlo, corse
subito: nel rivederla, ci mancò poco non morisse dalla contentezza: e stettero
abbracciati per più di un quarto d’ora.
Sfogate
le prime tenerezze, la Bella pensò che non aveva vestiti per potersi alzare, ma
la serva le disse di aver trovato nella stanza accanto un gran baule pieno di
vestiti, tutti d’oro e ornati di brillanti.
La
Bella ringraziò la buona Bestia delle sue attenzioni: scelse fra quei vestiti
il meno vistoso e ordinò alla serva di riporre gli altri, dei quali intendeva
fare un regalo alle sorelle: ma appena ebbe pronunziate queste parole, il baule
sparì. Peraltro, suo padre avendole detto che la Bestia voleva che ella
serbasse per sé ogni cosa, il baule ritornò al suo posto.
La
Bella si vestì, e in questo mentre furono avvertite le sue sorelle, le quali
corsero subito insieme ai cari mariti. Tutte e due avevano combinato molto male!
La maggiore aveva sposato un gentiluomo, bello come un amore, ma tanto
innamorato di sé, che dalla mattina alla sera non faceva altro che guardarsi
allo specchio, senza curarsi né punto né poco della bellezza della moglie. La
seconda aveva sposato un uomo che aveva molto spirito, ma se ne serviva soltanto
per essere la disperazione di tutte le donne, cominciando da sua moglie.
Le
sorelle di Bella quando la videro vestita come una Regina e bella come un occhio
di sole, se non creparono dalla rabbia, fu un miracolo. Ella ebbe un
bell’accarezzarle: nulla poté ammansire la loro gelosia; la quale anzi si
accrebbe a cento doppi, quando raccontò quanto era felice. Le due invidiose
scesero in giardino per potersi sfogare a piangere, e dicevano:
“O
perché quella ragazzuccia è più fortunata di noi? Non siamo forse più
graziose e più belle di lei?”
“Cara
sorella”, disse la maggiore, “mi viene un’idea: facciamo di tutto per
trattenerla qui per più di otto giorni; la sua stupida Bestia andrà sulle
furie per la parola non mantenuta e forse la divorerà per castigarla.”
“Dici
bene, sorella,” rispose l’altra, “ma perché la cosa riesca, bisogna
cercare di ammaliarla con molte moine.”
Preso
questo partito, risalirono in casa tutt’e due e cominciarono a fare tante e
poi tante gentilezze alla sorella, che questa ne pianse di consolazione. Passati
che furono gli otto giorni, le due sorelle si strapparono i capelli e diedero
tali segni di disperazione per la partenza di lei, che ella finì col promettere
di trattenersi altri otto giorni.
Intanto
la Bella rimproverava a se stessa il dolore che stava per dare alla sua povera
Bestia, che ella amava davvero e che ora era dispiacente di non poter vederla.
La decima notte che ella passò in casa del padre, sognò di trovarsi nel
palazzo e di vedere la Bestia distesa sull’erba, vicina a morire, e che le
rinfacciava la sua ingratitudine.
Bella
si destò tutt’a un tratto e pianse: “Non son io molto cattiva,” ella
diceva, “di dare questo dispiacere a una Bestia, che è stata tanto buona con
me? È colpa sua se è così brutta e se ha poco spirito? Ella è buona; e
questo val più d’ogni cosa. Perché non ho io voluto sposarlo? Io sarei più
felice con lui che le mie sorelle coi loro mariti. Non è la bellezza né lo
spirito di un marito che rendono felice una donna; ma la bontà del carattere,
la virtù e le buone maniere: e la Bestia ha tutte queste belle cose. Io non
sento amore per ella, ma la stimo, e ho per lei amicizia e riconoscenza. Ma non
debbo renderla disgraziata: questa ingratitudine sarebbe per me un rimorso per
tutta la vita.”
Dette
queste parole, la Bella si leva, mette l’anello sulla tavola e ritorna a
letto. Appena coricata si addormentò e, svegliandosi la mattina, vide con gioia
di essere nel palazzo della Bestia.
Si
mise i vestiti più belli per andarle a genio anche di più, e s’annoiò
mortalmente nella smania di aspettare che arrivassero le nove ore di sera; ma
l’orologio ebbe un bel suonare le nove: la Bestia non comparve.
La
Bella allora temé di averle cagionato la morte: e disperata si dette a girare
per tutto il palazzo, mandando altissimi pianti.
Dopo
aver cercato dappertutto, si ricordò del sogno e corse in giardino, vicino al
fiume, dove dormendo l’aveva veduta. E difatti fu lì che trovò la povera
Bestia, distesa per terra priva di sensi: talché la credette morta. Senza
provar ribrezzo di quella brutta figura, si gettò tutta sopra lei, e avendo
sentito che il cuore batteva sempre, prese dal fiume un po’ d’acqua e le
bagnò la testa.
La
Bestia aprì gli occhi e disse alla Bella: “Voi avete dimenticata la vostra
promessa; e il gran dolore di avervi perduta mi ha fatto decidere a lasciarmi
morir di fame: ma ora muoio contenta, perché ho avuto la consolazione di
potervi rivedere.”
“No,
mia cara Bestia, voi non morirete,” le disse la Bella, “voi vivrete per
diventare mio sposo: da questo momento io vi do la mia mano, e giuro che non sarò
d’altri che di voi. Ohimè! io credevo di non aver per voi che
dell’amicizia, ma il dolore che sento mi fa credere che non potrei più vivere
senza vedervi.”
Appena
la Bella ebbe pronunziato queste parole, ecco che tutto il castello appare
risplendente di lumi: i fuochi d’artificio, la musica, ogni cosa annunziava
una gran festa. Ma queste meraviglie non incantarono punto i suoi occhi: ella si
voltò verso la sua cara Bestia, il cui pericolo la teneva in tanta agitazione.
E quale fu il suo stupore! La Bestia era sparita, ed ella non vide ai suoi piedi
che un Principe, bello come un amore, il quale la ringraziava per aver rotto il
suo incantesimo. Sebbene questo Principe meritasse tutte le sue premure, ella
non poté evitare di chiedergli dove fosse la Bestia.
“Eccola
ai vostri piedi!” le disse il Principe. “Una fata maligna mi aveva
condannato a restare sotto quell’aspetto finché una bella fanciulla non
avesse acconsentito a sposarmi, e mi aveva per di più proibito di far mostra di
spirito. Così in tutto il mondo non ci voleva che voi, per lasciarsi innamorare
dalla bontà del mio carattere: ed offrendovi la mia corona, non posso
sdebitarmi del gran bene che mi avete fatto.”
La
Bella, piacevolmente sorpresa, porse la mano al bel Principe perché si
rialzasse in piedi. E andarono insieme al castello, dov’ella ci mancò poco
non si sentisse svenire dalla gioia, trovando nella gran sala il padre suo e
tutta la sua famiglia, trasportata al castello da quella bella Signora che le
era apparsa in sogno.
“Bella,”
le disse questa Signora, che era una fata e di quelle coi fiocchi, “venite a
ricevere la ricompensa della vostra buona scelta: voi avete preferito la virtù
alla bellezza e allo spirito, e meritate per questo di trovare tutte quelle cose
raccolte in una sola persona. Voi state per diventare una gran Regina; ma spero
che il trono non vi farà scordare le vostre virtù... Quanto a voi, mie care
signore,” disse la fata alle due sorelle della Bella, “conosco il vostro
cuore e tutta la cattiveria che c’è dentro: diventerete due statue; ma
nondimeno serberete il lume della ragione, sotto la vostra forma di pietra.
Starete alla porta del palazzo di vostra sorella; e non vi impongo altra pena
che quella di essere testimoni della sua felicità. Non potrete ritornare nello
stato originario, se non quando riconoscerete i vostri errori; ma ho una gran
paura che dobbiate restare statue per sempre. Si può correggere l’orgoglio,
le bizze, la gola, la pigrizia; ma la conversione di un cuore invidioso e
cattivo è una specie di miracolo.”
Nel
dir così, diede un colpo di bacchetta, e tutti quelli che erano in quella sala,
furono trasportati negli Stati del Principe. I suoi sudditi lo rividero con
gioia, ed egli sposò la Bella, che visse con lui lungamente e in una felicità
perfetta.
*
*
(da
Jacob e Wilhelm Grimm, Fiabe scelte e presentate da Italo Calvino.
Traduzione
di Clara Bovero.
Einaudi,
1951, 1970, Torino.)
Davanti
a un gran bosco abitava un povero taglialegna con sua moglie e i suoi due
bambini; il maschietto si chiamava Hänsel, e la bambina, Gretel. Egli aveva
poco da metter sotto i denti, e quando ci fu nel paese una grande carestia, non
poteva neanche più procurarsi il pane tutti i giorni. Una sera, che i pensieri
non gli davano requie, ed egli si voltolava inquieto nel letto, disse sospirando
alla moglie: “Che sarà di noi? Come potremo nutrire i nostri poveri bambini,
che non abbiam più nulla neanche per noi?” “Senti, marito mio,” rispose
la donna, “domattina all’alba li condurremo nel più folto della foresta:
accendiamo loro un fuoco e diamo a ciascuno un pezzetto di pane; poi andiamo al
lavoro e li lasciamo soli: i bambini non ritrovano più la strada per tornar a
casa, e ne siamo sbarazzati.” “No, moglie mia,” disse l’uomo, “questo
non lo faccio: come potrei aver cuore di lasciare i miei figli soli nel bosco!
Le bestie feroci verrebbero subito a sbranarli.” “Pazzo che non sei
altro,” diss’ella, “allora dobbiamo morir di fame tutti e quattro; non ti
resta che piallare le assi per le bare.” E non lo lasciò in pace finché egli
acconsentì. “Ma quei poveri bambini mi fan pietà!” disse l’uomo.
Per
la fame, neppure i due bimbi potevan dormire, e avevano udito quel che la
matrigna diceva al padre. Gretel piangeva amaramente, e disse a Hänsel:
“Adesso per noi è finita.” “Zitta, Gretel,” disse Hänsel, “non
affannarti, ci penserò io.” E quando i vecchi si furono addormentati, si alzò,
si mise la giacchettina, aprì l’uscio da basso e sgattaiolò fuori. Splendeva
chiara la luna, e i sassolini bianchi davanti alla casa rilucevano come monete
nuove di zecca. Hänsel si chinò e ne ficcò nella taschina della giacca quanti
poté farne entrare. Poi tornò dentro e disse a Gretel: “Sta’ di buon
animo, cara sorellina, e dormi pure tranquilla: Dio non ci abbandonerà.” E si
rimise a letto.
Allo
spuntar del giorno, ancor prima che sorgesse il sole, la donna andò a svegliare
i due bambini: “Alzatevi, poltroni, andiamo nel bosco a far legna!” Poi
diede a ciascuno un pezzetto di pane e disse: “Eccovi qualcosa per
mezzogiorno, ma non mangiatelo prima, non avrete nient’altro.” Gretel mise
il pane sotto il grembiule, perché Hänsel aveva in tasca le pietre. Poi
s’incamminarono tutti insieme verso il bosco. Quando ebbero fatto un pezzetto
di strada, Hänsel si fermò e si volse a guardar la casa; così fece più e più
volte. Il padre disse: “Hänsel, cosa stai a guardare, e perché rimani
indietro? Sù, muoviti!” “Ah, babbo,” disse Hänsel, “guardo il mio
gattino bianco, che è sul tetto e vuol dirmi addio.” La donna disse:
“Sciocco, non è il tuo gatto; è il primo sole, che brilla sul comignolo.”
Ma Hänsel non aveva guardato il gattino: aveva buttato ogni volta sulla strada
uno dei sassolini lucidi che aveva in tasca.
Arrivati
in mezzo al bosco, disse il padre: “Adesso raccogliete legna, bambini; voglio
accendere un fuoco, perché non geliate.” Hänsel e Gretel raccolsero rami
secchi e ne fecero un bel mucchietto. I rami furono accesi e quando si levò
alta la fiamma, la donna disse: “Adesso mettetevi accanto al fuoco, bambini, e
riposatevi, noi andiamo a spaccar legna nel bosco. Quando abbiamo finito,
torniamo a prendervi.
Hänsel
e Gretel rimasero accanto al fuoco e a mezzogiorno mangiarono il loro pezzetto
di pane. E udendo colpi d’accetta credevano che il babbo fosse vicino. Ma non
era l’accetta, era un ramo, che egli aveva legato a un albero secco e che il
vento sbatteva di qua e di là. Eran là, seduti da un pezzo, e alla fine i loro
occhi si chiusero per la stanchezza ed essi si addormentarono profondamente.
Quando si svegliarono, era già notte fonda. Gretel si mise a piangere e disse:
“Come faremo a uscire dal bosco!” Ma Hänsel la consolò: “Aspetta
soltanto un poco, finché sorga la luna, poi troveremo bene la strada.” E
quando sorse la luna piena, prese per mano la sua sorellina e seguirono le
pietruzze, che brillavano come monete nuove di zecca e mostravan loro la via.
Camminarono tutta la notte e allo spuntar del giorno arrivarono alla casa
paterna. Bussarono alla porta, e quando la donna aprì e vide che erano Hänsel
e Gretel, disse: “Cattivi, perché avete dormito tanto nel bosco? Credevamo
che non voleste più tornare.” Ma il padre si rallegrò, tanto l’aveva
accorato lasciarli così soli.
Non
passò molto tempo e la miseria tornò ad invadere la casa; una notte i bambini
udirono la matrigna dire al padre, mentre era a letto: “Si è di nuovo
mangiato tutto, c’è ancora una mezza pagnotta, poi è finita. I bambini
devono andarsene; li condurremo più addentro nel bosco, perché non ritrovino
la strada: per noi non c’è altro scampo.” L’uomo si sentì stringere il
cuore e pensò: «Sarebbe meglio che dividessi il tuo ultimo boccone coi tuoi
bambini.» Ma, checché dicesse, la donna non gli dava retta, e lo sgridava e lo
rimproverava. Chi dice A deve dire anche B, e perché aveva ceduto la prima
volta, egli dovette cedere anche la seconda.
Ma
i bambini erano ancora svegli e avevano udito quei discorsi. Quando i vecchi
dormirono, Hänsel si alzò di nuovo, per andare, come l’altra volta, a
raccogliere sassolini; ma la donna aveva chiuso la porta e Hänsel non poté
uscire. Ma consolò la sua sorellina, dicendo: “Non piangere, Gretel, dormi
pure tranquilla: il buon Dio ci aiuterà.”
Sul
far del giorno, la donna fece alzare i bambini dal letto. Ebbero il loro
pezzetto di pane, ma era ancora più piccolo dell’altra volta. Sulla strada
del bosco, Hänsel lo sbriciolò in tasca, e spesso si fermava e buttava una
briciola in terra. “Hänsel, perché ti fermi a guardarti attorno?” disse il
padre, “cammina!” “Guardo il mio piccioncino che è sul tetto e vuol dirmi
addio,” rispose Hänsel. “Sciocco,” disse la donna, “non è il tuo
piccione, è il primo sole che brilla sul comignolo.” Ma Hänsel un po’ per
volta gettò tutte le briciole per via.
La
donna condusse i bambini ancor più addentro nel bosco, dove non eran mai stati
in vita loro. Accesero di nuovo un gran fuoco e la madre disse: “Restate qui,
bambini; se siete stanchi, potete dormire un po’: noi andiamo a tagliar legna
nel bosco, e stasera, quando abbiamo finito, veniamo a prendervi.” A
mezzogiorno Gretel divise il pane con Hänsel, che l’aveva sparso per via. Poi
si addormentarono e passò la sera, ma nessuno venne dai poveri bambini. Si
svegliarono solo a notte fonda, e Hänsel consolò la sorellina, dicendo:
“Aspetta, Gretel, che sorga la luna: allora vedremo le briciole di pane che ho
sparso; ci mostreranno la via di casa.” Quando sorse la luna, si alzarono, ma
non trovarono più neanche una briciola: le avevano beccate i mille e mille
uccellini, che volano per campi e boschi. Hänsel disse a Gretel: “Troveremo
la strada lo stesso.” Ma non la trovarono. Camminarono tutta la notte e ancora
un giorno, da mane a sera, ma non uscirono dal bosco, e avevano tanta fame,
perché avevan solo un po’ di bacche trovate per terra. Eran così stanchi che
le gambe non li reggevano più; si sdraiarono sotto un albero e si
addormentarono.
Era
già la terza mattina, da quando avevan lasciato la casa del padre.
Ricominciarono a camminare, ma si addentravano sempre più nel bosco, e se non
trovavano presto aiuto, sarebbero morti di fame. A mezzogiorno, videro su un
ramo un bell’uccellino bianco come la neve; cantava così bene che si
fermarono ad ascoltarlo. Quand’ebbe finito, aprì le ali e volò davanti a
loro ed essi lo seguirono, finché giunsero ad una piccola casa e l’uccellino
si posò sul tetto. Quando furono ben vicini, videro che la casina era fatta di
pane e coperta di focaccia; ma le finestre erano di zucchero trasparente.
“All’opera!” disse Hänsel, “faremo un ottimo pranzo. Io mangerò un
pezzo di tetto e tu, Gretel, puoi mangiare un pezzettino di finestra: è
dolce.” Hänsel si rizzò, stese la mano in alto, e staccò un pezzo di tetto,
per sentire che gusto aveva; e Gretel s’accostò ai vetri e cominciò a
spilluzzicarli. Allora una voce sottile gridò dall’interno:
“Rodi,
rodi, morsicchia,
la
casina chi rosicchia?”
I
bambini risposero:
“Il
vento, il venticello,
il
celeste bambinello,”
e
continuarono a mangiare, senza lasciarsi confondere. Hänsel, a cui il tetto
piaceva molto, ne staccò un grosso pezzo, e Gretel tirò fuori tutto un vetro
rotondo, sedette in terra e se lo succhiò beatamente. Ma d’un tratto la porta
si aprì e venne fuori pian piano una vecchia decrepita, che si appoggiava a una
gruccia.
Hänsel
e Gretel si spaventarono tanto, che lasciarono cadere quel che avevano in mano.
Ma la vecchia dondolò la testa e disse: “Ah, cari bambini, chi vi ha portato
qui? Entrate e rimanete con me, non vi succederà niente di male.” Li prese
entrambi per mano e li condusse nella sua casetta. Fu loro servita una buona
cena, latte e frittelle, mele e noci; poi furono preparati due bei lettini
bianchi, e Hänsel e Gretel si coricarono e credevano di essere in paradiso.
La
vecchia fingeva di esser benigna, ma era una cattiva strega, che insidiava i
bambini e aveva costruito la casetta di pane soltanto per attirarli. Quando un
bambino cadeva nelle sue mani, l’uccideva, lo cucinava e lo mangiava; e per
lei quello era giorno di festa. Le streghe hanno gli occhi rossi e la vista
corta, ma hanno un fiuto finissimo, come gli animali, e sentono l’avvicinarsi
di creature umane. E quando si avvicinarono Hänsel e Gretel, ella rise
malignamente e disse beffarda: “Sono in mio potere, non mi scappano più.”
Di buon mattino, prima che i bambini fossero svegli, si alzò, e quando li vide
riposare così dolcemente, con le gote rosse e tonde, mormorò fra sé:
“Diventerà un buon boccone.” Afferrò Hänsel con la mano risecchita, lo
portò in una stia e lo rinchiuse dietro un’inferriata; e per quanto egli
gridasse, non gli giovò. Poi essa andò da Gretel, la svegliò con uno scossone
e gridò: “Alzati, poltrona, porta l’acqua e cucina qualcosa di buono per
tuo fratello, che è là nella stia e deve ingrassare. Quando è grasso, voglio
mangiarmelo.” Gretel si mise a piangere amaramente, ma fu tutto inutile,
dovette fare quel che voleva la cattiva strega.
Ora
al povero Hänsel cucinavano i cibi più squisiti, ma Gretel non riceveva che
gusci di gambero. Ogni mattina la vecchia si trascinava fino alla stia e
gridava: “Hänsel, sporgi le dita, ché senta se presto sarai grasso.” Ma
egli le sporgeva un ossicino e la vecchia, che aveva gli occhi torbidi, non
poteva vederlo, credeva fossero le dita di Hänsel e si stupiva che non volesse
proprio ingrassare. Dopo quattro settimane, visto che Hänsel era sempre magro,
perse la pazienza e non volle più aspettare: “Sù, Gretel,” gridò alla
fanciulla,” porta l’acqua, svelta; grasso o magro che sia, domani ammazzerò
Hänsel e lo cucinerò.” Ah, come pianse la povera sorellina, quando dovette
portar l’acqua! E come le scorrevano le lacrime sulle guance! “Buon Dio,
aiutaci!” implorava. “Ci avessero divorato le bestie feroci nel bosco!
Almeno saremmo morti insieme. “Rispàrmiati il piagnisteo,” disse la
vecchia, “non serve a nulla.”
Di
buon mattino Gretel dovette uscire, appendere il paiolo con l’acqua e
accendere il fuoco. “Prima di tutto bisogna cuocere il pane,” disse la
vecchia: “ho già scaldato il forno e impastato.” Spinse fuori la povera
Gretel, fin presso il forno, da cui già svampavano le fiamme. “Càcciati
dentro,” disse la strega, “e guarda se è ben caldo, perché possiamo
infornare il pane.” E mentre Gretel era dentro, avrebbe chiuso il forno per
farla arrostire e mangiarsela anche lei. Ma Gretel capì la sua intenzione e
disse: “Non so come fare: come faccio a entrarci?” “Stupida oca,” disse
la vecchia, “l’apertura è abbastanza grande; guarda, potrei entrarci
anch’io.” Arrancò fin là e sporse la testa nel forno. Allora Gretel, con
un urtone, la spinse dentro, chiuse lo sportello di ferro e tirò il catenaccio.
Uh!, che urla orribili gettò la strega! Ma Gretel corse via e la maledetta
strega dovette miseramente bruciare.
Gretel
corse difilato da Hänsel, aprì la stia e gridò: “Hänsel, siamo liberi, la
vecchia strega è morta!” Allora Hänsel saltò fuori, come un uccello quando
gli aprono la gabbia. Con che gioia si saltarono al collo, si baciarono e fecero
capriole! E siccome non avevan più nulla da temere, entrarono nella casa della
strega, e dappertutto c’erano forzieri pieni di perle e di pietre preziose.
“Sono ancor meglio dei sassolini!” disse Hänsel, e mise in tasca tutto quel
che poté entrarci; e Gretel disse: “Anch’io voglio portarne a casa un
po’.” E si riempì il grembiulino. “Ma adesso andiamo via,” disse Hänsel,
“dobbiamo uscire dal bosco della strega.” Dopo aver camminato un paio
d’ore, giunsero a un gran fiume. “Non possiamo attraversarlo,” disse Hänsel,
“non vedo né ponte né passerella.” “E non c’è neanche una
barchetta,” rispose Gretel, “ma là nuota un’anitra bianca; se la prego,
ci aiuterà a passare.” E gridò:
“Anatrino,
corri!
Hänsel
e Gretel qui soccorri.
Nessun
ponte passa il fiume,
prendici
dunque sulle bianche piume.”
E
l’anatrino si avvicinò; Hänsel gli salì sul dorso e disse alla sorellina di
sederglisi accanto. “No,” rispose Gretel, “sarebbe troppo pesante per
l’anitra; ci trasporterà l’uno dopo l’altro.” Così fece la buona
bestiola; e quando furono felicemente arrivati dall’altra parte, dopo un breve
tratto di strada, il bosco divenne loro sempre più familiare e alla fine
scorsero di lontano la casa del loro babbo. Allora si misero a correre, si
precipitarono nella stanza e si appesero al collo del padre. L’uomo non aveva
più avuto un’ora lieta da quando aveva lasciato i bambini nel bosco, ma la
donna era morta. Gretel rovesciò il suo grembiulino, sicché le perle e le
pietre preziose saltellarono per tutta la stanza, e Hänsel vi aggiunse a
manciate il contenuto della sua tasca. Così finiron tutti i guai e i tre
vissero insieme felici e contenti. La mia fiaba ti ho detto. Laggiù corre un
sorcetto; prendigli il pelliccione e fatti un berrettone.
*
*
di
Rudyard Kipling
(Si pronuncia Rikky-tikky-tar-vi. Le manguste sono intelligenti e ardimentose come ho cercato di descriverle, ed entrano spesso nelle case e perfino negli uffici, con gente che entra ed esce di continuo, e fanno amicizia con gli uomini che vi si trovano. Una mangusta selvatica era solita venire a sedersi sulla mia spalla in ufficio, in India, e scottarsi il nasino curioso alla punta del mio sigaro, proprio come fa Rikki nel racconto. [N.d.A.])
Nella
fossa in cui è penetrato
Occhi
Rossi Occhialuto ha chiamato.
Ascolta
quel che Occhi Rossi dirà:
“Vieni
a danzare con la morte, Nag!”
Sguardo
a sguardo, testa a testa
(Tieni
il passo, Nag).
Sarà
alla fine la tua o la mia festa
(È
il tuo turno, Nag).
Botta
per botta e fìnta per fìnta
(Corri
a nasconderti, Nag).
Ah!
La morte incappucciata è vinta!
(Vai
all’inferno, Nag!)
(Nag
si pronuncia Narg, ed è un nome indigeno del cobra. [N.d.A.])
Questa
è la storia della grande guerra che Rikki-tikki-tavi combattè da solo,
attraverso le stanze da bagno del grande bungalow
nell’accantonamento di Segowlee. Lo aiutò Darzee, l’uccello tessitore, e
Chuchundra, il topo muschiato che non si avventura mai in mezzo alla stanza, ma
striscia lungo i muri, lo consigliò, ma fu Rikki-tikki a combattere veramente.
(Bungalow si pronuncia banghelou. È un tipo di abitazione adottata
dagli Europei residenti in India e largamente diffusa anche negli altri paesi
tropicali. In genere, è a un solo piano, con un’ampia veranda sul davanti per
ripararsi dal sole e godere il fresco nelle ore più ventilate. Darzee, che si
pronuncia Dar-zy, significa sarto. Chuchundra si pronuncia Chew-chun-der.
[N.d.A.].)
Era
una mangusta, simile a un gattino nel pelo e nella coda, ma donnola dalla testa
ai piedi nel muso e nelle abitudini. Gli occhi e la punta del nasino irrequieto
erano rosa; riusciva a grattarsi in qualsiasi punto volesse con una qualsiasi
delle quattro zampe, davanti o dietro; gonfiava la coda fino a farla sembrare
uno scopettino per pulire le bottiglie, e il suo grido di guerra, mentre
sgattaiolava nell’erba alta era: “Rikk-tikk-tikki-tikki-chk!”
Un
giorno una inondazione estiva lo spazzò via dalla tana nella quale viveva con
la madre e il padre, e lo trascinò, scalciante e chiocciante, nel fossato di
fianco a una strada. Trovò un ciuffetto d’erba che galleggiava accanto a lui,
e vi si aggrappò fino a che perse i sensi. Quando rinvenne, giaceva sotto il
sole caldo nel sentiero di un giardino, molto infangato in verità, e un bambino
diceva: “C’è una mangusta morta. Facciamo un funerale”
“No,”
disse la madre, “portiamola dentro e asciughiamola. Forse non è morta sul
serio.”
La
portarono in casa, e un uomo grosso la prese fra l’indice e il pollice e disse
che non era morta, ma mezza soffocata; perciò la avvolsero nell’ovatta e la
riscaldarono davanti al fuoco, e lei aprì gli occhi e starnutì.
“E
adesso,” disse l’uomo grosso (era un inglese che si era appena trasferito
nel bungalow), “non spaventatela, e
vedremo che cosa farà.”
È
la cosa più difficile che ci sia spaventare una mangusta, perché è divorata
dal naso alla coda dalla curiosità. Il motto di tutta la famiglia delle
manguste è: “Corri a esplorare” e Rikki-tikki era una autentica mangusta.
Guardò l’ovatta, decise che non era buona da mangiare, corse intorno al
tavolo, sedette a rassettarsi la pelliccia, si grattò, e saltò sulla spalla
del bambino.
“Non
aver paura, Teddy,” disse il padre. “È il suo modo di fare amicizia.”
“Uh!
Mi fa il solletico sotto il mento!” disse Teddy.
Rikki-tikki
guardò giù per il collo del bambino, gli annusò l’orecchio e scese sul
pavimento, dove sedette a strofinarsi il naso. “Buon Dio!” disse la madre di
Teddy. “E questa sarebbe una creatura selvatica!? Immagino che sia così
domestica perché siamo stati buoni con lei.”
“Tutte
le manguste sono così,” disse il marito. “Se Teddy non la prende per la
coda, o non cerca di metterla in gabbia, correrà dentro e fuori tutto il
giorno. Diamole qualcosa da mangiare.”
Gli
diedero un pezzette di carne cruda. Rikki-tikki la gradì immensamente e, quando
l’ebbe finita, uscì sulla veranda, sedette al sole e si gonfiò la pelliccia
per farla asciugare fino alle radici. E si sentì meglio.
“Ci
sono più cose da scoprire in questa casa,” si disse, “di quante tutta la
mia famiglia potrebbe scoprire nella sua vita intera. È certo che resterò qui
e le scoprirò.”
Passò
tutto il giorno a vagabondare per casa. Rischiò di annegare nelle vasche da
bagno; mise il naso nell’inchiostro sopra una scrivania e se lo scottò sulla
punta del sigaro dell’uomo grosso, perché gli si era arrampicato in grembo
per vedere come scriveva. Quando si fece buio corse nella nursery di Teddy per
vedere come si accendevano le lampade a cherosene, e quando Teddy andò a letto,
anche Rikki-tikki vi si arrampicò; ma era un compagno irrequieto, perché
doveva alzarsi a occuparsi di ogni rumore, e scoprire che cosa lo avesse
prodotto. La madre e il padre di Teddy entrarono a dare uno sguardo al figlio
prima di ritirarsi, e Rikki-tikki stava sveglio sul cuscino. “Non mi piace,”
disse la madre di Teddy. “Potrebbe mordere il bambino.”
“Non
lo farà mai,” disse il padre. “Teddy è più sicuro con quel piccolo
animale che se gli facesse la guardia un segugio. Se in questo momento entrasse
un serpente nella nursery...”
Ma
la madre di Teddy non voleva neppure pensare a un’eventualità così
spaventosa.
Di
buon mattino Rikki-tikki venne a fare colazione presto sulla spalla di Teddy, e
gli diedero banana e uova sode; sedette in grembo a loro, uno dopo l’altro,
perché ogni mangusta bene educata spera di diventare un giorno o l’altro una
mangusta domestica e di avere stanze nelle quali correre; e la madre di
Rikki-tikki (che aveva abitato in casa del generale a Segowlee) aveva insegnato
a Rikki come comportarsi, se si fosse imbattuto in un uomo bianco.
Poi
Rikki-tikki uscì in giardino per vedere che cosa c’era di interessante. Era
un ampio giardino, coltivato solo in parte, con cespugli grandi come una casa
estiva di rose del Maresciallo Niel; alberi di arancio e di cedro, boschetti di
bambù, ed erba alta e folta. Rikki-tikki si leccò le labbra. “È una
splendida riserva di caccia” disse, e la coda gli si gonfiò come uno
scopettino per pulire le bottiglie a questo pensiero, e scorrazzò su e giù per
il giardino, annusando qua e là finché non udì voci molto tristi in un
cespuglio di biancospino. Erano Darzee, l’uccello tessitore, e sua moglie.
Avevano costruito un bel nido mettendo vicine due grandi foglie e cucendone gli
orli con fibre vegetali, e le avevano riempite di cotone e piume. Il nido
oscillava avanti e indietro, mentre loro stavano seduti sul bordo e piangevano.
“Che
cosa c’è?” domandò Rikki-tikki.
“Siamo
molto infelici,” disse Darzee. “Uno dei nostri piccoli è caduto dal nido
ieri e Nag lo ha mangiato.”
“Ehm!”
disse Rikki-tikki.
“È molto
triste... ma io non sono di qui. Chi è Nag?”
Per
tutta risposta Darzee e la moglie si rannicchiarono nel nido, perché
dall’erba folta ai piedi del cespuglio era giunto un sibilo sommesso, un
orribile suono raggelante che fece fare un salto indietro di due piedi buoni a
Rikki-tikki. Quindi pollice a pollice si alzarono dall’erba la testa e il
cappuccio spiegato di Nag, il grosso cobra nero, che era lungo cinque piedi
dalla lingua alla coda. Quando ebbe sollevato da terra un terzo buono del suo
corpo, rimase a dondolarsi avanti e indietro proprio come un ciuffo di denti di
leone si dondola al vento, e guardò Rikki-tikki con i suoi occhi malvagi di
serpente che non cambiano mai espressione, qualsiasi cosa possa pensare il
serpente.
“Chi
è Nag?” disse. “Io sono Nag. Il grande dio Brama ha impresso il proprio
marchio su tutti noi, quando il primo cobra ha spiegato il suo cappuccio per
riparare Brama dal sole mentre dormiva. Guarda, e trema!”
Spiegò
più che mai il cappuccio, e Rikki-tikki vide il segno degli occhiali sul suo
dorso, che sembra proprio l’occhiello di un’allacciatura ad alamari. Per un
attimo ebbe paura; ma è impossibile per una mangusta restare spaventata a
lungo, e sebbene Rikki-tikki non avesse mai visto un cobra vivo prima d’ora,
la madre gli aveva dato da mangiare cobra morti, e sapeva che il compito di ogni
mangusta adulta consiste nel combattere e uccidere i serpenti. Anche Nag lo
sapeva, e in fondo al suo cuore freddo aveva paura.
“Be’,”
disse Rikki-tikki, mentre la sua coda ricominciava a gonfiarsi, “marchio o non
marchio, ti sembra giusto mangiare i piccoli caduti da un nido?”
Nag
rifletteva, e osservava un impercettibile movimento nell’erba alle spalle di
Rikki-tikki. Sapeva che una mangusta in giardino prima o dopo significava morte
per lui e per la sua famiglia; ma voleva cogliere Rikki-tikki di sorpresa. Perciò
abbassò un po’ la testa, e la inclinò da una parte.
“Parliamone,”
disse. “Tu mangi le uova. Perché io non dovrei mangiare gli uccelli?”
“Dietro
a te! Guarda dietro a te!” cantò Darzee.
Rikki-tikki
la sapeva troppo lunga per perdere tempo a guardare. Saltò più in alto che poté,
mentre proprio sotto di lui sfrecciava la testa di Nagaina, la perfida moglie di
Nag. Gli era strisciata alle spalle mentre parlava, per farla finita con lui; e
lui sentì il suo sibilo selvaggio quando mancò il colpo. Ricadde quasi sulla
sua schiena, e se fosse stata una vecchia mangusta avrebbe saputo che quello era
il momento di spezzarle la schiena con un morso; ma aveva paura della terribile
frustata del cobra che contrattacca. Morse, in verità, ma non morse abbastanza
a lungo, e balzò lontano dalla coda sibilante, lasciando Nagaina arrabbiata e
ferita.
“Perfido,
perfido Darzee!” disse Nag, colpendo più alto che poteva verso il nido nel
cespuglio di biancospino;
ma Darzee lo aveva costruito lontano dalla portata dei serpenti, e si limitò a
ondeggiare avanti e indietro.
Rikki-tikki
si sentì diventare gli occhi rossi e caldi (quando gli occhi di una mangusta
diventano rossi, è arrabbiata), e sedette sulla coda e sulle zampe posteriori
come un piccolo canguro, e si guardò attorno, e chiacchierò per la rabbia. Ma
Nag e Nagaina erano scomparsi nell’erba. Quando manca un colpo il serpente non
dice mai nulla né lascia capire che cosa intenda fare in seguito. Rikki-tikki
preferiva non seguirli, perché non era sicuro di riuscire a tener testa a due
serpenti alla volta. Perciò trotterellò sul sentiero di ghiaia vicino a casa,
e sedette a pensare. Era un problema serio per lui. Se leggete i vecchi libri di
storia naturale, scoprirete che quando una mangusta combatte un serpente e viene
morsa, corre a mangiare un’erba che le serve da antidoto. Non è vero. La
vittoria è solo questione di rapidità di sguardo e di piede, il colpo del
serpente contro il salto della mangusta, e poiché nessun occhio riesce a
seguire il movimento della testa di un serpente quando colpisce, questo rende la
cosa di gran lunga più meravigliosa di qualsiasi erba magica. Rikki-tikki
sapeva di essere una giovane mangusta, e gli faceva ancor più piacere pensare
di avere schivato un colpo alle spalle. Gli dava fiducia in se stesso, e quando
Teddy venne di corsa sul sentiero, Rikkitikki era pronto a farsi coccolare. Ma
proprio mentre Teddy si chinava, qualcosa si contorse un poco nella polvere, e
una voce esile disse: “Attenti a voi. Io sono la morte!” Era Karait, il
serpentello che giace per sua scelta sulla terra polverosa, e il cui morso è
pericoloso quanto quello del cobra. Ma è tanto piccolo che nessuno ci bada e
così può nuocere ancora di più alla gente.
(Karait
si pronuncia Car-ait, con l’accento su ait. [N.d.A.])
Gli
occhi di Rikki-tikki si fecero di nuovo rossi, e si avvicinò danzando a Karait
con lo strano movimento ondeggiante, dondolante, che aveva ereditato dalla
propria famiglia. Sembra molto buffo, ma è un portamento così perfettamente
equilibrato, che si può scattare in qualunque dirczione in qualsiasi momento si
voglia; e quando si ha a che fare con i serpenti, questo è un vantaggio. Se
soltanto lo avesse saputo, Rikki-tikki si accingeva a fare una cosa di gran
lunga più pericolosa che combattere con Nag, perché Karait è così piccolo, e
può voltarsi così in fretta, che se Rikki-tikki non lo avesse morso proprio
dietro la testa, avrebbe ricevuto il contraccolpo sugli occhi o sulle labbra. Ma
Rikki non lo sapeva: aveva gli occhi tutti rossi, e si dondolava avanti e
indietro cercando una buona presa. Karait colpì. Rikki saltò di fianco e cercò
di sfuggirgli, ma la piccola perfida testa polverosa sfrecciò a un pelo dalla
sua spalla, e dovette saltare sopra il corpo, e la testa gli stava alle
calcagna.
Teddy
gridò a quelli di casa: “Oh, guardate! La nostra mangusta uccide un
serpente!” e Rikki-tikki sentì strillare la madre di Teddy. Il padre corse
fuori con un bastone, ma quando arrivò, Karait aveva colpito per una volta
troppo lontano, e Rikki-tikki era scattato balzando sulla schiena del serpente,
abbassando la testa fra le zampe anteriori, e mordendo più in sù che poteva,
per poi rotolare via. Il morso aveva paralizzato Karait, e Rikki-tikki si
accingeva a mangiarselo dalla coda, secondo la consuetudine della sua famiglia,
quando si ricordò che un pasto abbondante rende lente le manguste e, se voleva
poter contare su tutta la sua forza e agilità, doveva tenersi leggero. Se ne
andò a fare un bagno di polvere sotto i cespugli del ricino, mentre il padre di
Teddy batteva Karait già morto. “A che serve?” pensò Rikki-tikki. “Ho
sistemato tutto io!”; e la madre di Teddy lo prese in braccio e lo strinse
forte, dicendo fra le lacrime che aveva salvato la vita a Teddy, e il padre di
Teddy disse che era una provvidenza, e Teddy osservava con grandi occhi
spaventati. Tutte quelle moine divertivano Rikki-tikki, che, naturalmente, non
le capiva. La madre di Teddy avrebbe potuto allo stesso modo coccolare Teddy per
avere giocato nella polvere. Rikki se la godeva immensamente.
Quella
sera a cena, mentre passeggiava avanti e indietro sul tavolo in mezzo ai
bicchieri, avrebbe potuto ingozzarsi tre volte tanto di cose buone; ma si ricordò
di Nag e di Nagaina, e sebbene fosse molto piacevole essere coccolato e
accarezzato dalla madre di Teddy, e sedersi sulla spalla di Teddy, di tanto in
tanto gli si arrossavano gli occhi, e se ne usciva nel lungo grido di guerra
“Rikk-tikk-tikki-tikki-chk!”
Teddy
lo portò a letto, e insistette perché Rikki-tikki gli dormisse sotto il mento.
Rikki-tikki era troppo bene educato per mordere o graffiare, ma, non appena
Teddy si addormentò, se ne andò a fare il suo giro di ispezione notturno e nel
buio si scontrò con Chuchundra, il topo muschiato, che strisciava lungo il
muro. Chuchundra è un animaletto pauroso. Piagnucola e pigola tutta la notte,
cercando di decidersi a correre in mezzo alla stanza; ma non ci riesce mai.
“Non
uccidermi!” disse Chuchundra quasi piangendo. “Non uccidermi,
Rikki-tikki!”
“Credi
che un uccisore di serpenti ucciderebbe un topo muschiato?” disse
sprezzantemente Rikki-tikki.
“Chi
uccide i serpenti, viene ucciso dai serpenti...” disse Chuchundra più triste
che mai. “E come posso essere sicuro che Nag non mi prenda per te in una notte
buia?”
“Non
c’è il minimo pericolo,” disse Rikki-tikki, “ma Nag sta in giardino, e so
che tu non vai mai in giardino.”
“Mio
cugino Chua, il topo, mi ha detto...” disse Chuchundra, e si interruppe.
(Chua
si pronuncia Ciua. [N.d.A.])
“Che
cosa ti ha detto?”
“Sss!
Nag è dappertutto, Rikki-tikki. Avresti dovuto parlare con Chua in giardino.”
“Non
l’ho fatto, perciò devi dirmelo tu. Presto, Chuchundra, o ti morderò!”
Chuchundra
si sedette a piangere fino a che le lacrime gli scivolarono giù dai baffi.
“Sono un poveraccio” singhiozzò. “Non ho mai avuto il coraggio di correre
in mezzo alla stanza. Sss! Non c’è bisogno che ti dica nulla. Non senti,
Rikki-tikki?”
Rikki-tikki
tese l’orecchio. La casa era silenziosa quanto più non avrebbe potuto
esserlo, ma gli parve di avvertire un impercettibilissimo gratta-gratta: un
rumore fievole come quello di una vespa che cammini sul vetro di una finestra;
il rumore secco delle scaglie di un serpente sui mattoni.
“Questo
è Nag, o Nagaina,” si disse, “e sale dallo scarico del bagno. Hai ragione,
Chuchundra; avrei dovuto parlare con Chua.”
Penetrò
nella stanza da bagno di Teddy, ma lì non c’era nessuno, e poi nella stanza
da bagno della madre di Teddy. Ai piedi del liscio muro di stucco un mattone era
stato tolto per consentire lo scarico all’acqua del bagno, e mentre si
infilava nella nicchia di mattoni dove stava il bagno, Rikki-tikki sentì Nag e
Nagaina sussurrare fuori al chiaro di luna.
“Quando
non ci sarà più nessuno in casa,” diceva Nagaina al marito, “lui dovrà
andarsene, e il giardino sarà di nuovo nostro. Entra senza far rumore, e
ricordati che l’uomo grosso che ha ucciso Karait è il primo da mordere. Poi
vieni a dirmelo, e daremo insieme la caccia a Rikki-tikki.”
“Ma
sei sicura che ci sia qualcosa da guadagnare a uccidere gli esseri umani?”
disse Nag.
“Tutto.
Quando il bungalow era disabitato,
c’erano forse manguste in giardino? Finché il bungalow resterà vuoto, saremo il re e la regina del giardino; e
ricordati che non appena si schiuderanno le nostre uova nell’aiuola di meloni
(il che potrebbe accadere anche domani), i nostri figli avranno bisogno di
spazio e di tranquillità.”
“Non
ci avevo pensato...” disse Nag. “Andrò, ma non c’è bisogno che diamo la
caccia a Rikki-tikki dopo. Ucciderò l’uomo grosso e la moglie, e il figlio se
ci riesco, e uscirò silenziosamente. Allora il bungalow
sarà disabitato e Rikki-tikki se ne andrà.”
Rikki-tikki
fremette dalla testa ai piedi per la rabbia e l’odio a sentire questo, poi la
testa di Nag apparve attraverso lo scarico, seguita dai suoi cinque piedi di
corpo. Per quanto fosse arrabbiato, Rikki-tikki si spaventò molto alla vista
delle dimensioni del grosso cobra. Nag si avvolse in spire, alzò la testa e
guardò nella stanza da bagno buia, e Rikki gli vide scintillare gli occhi.
“Se
lo uccido qui, Nagaina lo saprà; e se lo attacco in campo aperto sul pavimento,
le possibilità di vincere sono a suo favore. Che cosa devo fare?” disse
Rikki-tikki-tavi.
Nag
si dondolava avanti e indietro, poi Rikki-tikki lo sentì bere nella grande
brocca d’acqua che veniva usata per riempire il bagno. “È buona,” disse
il serpente. “Vediamo: quando Karait è stato ucciso, l’uomo grosso aveva un
bastone. Può darsi che lo abbia ancora, ma non lo porterà con sé quando verrà
a fare il bagno domattina. Aspetterò che venga. Nagaina, mi senti? Aspetterò
qui al fresco fino a quando si farà giorno.”
Da
fuori non giunse alcuna risposta, così Rikki-tikki comprese che Nagaina se
n’era andata. Nag si avvolse, spira dopo spira, intorno alla convessità in
fondo alla grande brocca, mentre Rikki-tikki stava fermo come la morte. Dopo
un’ora incominciò a muoversi, un muscolo dopo l’altro, verso la brocca. Nag
dormiva, e Rikki-tikki guardava la sua grossa schiena, chiedendosi quale sarebbe
stato il punto migliore per una buona presa. “Se non gli spezzo la schiena al
primo balzo,” disse Rikki-tikki, “sarà ancora in grado di combattere; e se
si batte, addio Rikki!” Osservò lo spessore del collo sotto il cappuccio, ma
sarebbe stato troppo per lui; e un morso vicino alla coda sarebbe servito solo a
farlo inferocire.
“Dovrà
essere la testa,” disse alla fine, “la testa sopra il cappuccio; e quando ci
sarò arrivato non dovrò mollare.”
Allora
saltò. La testa sporgeva un po’ dalla brocca, sotto la curva; e quando vi
ebbe piantato i denti, Rikki fece leva contro la sporgenza della brocca di
terracotta rossa per tenergli giù la testa. Questo gli diede solo un secondo di
vantaggio, e ne approfittò al massimo. Poi venne sbattuto avanti e indietro
come un topo fra le mascelle di un cane: avanti e indietro sul pavimento, su e
giù, tutt’intorno in grandi cerchi, ma i suoi occhi erano rossi e lui non
mollava mentre il corpo dava frustate su tutto il pavimento, rovesciando il
mestolo di stagno e il portasapone e la spazzola da bagno, e sbatteva contro il
fianco di stagno della vasca. Tenendo duro stringeva sempre più forte le
mascelle, perché dava per certo di venire sbattuto a morte e, per l’onore
della famiglia, preferiva essere trovato con i denti stretti. La testa gli
girava, era tutto indolenzito e si sentiva in mille pezzi, quando qualcosa
esplose come un tuono proprio dietro a lui; un vento caldo gli fece perdere i
sensi e il fuoco rosso gli bruciacchiò la pelliccia. Il chiasso aveva svegliato
l’uomo grosso, che aveva scaricato su Nag entrambi i caricatori di un fucile
da caccia proprio dietro il cappuccio.
Rikki-tikki
teneva duro con gli occhi chiusi, perché ormai era assolutamente certo di
essere morto; ma la testa non si mosse, e l’uomo grosso lo raccolse e disse:
“È di nuovo la mangusta, Alice: adesso quel piccoletto ha salvato le nostre
vite...” Poi entrò la madre di Teddy, con la faccia molto pallida, e vide
quel che restava di Nag, e Rikki-tikki si trascinò nella camera da letto di
Teddy e passò il resto della notte a stirarsi cautamente per scoprire se era
davvero rotto in quaranta pezzi, come gli sembrava.
Quando
arrivò il mattino era tutto irrigidito, ma compiaciuto delle sue imprese
notturne. “Adesso mi resta da sistemare Nagaina, e sarà peggio di cinque Nag,
e non si può sapere quando si schiuderanno le uova di cui parlava. Bontà
divina! Devo andare a parlare con Darzee!” disse.
Senza
aspettare la colazione, Rikki-tikki corse al cespuglio di biancospino, dove
Darzee cantava un canto di trionfo a gola spiegata. La notizia della morte di
Nag si era diffusa in tutto il giardino, perché lo scopino aveva gettato il
corpo sul mucchio delle immondizie.
“Oh,
stupido ciuffo di penne!” disse rabbiosamente Rikki-tikki. “Ti sembra il
momento di cantare?”
“Nag
è morto è morto è morto!” cantò Darzee. “Il valoroso Rikki-tikki lo ha
afferrato per la testa e ha tenuto duro. L’uomo grosso ha portato il bastone
che spara, e Nag si è spezzato in due! Non mangerà mai più i miei piccoli.”
“Tutto
ciò è abbastanza vero; ma dov’è Nagaina?” disse Rikki-tikki, guardandosi
cautamente attorno.
“Nagaina
è andata allo scarico della stanza da bagno e ha chiamato Nag,” proseguì
Darzee, “e Nag è uscito sulla punta di un bastone, lo spazzino lo ha raccolto
con la punta di un bastone e lo ha gettato sul mucchio della spazzatura.
Cantiamo il grande Rikki-tikki, Rikki-tikki dagli occhi rossi!” e Darzee si
riempì i polmoni e cantò.
“Se
riuscissi a salire fino al tuo nido, butterei fuori i tuoi piccoli!” disse
Rikki-tikki. “Non sai fare la cosa giusta al momento giusto. Sei abbastanza al
sicuro nel tuo nido, ma quaggiù per me è la guerra. Smettila di cantare per un
minuto, Darzee.”
“Per
amore del grande, del bel Rikki-tikki, smetterò” disse Darzee. “Che cosa
c’è, o uccisore del terribile Nag?”
“Per
la terza volta, dov’è Nagaina?”
“Sul
mucchio di immondizie accanto alle scuderie, a piangere Nag. Grande è
Rikki-tikki dai denti bianchi!”
“All’inferno
i miei denti bianchi! Hai mai sentito dire dove tiene le uova?”
“Nell’aiuola
di meloni, nella parte più vicina al muro, dove il sole batte quasi tutto il
giorno. Le ha nascoste lì alcune settimane or sono.”
“E
non hai mai pensato che valesse la pena di dirmelo? La parte più vicina al
muro, hai detto?”
“Non
vorrai mangiare le sue uova, Rikki-tikki?”
“Non
esattamente mangiarle; no. Se hai un briciolo di buonsenso, Darzee, vola alle
scuderie e fìngi di esserti spezzato un’ala, e fatti inseguire da Nagaina
fino a questo cespuglio. Devo raggiungere l’aiuola di meloni, e se ci andassi
adesso mi vedrebbe.”
Darzee
era un uccellino dal cervello di gallina che non riusciva mai a contenere più
di un’idea alla volta; e solo perché sapeva che i figli di Nagaina nascevano
da un uovo come i suoi, sulle prime non gli sembrava leale ucciderli. Ma la
moglie era un uccello di buonsenso, e sapeva che le uova di cobra significano
presto o tardi giovani cobra; perciò volò giù dal nido, lasciando Darzee a
tenere caldi i piccoli e a continuare il canto sulla morte di Nag. Darzee
assomigliava molto a un uomo, sotto certi aspetti.
Sbattè
le ali davanti a Nagaina accanto al mucchio della spazzatura, e gridò: “Oh,
mi si è spezzata un’ala! Il ragazzo mi ha tirato un sasso e l’ha
spezzata!” E sbattè le ali più disperatamente che mai.
Nagaina
alzò la testa e sibilò: “Hai avvertito Rikki-tikki quando avrei potuto
ucciderlo. In verità e in tutta sincerità, hai scelto un brutto posto per
venire a zoppicare!” E si mosse verso la moglie di Darzee, scivolando nella
polvere.
“Me
l’ha rotta il ragazzo con un sasso!” strillò la moglie di Darzee.
“Ebbene!
Potrà esserti di consolazione sapere che, quando sarai morta, farò i conti con
il ragazzo. Questa mattina mio marito giace sul mucchio della spazzatura, ma
prima di sera il ragazzo giacerà altrettanto immobile. A che serve scappare?
Sono sicura di prenderti. Piccola sciocca, guardami!”
La
moglie di Darzee la sapeva troppo lunga per fare una cosa del genere, perché se
un uccello guarda un serpente negli occhi, si spaventa tanto da non riuscire più
a muoversi. La moglie di Darzee sbatteva le ali, pigolando tristemente, senza
mai sollevarsi da terra, e Nagaina affrettò il passo.
Rikki-tikki
le sentì risalire il sentiero delle scuderie, e corse come un fulmine verso la
parte dell’aiuola di meloni più vicina al muro. Lì, nella paglia calda
intorno ai meloni, nascoste molto abilmente, trovò venticinque uova, delle
dimensioni circa di un uovo di gallina nana, ma ricoperte da una pelle
bianchiccia invece che da un guscio.
“Non
c’era un giorno da perdere,” disse; perché vedeva i piccoli cobra
arrotolati dentro la pelle, e sapeva che non appena fossero nati, ognuno di loro
sarebbe stato in grado di uccidere un uomo o una mangusta. Morse la cima delle
uova più in fretta che poteva, avendo cura di schiacciare i giovani cobra,
rivoltando di tanto in tanto la paglia per assicurarsi di non averne dimenticato
nessuno. Alla fine c’erano rimaste solo tre uova, e Rikki-tikki incominciava a
ridacchiare compiaciuto, quando sentì la moglie di Darzee gridare:
“Rikki-tikki,
ho portato Nagaina verso la casa, e lei è salita sulla veranda, e... oh, corri!
Ha intenzione di uccidere!”
Rikki-tikki
schiacciò due uova e si precipitò con il terzo uovo in bocca, correndo sulla
veranda con le ali ai piedi. C’erano Teddy, il padre e la madre che facevano
colazione; ma Rikki-tikki si avvide che non toccavano cibo. Sedevano immobili
come statue, ed erano molto pallidi. Nagaina era arrotolata sulla stuoia accanto
alla sedia di Teddy, a portata della gamba nuda di Teddy, e si dondolava avanti
e indietro cantando una canzone di trionfo.
“Figlio
dell’uomo grosso che ha ucciso Nag,” sibilò, “stai fermo. Non sono ancora
pronta. Aspetta un po’. State molto fermi, tutti e tre! Se vi muovete colpirò,
e se non vi muovete colpirò. O, uomini sciocchi, che avete ucciso il mio
Nag!”
Gli
occhi di Teddy erano fissi sul padre, e tutto quello che il padre poteva fare
era di sussurrare: “Stai fermo, Teddy. Non devi muoverti. Stai fermo, Teddy.”
Poi
arrivò Rikki-tikki e gridò: “Voltati, Nagaina, voltati e combatti!”
“Tutto
a tempo debito...” disse lei, senza spostare lo sguardo. “Presto farò i
conti anche con te. Guarda i tuoi amici, Rikki-tikki. Sono pallidi e immobili.
Hanno paura. Non osano muoversi, e se ti avvicini di un passo colpirò.”
“Guarda
le tue uova,” disse Rikki-tikki, “nell’aiuola di meloni vicino al muro.
Vai a guardare, Nagaina!”
Il
grosso serpente si voltò a metà, e vide l’uovo sulla veranda. “Ah!
Dammelo!” disse.
Rikki-tikki
mise le zampe ai lati dell’uovo, e aveva gli occhi iniettati di sangue:
“Quanto vale un uovo di serpente? Un giovane cobra? Un giovane cobra reale?
L’ultimo, l’ultimissimo della tua stirpe? Le formiche mangiano tutti gli
altri presso l’aiuola di meloni.”
Nagaina
fece un voltafaccia repentino, dimenticando tutto per amore di un solo uovo; e
Rikki-tikki vide il padre di Teddy sporgere una grossa mano, prendere Teddy per
la spalla, e trascinarlo sopra il tavolino con le tazze da tè, fuori della
portata di Nagaina.
“Giocata!
Giocata! Giocata! Rikk-chk-chk!” ridacchiò Rikki-tikki. “Il ragazzo è
salvo, e sono stato io, io!, a prendere Nag per il cappuccio la notte scorsa
nella stanza da bagno.” Poi incominciò a saltare su e giù, con tutte e
quattro le zampe, la testa vicina al pavimento. “Mi ha lanciato a destra e a
sinistra, ma non è riuscito a liberarsi di me. Era morto prima che l’uomo
grosso lo spezzasse in due. Sono stato io! Rikk-tikk-chk-chk!
Vieni dunque, Nagaina. Vieni a
batterti con me. Non resterai vedova a lungo.” Nagaina si avvide di aver perso l’occasione di uccidere Teddy, e l’uovo stava fra le zampe di Rikki-tikki. “Dammi l’uovo, Rikki-tikki. Dammi l’ultimo uovo, e me ne andrò per non tornare mai più...” disse, abbassando il cappuccio.
“Sì,
te ne andrai, e non tornerai mai più; perché te ne andrai sul mucchio della
spazzatura con Nag. Combatti, vedova! L’uomo grosso è andato a prendere il
fucile! Combatti!”
Rikki-tikki
saltava intorno a Nagaina, tenendosi appena fuori della sua portata, con gli
occhietti come tizzoni ardenti.
Nagaina
si raccolse su se stessa e si slanciò contro di lui. Rikki-tikki saltava avanti
e indietro. Nagaina colpì ripetutamente, e ogni volta la sua testa sbatteva
sulla stuoia della veranda e lei si raccoglieva su se stessa come una molla di
orologio. Poi Rikki-tikki danzò in cerchio per spostarsi dietro a lei, e
Nagaina prillò su se stessa per restare testa a testa con lui, così che il
fruscio della sua coda sulla stuoia assomigliava al rumore delle foglie secche
trasportate dal vento.
Rikki-tikki
aveva dimenticato l’uovo. Stava ancora sulla veranda, e Nagaina gli si
avvicinava sempre più, finché, alla fine, mentre Rikki-tikki riprendeva fiato,
lo prese in bocca, si voltò verso gli scalini della veranda e sfrecciò sul
sentiero, con Rikki-tikki dietro. Quando un cobra corre per salvarsi la vita, è
più rapido di una frusta schioccata sul collo di un cavallo.
Rikki-tikki
sapeva di doverla prendere, o sarebbe ricominciato tutto da capo. Lei si diresse
all’erba alta presso il cespuglio di biancospino, e mentre correva Rikki-tikki
sentì Darzee cantare ancora il suo stupido canto trionfale. Ma la moglie di
Darzee era più saggia. Volò via dal nido all’avvicinarsi di Nagaina, e sbattè
le ali intorno alla sua testa. Se Darzee l’avesse aiutata, avrebbero potuto
farla voltare; ma Nagaina si limitò ad abbassare il cappuccio e proseguì.
Tuttavia, quell’istante di ritardo permise a Rikki-tikki di raggiungerla, e
mentre si tuffava nella tana dove abitavano lei e Nag, i piccoli denti bianchi
affondarono nella sua coda ed entrò con lei; e ben poche manguste, per quanto
vecchie ed esperte, seguono volentieri un cobra nella sua tana. Era buia, e
Rikki-tikki non sapeva quando si sarebbe allargata tanto da permettere a Nagaina
di voltarsi a colpirlo. Restava selvaggiamente aggrappato, e teneva le zampe in
fuori per frenare la discesa nella terra umida e calda. Poi l’erba
all’ingresso della tana smise di ondeggiare, e Darzee disse: “È finita per
Rikki-tikki! Dobbiamo intonare il suo canto funebre. Il valoroso Rikki-tikki è
morto! Perché certamente Nagaina lo ucciderà sotto terra.”
Così
cantò un canto molto funereo che compose sul momento e, proprio quando stava
per arrivare alla parte più commovente, l’erba fremette e Rikki-tikki,
coperto di fango, si trascinò fuori della tana, una zampa alla volta,
leccandosi i baffi. Darzee si interruppe con un piccolo grido. Rikki-tikki si
scosse di dosso un po’ di polvere e starnuti. “È tutto finito,” disse.
“La vedova non uscirà mai più.” E le formiche rosse, che vivono in mezzo
agli steli d’erba, lo udirono e incominciarono a marciare una dietro l’altra
nella tana per vedere se aveva detto la verità.
Rikki-tikki
si raggomitolò nell’erba e si addormentò dove si trovava; dormì e dormì
fino a pomeriggio inoltrato, perché aveva avuto una dura giornata di lavoro.
“Adesso,”
disse quando si svegliò, “tornerò in casa. Dillo all’uccello calderaio,
Darzee, e lui dirà a tutto il giardino che Nagaina è morta.”
L’uccello
calderaio, o barbuto, è un uccello che fa un rumore esattamente simile a quello
di un piccolo martello su una pentola di rame; e il motivo per cui lo fa è che
è il banditore di ogni giardino indiano, e comunica tutte le notizie a chiunque
voglia sentirle. Mentre risaliva il sentiero, Rikki-tikki udì le sue note di
"attenti" come un minuscolo gong; e poi il fermo “Din don dan! Nag
è morto! Don! Nagaina è morta! Din don dan!” Questo fece cantare tutti gli
uccelli del giardino e gracidare tutte le rane; perché Nag e Nagaina mangiavano
tanto le rane quanto i piccoli uccelli.
Quando
Rikki arrivò a casa, Teddy, la madre di Teddy (ancora molto pallida, perché
era svenuta) e il padre di Teddy uscirono fuori e quasi piansero su di lui; e
quella sera mangiò tutto quello che gli davano, fino a non poterne più, e andò
a letto sulla spalla di Teddy, dove lo ritrovò la madre di Teddy quando andò a
controllare a tarda notte.
“Ha
salvato le nostre vite e la vita di Teddy,” disse al marito. “Pensa, ha
salvato la vita a tutti noi.”
Rikki-tikki
si svegliò di soprassalto, perché le manguste hanno il sonno leggero.
“Oh,
siete voi...” disse. “Di che vi preoccupate? Tutti i cobra sono morti, e se
ne venissero altri, ci sono qua io.”
Rikki-tikki
aveva il diritto di essere fiero di sé; ma non si inorgoglì troppo, e tenne
quel giardino come deve tenerlo una mangusta, a morsi e a salti, finché nessun
cobra osò mai più mettere il capo dentro le mura.
*
*
(1916)
di
Franz Kafka (Praga, 1883-1924)
1.
Gregorio
Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo
letto, in un enorme insetto immondo. Giaceva sulla schiena, dura come una
corazza e, sollevando un po’ la testa, vide un addome arcuato, scuro,
attraversato da numerose nervature. La coperta, in equilibrio sulla sua punta,
minacciava di cadere da un momento all’altro; mentre le numerose zampe,
pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavano confusamente
davanti agli occhi.
“Che
mi è successo?” pensò. Non era un sogno. La sua camera, una vera camera per
esseri umani, anche se un po’ piccola, stava ben ferma e tranquilla tra le sue
quattro note pareti. Sopra il tavolo, su cui era sparso un campionario di
tessuti - Samsa era commesso viaggiatore - era appesa un’immagine ritagliata,
non molto tempo prima, da una rivista illustrata e collocata in una graziosa
cornice dorata. Raffigurava una donna che, in boa e berretto di pelle, sedeva
ben dritta con il busto, alzando verso l’osservatore un pesante manicotto di
pelliccia in cui scompariva tutto l’avambraccio.
Lo
sguardo di Gregorio passò allora alla finestra e il cielo coperto - si
sentivano gocce di pioggia picchiettare sulla lamiera del davanzale - finì
d’immalinconirlo. “Se dormissi ancora un po’, e dimenticassi tutte queste
stupidaggini?” pensò; ma la cosa era impossibile, perché, abituato a dormire
sul fianco destro, e nello stato in cui si trovava, non era in grado di assumere
quella posizione. Per quanta forza impiegasse nel cercare di buttarsi sulla
destra, ricadeva sempre sul dorso. Provò cento volte, chiuse gli occhi per non
vedere le sue zampine annaspanti e smise solo quando cominciò a sentire sul
fianco un dolore leggero, sordo, mai provato prima.
“Dio
mio!” pensò, “che professione faticosa mi sono scelta! Tutti i santi giorni
in viaggio. Le preoccupazioni sono maggiori di quando lavoravamo in proprio, in
più c’è il tormento del viaggiare: l’affanno delle coincidenze, i pasti
irregolari, cattivi, i rapporti con gli uomini sempre mutevoli, instabili, che
non arrivano mai a diventare duraturi, cordiali. Vada tutto al diavolo!” Sentì
un lieve prurito sul ventre; restando supino si tirò adagio verso il capezzale,
per poter alzare meglio la testa, e trovò il punto che prudeva coperto da
macchioline bianche che lo lasciarono perplesso; provò a sfiorare il punto con
una zampa, ma la ritirò subito, perché il contatto gli provocò un brivido.
Scivolò di nuovo nella posizione di prima. “Queste alzatacce”, pensò,
“finiscono col rimbecillire. L’uomo deve avere il suo sonno. Certi colleghi
vivono come le donne di un harem. Se una mattina mi succede, per esempio, di
rientrare in albergo per trascrivere le commissioni ricevute, quei signori si
sono appena seduti per la prima colazione. Ci provassi io, col mio principale:
che volo farei! D’altra parte, chi sa se non sarebbe una fortuna. Non fosse
per i genitori, mi sarei licenziato da un pezzo, sarei andato dal principale e
gli avrei detto quello che penso, dalla a alla zeta! Sarebbe dovuto cadere dallo
scrittoio! Che strano modo, poi, di sedere sullo scrittoio e parlare da lì agli
impiegati, specie se si considera che, sordo com’è, quelli devono andargli
proprio sotto il naso. Ma non è detta l’ultima parola: appena avrò messo da
parte tanto denaro da pagargli il debito dei miei genitori, - forse occorrono
ancora cinque o sei anni, - lo farò senz’altro. Allora ci sarà il grande
distacco. Ma intanto mi devo alzare, il treno parte alle cinque”.
Diede
un’occhiata alla sveglia, che ticchettava sul cassettone. “Dio del cielo!”
pensò. Erano le sei e mezzo, e le lancette proseguivano tranquillamente il loro
cammino, anzi la mezza era già passata, erano ormai i tre quarti. Che la
sveglia non avesse suonato? Dal letto si vedeva che era stata messa regolarmente
sulle quattro; aveva senza dubbio suonato: possibile che avesse continuato a
dormire con quel suono che scuoteva i mobili? Non aveva avuto un sonno
tranquillo, ma forse per questo aveva dormito più pesantemente. Che avrebbe
fatto? Il treno successivo partiva alle sette; per riuscire a prenderlo, avrebbe
dovuto correre come un matto, e il campionario non era ancora pronto, mentre
lui, poi, non si sentiva troppo fresco e in forze. E anche se fosse riuscito a
prendere il treno, un rimprovero del principale era ormai inevitabile: il
fattorino lo aveva aspettato al treno delle cinque e da un pezzo doveva aver
riferito sulla sua assenza. Era una creatura del principale, senza volontà né
cervello. E se si fosse dato malato? Sarebbe stato molto penoso e sospetto,
perché in cinque anni di servizio non era ancora stato malato nemmeno una
volta. Il principale sarebbe venuto con il medico della mutua, avrebbe
rimproverato ai genitori la pigrizia del figlio e tagliato corto a tutte le
obiezioni, rimettendosi al medico, per il quale, come si sa, esistono solo
individui sanissimi, ma poltroni. E nel suo caso avrebbe poi avuto tutti i
torti? Non fosse stato per una certa sonnolenza, inspiegabile dopo un riposo così
lungo, Gregorio si sentiva proprio bene, provava perfino un ottimo appetito. Mentre pensava rapidamente a tutto questo, senza poter decidersi a lasciare il letto, la sveglia suonò le sei e tre quarti. Nello stesso tempo, qualcuno picchiò con cautela alla porta vicino al capezzale. “Gregorio!” chiamava una voce, quella della mamma. “Sono le sei e tre quarti. Non volevi partire?”
La
voce soave! Gregorio si spaventò quando sentì la propria risposta. La voce,
senza dubbio, era la sua di prima: ma ad essa si mischiava un pigolio lamentoso,
incontenibile, che lasciava capire le parole solo in un primo momento, ma subito
ne alterava i suoni a un punto tale, da far dubitare di aver inteso bene.
Gregorio
avrebbe voluto dare una lunga risposta e spiegare tutto, ma, in quelle
condizioni, si limitò a dire: “Sì, sì, grazie, mamma, sto già
alzandomi”. Attraverso la porta, la voce non dovette sembrare diversa dal
solito, perché la mamma fu tranquillizzata dalla spiegazione e si allontanò
ciabattando. Ma quel breve dialogo aveva rivelato anche agli altri membri della
famiglia che Gregorio, fatto insolito, era ancora in casa. Infatti ecco il padre
picchiare piano, ma col pugno, a una delle porte laterali.
“Gregorio,
Gregorio!” gridò. “Che c’è?”. E dopo un po’ ripeté ancora, con voce
più bassa: “Gregorio, Gregorio!”. Attraverso l’altra porta laterale, la
sorella chiese piano: “Gregorio, non ti senti bene? Hai bisogno di qualche
cosa?”. Gregorio rispose a entrambi: “Sono già pronto!” sforzandosi di
rendere la sua voce normale con un’attenta pronuncia e lunghe pause tra una
parola e l’altra. Il padre tornò alla sua colazione, ma la sorella sussurrò:
“Gregorio, apri, ti scongiuro!”. Ma Gregorio non ci pensò nemmeno, ad
aprire, e si rallegrò anzi dell’abitudine, presa durante i suoi viaggi, di
chiudersi, la notte, in camera, anche a casa.
Voleva
alzarsi tranquillo e indisturbato, vestirsi, soprattutto fare colazione, e poi
pensare al resto, perché si rendeva conto che, se fosse rimasto a meditare a
letto, non sarebbe mai arrivato a una conclusione ragionevole. Si ricordò che
altre volte aveva sentito, a letto, un leggero dolore, forse provocato da una
posizione scomoda, che poi, appena alzato, si era rivelato frutto
d’immaginazione; e ora era curioso di vedere come le fantasie della mattinata
si sarebbero a poco a poco dileguate. Era convinto che il cambiamento di voce
fosse soltanto il preavviso di un forte raffreddore, malattia professionale dei
commessi viaggiatori. Buttare via la coperta fu una cosa da nulla: gli bastò
gonfiarsi un poco e quella cadde da sola. Ma dopo cominciarono le difficoltà,
specialmente perché era così grosso. Avrebbe avuto bisogno di braccia e di
mani, per alzarsi; invece aveva soltanto tutte quelle zampine in perpetuo
movimento, che non riusciva a dominare. Se provava a piegarne una, gli capitava,
al contrario, di allungarla; quando riusciva infine a fare con essa ciò che
voleva, le altre, quasi fossero senza controllo, si muovevano con un’altissima
e dolorosa intensità. “Via, via, inutile restare a letto!” si disse
Gregorio.
Dapprima
cercò di uscire dal letto con la parte inferiore del corpo, ma questa parte,
che non aveva ancora visto e che non poteva immaginare bene, era troppo
difficile da muovere. Esasperato per la lentezza dell’operazione, raccolse
tutte le sue forze e si slanciò in avanti, ma, avendo calcolato male la
distanza, picchiò contro il fondo del letto. Un dolore cocente gli insegnò che
la parte inferiore del suo corpo era, per il momento, la più sensibile. Cercò
allora di portare fuori prima il tronco, e girò prudentemente la testa verso
l’orlo del letto. Questa manovra riuscì e la massa del corpo, nonostante la
mole e il peso, accompagnò lentamente il movimento della testa. Quando però la
sporse fuori dal letto, ebbe paura a spingersi ancora avanti: se fosse caduto
così, infatti, si sarebbe fracassato la testa, a meno di un miracolo. In quel
momento, non voleva proprio perdere il controllo di sé; preferiva piuttosto
restare a letto. Ma quando, dopo altrettanta fatica, si ritrovò ansimante nella
posizione di partenza e vide le zampine agitarsi le une contro le altre in modo,
se possibile, ancora più rabbioso, di fronte all’impossibilità di mettere
ordine e calma in quella confusione, si disse ancora una volta che non poteva
assolutamente restare a letto e che la cosa più ragionevole era quella di
sacrificare ogni cosa alla speranza, sia pure minima, di alzarsi. Nello stesso
tempo, si disse che una calma, tranquilla riflessione era meglio di una
decisione disperata. In quei momenti, di solito, gli capitava di fissare la
finestra, ma questa volta la foschia mattutina, che nascondeva perfino le case
all’altro lato della stretta strada, poté ben poco sul suo umore. “Già le
sette”, si disse a un nuovo segnale della sveglia, “già le sette e ancora
una nebbia così”. Per un po’ rimase immobile, respirando appena, come se
aspettasse dall’immobilità assoluta il ritorno alla vita normale.
Ma
poi si disse: “Prima delle sette e un quarto, devo aver lasciato il letto ad
ogni costo. Nel frattempo, sarà di certo venuto qualcuno della ditta a chiedere
notizie, perché aprono prima delle sette. Si accinse a buttarsi fuori del letto
di un colpo solo, con tutto il corpo. Se si lasciava cadere in questo modo, la
testa, che nella caduta avrebbe cercato di tenere sollevata, sarebbe rimasta
illesa. La schiena sembrava dura: cadendo sul tappeto, non le sarebbe successo
niente. Soprattutto temeva il rumore che avrebbe prodotto, l’apprensione, se
non lo spavento, che avrebbe destato dietro le porte. Ma bisognava correre
questo rischio.
Quando
Gregorio ebbe una metà del corpo fuori del letto - il nuovo sistema era più un
gioco che una fatica, bastava dondolarsi con piccole scosse - pensò quanto
tutto sarebbe stato semplice se qualcuno lo avesse aiutato. Due persone robuste
come il padre e la domestica sarebbero bastate; passate le braccia sotto la sua
schiena arcuata, così da farlo sgusciare dal letto, bastava che si fossero
chinati con il carico e avessero aspettato, tranquilli, che lui si rovesciasse
sul pavimento, dove le zampine, c’era da sperare, si sarebbero dimostrate
utili. Ma a parte il fatto che le porte erano chiuse, avrebbe fatto bene a
chiedere aiuto? A questo pensiero, nonostante le difficoltà, non poté
trattenere un sorriso.
La
sua manovra era tanto avanzata che, con una oscillazione più energica, avrebbe
definitivamente perso l’equilibrio; doveva dunque decidersi, perché entro
cinque minuti sarebbe scaduto il quarto. In quel momento suonò il campanello
d’ingresso. “È qualcuno della ditta”, si disse; e si sentì agghiacciare,
mentre le zampine ballavano ancor più velocemente. Per un momento, non si sentì
niente. “Non aprono”, si disse Gregorio, in preda a una speranza
irragionevole. Poi, come sempre, naturalmente, la domestica andò con il suo
passo pesante alla porta e aprì. A Gregorio bastò sentire la prima parola di
saluto del visitatore, per capire di chi si trattava: il procuratore in persona.
Ma perché Gregorio era condannato a lavorare in una ditta dove la minima
mancanza faceva nascere i più gravi sospetti? Gli impiegati erano dunque tutti
dei mascalzoni? Non poteva esserci tra loro una persona fidata, devota, che, per
avere sottratto qualche ora alla ditta, impazziva dal rimorso, fino a non essere
più in grado di alzarsi dal letto? Non bastava mandare un garzone, se era
indispensabile mandare qualcuno; doveva venire il procuratore in persona, per
mostrare a tutta la famiglia, che era assolutamente innocente, che le indagini
su un caso tanto sospetto potevano venire affidate solo alla sua intelligenza?
Più per l’agitazione in cui questi pensieri lo avevano messo che di
proposito, Gregorio si slanciò, con tutte le sue forze, fuori dal letto. Il
tonfo fu sonoro, ma non quanto temeva. Il tappeto aveva attutito la caduta, poi
la schiena era più elastica di quanto Gregorio pensasse. Non aveva, però,
sollevato abbastanza la testa, che aveva picchiato sul pavimento. Pieno di
stizza e di dolore, la girò e la strofinò sul tappeto.
“Là
dentro è caduto qualche cosa” disse il procuratore nella camera di sinistra.
Gregorio si chiese se un giorno non sarebbe potuto capitare anche al
procuratore, quello che stava accadendo a lui; in sé, la cosa poteva essere
anche possibile. Ma quasi per ribattere duramente a questa ipotesi, nella stanza
vicina il procuratore fece alcuni passi risoluti, facendo scricchiolare le
scarpe di vernice. Dalla camera di destra, la sorella sussurrò, per avvertire
Gregorio: “Gregorio, c’è il procuratore!”. “Lo so”, mormorò
Gregorio, senza tuttavia alzare la voce tanto da farsi udire dalla sorella.
Gregorio”,
disse il padre dalla stanza di sinistra, “il signor procuratore è venuto a
sentire perché non sei partito con il treno dell’alba. Noi non sappiamo cosa
dirgli, del resto vuole parlare personalmente con te. Apri la porta, avrà certo
la bontà di scusare il disordine della camera”.
“Buon
giorno, signor Samsa!” lo interruppe in tono cordiale, il procuratore.
“Non
sta bene!” diceva la madre al procuratore, mentre il padre continuava a
parlare accanto alla porta. “Mi creda, signor procuratore, non sta bene!
Altrimenti, come avrebbe potuto perdere il treno? Quel ragazzo pensa solo alla
ditta. Quasi mi arrabbio, a vedere che la sera non esce mai; è in città otto
giorni, ed è rimasto sempre in casa. Siede a tavola con noi e legge tranquillo
il giornale o studia l’orario ferroviario. Per distrarsi, gli bastano i suoi
lavori di intaglio. In due o tre sere, per esempio, ha intagliato una piccola
cornice: rimarrà meravigliato nel vedere quanto è graziosa; è appesa nella
camera, la vedrà non appena Gregorio avrà aperto. Del resto, sono contenta che
lei sia qui, signor procuratore: da soli, non saremmo riusciti a convincere
Gregorio ad aprire la porta, è così testardo, e di sicuro non sta bene, sebbene
stamattina presto lo abbia negato”.
“Vengo
subito”, disse Gregorio lento e circospetto; ma non si mosse, per non perdere
una parola del dialogo.
“Neanche
io, signora, posso spiegarmi la cosa in altro modo”, disse il procuratore.
“Speriamo non sia niente di grave. D’altra parte, debbo dire che noi, uomini
d’affari, per nostra fortuna e disgrazia, come si vuole, dobbiamo spesso
trascurare un leggero malessere, per seguire le nostre faccende”.
“Allora,
può entrare il signor procuratore?” chiese il padre impaziente, picchiando
ancora alla porta. “No”, disse Gregorio. Nella stanza di sinistra subentrò
un silenzio penoso, in quella di destra la sorella cominciò a singhiozzare.
Perché
la sorella non andava con gli altri? Si era certo alzata in quel momento e non
aveva cominciato a vestirsi. E perché piangeva? Perché lui non si alzava e non
faceva entrare il procuratore, perché rischiava di perdere il posto, perché in
questo caso il principale avrebbe ripreso a perseguitare i genitori con i vecchi
crediti? Per ora queste preoccupazioni erano davvero fuori luogo. Gregorio era
sempre lì e non pensava affatto di abbandonare la famiglia. Giaceva sul tappeto
e nessuno, nel vederlo in quella condizione, avrebbe potuto pretendere sul serio
che facesse entrare il procuratore. Non potevano licenziarlo in tronco per una
piccola scortesia, che si sarebbe potuta facilmente giustificare in seguito.
Gregorio pensò che sarebbe stato molto più ragionevole se lo avessero lasciato
in pace, invece di disturbarlo con pianti e consigli. Ma si rese anche conto che
si comportavano così perché non sapevano cosa pensare, e li scusò.
“Signor
Samsa!” disse il procuratore, alzando la voce. “Che succede dunque? Si
barrica nella sua stanza, risponde soltanto con dei sì e dei no, procura ai
suoi genitori grosse, inutili preoccupazioni e trascura, sia detto di sfuggita,
i suoi doveri professionali in maniera veramente inaudita. Le parlo in nome dei
suoi genitori e del suo principale, la prego formalmente di rispondere subito e
chiaro. Sono molto, molto stupito. Credevo di conoscerla come un uomo
tranquillo, ragionevole, e ora sembra improvvisamente che lei abbia intenzione
di mettersi a fare lo stravagante. Il principale, stamattina, ha accennato a una
spiegazione per la sua assenza, a un certo incasso consegnatole poco tempo fa,
ma io ho dato la mia parola d’onore che tra i due fatti non c’era nessun
rapporto. La sua ostinazione incomprensibile mi ha fatto passare la voglia di
intercedere ancora per lei. Immagino saprà che la sua posizione non è molto
solida. Avevo intenzione di raccontarle ogni cosa a quattr’occhi, ma poiché
lei mi fa perdere tempo inutilmente, non capisco perché non debbano
essere informati anche i suoi genitori. Il suo lavoro, in questi ultimi tempi,
ha lasciato molto a desiderare. La stagione non è favorevole, d’accordo, ai
grossi affari; ma non esiste una stagione in cui non se ne combina nessuno,
signor Samsa, non deve esistere”.
“Signor
procuratore!” gridò Gregorio fuori di sé, dimenticando, per l’agitazione,
tutto il resto. “Apro immediatamente. Un leggero malessere, un po’ di
vertigine, mi hanno impedito di alzarmi. Sono ancora a letto, ma sarò subito a
posto. Mi alzo subito. Un momento di pazienza! Non sto ancora come speravo, ma
va già meglio. Chi si aspettava una cosa simile, così all’improvviso? Ieri
sera stavo benissimo, i miei genitori lo sanno, o, per essere precisi, proprio
ieri sera sentii qualcosina. Mi si doveva vedere in viso. Perché non ho
avvertito la ditta? Uno spera sempre che il malessere passi, senza bisogno di
restare a casa. Signor procuratore! Abbia riguardo per i miei genitori. Tutti i
rimproveri che lei mi ha fatto sono infondati: nessuno ne ha mai fatto parola
con me. Forse non ha letto le ultime ordinazioni che ho spedito. Del resto,
posso ancora partire col treno delle otto, qualche ora di riposo è bastata per
rimettermi. Non si trattenga, signor procuratore, io stesso sarò subito in
ditta, abbia la bontà di dirlo al principale, presentandogli i miei omaggi!”
Mentre
buttava fuori a precipizio tutte queste parole, senza sapere quello che diceva,
Gregorio si era avvicinato agevolmente al cassettone, grazie alla pratica fatta
sul letto, e cercava di drizzarsi appoggiandosi al mobile. Voleva aprire la
porta, farsi vedere, parlare con il procuratore; era ansioso di sapere che cosa
avrebbero detto, vedendolo, quegli stessi che ora si affannavano tanto a
cercarlo. Se si fossero spaventati, allora poteva stare tranquillo, era libero
da ogni responsabilità. Se invece non avessero dato a vedere nulla, anche in
questo caso non avrebbe avuto ragione di inquietarsi e, se faceva in fretta,
poteva essere in stazione per le otto. Scivolò diverse volte contro la liscia
superficie del mobile, poi, con un ultimo slancio, riuscì a raddrizzarsi: ai
dolori all’addome non faceva più caso, per cocenti che fossero. Si lasciò
andare contro la spalliera di una sedia vicina e ad essa si aggrappò con le sue
zampine. Ora aveva raggiunto il dominio di sé. Rimase, in silenzio, ad
ascoltare il procuratore.
“Loro
hanno capito qualcosa?” chiedeva il procuratore ai genitori. “Non ci starà prendendo in giro?” “Per l’amor di Dio!” gridò la madre tra le lacrime. “Forse sta malissimo, e noi lo tormentiamo. Grete! Grete!” chiamò. “Sì, mamma”, rispose la sorella dall’altra parte; si parlavano attraverso la camera di Gregorio. “Corri subito dal dottore. Gregorio sta male. Svelta, dal dottore. Hai sentito come parla?”. “Era la voce di un animale”, disse il procuratore, in tono singolarmente basso, rispetto alle grida della madre. “Anna, Anna!” gridò il babbo, attraverso l’anticamera, in direzione della cucina, e batté le mani. “Vada subito a chiamare un fabbro!”
In
un gran fruscio di gonne le due ragazze corsero attraverso l’anticamera - come
aveva fatto, la sorella, a vestirsi tanto in fretta? - e spalancarono la porta
d’ingresso. Non si sentì richiuderla; dovevano avere lasciato la porta
aperta, come succede nelle case in cui è avvenuta una grave disgrazia.
Gregorio, intanto, era molto più calmo. Dunque, le sue parole non erano più
comprensibili, sebbene a lui fossero sembrate abbastanza chiare, anzi più
chiare di prima, forse perché ci aveva fatto l’orecchio. Ma allora gli altri
dovevano avere capito che qualcosa non andava, e lo avrebbero aiutato. La
fermezza e la risolutezza con cui erano stati presi i primi provvedimenti gli
avevano fatto bene. Si sentiva di nuovo compreso nella cerchia umana;
dall’intervento del medico e del fabbro insieme, senza troppo distinguere,
sperava imprevisti, meravigliosi risultati. Per avere una voce quanto più
chiara possibile nelle prossime, decisive conversazioni, tossicchiò,
raschiandosi la gola, ma con discrezione, perché era probabile - da solo non si
sentiva di dirlo con certezza - che essa non suonasse come una tosse umana.
Nella stanza accanto, non si sentiva più niente. Forse i genitori erano seduti
accanto al tavolo col procuratore, e parlavano sotto voce, forse stavano con
l’orecchio incollato alla porta, in ascolto.
Pian
pianino, Gregorio si spinse fino alla porta, tenendosi aggrappato alla sedia.
Abbandonata la sedia, si lasciò andare, dritto, contro la porta - le estremità
delle sue zampine erano leggermente vischiose - e si concesse un attimo di
riposo. Poi si mise a girare, con la bocca, la chiave nella toppa. Visto,
purtroppo, che non aveva denti, come avrebbe potuto stringere la chiave? Gli
venne in mente che disponeva di robustissime mascelle: con il loro aiuto, riuscì
a girare la chiave, senza accorgersi di essersi, in qualche modo, ferito, se non
quando dalla bocca un liquido scuro cominciò a colare sulla chiave, gocciolando
poi sul pavimento. “Sentite!” disse il procuratore nella stanza accanto.
“Sta girando la chiave”. Queste parole furono, per Gregorio, di grande
incoraggiamento, tutti avrebbero dovuto incitarlo, anche il babbo e la mamma:
“Forza Gregorio!” avrebbero dovuto gridare: “Non mollare, dacci sotto con
la serratura!” Gli sembrava di vederli mentre, pieni d’ansia, seguivano i
suoi sforzi. Fece appello a tutte le sue energie e si accanì frenetico sulla
chiave. Accompagnava i progressi della chiave con una specie di danza intorno
alla serratura: reggendosi con la bocca, a seconda del bisogno, restava sospeso
alla chiave o vi gravava sopra con tutto il suo peso. Il secco rumore di uno
scatto, lo fece trasalire. Con un respiro di sollievo, si disse: “Non ho avuto
bisogno del fabbro”, e posò la testa sulla maniglia, per tirare a sé
l’uscio. La porta, a questo punto, era aperta; ma Gregorio ancora non si
vedeva. Doveva girare adagio, facendo molta attenzione, intorno all’imposta
aperta, se proprio sulla soglia non voleva cadere malamente sulla schiena. Stava
appunto compiendo, con grande cautela, questa manovra, quando sentì il
procuratore emettere un “Oh!” che sembrò il sibilo del vento. Poi lo vide
portare una mano contro la bocca spalancata - stava davanti agli altri - e
indietreggiare lentamente, quasi fosse spinto, con pressione costante, da una
forza invisibile. La madre, ancora coi capelli sciolti e arruffati, nonostante
la presenza del procuratore, guardò a mani giunte il padre, fece due passi
verso Gregorio, poi si afflosciò a terra in mezzo alle sottane che le si
allargavano intorno, sprofondando il viso nel seno. Il padre strinse i pugni con
aria minacciosa, quasi volesse ricacciare Gregorio nella sua stanza, poi si
guardò intorno smarrito, si mise le mani davanti agli occhi, e scoppiò in
singhiozzi.
Gregorio
non entrò nella stanza. Appoggiato all’imposta rimasta chiusa, e mostrando
solo metà del corpo, fissava i presenti con la testa piegata da una parte.
Intanto, si era fatto molto più chiaro; dalla finestra si vedeva benissimo un
pezzo del lungo fabbricato di fronte, un ospedale di colore grigio ferro, con le
sue finestre tutte uguali ritagliate sulla facciata. La pioggia non aveva smesso
di cadere, c’erano ancora grosse gocce ben distinte che finivano a terra una
per una. Piatti, vasetti, tazzine e altre cose coprivano ancora il tavolo; per
il padre, la prima colazione era il pasto pi importante della giornata e lui lo
faceva durare ore, leggendo diversi giornali. Sulla parete di fronte era appesa
una fotografia di Gregorio, quando era militare: in uniforme di tenente, la mano
sulla sciabola, sorrideva felice e incuteva, insieme, rispetto. Attraverso la
porta dell’anticamera e quella dell’ingresso, si vedeva il pianerottolo e un
primo pezzo di scale.
“Ora”,
disse Gregorio, consapevole di essere il solo ad avere conservato la calma,
“mi vesto subito, metto in ordine il campionario e parto. Volete farmi
partire? Vede bene, signor procuratore, che non sono un testardo e che mi piace
lavorare: viaggiare è faticoso, ma che farei se non viaggiassi? Dove va, ora,
signor procuratore? In ditta? Ah sì? Riferirà tutto per filo e per segno? Una
persona, a un certo punto, può essere incapace di lavorare, ma proprio allora
gli altri dovrebbero ricordarsi di come ha sempre lavorato; pensare che in
seguito, eliminati gli ostacoli, lavorerà con impegno e attenzione ancora
maggiori. Lei sa quali obblighi ho verso il principale. Inoltre devo pensare ai
miei genitori e a mia sorella. Sono nei guai ma me la caverò. Lei, per favore,
non mi renda la cosa più difficile di quanto è. In ditta, mi difenda! Il
viaggiatore non è amato, lo so. Pensano che guadagni un sacco di quattrini e
che faccia una bella vita. Purtroppo non ho argomenti per confutare questo
pregiudizio. Ma lei, signor procuratore, lei sa meglio degli altri come stanno
le cose; in confidenza, anzi, lo sa anche meglio del principale, che,
considerata la sua posizione, può essere portato a giudicare male un impiegato.
Lei sa che il viaggiatore, standosene lontano per tutto l’anno dalla ditta, è
facile vittima di pettegolezzi, di casi fortuiti, di lagnanze ingiustificate, e
che non può difendersi perché, in genere, ignora tutto; e quando è di
ritorno, stanchissimo, da un giro, sperimenta sulla sua pelle le conseguenze di
cause ormai impossibili da ricostruire. Signor procuratore, non se ne vada senza
avermi prima, in qualche modo, tranquillizzato che mi darà almeno un po’ di
ragione!” Ma già alle prime parole il procuratore si era girato, e
considerava Gregorio, scuotendo le spalle, con la faccia scura. Senza smettere
di guardarlo, a poco a poco, quasi che gli fosse vietato di lasciare la stanza,
si avvicinò alla porta. Messo un piede in anticamera, ritrasse l’altro con
fulminea rapidità dal salotto, come se il pavimento scottasse; poi fece con la
destra un gran gesto verso la scala, come se da quella parte lo aspettasse una
liberazione soprannaturale. Gregorio comprese che non poteva lasciarlo andare in quel modo, se gli stava a cuore il posto nella ditta. Ma i genitori non sapevano vedere altrettanto chiaro. Con il passare del tempo, si erano convinti che Gregorio era sistemato per tutta la vita; in quel momento, poi, il loro smarrimento era così grande, che non erano certo in grado di prevedere nulla. Gregorio, lui, immaginava cosa sarebbe successo. Dovevano fermare il procuratore, calmarlo, convincerlo, infine conquistarlo: ne andava del futuro di Gregorio e della sua famiglia! Se almeno ci fosse stata la sorella: lei capiva, aveva già pianto quando ancora Gregorio se ne stava nella sua stanza, tranquillamente coricato sulla schiena. Il procuratore, che aveva un debole per il gentil sesso, le avrebbe certamente dato ascolto; lei avrebbe chiuso la porta di casa e in anticamera lo avrebbe convinto che il suo spavento era irragionevole. Ma la sorella non c’era e Gregorio se la doveva cavare da solo. Senza pensare a come avrebbe potuto spostarsi, nelle condizioni in cui era, né se il suo discorso era stato compreso - probabilmente no - abbandonò il suo sostegno e si affacciò oltre la soglia per raggiungere il procuratore, mentre quello si aggrappava in modo grottesco alla balaustra delle scale; ma perse l’equilibrio e, con un debole grido, cadde sulle zampine. Immediatamente, e fu la prima volta, nella mattinata, provò una specie di benessere fisico. Notò con soddisfazione che le zampine, con qualcosa di solido sotto, obbedivano a meraviglia, fremevano addirittura dal desiderio di portarlo dove voleva: e così pensò che la guarigione da tutti i suoi mali era imminente. Mentre tutto fremente per la voglia di muoversi, rimaneva sul pavimento, proprio di fronte a sua madre, questa, che sembrava esanime, saltò d’un tratto in piedi, spalancò le braccia allargando le dita e gridò: “Aiuto, per l’amor di Dio, aiuto!”
A
giudicare dal suo capo chino, sembrava che volesse guardare Gregorio; cominciò,
invece, a indietreggiare a precipizio, senza pensare alla tavola ancora
apparecchiata, la urtò, vi si sedette sopra, come avrebbe fatto una persona
distratta; e non sembrò neppure accorgersi che dalla grande caffettiera
rovesciata un rivolo di caffè cominciò a scorrere sul tappeto. “Mamma,
mamma”, disse piano Gregorio, alzando gli occhi. Aveva dimenticato il
procuratore; ma, alla vista del caffè che scorreva, non poté impedirsi di far
scattare più volte le mascelle a vuoto. La mamma gettò un altro grido, lasciò
di corsa il tavolo e cadde tra le braccia del padre, che le era corso incontro.
Ma Gregorio non aveva più tempo per i genitori: il procuratore era sulla scala
e, con il mento sulla ringhiera, guardava per l’ultima volta all’indietro.
Gregorio prese la rincorsa, per cercare di raggiungerlo, ma il procuratore
dovette intuire qualche cosa, perché con un salto superò diversi gradini e
scomparve con un “Uh!” che risuonò per le scale. La fuga del procuratore,
purtroppo, fece perdere la testa anche al padre, fino ad allora abbastanza
calmo. Invece di inseguire il procuratore o almeno di lasciare che Gregorio lo
inseguisse, afferrò con la destra il bastone, lasciato dal visitatore su una
sedia con il cappotto e il cappello, prese con la sinistra un giornale dal
tavolo, quindi, battendo i piedi e agitando bastone e giornale, prese a spingere
Gregorio nella sua camera. Non servì nessuna preghiera, che del resto non era
neppure capita; mentre i movimenti supplichevoli della testa servirono solo a
rendere più violento il battere dei piedi. Nonostante il freddo, la madre aveva
spalancato una finestra e, sporgendosi quanto più poteva, si stringeva il viso
tra le mani. Tra la sala e il pianerottolo delle scale ci fu una forte corrente
d’aria, le tende delle finestre volarono in alto, i giornali sul tavolo
frusciarono e alcuni fogli volarono sul pavimento. Senza pietà il padre
continuava a incalzare Gregorio, emettendo sibili da selvaggio. Gregorio, che
non aveva nessuna pratica della marcia indietro, procedeva molto adagio. Se si
fosse potuto girare, avrebbe raggiunto subito la camera, ma, perdendo tempo con
quella manovra, temeva di spazientire il padre, mentre, d’altra parte, aveva
paura per un colpo di bastone, che sarebbe stato fatale per la sua schiena o per
la sua testa. Ma presto non gli restò altro da fare: con spavento si accorse
che, indietreggiando, non sapeva mantenere la direzione. Continuando a lanciare
al babbo occhiate piene di angoscia, cominciò a eseguire la conversione con la
maggiore rapidità possibile, e cioè con estrema lentezza. Forse il padre capì
la sua buona volontà, perché - invece di disturbarlo - si mise a dirigere, da
lontano, il movimento, aiutandolo anzi, ogni tanto, con la punta del bastone. Se
soltanto avesse smesso con quel sibilo intollerabile! A Gregorio gli faceva
proprio perdere la ragione. Si era quasi completamente girato quando,
frastornato da quel rumore, si confuse, e ricominciò a girare in senso opposto.
In ogni modo, quando fu arrivato di fronte alla porta aperta, si accorse che il
suo corpo era troppo grosso per passare. Nello stato d’animo in cui si
trovava, il padre non pensò neppure, naturalmente, ad aprire l’altra imposta.
La sua idea fissa era di ricacciare subito Gregorio in camera, non si sarebbe
rassegnato ai lunghi preparativi necessari a quello per passare, dritto,
dall’altra parte. Come se non ci fosse nessun ostacolo, incalzava Gregorio
facendo più baccano che mai, la sua voce sembrava moltiplicata per mille. Ora
c’era poco da scherzare; e Gregorio rischiò il tutto per tutto. Ma nello
slancio ribaltò, rimanendo incastrato sul fianco e producendosi una lunga
escoriazione, mentre la bianca superficie della porta si sporcava di umori e di
sangue. Da solo, non sarebbe più stato capace di muoversi: le sue zampine, da
una parte si agitavano inutili nell’aria, dall’altra erano schiacciate
dolorosamente contro il pavimento. In quel momento il padre gli diede il colpo
di grazia e lui, con un gran volo, perdendo sangue abbondantemente,
finì nella sua camera. La porta venne chiusa con il bastone, e infine tutto fu
silenzio.
2.
Solo
all’imbrunire Gregorio si svegliò dal suo sonno pesante, simile a uno
svenimento. Si sarebbe svegliato di lì a poco anche senza rumori, si sentiva
abbastanza riposato e in forze; ebbe l’impressione di essere stato svegliato
da un passo furtivo e da un cauto richiudersi della porta dell’anticamera. La
luce delle lampade elettriche della strada rischiarava qualche punto del
soffitto e le parti superiori dei mobili, ma il pavimento restava al buio.
Agitando goffamente le antenne, che a questo punto cominciò ad apprezzare, si
trascinò fino alla porta, per rendersi conto di quanto era successo
dall’altra parte. Il fianco sinistro gli dava l’impressione di essere
un’unica, dolorosa cicatrice, e una fila di zampine non lo reggeva. Un arto
era rimasto gravemente ferito negli incidenti della mattinata - era già un
miracolo che fosse solo uno - e si trascinava inerte. Solo quando fu arrivato
davanti alla porta, capì che cosa lo aveva attirato fin là: un odore di cibi.
C’era una ciotola piena di latte zuccherato, su cui galleggiavano fettine di
pane bianco. Avrebbe quasi riso di gioia, tanto la sua fame era aumentata dal
mattino. Immerse avido la testa nel latte, ma subito la ritrasse deluso: non
solo provava difficoltà a mangiare per la ferita al fianco - per mangiare
doveva comprimere e dilatare tutto il corpo - ma il latte, che la sorella sapeva
essere la sua bevanda preferita e per questo glielo aveva portato, ora non gli
piaceva più. Quasi con disgusto, girò la schiena alla ciotola e, strisciando,
tornò in mezzo alla camera.
Attraverso
le fessure della porta, Gregorio vide che in sala era acceso il gas; ma mentre a
quell’ora, di solito, il padre leggeva il giornale del pomeriggio alla madre
e, a volte, anche alla sorella, in quel momento non si sentiva nulla. Forse
questa lettura, della quale la sorella gli parlava tanto spesso nelle sue
conversazioni e nelle sue lettere, negli ultimi tempi non veniva più fatta. Ma
nemmeno nelle altre stanze si sentiva nulla, e la casa non poteva essere vuota.
“Che vita tranquilla faceva la mia famiglia”, si disse Gregorio, fissando il
buio, orgoglioso all’idea di aver potuto permettere ai genitori e alla
sorella una vita simile, in una casa così bella. E se quiete, benessere,
soddisfazione fossero finiti nello spavento? Per non smarrirsi in simili
pensieri, Gregorio volle muoversi, e si trascinò in sù e in giù per la camera.
Durante
la lunga serata, vide schiudersi prima una, poi l’altra delle porte laterali:
qualcuno sarebbe voluto entrare, ma si tratteneva, esitante. Gregorio si fermò
davanti alla porta della sala, deciso a fare entrare, in un modo o nell’altro,
il visitatore esitante o almeno a vedere chi fosse; ma la porta non venne più
aperta e Gregorio attese invano. Al mattino, quando le porte erano chiuse, tutti
volevano entrare, ora che una porta era aperta e le altre, evidentemente, erano
state aperte durante il giorno, nessuno entrava più, mentre le chiavi erano
state infilate all’esterno.
La
luce fu spenta, in sala, molto tardi: i genitori e la sorella erano dunque
rimasti alzati fino a quel momento, perché Gregorio li sentì allontanarsi
tutti e tre in punta di piedi. Prima del mattino, nessuno sarebbe più venuto da
lui; aveva dunque tempo per riflettere sul modo di riorganizzare la propria
vita. Ma l’ampia stanza, dall’alto soffitto, in cui era costretto a
strisciare, gli faceva paura, senza che potesse spiegarsene la ragione, visto
che ci abitava da cinque anni. Seguendo un oscuro impulso, che gli suscitò un
po’ di vergogna, corse a infilarsi sotto il divano e qui, anche se aveva la
schiena un po’ compressa e non poteva alzare la testa, si sentì subito a suo
agio; gli dispiacque solo di essere tanto grosso da non poter scivolare sotto
tutto intero. Lì sotto rimase tutta la notte, in un dormiveglia dal quale
usciva di soprassalto sotto gli stimoli della fame, per abbandonarsi a paure e a
incerte speranze. Per il momento, questa era la sua conclusione, doveva rimanere
buono e tranquillo, per alleviare alla famiglia il disagio che lui le procurava.
L’occasione
di verificare i suoi propositi si presentò a Gregorio ancora prima di giorno,
quando la sorella, quasi vestita, aprì la porta dell’anticamera e guardò
dentro con ansia. Non lo trovò subito, ma quando lo vide sotto il divano - Dio
mio, doveva pur essere da qualche parte, non poteva essere volato via - ne ebbe
un tale spavento che, incapace di dominarsi, richiuse la porta di scatto. Poi,
quasi pentita del gesto, la riaprì e avanzò in punta di piedi, come se fosse
nella camera di un malato grave o di un estraneo. Gregorio, spinta la testa fino
all’orlo del divano, la osservava. Si sarebbe accorta che non aveva toccato il
latte, ma non per mancanza di appetito? Gli avrebbe portato qualche altra cosa
più adatta? Se non l’avesse indovinato da sola, lui avrebbe preferito morire
di fame, piuttosto che farglielo notare, anche se bruciava dalla voglia di
uscire dal divano, per gettarsi ai piedi della ragazza, supplicandola di dargli
qualche cosa di buono da mangiare. Ma la sorella si accorse subito, con stupore,
della ciotola ancora piena, intorno alla quale erano cadute alcune gocce di
latte: la prese, utilizzando un pezzo di carta, e la portò via. Gregorio era
curioso di vedere che cosa gli avrebbe portato in cambio: ma, per quanto
fantasticasse, non avrebbe mai indovinato fino a che punto poteva spingersi la
bontà della sorella. Per conoscere i suoi gusti, questa portò una quantità di
roba, su un vecchio giornale. Verdura quasi marcia, ossa avanzate la sera prima,
rivestite di salsa bianca rappresa, uva passa, mandorle, un formaggio che
Gregorio due giorni prima aveva dichiarato immangiabile, un pane secco, un pezzo
di pane imburrato col sale e un altro senza sale. Accanto al giornale posò la
ciotola della sera prima, destinata, ormai, a lui, questa volta piena d’acqua.
Prevedendo che Gregorio in sua presenza, non avrebbe mangiato, spinse la sua
delicatezza a lasciare la camera, chiudendo la porta a chiave, facendogli così
capire che poteva fare il suo comodo. Ora che il pasto era pronto, le zampine di
Gregorio erano in grande agitazione. Le sue ferite dovevano essere guarite,
perché non sentiva più nessun fastidio; ne fu stupito e ripensò a un piccolo
taglio in un dito che si era procurato un mese prima, e che faceva male ancora
due giorni fa. “Che abbia ora meno sensibilità?” pensò succhiando
avidamente il formaggio, che, fra i cibi, lo aveva immediatamente e
imperiosamente attirato. Con un gusto che lo faceva lacrimare, divorò, uno dopo
l’altro, formaggio, verdura, salsa; i cibi freschi non gli piacevano, non
poteva sopportarne neppure l’odore, e li scansò dal resto. Aveva finito da un
pezzo, e se ne stava disteso pigramente, quando la sorella, per fargli capire di
ritirarsi, cominciò a girare la chiave. Sebbene sonnecchiasse, il rumore lo
mise subito in allarme, e si affrettò a raggiungere il divano. Non fu
sacrificio da poco, rimanere là sotto nel poco tempo che la sorella restò in
camera: il pasto abbondante aveva dilatato il suo corpo, e faticava a respirare.
Con gli occhi pieni di lacrime e brevi accessi di soffocazione, vide la sorella
spazzare via, convinta di far bene, insieme con gli avanzi, i cibi non toccati,
come se fossero, ormai, inservibili. Tutto finì in un secchio, che venne chiuso
con un coperchio di legno e portato via. Si era appena girata, che Gregorio uscì
di sotto il divano, si stirò e riprese fiato.
In
questo modo Gregorio ricevette, ogni giorno, i suoi pasti: la mattina, quando i
genitori e la domestica ancora dormivano, e dopo pranzo, quando i genitori
facevano un sonnellino e la domestica veniva allontanata, con qualche incarico,
dalla sorella. Neanche i genitori volevano che Gregorio morisse di fame, ma
incapaci di assistere ai suoi pasti, preferivano esserne informati da una terza
persona. O, forse, a decidere così era stata la sorella, per risparmiare ai
vecchi, già tanto provati, anche questo piccolo dolore.
Gregorio
non poté mai sapere con quali pretesti, la prima mattina, erano stati
allontanati il medico e il fabbro: dato che nessuno riusciva a capirlo, nessuno,
nemmeno la sorella, pensava che lui poteva capire gli altri; quando la ragazza
era in camera, tutto quello che lui sentiva erano sospiri e invocazioni ai
santi. Solo più tardi, quando si fu un po’ adattata alla situazione - del
tutto, non si adattò mai - Gregorio sentì qualche considerazione che denotava
o poteva denotare affetto. “Oggi ha mangiato di gusto”, diceva, quando lui
aveva fatto piazza pulita del cibo; altre volte, quando non aveva mostrato
appetito, cosa che diventò sempre più frequente, diceva in tono di rammarico:
“Anche questa volta ha lasciato tutto lì”.
Ma
se Gregorio non poteva sapere direttamente nessuna notizia, qualche cosa
riusciva a sentire dalle stanze vicine: quando sentiva una voce, correva alla
porta più adatta e vi aderiva contro con tutto il corpo. Specialmente nei primi
tempi non c’era discorso in cui non si parlasse, magari in maniera velata, di
lui. I primi due giorni, durante i pasti, si tenne consiglio sul da fare; ma la
faccenda era discussa anche negli intervalli, perché nessuno voleva rimanere
solo in casa né abbandonare questa senza sorveglianza. Quanto alla domestica,
subito il primo giorno supplicò la madre, in ginocchio, di licenziarla, senza
che nessuno capisse cosa e quanto avesse capito dell’incidente. Nel
congedarsi, un quarto d’ora dopo, ringraziò, tra le lacrime, per il permesso
ottenuto come se fosse il maggiore favore che mai le fosse stato accordato, e
aveva promesso, senza che nessuno glielo avesse chiesto, con un terribile
giuramento, di non rivelare nulla, assolutamente nulla, a nessuno.
Da
allora la sorella e con la madre dovettero badare alla cucina; un lavoro, va
detto, non troppo faticoso, perché in casa si mangiava poco. Gregorio sentiva
le esortazioni che a tavola una rivolgeva all’altro e la risposta immancabile:
“Grazie, non ho più fame” o qualcosa di simile. Forse non bevevano neanche
più. Spesso la sorella chiedeva al padre se voleva della birra, offrendosi di
andare lei stessa a prenderla; al silenzio del padre, per togliergli ogni
scrupolo, aggiungeva che poteva incaricare dell’acquisto la portinaia.
L’offerta veniva allora rifiutata da un energico definitivo “No”, e il
discorso cadeva.
Già
dal primo giorno, il padre espose alla madre e alla sorella la situazione
finanziaria e le prospettive della famiglia. Ogni tanto si alzava da tavola e
toglieva dalla piccola cassaforte, salvata cinque anni prima dal fallimento
della sua azienda, un documento e un libro di appunti. Gregorio lo sentiva
aprire la complicata serratura e richiuderla dopo aver preso quello che cercava.
Questi discorsi del padre furono la prima consolazione che Gregorio provò nella
sua prigionia. Gregorio pensava che suo padre non avesse salvato nulla; almeno,
questi non gli aveva mai lasciato credere diversamente, e lui non aveva mai
fatto domande. A quell’epoca, l’unico pensiero di Gregorio era stato di far
dimenticare alla famiglia il rovescio che li aveva portati alla disperazione. Si
era buttato, pieno di foga, nel lavoro, diventando subito, da piccolo impiegato,
un commesso viaggiatore: un’ottima posizione, grazie alla quale i successi si
trasformavano in denaro sonante, sotto forma di provvigione: denaro che si
poteva spargere sul tavolo, davanti alla famiglia stupita e felice. Bei tempi,
che non tornarono più con quello splendore, anche se Gregorio guadagnava tanto
da mantenere la famiglia e da mantenerla per davvero. Ormai si erano tutti
abituati a quel regime di vita: i suoi accettavano con gratitudine il denaro, e
lui lo dava volentieri, ma ciò avveniva senza grandi effusioni. La sorella gli
era, più degli altri, vicina, e Gregorio si era proposto in segreto di farla
entrare, l’anno successivo, in conservatorio, sperando di fronteggiare in
qualche modo la spesa considerevole, per far felice la ragazza che,
contrariamente a lui, adorava la musica e amava suonare il violino. Fratello e
sorella parlavano spesso del conservatorio, durante le brevi apparizioni che
Gregorio faceva in famiglia, ma sempre come di un sogno irrealizzabile. I
genitori non volevano sentire neppure quelle innocenti allusioni, ma Gregorio
pensava seriamente alla cosa e si riprometteva di annunciarla con solennità la
sera di Natale.
Questi
pensieri, proprio fuori posto nella sua attuale situazione, gli passavano per la
testa mentre stava a origliare, appoggiato contro una porta. A volte la
stanchezza lo vinceva e non sentiva più nulla; la testa abbandonata picchiava
contro la porta, ma lui la rialzava subito, perché il piccolo rumore era stato
notato nell’altra stanza e aveva fatto tacere tutti.
“Chissà che combina”, diceva il padre dopo un momento, girandosi di sicuro verso la
camera; e la conversazione interrotta faticava a riprendere.
Il
padre aveva preso l’abitudine di ripetere i suoi discorsi, sia perché da un
pezzo non si occupava più di quelle faccende, sia perché la moglie non capiva
subito. Gregorio ebbe così modo di sentire diverse volte che, nonostante tutte
le disgrazie, i genitori disponevano di una certa somma, esigua ma arrotondata,
con il tempo, dagli interessi non riscossi. Inoltre non era stato speso tutto il
denaro che Gregorio, tenendo per sé solo qualche fiorino, portava ogni mese a
casa; e anche questo aveva finito col formare un piccolo capitale. Gregorio,
dietro l’uscio, approvava energicamente con la testa, felice di
quell’inaspettata previdenza. Con questo denaro si sarebbe potuto ridurre
ancora il debito del padre verso il principale, avvicinando così il giorno
della sua liberazione; ma, per il momento, era meglio lasciare le cose come il
padre le aveva disposte.
Il
denaro messo da parte non bastava a far vivere la famiglia d’interessi;
sarebbe durato un anno, due al massimo. I risparmi, dunque, non si dovevano
toccare, ma erano da tenere come riserva in caso di necessità; e intanto
bisognava guadagnarsi il denaro per vivere. Il padre era sano, ma ormai avanti
con l’età, non lavorava più da cinque anni e non poteva quindi sperare
troppo: durante quei cinque anni, prima vacanza di una vita consacrata al lavoro
e all’insuccesso, era ingrassato e appesantito. Doveva forse lavorare la
vecchia mamma, che soffriva di asma e faticava solo a attraversare la casa,
costretta a trascorrere metà delle sue giornate sul divano accanto alla
finestra, fra crisi di soffocazione? Oppure avrebbe dovuto lavorare, coi suoi
diciassette anni, la sorella, ancora una bambina? Non avrebbe dovuto continuare
a vivere come aveva sempre fatto, con abitini eleganti, lunghi sonni, aiutando
in casa, concedendosi qualche modesto divertimento e, soprattutto, suonando il
violino? Quando parlava della necessità di guadagnare denaro, Gregorio
abbandonava la porta e si buttava sopra il fresco cuoio del divano, bruciando di
vergogna e di tristezza.
Spesso
rimaneva sdraiato sul divano tutta la notte, senza chiudere occhio, grattando il
cuoio per ore e ore. Oppure si sobbarcava la fatica di spingere una poltrona
fino alla finestra, si aggrappava al davanzale, quindi, puntellandosi contro la
poltrona, rimaneva appoggiato ai vetri, quasi volesse provare ancora un senso di
liberazione che una volta gli veniva dal guardare fuori. La vista gli si
abbassava, ora, di giorno in giorno: non riusciva più a vedere, per esempio, l’ospedale di fronte, mentre una volta lo aveva, con suo gran disappunto, sempre
davanti agli occhi; se non fosse stato sicuro di abitare nella
Charlottenstrasse, una via tranquilla ma centrale, avrebbe potuto credere che la
sua finestra si apriva su un deserto, in cui il grigio della terra e del cielo
si riunivano senza lasciarsi distinguere. Bastò che la sorella, sempre attenta,
vedesse due volte la poltrona vicino alla finestra perché, pulita la stanza,
rimettesse la poltrona nello stesso posto, avendo cura di aprire anche le
imposte interne.
Se
Gregorio avesse potuto parlare con la sorella, ringraziarla per quanto faceva
per lui, queste premure non gli avrebbero pesato; ma, così condannato al
silenzio, ne soffriva. La ragazza faceva del suo meglio per rendere la
situazione meno penosa, e via via, in effetti, ci riusciva; con l’andare del
tempo, Gregorio, a sua volta, acquistava sempre più coscienza del suo stato. Già
il modo di entrare della sorella era per lui terribile. Appena entrata, sebbene
stesse sempre attenta a risparmiare ad altri la vista della camera, senza
richiudere la porta correva alla finestra e la spalancava di colpo, con mani
impazienti, come se soffocasse; restava poi al davanzale, respirando
profondamente, anche se faceva molto freddo. La corsa e il fracasso spaventavano
Gregorio due volte al giorno; per il tempo che la sorella si affaccendava nella
stanza, lui rimaneva, tremante, sotto il divano, pur sapendo che la ragazza gli
avrebbe risparmiato tante angosce se fosse potuta restare, con la finestra
chiusa, in una stanza dove era lui.
Una
volta - era passato un mese dalla metamorfosi di Gregorio, e la sorella non
aveva più motivo di spaventarsi alla sua vista - nell’arrivare un po’ prima
del solito, la ragazza sorprese Gregorio mentre guardava fuori dalla finestra,
immobile, in un atteggiamento terrificante. Se si fosse limitata a non entrare,
Gregorio non si sarebbe meravigliato, perché sapeva che, in quella posizione,
le impediva di aprire la finestra; ma lei non solo non entrò, ma si ritrasse
con un salto e chiuse la porta a chiave: un estraneo avrebbe potuto pensare che
Gregorio fosse in agguato per morderla. Naturalmente Gregorio si nascose subito
sotto il divano, ma dovette aspettare fino a mezzogiorno, prima che la sorella
tornasse, molto più inquieta del solito. Egli capì che la sua vista le era
intollerabile, che sarebbe stato sempre così anche in futuro, che la ragazza,
anzi, doveva fare un grande sforzo per non fuggire alla vista delle parti
rimaste fuori dal divano. Per risparmiarle anche questo, un giorno Gregorio
trasportò sulla schiena un lenzuolo dal letto al divano, e lo sistemò in modo
da coprire il mobile fino a terra: l’impresa gli costò quattro ore di fatica.
Se la sorella avesse pensato che il lenzuolo era inutile, avrebbe potuto
toglierlo, perché per Gregorio, chiaramente, non era gradevole quella
segregazione; ma il lenzuolo rimase al suo posto, e quando Gregorio, scansato
con cautela un lembo del drappo, volle vedere come la sorella accoglieva
l’innovazione, credette di vedere nei suoi occhi un lampo di gratitudine.
Nelle prime due settimane, i genitori non poterono decidersi a entrare da lui;
li sentiva spesso elogiare la sorella, alla quale prima rimproveravano di essere
una buona a nulla. Il padre e la madre, a volte, aspettavano fuori della camera
di Gregorio mentre la sorella finiva le pulizie, per farsi poi raccontare
dettagliatamente com’era la camera, cosa aveva mangiato Gregorio, come si era
comportato quella volta, se non aveva notato, per caso, un lieve miglioramento.
Non passò troppo tempo perché la madre manifestasse il desiderio di visitare
Gregorio; ma il padre e la sorella la trattennero, adducendo ragioni che
Gregorio ascoltò attentamente, approvandole in pieno. In seguito, dovettero
trattenerla con la forza, e nel sentirla gridare: “Lasciatemi andare da
Gregorio, dal povero figlio mio infelice! Non volete capire che devo
vederlo?”, Gregorio pensò che forse sarebbe stato bene che la mamma fosse
entrata da lui non tutti i giorni ma, mettiamo, una volta la settimana; lei
capiva le cose molto meglio della sorella che, con tutto il suo coraggio, era
solo una bambina, e si era forse assunta un compito tanto pesante solo per
leggerezza infantile.
Il
desiderio che Gregorio aveva di rivedere la madre, diventò presto realtà.
Durante il giorno, per riguardo ai genitori, Gregorio evitava di mostrarsi alla
finestra, ma i pochi metri quadrati del pavimento non gli consentivano lunghe
passeggiate; rimanere disteso, senza muoversi, gli era già di sacrificio
durante la notte; il cibo non gli dava più nessun piacere: così, per
distrarsi, prese l’abitudine di strisciare in lungo e in largo, per il
soffitto e le pareti. In modo particolare, godeva a sospendersi al soffitto: non
era come sul pavimento, si respirava meglio, il corpo si abbandonava a una
leggera oscillazione, e, nella beata smemoratezza che lo prendeva, poteva
capitargli, con sua sorpresa, di lasciarsi cadere a terra. Ma ora aveva
acquistato una padronanza del suo corpo in modo assai diverso da prima, e la
caduta non aveva nessuna conseguenza. La sorella si accorse subito del nuovo
diversivo di Gregorio - sui muri rimanevano tracce vischiose del suo passaggio -
e si mise in testa di favorirgli i movimenti portando via i mobili, e cioè,
prima di tutto, il cassettone e la scrivania. Da sola non era in grado di farlo,
al padre non osava chiedere aiuto né poteva rivolgersi alla domestica, una
ragazza di sedici anni che, dopo il licenziamento della cuoca, resisteva a
patto di rimanere chiusa in cucina, aprendo solo quando era chiamata. L’unica
soluzione era ricorrere alla madre, un giorno che il padre fosse stato fuori di
casa. La madre arrivò con esclamazioni di gioia, ma ammutolì sulla soglia
della camera di Gregorio. La sorella guardò che tutto fosse in ordine, poi
lasciò entrare la mamma. Gregorio aveva in fretta abbassato ancora di più il
lenzuolo, tutto piegato in modo che sembrasse veramente gettato per caso sul
divano. Per questa volta rinunciò a spiare: non avrebbe visto la mamma, ma era
felice già solo per il fatto che fosse venuta.
“Vieni,
tanto non si vede”, disse la sorella tenendo la madre per mano. Poi Gregorio
sentì le due deboli donne smuovere il pesante cassettone; la sorella si
riservava la parte più pesante del lavoro, mentre la madre l’ammoniva a stare
attenta a non farsi male. L’operazione richiese molto tempo. Dopo un quarto
d’ora, la mamma disse che era meglio lasciare il cassettone dov’era: prima
di tutto perché era troppo pesante, non avrebbero finito prima del ritorno del
babbo, e con il mobile in mezzo alla camera avrebbero intralciato in ogni senso
i movimenti di Gregorio; in secondo luogo, Gregorio poteva non essere contento
che gli portassero via il mobile. Lei pensava che gli sarebbe dispiaciuto: la
vista della parete spoglia le stringeva il cuore, perché non avrebbe dovuto
provare la stessa impressione anche Gregorio, abituato da tempo ai mobili della
sua stanza? Nella stanza vuota, si sarebbe sentito abbandonato. “E poi”,
concluse pianissimo, addirittura bisbigliando, quasi volesse evitare che
Gregorio, del quale ignorava il rifugio, sentisse il suono delle parole - il
senso, era sicura che non lo afferrasse - “e poi, togliere i mobili non vorrà
dire che rinunciamo a ogni speranza di miglioramento, che lo abbandoniamo a sé
stesso? Io credo che la cosa migliore è lasciare alla camera l’aspetto che
aveva prima, perché Gregorio, quando tornerà da noi, trovi tutto intatto, e
possa dimenticare più facilmente questo periodo”.
Nel
sentire queste parole della madre, Gregorio si rese conto che la vita monotona
di quei due mesi, priva di immediati contatti umani, doveva avergli turbato la
mente: come spiegarsi, altrimenti, il suo desiderio di abitare in una camera
vuota? Voleva davvero che quella stanza calda e comoda, arredata con mobili di
famiglia, fosse trasformata in una tana, nella quale avrebbe potuto strisciare
in ogni direzione, in un rapido e assoluto oblio del suo passato umano? Così
vicino era a quell’oblio, che soltanto la voce della mamma, non sentita da un
pezzo, era riuscita a farlo tornare in sé? No, non doveva essere portato via
niente, tutto doveva rimanere al suo posto, lui non poteva rinunciare
all’influenza benefica dei mobili, e se questi gli impedivano di continuare
nei suoi giri insensati, era più bene che male.
Purtroppo,
la sorella non fu dello stesso parere. Con i genitori, quando c’era da
discutere qualche cosa che riguardava Gregorio, si riservava, non a torto,
l’ultima parola: bastò il consiglio della mamma perché insistesse a portare
fuori non solo il cassettone e la scrivania, ai quali aveva pensato in un primo
momento, ma tutti i mobili, escluso l’indispensabile divano. Questa decisione
non era dovuta soltanto a una forma di orgoglio infantile o al senso di
sicurezza che aveva acquistato in modo tanto imprevisto e doloroso in quegli
ultimi tempi: aveva, in realtà, osservato come Gregorio aveva bisogno di molto
spazio per i suoi giri, e che i mobili, a quanto pareva, non gli servivano a
nulla. Bisognerà infine ricordare l’esuberanza sentimentale e fantastica
propria della sua età; forse Grete tendeva a vedere ancora più tragica la
situazione del fratello, per diventargli ancora più indispensabile: nessuno
infatti, tranne lei, avrebbe avuto il coraggio di entrare in una stanza dove
Gregorio regnasse solo, sulle nude pareti.
Così
non si lasciò distogliere, nella sua decisione, dalla madre; e inquieta,
incerta, questa si applicò, come meglio poté, a smuovere il cassettone.
Gregorio, in fondo, poteva fare a meno del cassettone, ma la scrivania poteva
restare al suo posto. Appena le donne ebbero spinto, ansimando, il cassettone
fuori dalla stanza, sporse il capo di sotto il divano per vedere come poteva
intervenire, senza far nascere guai. Purtroppo, fu la madre a rientrare per
prima, mentre Grete, nella stanza vicina, si affaccendava intorno al cassettone,
che scuoteva senza riuscire a smuovere. La madre non era abituata a Gregorio,
avrebbe potuto sentirsi male; quello, spaventato, indietreggiò rapido sino
all’estremità opposta del divano, provocando un leggero movimento del
lenzuolo. Bastò questo a richiamare l’attenzione della donna, che si fermò,
rimase un istante immobile, quindi tornò da Grete. Benché Gregorio si
ripetesse che non accadeva niente di straordinario, che tutto si riduceva allo
spostamento di qualche mobile, dovette presto confessarsi che i movimenti delle
donne, le loro brevi esclamazioni, il rumore dei mobili sul pavimento, lo
sconvolgevano: per quanto rientrasse testa e gambe, schiacciandosi contro il
pavimento, non avrebbe potuto sopportarlo a lungo. Gli vuotavano la sua camera,
gli prendevano tutte le cose alle quali era affezionato: il cassettone, dove era
conservato il traforo con gli altri arnesi, lo avevano già portato fuori; ora
tentavano di smuovere la scrivania, sulla quale aveva scritto i compiti
dell’accademia di commercio, delle medie, perfino delle elementari. No, non
poteva più apprezzare le buone intenzioni delle donne, le quali, del resto,
mute per la fatica, avevano fatto dimenticare la loro esistenza. Si sentivano
solo i loro passi pesanti.
Mentre
la madre e la sorella, nella stanza accanto, riprendevano fiato appoggiandosi
alla scrivania, lui uscì fuori, tanto disorientato da cambiare direzione
quattro volte; perplesso, stava pensando cosa doveva salvare per prima, quando
sulla parete ormai spoglia vide il ritratto della signora in pelliccia. Rapido
raggiunse il quadro e si appoggiò al vetro, che aderì contro il suo ventre
bruciante, dandogli un senso di sollievo. Almeno quel ritratto, che copriva col
suo corpo, nessuno glielo avrebbe tolto. Con la testa girata verso la porta
della sala, aspettò che le donne rientrassero.
Queste,
che non si erano concesse troppo riposo, tornarono subito. Grete teneva un
braccio intorno alla vita della mamma, quasi sorreggendola. “E ora, cosa
prendiamo?” disse Grete, guardandosi intorno; e in quel momento il suo sguardo
incontrò quello di Gregorio sulla parete. Se conservò il suo sangue freddo, fu
per la mamma. Tremando tutta e cercando di coprire, con la testa, la vista del
muro, disse alla donna: “Vieni, forse è meglio che torniamo un momento in
sala”. Gregorio capì che Grete voleva mettere al sicuro la mamma, per poi
cacciarlo dal muro. Ci si provasse! Lui non si sarebbe mosso dal suo quadro:
piuttosto le sarebbe saltato in faccia.
Ma
le parole di Grete servirono a rendere ancora più inquieta la madre, che si
scansò e vide l’enorme macchia bruna sulla carta a fiori della tappezzeria.
Prima ancora di aver identificato quella macchia con Gregorio, gridò con voce
rauca: “Oh Dio, oh Dio!” e cadde sul divano con le braccia spalancate, come
in un gesto di suprema rinuncia, e non si mosse più. “Ah, Gregorio!” gridò
la sorella, alzando il pugno e trafiggendolo con lo sguardo. Erano le prime
parole che gli rivolgeva direttamente, dal momento della metamorfosi. Corse
nella stanza vicina a prendere qualche cosa per far rinvenire l’esanime;
Gregorio volle seguirla, a salvare il ritratto c’era ancora tempo, ma era
rimasto attaccato al vetro, e dovette fare uno sforzo per liberarsi. Quindi
anche lui si affrettò in sala, quasi fosse ancora in grado di consigliare la
sorella, seguendola passivamente, mentre frugava tra flaconi e boccette, e
spaventandola quando si girò. Una boccetta cadde a terra e andò in frantumi,
una scheggia ferì Gregorio in faccia, mentre intorno a lui si spandeva un
liquido corrosivo. Grete, senza indugiare, afferrò quante più boccette poté e
corse dalla mamma, chiudendosi dietro la porta con un calcio. Ora Gregorio era
separato dalla madre, forse vicina a morire per colpa sua; non poteva aprire la
porta, se non voleva far fuggire la sorella che doveva rimanere accanto alla
mamma: non gli restava dunque che aspettare e, pieno di rimorsi e di angoscia,
cominciò a strisciare sulle pareti, sui mobili, sul soffitto, finché non ebbe
l’impressione che tutta la stanza gli girasse intorno: a questo punto,
disperato, cadde in mezzo al grande tavolo.
Passò
qualche minuto. Gregorio giaceva, stremato, sul tavolo; intorno non si sentiva
nulla, forse questo era un buon segno. A un tratto, suonò il campanello. La
domestica era, naturalmente, chiusa in cucina, e Grete dovette andare ad aprire.
Era arrivato il padre.
“Che
è successo?” furono le sue prime parole: l’aspetto di Grete gli aveva
rivelato ogni cosa. Grete rispose con voce soffocata - forse appoggiava il viso
contro il suo petto -: “La mamma è svenuta, ma ora va meglio. Gregorio è
scappato”. “Me l’aspettavo”, disse il padre. “Ve l’ho sempre detto,
ma voi donne non volete starmi a sentire”. Gregorio capì che il padre aveva
interpretato male le parole di Grete, che lo immaginava colpevole di qualche
violenza. Bisognava cercare di placarlo, perché mancavano tempo e modi per
spiegargli le cose. Corse verso la porta della camera e si strinse ad essa,
affinché il babbo, entrando nell’anticamera, vedesse che lui aveva
l’intenzione di rientrare subito nella sua stanza, e che non era necessario
spingerlo: sarebbe sparito, non appena gli avessero aperto la porta.
Ma
il padre non era in un umore tale da apprezzare simili finezze: “Ah!” gridò
entrando, con una specie di feroce allegria. Gregorio distolse la testa dalla
porta, e la alzò verso il padre. Non se lo immaginava davvero, in quel modo.
Negli ultimi tempi, tutto preso dalla novità delle sue passeggiate lungo le
pareti, aveva trascurato di seguire gli avvenimenti domestici; non doveva quindi
stupirsi di qualche cambiamento. Ma quell’uomo era proprio suo padre? Lo
stesso uomo stanco, che rimaneva sprofondato nel letto quando Gregorio partiva
per un viaggio d’affari? Che, quando tornava, lo riceveva senza alzarsi dalla
poltrona, limitandosi ad alzare le braccia in segno di gioia? Che in occasione
delle rare passeggiate familiari - qualche domenica, qualche grande festa - si
trascinava tra Gregorio e la moglie, avanzanti piano piano? L’uomo infagottato
in un vecchio cappotto, col bastone prudentemente puntato in avanti, che si
fermava ogni dieci passi, facendo fermare gli altri per dire qualche cosa?
Eccolo lì impettito, in un’impeccabile uniforme blu coi bottoni d’oro, da
commesso di banca; sopra il colletto alto e duro della giubba traboccava il suo
pesante doppio mento; gli occhi neri brillavano, vivaci e attenti, al di sotto
delle folte sopracciglia; i capelli bianchi, di solito in disordine, erano
accuratamente pettinati, lucidi e divisi da una esatta scriminatura. Per prima
cosa buttò sul divano il berretto col monogramma dorato, probabilmente di una
banca, facendolo volare attraverso la stanza, quindi, gettate indietro le falde
della lunga giacca, con le mani in tasca, avanzò minaccioso verso Gregorio.
Neppure lui doveva sapere precisamente cosa fare; avanzava sollevando i piedi più
di quanto normalmente si faccia, e Gregorio si stupì per la lunghezza delle sue
scarpe. Ma non si soffermò a riflettere su questo punto: fino dal primo giorno
della sua nuova vita sapeva bene che il padre considerava opportuna, nei suoi
confronti, solo la più grande severità, e si diede alla fuga. Si fermava
quando quello si fermava, e riprendeva a correre appena l’altro accennava a
muoversi. In questo modo fecero diverse volte il giro della stanza, senza che
succedesse niente; il ritmo dei loro movimenti era, anzi, tanto lento, da non
avere neppure l’apparenza di un inseguimento. Gregorio, temendo che il padre
considerasse una fuga sulle pareti o sul soffitto come una beffa, restava sul
pavimento. Ma presto dovette convincersi che non avrebbe retto a lungo quella
corsa continua: un solo passo del padre gli costava un’infinità di movimenti
e già lo opprimeva l’affanno, non aveva mai avuto polmoni robusti. Avanzava
barcollando, con tanto sforzo da non riuscire a tenere gli occhi aperti,
nell’assurda speranza che la fuga rappresentasse la salvezza, senza neppure
pensare alle pareti pur sempre accessibili, anche se piene di mobili finemente
intagliati, pieni di angoli e di punte. D’improvviso qualcosa gli cadde vicino
e rotolò via adagio. Era una mela, subito seguita da un’altra. Gregorio
rimase paralizzato dalla paura: inutile continuare a correre, se il padre aveva
deciso di bombardarlo. Si era riempito le tasche dalla fruttiera sulla credenza,
e lanciava una mela dopo l’altra, senza badare troppo alla mira. Le mele,
piccole e rosse, rotolavano sul pavimento, urtandosi come elettrizzate. Una lo
sfiorò e scivolò via senza fargli male; ma un’altra affondò addirittura
nella sua schiena. Gregorio volle trascinarsi ancora avanti, come se il
movimento potesse lenire l’incredibile dolore che lo aveva sorpreso: ma rimase
inchiodato al pavimento, sentendosi venir meno. Riuscì ancora a vedere la porta
della sua camera che si spalancava, facendo passare la sorella che urlava e la
mamma discinta, perché Grete l’aveva svestita per farla riavere, la madre
correre verso il padre, inciampando nelle sottane che cadevano una dopo
l’altra, slanciarsi su di lui, abbracciarlo e tenendolo stretto a sé, con le
mani intrecciate dietro la nuca, chiedergli di risparmiare la vita del loro
figliolo. A questo punto, Gregorio non vide più nulla.
3.
La
mela, che nessuno osò estrarre, rimase conficcata nella carne di Gregorio, come
un visibile ricordo dell’avvenimento. La grave ferita, di cui soffrì per un
mese, parve ricordare anche al padre che Gregorio, nonostante il suo aspetto
misero e ripugnante, era un membro della famiglia e non poteva essere trattato
come un nemico: il dovere familiare imponeva, al contrario, di reprimere la
ripugnanza e di avere pazienza, solo pazienza.
La
ferita gli aveva compromesso, probabilmente per sempre, la scioltezza dei
movimenti. Per attraversare la stanza impiegava, come un vecchio invalido,
lunghi minuti, ad arrampicarsi sui muri non pensava nemmeno più. Ma questo
peggioramento del suo stato trovò un compenso nel fatto che tutte le sere,
ormai, aprivano le porte della sala. Lui cominciava ad aspettare due ore prima;
nel buio della camera, invisibile dalla sala, poteva vedere la famiglia intorno
al tavolo illuminato e ascoltare i discorsi, col consenso generale. Era molto
meglio di prima.
Certo,
non erano più le animate conversazioni di un tempo, alle quali Gregorio pensava
sempre con una certa nostalgia, quando stanco si infilava tra umide lenzuola, in
una cameretta d’albergo. Quasi sempre i commensali rimanevano in silenzio. Il
padre, subito dopo cena, si addormentava in poltrona. La madre e la sorella si
esortavano al silenzio; la madre, sporgendosi sotto la lampada, cuciva
biancheria fine per un negozio di mode; la sorella, impiegata come commessa,
studiava stenografia e francese, nella speranza di ottenere, un giorno, un posto
migliore. A volte il padre si svegliava e, come se non sapesse di aver dormito,
diceva alla madre: “Ma quanto continui a cucire oggi?” e subito si
riaddormentava, mentre la madre e la sorella si sorridevano stanche. Per una curiosa caparbietà, il padre non voleva togliersi l’uniforme nemmeno in casa; la vestaglia rimaneva appesa nell’armadio e lui dormiva, vestito di tutto punto, in poltrona, come se fosse sempre in servizio e aspettasse anche lì la voce di un superiore. L’uniforme, che non gli era stata consegnata nuova, perdeva freschezza di giorno in giorno, nonostante le cure della madre e della sorella. Spesso Gregorio rimaneva a fissare, per serate intere, quell’abito coperto di macchie, dai bottoni d’oro sempre lucidi, e nel quale il vecchio dormiva, placido e scomodo. Quando l’orologio aveva suonato le dieci, la madre, a bassa voce, cercava di svegliarlo e di convincerlo ad andare a letto: in poltrona non poteva dormire, e il riposo gli era necessario, dovendo entrare in servizio alle sei. Ma con quella testardaggine di cui dava prova da quando era diventato commesso, lui insisteva per rimanere ancora a tavola, benché si riaddormentasse regolarmente e fosse poi un’impresa fargli cambiare la poltrona con il letto. La madre e la sorella potevano insistere, con brevi esortazioni, quanto volevano, lui scrollava la testa per un quarto d’ora, con gli occhi semichiusi, senza alzarsi. La madre lo tirava per la manica, gli sussurrava paroline all’orecchio, la sorella lasciava i suoi compiti per aiutare la mamma, ma tutto era inutile, quello sprofondava ancora di più nella poltrona. Solo quando le due donne lo afferravano sotto le ascelle, apriva gli occhi, guardava prima una, poi l’altra, diceva:
“Davvero
una bella vita! Ecco il riposo della mia vecchiaia!” quindi, appoggiandosi
alle due donne, si alzava a fatica, quasi fosse di peso anche a sé stesso, si
lasciava portare fino alla porta, faceva un gesto di saluto e continuava da
solo; mentre Grete e la mamma, messi da parte penna e cucito, correvano ad
aiutarlo ancora.
Chi
aveva tempo, in quella famiglia oppressa dal lavoro e dalla fatica, di badare a
Gregorio più dello stretto necessario? Le spese di casa vennero sempre più
ridotte; la domestica fu licenziata; mattina e sera, per fare i lavori più
pesanti, venne un donnone ossuto, coi capelli candidi; a tutto il resto pensava
la madre, pur continuando nel suo pesante lavoro di cucito. Si dovettero vendere
diversi gioielli di famiglia, portati un tempo con orgoglio dalla madre e
dalla sorella in feste e circostanze solenni; Gregorio lo seppe una sera,
sentendo discutere i prezzi. Ma la preoccupazione maggiore della famiglia era
che le circostanze non permettessero di lasciare quella casa, diventata troppo
grande. Come portare via Gregorio? Questi capì, però, che, se il trasloco non
si faceva, non era solo per riguardo verso di lui, che avrebbe potuto facilmente
essere trasportato in una cassa provvista di qualche buco; quello che,
soprattutto, tratteneva la famiglia dal cambiare casa, era l’assoluta
disperazione, il pensiero di essere stata colpita da una disgrazia unica nella
cerchia dei parenti e degli amici. Compivano con scrupolo estremo tutto quanto
il mondo impone ai poveri: il padre portava la colazione ai piccoli impiegati,
la madre si sacrificava a cucire la biancheria di estranei, la sorella correva
su e giù dietro il banco, secondo le richieste dei clienti: eppure, sembrava
che non bastasse. La ferita faceva male a Gregorio come se fosse fresca, quando
la madre e la sorella, dopo aver portato a letto il padre, mettevano da parte il
lavoro e restavano abbracciate, guancia a guancia. Accennando alla stanza di
Gregorio, la madre diceva: “Chiudi la porta, Grete”, e Gregorio si trovava
di nuovo al buio, mentre le donne mescolavano le loro lacrime o fissavano la
tavola con gli occhi asciutti.
Gregorio
non dormiva quasi più né di giorno né di notte. A volte pensava che, appena
aperta la porta, avrebbe ripreso in mano gli affari di famiglia; dopo un lungo
oblio, un giorno gli tornarono in mente il principale e il procuratore, i
commessi e gli apprendisti, il fattorino tonto, due, tre amici di altre ditte,
la cameriera di un albergo di provincia, caro, fuggevole ricordo, la cassiera di
un negozio di cappelli, che aveva corteggiato seriamente, ma prendendo le cose
troppo alla larga: tutta questa gente gli riapparve insieme ad estranei o con
altra gente dimenticata, ma nessuno poteva aiutare lui e i suoi, erano così
lontani, e fu contento quando scomparvero. Quei fantasmi, tuttavia, gli fecero
passare la voglia di occuparsi della famiglia; ormai sentiva solo rabbia per la
cattiva assistenza e, benché non sapesse immaginare nulla che gli facesse gola,
fantasticava sul come raggiungere la dispensa per prendere quanto gli spettava,
anche se non aveva fame. Ora la sorella non cercava più di prevenire i suoi
desideri. Prima di correre in negozio, mattina e pomeriggio, spingeva col piede
un cibo qualsiasi nella camera di Gregorio, per tirarlo fuori, la sera, con un
colpo di scopa, indifferente se il cibo era stato assaggiato o, come accadeva la
maggior parte delle volte, era rimasto intatto. La pulizia della stanza, che
avveniva sempre di sera, non sarebbe potuta essere più sbrigativa. Le pareti
erano percorse da strisce di sudiciume, qua e là si vedevano batuffoli di
polvere. I primi tempi, Gregorio si metteva, all’arrivo della sorella, in un
angolo più sporco degli altri, per farle così, in un certo modo, un
rimprovero. Ma la sorella non si sarebbe mossa neppure se lui fosse rimasto al
suo posto per settimane; vedeva il sudicio quanto lui, ma aveva deciso, una
volta per sempre, di lasciarlo dove era. Ciò non toglieva che fosse gelosa
della prerogativa di pulire la camera di Gregorio: un atteggiamento nuovo, che
non era la sola a manifestare. Una volta la madre, per pulire la camera a fondo,
adoperò parecchi secchi d’acqua, col risultato di contristare, tra tanti
scrosci, il povero Gregorio immobile sul divano; ma ebbe poi il fatto suo.
Quando la sorella, la sera, entrò in camera e si accorse della novità, si
precipitò in sala, offesa a morte, e scoppiò in un pianto dirotto, nonostante
le mani supplichevolmente levate della mamma. Il padre, svegliato di soprassalto
nella sua poltrona, non seppe, sulle prime, raccapezzarsi, come, del resto, sua
moglie; poi l’agitazione divenne generale. Il signor Samsa rimproverava a
destra la mamma perché non aveva lasciato alla sorella la pulizia della camera
di Gregorio, a sinistra gridava alla sorella di non occuparsene più. La madre
cercava di trascinare in camera il marito fuori di sé per l’agitazione,
mentre la sorella, scossa da singhiozzi, martellava il tavolo coi suoi piccoli
pugni e Gregorio sibilava di rabbia, vedendo che a nessuno veniva in mente di
chiudere la porta per risparmiargli quella scena e quel chiasso.
Ma
anche se la sorella, sfinita dal lavoro, non poteva più accudire Gregorio come
prima, si poteva trovare una soluzione senza bisogno di ricorrere alla madre:
c’era, infatti, la donna a mezzo servizio. La vecchia vedova, che in una lunga
vita, grazie alle sue solide ossa, ne aveva superate di tutti i colori, non
provava per Gregorio una vera ripugnanza. Una volta aveva aperto per caso la
porta della camera e, con le mani sul grembo, era rimasta, stupita, a guardare
Gregorio che, colto di sorpresa, correva di qua e di là benché nessuno lo
inseguisse. Da quel giorno non mancò mai, mattina e sera, di socchiudere la
porta e di dare un’occhiata a Gregorio. Le prime volte cercava di attirarlo
con richiami che dovevano sembrarle affettuosi, come: “Fatti avanti, vecchio
scarafaggio!” oppure: “Guardalo un po’ il vecchio scarafaggio!” A questi
inviti, Gregorio non rispondeva, ma restava, immobile, come se nessuno fosse
entrato. Invece di permettere che quella donna lo stuzzicasse secondo i suoi
capricci, senza costrutto, avrebbero fatto meglio a ordinarle di pulire la sua
camera ogni giorno! Una volta, di mattina presto, mentre una pioggia violenta,
forse già un segno della vicina primavera, batteva sui vetri, Gregorio fu
talmente irritato dai discorsi della donna, che con la sua andatura goffa e
pesante fece per assalirla. La vecchia, per nulla impressionata, si limitò ad
afferrare una sedia accanto alla porta; immobile, teneva la bocca aperta,
lasciando intendere che l’avrebbe richiusa solo quando la sedia si fosse
abbattuta sulla schiena di Gregorio. “Allora, non ti fai più avanti?”
chiese nel vedere Gregorio battere in ritirata. E posò di nuovo la sedia nel
suo angolo.
Gregorio
non mangiava quasi più nulla. Solo quando si trovava a passare davanti al cibo,
tanto per fare qualcosa, afferrava un boccone, che teneva in bocca per ore,
sputandolo poi via quasi sempre. All’inizio pensò che l’inappetenza gli
venisse dalla malinconia in cui lo metteva la sua camera, ma presto si adattò
ai cambiamenti sopravvenuti. Avevano preso ormai l’abitudine di mettere in
quella stanza tutto quello che non trovava posto altrove, e cioè molta roba, da
quando una camera dell’appartamento era stata affittata a tre pensionanti.
Questi serissimi signori - tutti con una gran barba, come Gregorio poté vedere,
una volta, dalla fessura della porta - erano esigentissimi in fatto d’ordine,
non solo nella loro stanza, ma, poiché erano ormai di casa, in tutto
l’appartamento e specialmente in cucina. Non sopportavano di vedere in giro
cianfrusaglie inutili; inoltre, avevano portato con loro quasi tutti i mobili
che servivano. Molta roba, che non si poteva vendere né buttare via, diventata
inservibile, era finita nella camera di Gregorio, persino la cassetta della
cenere e il secchio della spazzatura. La vecchia che aveva sempre fretta,
gettava là dentro tutto quello che sul momento non le serviva. Gregorio, per
fortuna, vedeva solo l’oggetto e la mano che lo reggeva. Forse la donna aveva
intenzione, una volta o l’altra, di riprendere oppure di buttar via in blocco
quella roba, ma intanto tutto restava dov’era caduto, a meno che Gregorio non
fosse costretto a passare tra quel ciarpame; prima fu costretto a farlo, perché
gli mancava spazio per strisciare, poi ci prese gusto, sebbene dopo ogni
scorribanda rimanesse immobile per ore, stanco e triste da morire.
I
pensionanti, a volte, cenavano in casa, nella sala comune. La porta, in questi
casi, restava chiusa, ma Gregorio non ci faceva più gran caso: già in
precedenza, negli ultimi tempi, la porta era rimasta aperta e lui era rimasto,
senza che la famiglia se ne accorgesse, nell’angolo più buio della sua
stanza. Ma un giorno la vecchia non chiuse bene la porta, che rimase socchiusa
anche quando i pensionanti entrarono nella sala. Quelli, dopo avere acceso il
gas, sedettero al tavolo dove una volta sedevano il padre, la madre e Gregorio,
spiegarono i tovaglioli e presero le posate. Subito sulla porta comparve la
madre, con un piatto di carne, seguita dalla sorella, con un piatto pieno di
patate. I cibi esalavano un denso sapore. I pensionanti si piegarono sui piatti
posti loro davanti, come per esaminarli prima di mangiare: quello in mezzo, che
sembrava il più autorevole, tagliò infatti un pezzetto di carne sul vassoio,
con l’evidente proposito di accertarsi se era ben cotta o se non era il caso
di rimandarla in cucina. Sembrò soddisfatto e la madre e la sorella, rimaste a
guardarlo trepidanti, respirarono e ripresero a sorridere. La famiglia mangiava
in cucina. Tuttavia il padre, prima di passare in cucina, entrò in sala, si
inchinò tenendo il berretto in mano, e girò intorno al tavolo. I pensionanti
si alzarono tutti insieme, mormorando qualcosa nelle loro barbe. Rimasti soli,
mangiarono in un silenzio quasi completo. A Gregorio sembrò strano che, in
mezzo ai vari rumori, emergesse quello dei denti che masticavano, quasi a
provargli che, per mangiare, servivano i denti e che le più belle mascelle del
mondo non sarebbero servite a nulla. “Anch’io ho fame!” si disse Gregorio
preoccupato. “Ma non di quella roba. Come si riempiono quei pensionanti,
mentre io sto crepando!”
Quella
stessa sera - Gregorio non ricordava di averlo mai sentito - arrivò dalla
cucina il suono del violino. I pensionanti avevano finito la cena, quello in
mezzo aveva tirato fuori un giornale, dando agli altri un foglio per ciascuno;
leggevano e fumavano, appoggiati agli schienali. Nel sentire il violino si
scossero, si alzarono e, in punta di piedi, si avvicinarono alla porta
dell’anticamera, stringendosi gli uni agli altri. Dalla cucina dovettero
averli sentiti, perché il padre gridò: “Vi disturba la musica? Possiamo
smettere subito”. “Al contrario”, disse il signore di mezzo. “Non
potrebbe la signorina venire a suonare qui, dove può stare più comoda e
sentirsi maggiormente a suo agio?” “Prego, prego!” esclamò il padre, come
se fosse lui a suonare. I signori ripresero i loro posti e aspettarono. Arrivò
il padre con un leggìo, seguito dalla madre con la musica e dalla sorella con
il violino. La sorella cominciò, tranquilla, a preparare ogni cosa; i genitori,
che non avevano mai affittato stanze, e perciò esageravano in gentilezza verso
gli ospiti, non osarono neppure sedersi sulle loro poltrone. Il padre si appoggiò
alla porta, la mano destra infilata tra due bottoni della giacca; la madre, alla
quale uno dei signori aveva offerto una sedia, rimase in un angolo, perché le
mancò il coraggio di spostarla.
La
sorella cominciò a suonare. Il padre e la madre, ognuno dalla sua parte,
seguivano attenti le mani della ragazza.
Gregorio,
attirato dalla musica, si era azzardato un po’ più avanti e sporgeva la testa
nella sala. Non si stupiva per lo scarso riguardo che ormai aveva verso gli
altri, mentre prima si faceva un vanto della sua delicatezza. Eppure, mai come
ora avrebbe avuto ragione di nascondersi. A causa della polvere che nella stanza
copriva ogni cosa, alzandosi al minimo movimento, era diventato tutto polveroso,
con la schiena e i fianchi pieni di fili, peli, avanzi di cibo. Nella sua
apatia, ora, non pensava più a pulirsi diverse volte al giorno, strofinandosi
contro il tappeto, come faceva prima. Nonostante il suo aspetto fosse quello
descritto, ebbe il coraggio di avanzare sull’immacolato pavimento della sala.
Nessuno, per la verità, badava a lui. La famiglia era tutta assorta nella
musica del violino; i pensionanti, che in un primo momento, con le mani in
tasca, si erano troppo accostati al leggìo per leggere le note, disturbando la
ragazza, si erano poi ritirati, a capo chino e parlando sottovoce, contro la
finestra, dove rimasero sotto lo sguardo preoccupato del padre. Era ormai
evidente che erano rimasti delusi nella loro speranza di ascoltare una musica
bella o almeno divertente, si mostravano annoiati e sopportavano solo per
cortesia quella seccatura. Il modo in cui soffiavano dal naso o dalla bocca il
fumo dei sigari, facendolo salire al soffitto, dimostrava un grande nervosismo.
Eppure la sorella suonava così bene! Con il viso reclinato, seguiva le note con
uno sguardo attento e malinconico. Gregorio strisciò ancora in avanti, tenendo
il capo contro il pavimento, per poter cogliere un suo sguardo. Era dunque un
animale, se la musica lo prendeva in quel modo? Gli sembrava di intravedere una
strada verso un desiderato e sconosciuto nutrimento. Era deciso ad arrivare fino
alla sorella, a tirarla per la gonna, per farle capire che doveva andare col
violino in camera sua, perché nessuno lì sapeva apprezzare la sua musica come
lui l’avrebbe apprezzata. Non l’avrebbe più fatta uscire dalla sua camera,
almeno finché fosse vissuto; il suo aspetto orribile, una volta tanto, gli
sarebbe stato utile, sarebbe stato davanti a tutte le porte in una volta sola,
per respingere, soffiando, gli aggressori. Però la sorella non doveva restare
con lui per forza, doveva rimanere spontaneamente, sedergli accanto sul divano,
prestargli orecchio: e lui le avrebbe confidato che aveva avuto la ferma
intenzione di mandarla al conservatorio e che per Natale - era già passato
Natale? - avrebbe annunciato la cosa a tutti, senza preoccuparsi di nessuna
obiezione. A queste parole Grete, commossa, sarebbe scoppiata in lacrime,
Gregorio si sarebbe sollevato fino alle sue spalle e le avrebbe baciato il
collo, che lei, da quando andava in negozio, portava libero, senza nastro né
colletti.
“Signor
Samsa!” gridò al padre il signore di mezzo; e, senza aggiungere parola, indicò
Gregorio, che lentamente avanzava. Il violino tacque, il signore di mezzo
sorrise agli amici scuotendo il capo, e guardò di nuovo verso Gregorio. Il
padre credette necessario di rassicurare i pensionanti, invece di cacciare via
Gregorio, sebbene quelli non fossero agitati e sembrassero divertirsi più per
quella apparizione che per la musica del violino. Il padre corse verso di loro
con le braccia spalancate, cercando di spingerli nella loro stanza e di coprire
col suo corpo la vista di Gregorio. Allora quelli incominciarono ad arrabbiarsi,
non si capiva bene se per il comportamento del padre o perché si rendevano d’un
tratto conto di aver avuto, a loro insaputa, un simile vicino. Chiesero
spiegazioni al signor Samsa, a loro volta spalancarono le braccia, tirandosi
nervosamente la barba e retrocedendo verso la loro camera. Nel frattempo, la
sorella aveva superato lo smarrimento in cui era caduta dopo l’improvvisa
interruzione della musica; dopo essere rimasta un po’ con il violino e con
l’archetto nelle mani che pendevano inerti, continuando a guardare lo spartito
come se ancora suonasse, si scosse, depose lo strumento in grembo alla madre,
che sedeva ancora al suo posto respirando a fatica, e corse nella stanza
accanto, verso la quale si avvicinavano i pensionanti, sospinti dal padre. Sotto
le sue mani esperte, coperte e cuscini volarono in aria, per ridisporsi in
bell’ordine sui letti. Prima ancora che i signori avessero raggiunto la
stanza, aveva preparato ogni cosa ed era scivolata fuori. Il padre sembrava
preso così tanto dal suo spirito di ostinazione, da dimenticare il rispetto che
doveva ai suoi ospiti. Continuava a spingere e spingere, finché il signore di
mezzo, già sulla soglia della camera, non batté, imprecando, un piede a terra,
costringendolo a fermarsi. Il signore alzò la mano, cercò con lo sguardo la
madre e la sorella, e disse: “Dichiaro che, considerate le sconcezze esistenti
in questa casa e in questa famiglia”, a questo punto, con decisione
improvvisa, sputò sul pavimento, “do disdetta immediata della camera.
Naturalmente non pagherò un soldo per i giorni che ho abitato qui, vedrò se
non sarà addirittura il caso di chiedervi un indennizzo che, credetemi, sarebbe
molto facile da motivare”. Tacque e rimase con lo sguardo fisso davanti a sé,
come in attesa. Infatti, intervennero gli amici: “Anche noi diamo disdetta
immediata”. Allora il signore di mezzo afferrò la maniglia della porta e si
chiuse dentro, con fracasso, la porta.
Il
padre barcollò, annaspando, fino alla sua poltrona e ci si lasciò cadere
pesantemente; sembrava quasi che ci si fosse disteso per il pisolino serale, ma
le scosse che imprimeva alla testa abbandonata mostravano che non dormiva
affatto. Gregorio era rimasto, per tutto il tempo, fermo nel posto in cui i
pensionanti lo avevano sorpreso. La delusione per il fallimento del suo piano,
forse anche la debolezza provocata dalla gran fame, non gli permettevano di
muoversi. Sapeva che da un momento all’altro si sarebbe abbattuto su di lui un
attacco di tutta la famiglia e aspettava. Non si spaventò neppure quando il
violino cadde, con un suono profondo, dalle dita tremanti della mamma, che fino
a quel momento lo aveva tenuto in grembo.
“Cari
genitori”, disse la sorella, picchiando la mano sulla tavola a guisa
d’introduzione, “così non si va avanti. Se non ve ne accorgete voi, me ne
accorgo io. Davanti a questa bestiaccia, non voglio pronunciare il nome di mio
fratello, vi dico solo: dobbiamo cercare di liberarcene. Abbiamo fatto quanto
era umanamente possibile per curarlo e sopportarlo, credo; nessuno potrà farci
al riguardo il minimo rimprovero”.
“Ha
mille ragioni”, disse il padre tra sé. La madre, che ancora non aveva ripreso
fiato, tossiva sordamente nella mano tenuta contro il viso, con un’espressione
da folle negli occhi. La sorella le corse vicino e le sostenne la fronte. Le
parole della sorella sembravano aver chiarito le idee al padre. Dritto sulla
poltrona, giocherellava col berretto finito tra i piatti che erano rimasti sul
tavolo, e di tanto in tanto alzava lo sguardo su Gregorio, sempre immobile al
suo posto.
“Bisogna
cercare di liberarcene”, disse la sorella rivolgendosi, ora, solo al padre,
perché la mamma, con la sua tosse, non sentiva nulla. “Altrimenti finirà con
l’ammazzarvi, ne sono certa. Quando si lavora duro come noi, non è possibile
sopportare, per giunta, questo perpetuo martirio in casa. Anch’io non lo
sopporto più”. E scoppiò in un pianto così violento, che le lacrime presero
a colare sul viso della madre, mentre lei, con gesti meccanici, le asciugava.
“Figlia
mia”, disse il padre impietosito, con un insolito spirito di comprensione,
“che dobbiamo fare?”
La
sorella si strinse nelle spalle, esprimendo così la perplessità che l’aveva
colta durante il pianto, in contrasto con la sicurezza di prima.
“Se
lui, almeno, ci capisse!” disse il padre, come ponendo una domanda; ma la
sorella, tra le lacrime, scosse con veemenza la mano, per significare che non
c’era da pensarci.
“Se
lui ci capisse”, ripeté il padre chiudendo gli occhi, quasi per dimostrare
che, d’accordo con la figlia, escludeva quella possibilità, “forse potremmo
intenderci. Ma così...” “Deve andar via!” gridò la sorella. “È l’unico mezzo, babbo. Devi solo liberarti del pensiero che quel coso sia Gregorio. La nostra vera disgrazia è stata che lo abbiamo creduto per tanto tempo. Come potrebbe essere Gregorio? Se fosse Gregorio, si sarebbe accorto da un pezzo che degli uomini non possono convivere con una bestia simile e se ne sarebbe andato da solo. Avremmo perduto un fratello, è vero, ma avremmo potuto continuare a vivere e a onorare la sua memoria. Invece questa bestia ci perseguita, mette in fuga i pensionanti, vuole, è evidente, occupare tutta la casa e metterci in mezzo a una strada. Guarda, babbo!” gridò d’improvviso. “Ora ricomincia!”
E
in un moto di terrore che Gregorio non riuscì a capire, la sorella abbandonò
così bruscamente la madre da far vacillare la poltrona, quasi preferisse
sacrificare la madre piuttosto che rimanere vicino a Gregorio. Quindi corse
verso il padre, che, persa a sua volta la testa, si alzò levando le braccia,
come per proteggerla.
Ma
Gregorio non ci pensava a spaventare qualcuno, tanto meno la sorella. Aveva solo
cominciato a girarsi per tornare nella sua stanza; i suoi movimenti potevano
sembrare sospetti perché, sofferente com’era, nelle fasi più difficili
doveva aiutarsi con la testa, che alzava a diverse riprese, e poi batteva sul
pavimento. Si fermò e si guardò intorno. Si erano accorti, sembrava, delle sue
buone intenzioni: era stato solo un momento di panico. Ora lo guardavano tristi
e in silenzio. La madre era allungata sulla sua poltrona, le gambe distese e
strette una all’altra, gli occhi quasi chiusi dalla stanchezza; il padre e la
sorella sedevano vicini, la sorella aveva appoggiato il braccio intorno al collo
del padre.
“Ora,
forse, posso girarmi”, pensò Gregorio, e si rimise al lavoro. Lo sforzo gli
dava l’affanno e ogni tanto doveva riposare. Ma nessuno lo spingeva, poteva
regolarsi come credeva. Quando ebbe finito di girarsi, cominciò a dirigersi
dritto verso la camera. Si stupì per la distanza e non capì come prima avesse
potuto coprire, debole com’era, tutto quel tratto, quasi senza accorgersene.
Sempre preoccupato di strisciare via più in fretta che poteva, non si accorse
che non una parola, non un grido della famiglia lo turbarono. Solo quando ebbe
raggiunta la soglia girò la testa, non del tutto, perché il collo gli si
irrigidiva, solo quanto fu sufficiente per vedere che alle sue spalle niente era
cambiato, soltanto la sorella si era alzata. Il suo ultimo sguardo sfiorò la
madre, ormai assopita.
Appena
entrato nella stanza, la porta venne chiusa in fretta, sbarrata e fu girata la
chiave. Con tutto quel baccano, Gregorio si spaventò tanto che le zampine gli
si piegarono sotto. Era stata la sorella ad avere tanta fretta. Aveva aspettato,
dritta in piedi, quel momento, e poi era balzata avanti senza rumore. Gregorio
non l’aveva neppure sentita arrivare. “Finalmente!” gridò rivolta ai
genitori, dopo aver dato una mandata alla chiave. “E ora?” si chiese
Gregorio, guardandosi intorno, nel buio. Si accorse che non poteva più
muoversi. La cosa non lo stupì, piuttosto gli sembrò straordinario di essersi
potuto muovere fino a quel momento, sulle sue esili zampe. Del resto, si sentiva
abbastanza bene. Aveva, è vero, dolori in tutto il corpo, ma gli sembrava che a
poco a poco si facessero meno forti e che alla fine sarebbero scomparsi del
tutto. Non sentiva nemmeno più la mela marcia incastrata nella schiena né la
zona infiammata intorno, ora coperta di una polvere sottile. Pensava alla
famiglia con tenero affetto. La sua decisione di sparire era, se possibile,
ancora più ferma di quella della sorella. Rimuginando tra sé questi vuoti e
tranquilli pensieri, sentì l’orologio della torre battere le tre del mattino.
Vide ancora una volta, fuori dalla finestra, il cielo rischiararsi. Poi la testa
gli ricadde esanime, e dalle narici sfuggì l’ultimo, tenue respiro.
Quando,
la mattina presto, arrivò la donna - sia per la fretta, sia per esuberanza,
sbatteva le porte in modo tale che, sebbene l’avessero spesso pregata di avere
riguardo, al suo arrivo non era più possibile dormire tranquilli - nel fare,
come sempre, la sua breve visita a Gregorio, non notò, all’inizio, niente di
straordinario. Pensò che quello rimaneva di proposito così immobile, per fare
l’offeso; perché lo credeva capace di ragionare come un essere umano. Con la
lunga scopa che per caso stringeva, cercò di solleticarlo, rimanendo sulla
porta. Visto che neanche così otteneva nulla, si arrabbiò e colpì più forte.
Il corpo si spostò, senza resistenza; allora si incuriosì. Appena si fu resa
conto di quello che era successo, spalancò gli occhi, si mise a fischiettare,
ma poi non si trattenne, spalancò la porta della camera da letto e gridò nel
buio: “Vengano a vedere, è crepato; se ne sta lì disteso, proprio
crepato!”
I
due vecchi sedettero sul letto e dovettero rimettersi dallo spavento, prima di
capire quello che la donna aveva detto. Poi, ognuno dalla sua parte, saltarono
in piedi; il marito si buttò una coperta sulle spalle, la moglie rimase in
camicia e così entrarono nella camera di Gregorio. Intanto, si era aperta anche
la porta della sala, dove Grete dormiva da quando erano arrivati i pensionanti;
era completamente vestita, non sembrava che avesse dormito, come dimostrava
anche il pallore del volto. “È morto?” chiese la signora Samsa guardando la
vecchia con aria interrogativa, sebbene potesse vedere la cosa da sola e persino
convincersene senza verifiche. “Direi”, disse la donna spingendo, con la
scopa, a riprova, il cadavere di Gregorio e facendolo scivolare per un bel
tratto. La signora Samsa abbozzò un gesto per trattenere la scopa, ma si fermò
a metà. “Beh”, disse il signor Samsa, “ora possiamo ringraziare Iddio”.
Si fece il segno della croce e le tre donne ne seguirono l’esempio. Grete, che
non aveva distolto gli occhi dal cadavere, disse: “Guardate com’era
diventato magro. È tanto che non mangiava più niente. I cibi uscivano dalla
camera tali e quali com’erano entrati”. In realtà, il corpo di Gregorio era
secco e appiattito: si vedeva bene, ora che non era più sollevato dalle zampine
e che nulla distraeva lo sguardo.
“Vieni
da noi un momentino, Grete”, disse la signora Samsa con un sorriso
malinconico; e Grete, gettata un’ultima occhiata al cadavere, seguì i
genitori in camera da letto. La donna chiuse la porta e spalancò la finestra.
Sebbene fosse molto presto, l’aria fresca non sembrava più tanto cruda. Era
già la fine di marzo. I tre pensionanti, usciti dalla loro stanza, si
guardarono intorno stupiti, cercando la loro colazione; erano stati dimenticati.
“Dov’è la colazione? chiese quello di mezzo, accigliato, alla vecchia.
Questa posò l’indice sulle labbra e in silenzio li invitò, con un rapido
gesto, a entrare nella camera di Gregorio. Quelli si fecero avanti e, con le
mani nelle tasche delle giacchette lise, si fermarono intorno al cadavere, nella
luce ormai chiara.
In
quel momento, la porta della camera da letto si aprì e apparve il signor Samsa
in uniforme, tenendo a braccetto la moglie e la figlia. Mostravano tutti tracce
di pianto; Grete premeva il viso contro il braccio del padre.
“Se
ne vadano subito dalla mia casa!” disse il signor Samsa mostrando la porta,
senza lasciare le due donne.
“Che
intende dire?” chiese, perplesso, il signore di mezzo, con un sorriso
dolciastro. Gli altri due continuavano a stropicciarsi le mani dietro la
schiena, quasi aspettassero, tutti soddisfatti, una gran discussione destinata
a concludersi a loro vantaggio. “Intendo esattamente dire quello che ho
detto”, rispose il signor Samsa; e insieme con le due donne avanzò contro il
pensionante. Quello rimase, dapprima, immobile a fissare in silenzio il
pavimento, come se le cose gli si presentassero ora da un nuovo punto di vista.
“Bene, in questo caso ce ne andiamo” fece, guardando il signor Samsa come
se, in un accesso improvviso di umiltà, dovesse chiedergli un permesso per
questa decisione. Il signor Samsa si limitò ad accennare più volte,
brevemente, con il capo, fissandolo con gli occhi spalancati. Il signore uscì a
grandi passi nell’anticamera; i due amici, che erano rimasti in ascolto con le
mani tranquille, gli saltarono immediatamente dietro, quasi temessero che il
signor Samsa potesse precederli, impedendo che si riunissero al loro capo. In
anticamera presero i cappelli dall’attaccapanni, tolsero i bastoni dal
portaombrelli, si inchinarono in silenzio e lasciarono la casa. Per un senso di
diffidenza, rivelatosi poi ingiustificato, il signor Samsa e le due donne
uscirono sul pianerottolo. Appoggiati alla ringhiera, rimasero a guardare i tre
signori che, a passo lento ma continuo, scendevano la lunga scala, scomparendo a
ogni piano sotto una certa curva e riapparendo dopo qualche istante. Quanto più
quelli scendevano in basso, altrettanto calava l’interesse della famiglia
Samsa; quando un garzone di macellaio li ebbe raggiunti e poi superati, salendo
fiero la scala con un paniere sulla testa, il signor Samsa con le donne abbandonò
la ringhiera e tutti rientrarono, come sollevati, in casa.
Decisero
di dedicare quel giorno al riposo e al passeggio; non solo avevano meritato
quella tregua, ma ne avevano assolutamente bisogno. Sedettero al tavolo e
scrissero tre lettere di scusa, il signor Samsa al suo direttore, la signora al
suo commissionario e Grete al suo principale. Mentre stavano scrivendo, entrò
la vecchia a dire che aveva finito e che se ne andava. I tre annuirono, senza
alzare lo sguardo; poi guardarono risentiti, perché la donna non accennava a
muoversi.
“Allora?”
chiese il signor Samsa. La donna si era fermata sorridente sulla soglia, come se
avesse da annunciare alla famiglia una grande fortuna, ma volesse prima farsi
pregare. La piccola penna di struzzo dritta sul cappello, che il signor Samsa,
da quando la donna era al suo servizio, non aveva mai potuto soffrire, oscillava
in tutte le direzioni. “Ma cosa vuole, insomma?” chiese la signora Samsa.
Per lei la donna mostrava maggiore rispetto che per gli altri. “Eh sì”,
fece quella, e non poté continuare a parlare, tanto rideva contenta.
“Insomma, volevo dire che non si devono preoccupare sul come portare via
quella roba là. Ho pensato a tutto io”.
La
signora Samsa e Grete si chinarono sulle loro lettere, come per riprendere a
scrivere. Il signor Samsa, accortosi che la donna aveva intenzione di riferire
ogni cosa nei particolari, la fermò con un gesto risoluto. Visto che non le
lasciavano raccontare nulla, quella si ricordò di avere una gran fretta, gridò,
visibilmente offesa, “Arrivederci a tutti!” si girò di furia e abbandonò,
dopo una tremenda sbattuta di porta, la casa. “Stasera, la licenziamo”,
disse il signor Samsa, ma né la moglie né la figlia gli risposero, perché la
domestica sembrava avere di nuovo turbato la pace appena riconquistata. Si
alzarono, andarono alla finestra e rimasero lì abbracciate. Il signor Samsa si
rigirò sulla poltrona e rimase a guardarle per qualche momento. Poi gridò:
“Basta ora, venite qua. Smettetela di pensare alle vecchie storie e abbiate un
po’ di riguardo anche per me”. Le donne ubbidirono subito, corsero verso di
lui, lo vezzeggiarono, e finirono in fretta le loro lettere. Uscirono di casa tutti insieme, cosa che non facevano da mesi, e andarono a prendere un tram per uscire dalla città. La vettura, in cui sedevano soli, era piena della luce di un sole tiepido. Appoggiati comodamente agli schienali, discussero le possibilità del loro avvenire; e, tutto considerato, non le consideravano troppo brutte: non avevano mai parlato accuratamente delle loro faccende, ma i loro impieghi erano buoni e soprattutto promettevano bene. Intanto, si sarebbero procurati un grande vantaggio, cambiando subito casa. Avrebbero preso un appartamento più piccolo e più modesto, ma meglio esposto e, in particolare, più pratico di quello attuale, che era stato scelto da Gregorio. Mentre discorrevano di queste cose, quasi nello stesso momento, il signore e la signora Samsa si accorsero, guardando la loro figliola diventare sempre più vivace, come Grete, nonostante le pene che negli ultimi tempi avevano fatto impallidire le sue guance, era diventata una bella, florida ragazza. La loro conversazione languì e gettandosi, senza volere, occhiate d’intesa, pensarono che sarebbe stato tempo di cercarle un bravo marito. E fu per loro una conferma dei loro freschi sogni e delle loro buone intenzioni quando, alla fine della corsa, la figliola si alzò per prima, stirando il suo giovane corpo.
*
*
di
Fredric Brown
(1958)
(Titolo
originale: Sentry; traduzione di Carlo Fruttero)
Era
bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano
cinquantamila anni-luce da casa.
Un
sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella a
cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica.
Ma
dopo decine di migliaia d’anni quest’angolo di guerra non era cambiato. Era
comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le
loro superarmi; ma quando si arrivava al dunque, toccava ancora al soldato di
terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a
palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché
non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato
anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della Galassia...
crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.
Il
primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e
difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra,
subito; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo,
una soluzione pacifica.
E
adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
Era
bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo, e il giorno era
livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i
nemici tentavano d’infiltrarsi e ogni avamposto era vitale.
Stava
all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a
combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a
riportare a casa la pelle.
E
allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il
nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non
si mosse più. Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame.
*
*
Il
Colombre
(1966)
di
Dino Buzzati
Quando
Stefano Roi compì i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare
e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.
“Quando
sarò grande,” disse, “voglio andar per mare come te. E comanderò delle
navi ancora più belle e grandi della tua.”
“Che
Dio ti benedica, figliolo,” rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il
suo bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.
Era
una splendida giornata di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai
stato sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre
delle vele. E chiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli
davano tutte le spiegazioni.
Come
fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che
spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in
corrispondenza della scia della nave.
Benché
il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al giardinetto, quella
cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne comprendesse la
natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente.
Il
padre, non vedendo Stefano più in giro, dopo averlo chiamato a gran voce
invano, scese dalla plancia e andò a cercarlo.
“Stefano,
che cosa fai lì impalato?” gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi,
che fissava le onde.
“Papà,
vieni qui a vedere.”
Il
padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non
riuscì a vedere niente.
“C’è
una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia,” disse, “e che ci viene
dietro.”
“Nonostante
i miei quarant’anni,” disse il padre, “credo di avere ancora una vista
buona. Ma non vedo assolutamente niente.”
Poiché
il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie
del mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.
“Cos’è?
Perché fai quella faccia?”
“Oh,
non ti avessi ascoltato,” esclamò il capitano. “Io adesso temo per te.
Quella cosa che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa.
Quello è un colombre. È il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni
mare del mondo. È uno squalo tremendo e misterioso, più astuto dell’uomo.
Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l’ha
scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito a
divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la
vittima stessa e le persone del suo stesso sangue.”
“Non
è una favola?”
“No.
Io non l’avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante
volte, l’ho subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che
continuamente si apre e chiude, quei denti terribili. Stefano, non c’è
dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e finché tu andrai per mare non ti
darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu sbarcherai e non ti
staccherai mai più dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi
promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del
resto, anche a terra potrai fare fortuna.”
Ciò
detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in porto e, col pretesto
di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo. Quindi ripartì senza di lui.
Profondamente
turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l’ultimo picco dell’alberatura
sprofondò dietro l’orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare
restò completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscì a
scorgere un puntino nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il “suo”
colombre, che incrociava lentamente su e giù, ostinato ad aspettarlo.
Da
allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il
padre lo mandò a studiare in una città dell’interno, lontana centinaia di
chilometri. E per qualche tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò
più al mostro marino. Tuttavia, per le vacanze estive, tornò a casa e per
prima cosa, appena ebbe un minuto libero, si affrettò a raggiungere
l’estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo
ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta la
storia narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all’assedio.
Ma
Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di
due-trecento metri dal molo, nell’aperto mare, il sinistro pesce andava su e
giù, lentamente, ogni tanto sollevando il muso dall’acqua e volgendolo a
terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi finalmente veniva.
Così,
l’idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne per
Stefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di
svegliarsi in piena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sì, centinaia
di chilometri lo separavano dal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle
montagne, di là dai boschi, di là dalle pianure, lo squalo era ad aspettarlo.
E, si fosse egli trasferito pure nel più remoto continente, ancora il colombre
si sarebbe appostato nello specchio di mare più vicino, con l’inesorabile
ostinazione che hanno gli strumenti del fato.
Stefano,
ch’era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e,
appena fu uomo, trovò un impiego dignitoso e remunerativo in un emporio di
quella città. Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico
veliero fu dalla vedova venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una
discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli svaghi, i primi amori: Stefano si
era ormai fatto la sua vita, ciò nonostante il pensiero del colombre lo
assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni,
anziché svanire, sembrava farsi più insistente.
Grandi
sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più
grande è l’attrazione dell’abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano,
quando, salutati gli amici della città e licenziatosi dall’impiego, tornò
alla città natale e comunicò alla mamma la ferma intenzione di seguire il
mestiere paterno. La donna, a cui Stefano non aveva mai fatto parola del
misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione. L’avere il figlio
abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo, un
tradimento alle tradizioni di famiglia.
E
Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza
alle fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo
bastimento, di giorno e di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava
il colombre. Egli sapeva che quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma
proprio per questo, forse, non trovava la forza di staccarsene. E nessuno a
bordo scorgeva il mostro, tranne lui.
“Non
vedete niente da quella parte?” chiedeva di quando in quando ai compagni,
indicando la scia.
“No,
noi non vediamo proprio niente. Perché?”
“Non
so. Mi pareva...”
“Non
avrai mica visto per caso un colombre?” facevano quelli, ridendo e toccando
ferro.
“Perché
ridete? Perché toccate ferro?”
“Perché
il colombre è una bestia che non perdona. E se si mettesse a seguire questa
nave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto.”
Ma
Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi
moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento
nelle ore di lotta e di pericolo.
Con
la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentì padrone del
mestiere, acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne
divenne il solo proprietario e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté
in seguito acquistare un mercantile sul serio, avvicinandosi a traguardi sempre
più ambiziosi. Ma i successi, e i milioni, non servivano a togliergli
dall’animo quel continuo assillo; né mai, d’altra parte, egli fu tentato di
vendere la nave e di ritirarsi a terra per intraprendere diverse imprese.
Navigare,
navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti, metteva
piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l’impazienza di ripartire.
Sapeva che fuori c’era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era
sinonimo di rovina. Niente. Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un
oceano all’altro.
Finché,
all’improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio,
vecchissimo; e nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era,
non lasciasse finalmente la dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente
infelice, perché l’intera esistenza sua era stata spesa in quella specie di
pazzesca fuga attraverso i mari, per sfuggire al nemico. Ma più grande che le
gioie di una vita agiata e tranquilla era stata per lui sempre la tentazione
dell’abisso.
E
una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo del porto dov’era
nato, si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, in cui
aveva grande fiducia, e gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per
fare. L’altro, sull’onore, promise.
Avuta
questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento,
rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi
cinquant’anni, inutilmente.
“Mi
ha scortato da un capo all’altro del mondo,” disse, “con una fedeltà che
neppure il più nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per
morire. Anche lui, ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso
tradirlo.”
Ciò
detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi salì, dopo essersi
fatto dare un arpione.
“Ora
gli vado incontro,” annunciò. “È giusto che non lo deluda. Ma lotterò,
con le mie ultime forze.”
A
stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficiali e marinai lo videro
scomparire laggiù, sul placido mare, avvolto dalle ombre della notte. C’era
in cielo una falce di luna.
Non
dovette faticare molto. All’improvviso il muso orribile del colombre emerse di
fianco alla barca.
“Eccomi
a te, finalmente,” disse Stefano. “Adesso, a noi due!” E, raccogliendo le
superstiti energie, alzò l’arpione per colpire.
“Uh,”
mugolò con voce supplichevole il colombre, “che lunga strada per trovarti.
Anch’io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu
fuggivi, fuggivi. E non hai mai capito niente.”
“Perché?”
fece Stefano, punto sul vivo.
“Perché
non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del
mare avevo avuto soltanto l’incarico di consegnarti questo.”
E
lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera
fosforescente.
Stefano
la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui
riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza,
amore, e pace dell’animo. Ma era ormai troppo tardi.
“Ahimè!”
disse scuotendo tristemente il capo. “Come è tutto sbagliato. Io sono
riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua.”
“Addio,
pover’uomo,” rispose il colombre. E sprofondò per sempre nelle acque nere.
Due
mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera.
Fu avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul
barchino, ancora seduto, stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita
stringeva un piccolo sasso rotondo. Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro. A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamato kolomber, kahloubrha, kalonga, kalu-balu, chalun-gra. I naturalisti stranamente lo ignorano. Qualcuno perfino sostiene che non esiste.
*
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