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Un’infanzia a Subiaco
2006 - Edizioni del Comune di Subiaco
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Tutti gli Umani hanno in comune l’Infanzia |
La copertina del libro. |
Su molte cose sono e mi sento assai diverso da Giovanni Prosperi, artista, poeta e scrittore di Subiaco, della Valle dell’Aniene (e del mondo) conosciuto grazie ai comuni amici Eclario Barone e Anna D’Incalci, anch’essi persone eccezionali e ricche di amici eccezionali. Sì, non c’è dubbio: su molte cose io e Giovanni Prosperi, che dal primo momento ha voluto onorarmi e rallegrarmi con la sua amicizia e perfino col suo affetto, entrambi ricambiati di cuore, siamo e ci sentiamo tuttavia assai diversi.
Io, per dirne una, mi guarderei bene dallo scrivere un libro su Padre Pio o dal dedicare poesie a Maria di Nazareth...
Ma l’infanzia, quella è un’altra cosa.
Sull’infanzia sono e mi sento molto vicino a Giovanni Prosperi.
Anche se la sua fu sublacense e la mia romana, anche se ci siamo incontrati più di mezzo secolo dopo, senza dubbio abbiamo in comune l’infanzia che vivemmo nel tempo in cui tutte le cose per cui oggi siamo e ci sentiamo diversi non avevano ancora iniziato a renderci tali.
L’abbiamo scoperto scrivendo (lui) e leggendo (io) questo meraviglioso libriccino, piccolo, per le dimensioni, ma vasto, per gli affetti e l’affettiva sapienza che ne scaturisce, come lo è, da grandi, solo l’infanzia sconosciuta che si estende intatta, sconfinata, luminosa tra i pochi ricordi coscienti che abbiamo di essa. |
Il brutto sogno
In aperta campagna avanzava verso di noi, donne e bambini, un plotone di nazisti con abiti militari scuri sottolineati da mostrine, galloni e bottoni metallici. Avanzavano minacciosi e il terrore si impadronì della nostra inerme raccolta di relitti umani, quando vollero sapere dove fossero i maschi adulti. Le parole italiane terrificanti e stentoree dei nazisti non facevano altro che gettare nel panico le nostre spaventate e timorose madri. Le minacce passarono ai fatti quando, di fronte al coraggioso silenzio delle donne, i nazisti incominciarono ad impugnare le armi. L’incombente pericolo suscitò una reazione di pianto e di grida, ciò nonostante le minacce divennero ancor più pressanti e terrificanti: era in serio pericolo la nostra vita. Tremavo nell’angoscia più soffocante, ansimando nell’affanno per la nostra fine violenta. Un nero languore mortale trasformava le mie membra in uno snervato sfinimento mentre il cuore batteva incessantemente soffocandomi. Proprio allora mi ritrovai seduto sul letto urlando. Mia madre, affannata e in pena, era accorsa subito accanto a me. Un pianto incontrollato sfogò il mio terrore, mentre mia madre mi stringeva premurosa sul petto come in un rifugio tenero, caldo e opportunamente rassicurante, baciandomi con affetto compassionevole sulle guance bagnate dalle lacrime. Riuscii a malapena a dire Mamma, ho fatto un brutto sogno.
(pp 22 - 23)
Mariano
Mariano veniva dal fiume. Aveva un cipiglio bizzarro e selvatico e indossava sempre qualche indumento impermeabile: gli stivali di gomma o un giubbino in carta pecorino o un cappello color militare. In classe era cortese con tutti e sorrideva sempre, mostrando una bocca rosea e umida. Non era molto capace e il maestro sottolineava spesso questa sua debolezza; egli rideva di cuore come se avesse ricevuto i più caldi complimenti. Invitava spesso i compagni nel suo terreno costeggiato dal fiume. Qui mostrava tutta la sua bravura: chiamava per nome ogni pianta e ogni erba, si addentrava con maestria nei canneti, attraversava il fiume nei tratti a lui solo noti, dove la corrente non era forte e formava mulinello. Usava grosse foglie di uglíca per coprirsi il capo e tagliava in maniera precisa i gambi delle zucche per ottenere dei sonori tromboni. Spesso ne tagliava più di uno, poi li distribuiva ai compagni e organizzava concerti. Prendeva con una retina le ciriole aspettandole ai passi e, dopo averle fatte attaccare con la loro ventosa sulle mani, se le metteva in tasca. Queste specie di piccole anguille spesso suscitavano il panico tra gli altri compagni che ravvisavano in esse la forma dei rettili. Mariano allora rideva e con le ciriole attaccate alle mani, sembrando una sorta di fachiro, faceva correre via i timorosi compagni impauriti da tanto innocuo ardire. Sapeva anche pescare e qualche volta, con la sua rudimentale ma organizzatissima canna, dopo aver richiesto il silenzio più assoluto, riusciva a tirare fuori una o più trote argentee nello spazio di un’ora. Mariano sapeva tutto sull’ambiente in cui viveva, ma in classe spesso spalancava la bocca rosea in attesa che altri rispondessero al suo posto. Per un certo periodo la difficoltà venne rappresentata dalla sua carenza di una penna. Tutti i compagni avevano comprato una penna nuova dal bastone lungo e colorato accessoriata da una serie di pennini. Mariano continuava a scrivere con la matita ormai ridotta a qualche centimetro, subendo spesso i rimbrotti del maestro. Ma un giorno accadde qualcosa di straordinario: quando il maestro ordinò di prendere la penna, Mariano, pieno di orgoglio, tirò fuori dalla borsa una penna meravigliosa, che costituì per qualche minuto il centro di attenzione e di interesse dell’intera scolaresca. Era una penna che egli stesso aveva realizzata con tratti di canna ben lisciati e ben puliti, uno infilato nell’altro, compreso il cappuccetto. La penna di Mariano somigliava più ad una stilografica che ad una semplice penna a stilo. Da allora egli crebbe nella considerazione di tutti i compagni, i quali, ben presto, in cambio di altri oggetti si fecero costruire la prestigiosa penna di canna di Mariano.
(pp 32 - 33)
Giuseppe
Il borgo, situato sull’altura, al tramonto prendeva una colorazione dorata a causa dell’uniforme spalletta con cui erano costruite tutte le case. Lungo la strada del ritorno, ogni gruppo familiare camminava unito, con le ceste dei raccolti. Le campagne erano fuori paese. Tutte. Qualcuno aveva ancora la forza di cantare. Ma erano canti monocordi, tristi nenie che preludevano alla notte ormai vicina. Ci si salutava chiamandosi per nome o con qualche monosillabo o accennando con il capo. Qualche gruppo pregava il Rosario. Altri lo avrebbero fatto più tardi preparando la cena e accendendo il fuoco. Le case erano piccole, piccole le finestre e le porte, imbiancate all’interno, ma calde e profumate di fuoco di legna. Giuseppe, dieci anni, si era accoccolato vicino al camino mentre il padre trafficava per accendere il fuoco. La mamma sistemava i mazzetti di verdura da vendere l’indomani al mercato. La sorellina girava per la casa con una bambola di stracci. Tutto si svolgeva come un rito, ripetuto tutte le sere, calmo e regolare, niente affatto monotono. La nonna viveva nella casa accanto, porta a porta, sola e saggia nella semplicità domestica. Rammendava calze e calzini e rattoppava vestiti ormai consunti. Giuseppe accompagnò con un lungo sospiro il crepitìo delle legna accese. Pensava alla mattina seguente a scuola, dove avrebbe dovuto cimentarsi con impegni difficili ma non insuperabili. Era intelligente, sornione e viveva il rapporto con i compagni di classe, tutti maschi, con una punta di competitività. Quando risolveva velocemente i problemi di matematica provava un’intima gioia nel dire ad alta voce il risultato: per primo. Era la sua rivincita per tante mortificazioni. Il padre aveva iniziato la recita del Rosario e tutti rispondevano con un latino che sapeva di dialetto. Era il latino dei poveri: detto in fretta e forse distrattamente ma con un’intima adesione all’atto sacro. Come quando si gettava il seme nei campi arati. La verdura veniva cuocendosi emanando per la casa un odore sgradevole che sarebbe rimasto per tutta la notte. La pizza di granoturco era già pronta, calda, fragrante e posta in un panno, con le sue strisce nere causate dalla cottura sulla gratella. La cena li raccolse tutti intorno alla tavola. La nonna con le mani divise la pizza, mentre la mamma riempiva di verdura le scodelle sbreccate. La bottiglia di vino rosso era in mezzo alla tavola: di essa si prendeva cura il padre. Il silenzio della notte veniva impadronendosi del borgo. Nell’assoluta mancanza di rumori risaltava il verso di qualche uccello notturno o l’abbaiare lontano di un cane. Di nuovo a scuola. Il maestro entrò aitante e si fece secco il silenzio. Dopo un po’ disse di alzare una mano a chi intendeva proseguire gli studi. Uno, due, tre, quattro... Giuseppe, senza mostrare sentimenti, lasciò le braccia appoggiate sul pianetto del banco sdrucito. Qualcuno, con un certo interesse, disse: E Giuseppe? Egli taceva dignitoso. Per distrarsi e non tradire l’angoscia pensava al fuoco preparato con cura dal padre. Chi ha il sacco, non ha il grano, rispose il maestro. Qualcuno capì.
(pp 37 - 39)
Alto, magro, con un paio di baffetti sotto cui nascondeva il sorriso per le nostre birichinate... (Il maestro, p. 31)
L’enfiteusi
Mio nonno Giovanni aveva lasciato in eredità a mio padre alcuni appezzamenti di terra grassa e fertile in sócceta (società). Era questo un contratto in enfiteusi che stipulava tra proprietario e conduttore del terreno alcune norme. Ad esempio tutte le spese per la conduzione del fondo venivano sostenute dal proprietario, mentre il contadino era tenuto a dividere con lui il raccolto. Per cui mio padre possedeva dei locali chiamati dispensa che ad ogni stagione si riempivano di frutti e prodotti agricoli. Era entusiasmante vedere questi mucchi di granturco ottenuto dalla sgranatura dei cànnuji per mezzo della sgranatora, dopo che erano stati tolti gli sgalloppi e la barba. I sacchi di patate venivano condotti a casa dagli stessi contadini e così le ceste di frutta. Le pere e le mele venivano poste in fila sulle tavole di copertura degli armadi affinché con il caldo della casa maturassero. Il tempo più eccitante si realizzava durante la vendemmia. Tutta la nostra famiglia, con la ragazza che recava sulla testa una cesta di vivande, si recava di buon mattino in campagna. La vigna era un godimento per la vista. I grappoli di rosciola e di cesanese riempivano gli occhi e il cuore di contentezza, mentre, con minore entusiasmo, si guardava ai grappoli di uva bianca che con un certo disprezzo veniva detta abbottaútti (gonfia botti). Si restava tutta la giornata in campagna e con le forbici si tagliavano i grappoli d’uva, dando il tempo anche a delle abbondanti scorpacciate del frutto di Bacco. A noi bambini, tutti i bambini, era anche permesso di giocare negli spazi liberi dei terreni agricoli, quelli che venivano lasciati riposare per un anno secondo il metodo della rotazione. A mezzogiorno ci si ritrovava tutti, padroni e contadini, i sócci, in una capanna di frasche per mangiare l’ottimo pranzo preparato accuratamente dalla mamma. Il tutto annaffiato dal vino scrupolosamente prodotto da papà. Di fronte al vino di papà anche i contadini non avevano niente da ridire, anzi ne elogiavano la bontà. In seguito ad una congiuntura favorevole, i contadini affrancarono i terreni e non andammo più a spartí. Chiesi a papà cosa fosse accaduto ed egli mi rispose: La terra è di chi la lavora.
(pp 44 - 45)
Il proiettore cinematografico
Mia nonna Ester, quando restavamo in casa per il maltempo, improvvisava veri spettacoli di ombre cinesi. Chiudeva gli scuri delle finestre, appoggiava alla parete un lenzuolo bianchissimo, accendeva due candele e cominciava ad armamentare con le dita delle mani facendone proiettare l’ombra sul lenzuolo. La nostra fantasia si sbrigliava ad immaginare forme più o meno reali. Era un gioco semplice, ma creativo. Visto questo mio grande interesse per il mondo delle immagini, papà, di ritorno da un suo viaggio di lavoro a Roma, mi portò a regalare un proiettore 16 mm vero, con dei filmini veri, di Walt Disney, con Paperino ― il mio personaggio preferito ― ed i suoi nipotini. Portò anche dei filmini meno costosi con le storie di un gatto di nome Pippo. Passavo le ore a vedere e rivedere queste storie, affascinato dalla magia delle impalpabili immagini sullo schermo, nel buio della stanza che sembrava deserta, quasi situazione notturna in cui il mio desiderio d’altro vedere si faceva vivo fino ad aspirarne il profumo.
(p. 68)
A piedi nudi
In estate i bambini usavano andare scalzi per risparmiare le scarpe. A frotte si sentivano sciamare per le strade infuocate con quel caratteristico suono dei piedi nudi sull’asfalto. Era una tentazione troppo forte per me che vivevo controllato dai miei genitori. Ma l’occasione venne. Eravamo andati a fare una partita al campo di calcio di San Lorenzo. Al ritorno facemmo la via lunga, quella asfaltata, ci togliemmo tutti le scarpe e via di corsa verso casa. Provai una sensazione piacevole: il caldo dell’asfalto penetrava nella pelle facendomi provare un non so che di sensuale e di libero. La frotta ora correva gioiosa e unita in quell’innocente piacere primordiale.
(p. 80) |
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Giovanni Prosperi è nato nel 1939 e vive a Subiaco. Ha avuto una parentesi romana, durante la quale si è laureato in Architettura con Bruno Zevi. Ha insegnato per molti anni nelle scuole statali. È coautore del volume Il Comprensorio Sublacense (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Architettura, Roma, 1973) e autore dei volumi Padre Pio, la memoria (1999), Medioevo Aniense (2004), Il Sogno dell’Arte, il Novecento Pittorico Sublacense (2005) e Il culto romantico del paesaggio sublime - Subiaco nelle stampe d’arte del XVIII, XIX e XX secolo (2007).
Ha pubblicato inoltre otto raccolte di poesie: Maria di Nazareth (1995), Le Stagioni dello Spirito (1996), Le Parole di Bernadette (1997), Il Filo d’Erba (1998), Corale dell’Umanità Aniense (1999), Pellegrinaggio al Sacro Speco di San Benedetto (2000), Edith di Breslavia (2003) e Kerygma (2006). sabato 1° dicembre 2007, alle ore 17:00 nella Sala delle Conferenze della Biblioteca comunale di Subiaco in viale della Repubblica, Domenico Riccardi e Anna D’Incalci hanno presentato
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