Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
La Terra vista da Anticoli Corrado
diario del Prof (scolastico e oltre)
agosto 2008
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mercoledì 20 agosto 2008
L’Italia dei divieti
È un fotogramma de Il sole negli occhi, trasmesso da Rai 3 lunedì mattina: il primo film (1953) di Antonio Pietrangeli (1919-1968), bravo (e abbastanza misconosciuto) autore di alcuni tra i più bei ritratti femminili del cinema italiano. In questa scena, ambientata in una balera, Irene Galter e Gabriele Ferzetti ballano dinanzi a un cartello, firmato La direzione, che vieta di ballare il boogie woogie. A quanto pare, per i “ben pensanti” era un ballo troppo “scomposto” e “audace”. Poiché in Italia, allora, regnavano lo stesso moralismo da baciapile, lo stesso autoritarismo idiota, lo stesso squallore che gli zombie (della Destra e della finta “sinistra”) cercano di restaurare oggi. |
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Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman ne Il sorpasso (1962), di Dino Risi (1916 - 2008)
Il non sorpasso
Oggi, andando a Carsoli, ci siamo trovati davanti uno Straniero. Targa italiana, faccia italiana, certificato di nascita sicuramente italiano, ma per noi era uno Straniero lo stesso, perché non guidava come noi. Come nessuno di noi. Andava piano piano, mentre noi volevamo andare forte forte. Si guardava intorno, ammirava il panorama o chissà che, mentre noi volevamo veder niente e nessuno. Teneva un braccio fuori e il vento gli scompigliava i capelli, mentre noi siamo calvi e vogliamo star chiusi, chiusi, chiusi, e con l’aria condizionata. Perfino dal tubo di scappamento gli usciva un odore diverso dal nostro, un aroma simile a quello del curry. E soprattutto andava piano, piano, PIANO. Sarebbe stato bello incontrare un Alemanno o un Flavio Tosi che gli facesse vedere i sorci verdi, o magari un Maroni che lo cacciasse dall’Italia, quell’Italianaccio stranierizzato. Ma niente: quando li vuoi, non ci sono mai. Così, alla fine, siamo stati costretti a rinunciare alla nostra identità e a guidare come lui: aprire i finestrini, guardarci intorno, andare piano. Regolare il nostro passo sul suo. È una cosa da femmine, vuol dire proprio farsi mettere sotto, ma che farci? Il sorpasso era impossibile: dalle Molette a dopo Arsoli è tutta una curva, si sa, e a Riofreddo c’erano i carabinieri... E la cosa più spaventosa è che a poco a poco, fare come lui ci è piaciuto! Abbiamo visto il mondo coi suoi occhi, guardato il panorama con la sua attenzione, assaporato la strada con la sua calma, e ci è piaciuto! Ci è addirittura sembrato che il vento che entrava dai finestrini ci facesse ricrescere qualche capello! Solo l’aroma di curry dalla marmitta non siamo riusciti a riprodurre, ma ha cominciato a piacerci perfino quello! Non c’è più religione. Per fortuna. |
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Bambini vestiti da cretini guidati da cretini vestiti da Bambini
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Qualche giorno fa (l’8 agosto) abbiamo letto su La Repubblica un articolo di Francesco Merlo, Il Tibet d’Italia, che faceva così:
C’è un "Tibet italiano" che non è fatto di monaci ma di rovistatori di spazzatura, mendicanti, prostitute, impiegati statali, insegnanti, lavavetri... E dunque, per quanto ci riguarda, il "Tibet tibetano" è solo un parlar d’altro, un modo per nascondere che intanto, qui da noi, non si è scatenata ― come vorrebbero far credere ― l’Italia liberista di destra contro le bandiere stataliste della sinistra, ma l’Italia dei poveretti contro l’Italia dei poveracci, l’Italia del vuoto morale e intellettuale contro l’Italia dell’indigenza materiale. Così, il "cinese" Alemanno reprime il "tibetano" che fruga nei cassonetti di Roma. E madame Carfagna con le Hogan ai piedi si conturba dinanzi alla lucciola con i tacchi da trapezista... Eccetera eccetera.
Non ci piace, naturalmente, che il Merlo chiami poveracci noi perseguitati. Anche se lo fa per distinguerci dai livorosi e zombeschi poveretti ― nel senso di minus habentes, “deficienti” affettivi e mentali ― in tutta Italia scatenati, non solo a parole, contro chiunque gli venga additato come “meno umano”, come diverso brutto, sporco e cattivo da escludere e tormentare, non ci piace perché intuiamo che il Merlo, chiamandoci così, ai poveretti invece strizza l’occhio: Sì, gli dice, effettivamente siete dei poveretti, ma avete assai più soldi e potere dei poveracci e perciò vi adulo, pur mentre me la prendo con voi, chiamando “pezzenti” le vostre vittime. Perché anch’io, sapete, come voi, ho soldi e potere: non sono un poveraccio...
Ma pazienza: in compenso mette noi insegnanti e impiegati statali con i rovistatori di spazzatura, i mendicanti, le prostitute, i lavavetri. E questo è bello, e ne ringraziamo il Merlo, poiché in Italia, oggi, non c’è compagnia più rassicurante: solo i perseguitati possono rassicurarci, accogliendoci tra loro, di non essere anche noi dei persecutori.
Condivisibile, dunque, questo Merlo che parla di un “Tibet” nostrano di segnati a dito dei quali si affievoliscono e negano gli umani diritti perché, a furia di segnarli a dito, si è elaborato e perfezionato un delirio che li rappresenta come non umani?
Mica tanto.
In primo luogo quel poveracci, affibbiato ai perseguitati ― l’abbiamo detto ― è una pagliuzza che il Merlo regala al nido mostruoso in cui la Destra cova l’idea folle che vi siano umani meno umani al mondo, mischiati a quelli che poveracci non sono.
Poi il Merlo queste cose le dice ora, che a creare nuovi “Ebrei” sono i Berlusconi e i Maroni, gli Alemanno e i Brunetta, ma non fiatò quando a gridare ai Rumeni!, alla fine del 2007, fu Walter Veltroni. Il quale, in quei giorni, oltre a resuscitare Berlusconi con l’incontro al vertice che ebbe con lui, oltre a far cadere Prodi dichiarando che il Pidì avrebbe “corso da solo”, oltre ad avviarsi a perdere le elezioni e a riconsegnare l’Italia ai reazionari più ottusi, ignoranti e violenti dell’Occidente, “sdoganò” e aizzò il razzismo ― che ora imperversa, ma che fino a un anno fa tenevamo ancora a bada ― accreditando come rappresentazione vera della realtà italiana il delirio fascista che l’insicurezza, il degrado, l’impoverimento (materiale e psichico) non siano causati dalla prepotenza dei forti ma dalla “cattiveria” dei deboli, non siano problemi sociali e culturali ma di ordine pubblico (fingono di parlare di “regole” ma è questo che intendono: che non esistano difficoltà, crisi, sofferenze, ma solo colpevoli disordini) e debbano quindi essere affrontati non con la solidarietà e l’inclusione, ma con misure coercitive e repressive: tutto ciò che ci vergognavamo di pensare, insomma, quando nei momenti di stanchezza e di fragilità s’insinuava anche nelle nostre menti, nel 2007 Walter Veltroni e la finta “sinistra” lo proclamarono degno di rispetto, preoccupazione onesta, perfino generosa, per il bene pubblico; e in tal modo (e “incarnando” questo loro vaneggiare in una realtà di fatto con la violenta separazione dalla Sinistra Vera) scatenarono la Destra facendola sentire colpevole di quel po’ di ritegno che ancora le restava come se esso non fosse, nella Destra, un ultimo barlume di generosità e d’intelligenza, ma un’insana debolezza di cui solo lei, ormai, non si era ancora del tutto liberata.
Ora, un anno dopo, in previsione di non lontane nuove competizioni elettorali, i Merlo, gli Scalfari, le Repubbliche (e tutto il cucuzzaro del Pidì) virtuosamente polemizzano e magari sbraitano contro la Destra. Vorrebbero rifarsi una “verginità” nella speranza di menarci ancora per il naso ― noi poveracci ― e coi nostri voti tornare per la terza volta al potere a deluderci, a confondere le idee, a inquinare ogni sana capacità di distinguere tra sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi. Ma come dimenticare che proprio La Repubblica dei Merlo e degli Scalfari nel 2007 tirò la volata alle successive e scomposte grida di Veltroni contro i Rumeni schiaffando in prima pagina l’accorata missiva di un “lettore” che raccontava di “star diventando razzista” per quel che “gli toccava vedere” a Roma percorrendola in lungo e in largo sui mezzi pubblici?
No, caro Merlo, vedrà che alle prossime elezioni ― le Europee, giusto?, dov’è meno facile ricattare gli elettori col “voto utile”, quale che sia la soglia di sbarramento ― saranno pochi, finalmente, quelli che si lasceranno dare l’imbeccata da voi...
Anche perché i finti “sinistri” non son più tanto bravi a sembrar veri. Perfino i più ammodo, perfino quelli che “in buona fede” e “sinceramente” credono di essere di Sinistra ― come il Merlo, forse ― commettono errori così marchiani quando declamano, virtuosi come educande, contro il razzismo e il fascismo, che sembra davvero incredibile che non se ne accorgano da soli. Che si debba farglielo notare.
Il Merlo, per esempio, tra i poveracci dei quali affetta di stigmatizzare la persecuzione ― tra i rovistatori di spazzatura, i mendicanti, le prostitute, gli impiegati statali, gli insegnanti, i lavavetri ― si è “dimenticato” di annoverare i giovani, i ragazzi, i bambini. Non è curiosa, questa amnesia? Eppure son proprio i ragazzi ― da sempre, ma oggi in Italia con una protervia che non si vedeva da quarant’anni ― gli umani di cui più si contesta l’umanità, e contro i quali più aspramente (e unanimemente) s’invoca la severità del “buon” tempo antico fin quasi ad auspicare (manca solo questo, ma qualche demente ci starà pensando) il ritorno alle punizioni corporali. Come mai, dunque, il Merlo non chiama poveracci anche i “poveracci” piccoli? Forse perché proprio il quotidiano su cui scrive è da tempo impegnato in una feroce campagna contro di loro?
Citare sé stessi non è carino, ma l’interessata “smemoratezza” altrui lo rende talvolta necessario. Quasi un anno fa, il 15 ottobre 2007, stanchi di leggere dei ragazzi italiani ciò che non si legge più neanche degli animali nocivi, “postammo” su ScuolAnticoli un intervento intitolato Riapre la caccia ai ragazzi e i media ricominciano a sparare in cui, fra l’altro, notavamo: “Ancora ieri, su La Repubblica (ma ormai lo sappiamo: il dagli all’untore, come l’anno scorso, durerà fino a giugno) abbiamo letto, a firma di una terrorizzata e terrorizzante Alessandra Retico, che le scuole italiane sono il regno dei video che mettono paura, di professori usati come rete (da calcio), di crudeltà e soprusi che diventano pubblico spettacolo in rete (Internet), di adulti assenti, di arroganza, di bulli hi-tech, di denunce, di guerra nelle classi, di vittime, di sesso con chi capita, di masturbazioni, di ragazze che si tolgono le magliette, di violenza e impudicizia on demand, di perversità... Dopo di ché, la pudibonda e atterrita signora si chiede perché non venga applicata la direttiva del 15 marzo 2007 del ministero dell’Istruzione in virtù della quale, dice lei, i telefonini a scuola sarebbero fuorilegge, con sanzioni per chi li tiene accesi, possibilità di sequestro per chi trasgredisce, e agli insegnanti il diritto dovere di vigilare, e se non lo fanno ci vanno di mezzo. E ai genitori di collaborare (diritto o dovere? Le è rimasto nella penna) e se i figli non rigano dritto, conseguenze pure per loro... E perché non anche manganelli e olio di ricino, egregia signora Retico?...”
Questo si leggeva su La Repubblica meno di un anno fa. E al governo non c’erano i Berlusconi e i Maroni e i Brunetta e le Gelmini-Carfagna, no. C’era ancora la finta “sinistra”. Eppure il clima che si andava creando e rinfocolando era già questo, le persecuzioni di oggi erano già in (avanzata) preparazione, e i poveracci di adesso, Rom e Immigrati, Impiegati statali e Rovistatori di cassonetti, Prostitute e Insegnanti, Lavavetri E RAGAZZI ― che ora ci si vorrebbe far credere “inventati” dalla Destra ― erano già tutti lì, in prima pagina anche sui quotidiani più “democratici”, a prender pugni e calci in faccia (virtuali?... mica tanto, le parole sono pietre) dai medesimi pennivendoli (e da tutto il cucuzzaro Pidì) che oggi si fingono indignati perché Berlusconi e Soci, ma guarda un po’, fanno davvero ciò che proprio loro gli suggerirono.
Non che la Destra difetti di mostruosa creatività, naturalmente. Ne ha da vendere, anzi. Almeno quanta ne ha la finta “sinistra”.
Prendiamo (per modo di dire) la Mariastella Gelmini, che il Berlusconi ― per motivi che ignoriamo, e che perciò ci spaventano ― ha voluto nel suo gabinetto in qualità di ministro dell’Istruzione. Quella stessa Mariastella Gelmini, intendiamo, a cui il Berlusconi, qualche giorno fa (per la precisione venerdì 8 agosto, dato che i quotidiani ne hanno riferito il 9), incontrandola per via mentre posava per un servizio giornalistico: Come sei bella, le ha detto, sembri una bambina...
Ecco: la Gelmini, in fatto di mostruosa creatività, non vuol esser seconda a nessuno. E s’inventa questa storia dei grembiulini, che s’inserisce alla perfezione nella persecutoria campagna contro i giovani, i ragazzi, i bambini, che la Destra e la finta “sinistra” portano avanti a braccetto da almeno due anni, pappa e ciccia più di Stanlio e Ollio, con il “Beppe” Fioroni che incitava a “umanizzare” gli studenti (ignorando, da buon baciapile, che gli umani umani ci nascono, senza bisogno che dall’esterno o dal cielo li si renda tali) e ancor prima la Moratti che riduceva le ore di insegnamento (e con ciò implicitamente insinuava che spendere per i bambini e i ragazzi sia uno spreco) e La Repubblica che un giorno sì e l’altro pure titolava sul “degrado” della Scuola italiana per colpa ― manco a dirlo ― non dell’ignobile razzia di risorse a cui è sottoposta dalle “opposte” fazioni che dal ’94 se la rimpallano, non della ridda demenziale di riforme di Destra e di finta “sinistra” ispirate dai più grotteschi arzigogoli pseudopedagogici di volta in volta in voga, non del discredito che l’immagine annullante e negante dei piccoli umani diffusa da preti e “intellettuali” d’ogni risma fa ricadere anche su chi dei piccoli si occupa, ma del “bullismo”, cioè della “cattiveria”, cioè della “disumanità” di quegli stessi bambini e ragazzi che di questa infame guerra tra adulti son solo le vittime.
(Ma del resto non scriveva forse il “non credente” Scalfari su La Repubblica, ancora l’11 marzo scorso, che i bambini sono come gli animali perché non conoscono Dio?...)
Guerra, sì. Come dovremmo chiamare, se non guerra, il crescendo di menzogne, insinuazioni e aggressioni mediatiche e legislative che colpiscono i bambini e i ragazzi italiani né più né meno degli altri poveracci ― come il Merlo ha la “signorilità” intellettuale di chiamarli ― che mezza Italia sta facendo a gara per umiliare e tormentare?
Il grembiulino della Gelmini (che la fa sembrare tanto una bambina?) non è nuovo, meraviglioso, magico. Non ha niente a che vedere con Harry Potter. È solo il grembiulino vecchio che ritorna. Il vecchio, ammuffito, sdrucito, unto e bisunto grembiulino di quando eravamo piccoli (e la pagavamo cara) noi. Perché il vecchiume, e perfino il mortume, in Italia non finisce mai di invecchiare, non è mai davvero morto, ma (a volte, anzi sempre) ritorna. Non da solo, naturalmente ― il morto non va da nessuna parte, da solo, e il vecchio non va lontano ― ma perché qualche morto-non-morto lo resuscita, e con l’aiuto di qualche pennivendolo (non il Merlo, in questo caso, che al grembiulino si è a onor del vero dichiarato contrario) lo gabella per nuovo.
Certe maestre e maestri, un po’ qui e un po’ là, non hanno mai smesso di pretenderlo, lo stantio grembiulino. E certe mamme e “mammi” continuano a essergliene grati, come se a casa non abbiano lavatrici che lavano per loro e strapieni guardaroba continuamente riforniti da nevrotici pomeriggi di shopping. Così come non hanno smesso, zitti zitti, di “somministrare” ceffoni e pizzicotti, d’insinuare disprezzo, d’insultare, di trascurare (certi insegnanti) e di non denunciare tutto ciò (certe mamme e “mammi”) malgrado i bambini se ne lamentino. E perché? Perché non è mai morta ― a tutti i livelli del “pensiero” contemporaneo, dal chiacchiericcio da sacrestia sù sù fino alle pagine “culturali” dei quotidiani e alle aule universitarie ― l’idea delirante e razzista che i bambini vengano al mondo non del tutto umani, e che perciò debbano essere “umanizzati” (vero, “Beppe”?). “Operazione” che dovendosi attuare su creature fantasticate appunto come non umane (quasi siano scimmie, o animucce celesti, o creta) a dispetto di ogni buona intenzione non può compiersi che con la medesima violenza (non solo psichica) con cui un tempo nelle piazze e nei circhi si costringevano a scimmiottare l’ uomo gli altri animali, che non umani lo sono davvero.
Ma il grembiulino della Gelmini ― si piagnucola con grottesca ipocrisia ― avrebbe il merito di parificare i bambini ricchi ai bambini poveri, i “griffati” e “firmati” a quelli che di nomi e cognomi hanno indosso solo il proprio. Guarda caso, in un mondo in cui le disuguaglianze stanno raggiungendo livelli da incubo, solo i bambini dovrebbero essere livellati per decreto come “guardie rosse” cinesi della (cosiddetta) “rivoluzione culturale”. E perché proprio loro? Perché non dovrebbero cominciare genitori, insegnanti, giornalisti e ministri a dare il “buon” esempio uniformando abiti e mobilia, ristoranti e vacanze, automobili e case? Trovata furbesca quant’altre mai, questa delle virtù “sociali” del grembiulino, e come ogni furbata comicamente stupida perché senza volerlo rivela che ciò che i grembiulatori vogliono coprire e conculcare non sono davvero le disparità economiche ― o le vorrebbero eliminare tutte, e si farebbero marxisti-leninisti “duri e puri” ― ma la naturale, umana, diversità creativa che fa di ogni figlio di donna un essere unico e sorprendente, “rivoluzionario” nato perché completamente estraneo a tutto ciò che fu stabilito e ordinato prima del suo venire al mondo.
È questa potenza creativa dei bambini ― ancora viva nei ragazzi e nei giovani anche quando l’indifferenza, il disprezzo, la violenza dei grandi han già iniziato a piegarne la resistenza, ancora potente anche quando ha già cominciato a farsi distruttiva ― ciò che in realtà angoscia le Gelmini e tutti i persecutori razzisti dei poveracci piccoli. Poiché bambini non lo sono più, certi grandi (anche se talvolta lo sembrano tanto) non come non è più cucciolo l’adulto di un animale non umano, ma come solo l’adulto umano sa farsi adulto contro il bambino che fu, per esser stato quel bambino aggredito e massacrato in lui fin dalla nascita. E i grandi di questo conio non son più capaci d’intendere come creativa la naturale avversione dell’essere umano nuovo all’ordine costituito che pretende di plasmarlo come creta: ne sono angosciati, non possono vedervi che un’inconcepibile, pericolosa, disturbante difformità e aggressività contro quell’uniformità adulta che gli abiti e le auto e le case variamente ricche e “colte” non riescono a celare perché a ogni istante ne sgorga fuori limacciosa sotto forma di uniformità mentale, affettiva, comportamentale, nella rassegnazione a una Società prepotente, furba, disumana.
Il morto-non-morto grembiulino della Gelmini, dunque (che la fa sembrare tanto una bambina?) altro non è che una divisa, e come ogni divisa (dalle uniformi alle tonache) ha il solo scopo di foderare, contenere, nascondere, mortificare (e contribuire a guastare) l’essere umano non uniformato, cioè l’umano in quanto umano, che per il razzista è sempre un mostro che dev’essere colpito, messo in condizioni di non nuocere, forse addirittura ucciso, come già lo fu e continua a esserlo nel razzista medesimo per l’odio e il disprezzo di cui a sua volta fu vittima da bambino: un mostro che gli è tanto più facile delirare di vedere nei poveracci, in chi non è uniforme a lui per il colore della pelle, o perché si prosterna dinanzi a un altro idolo, o perché non vive in una casa, o perché si è dovuto adattare a condizioni degradanti, o ― e soprattutto ― perché è piccolo, bambino, ragazzo, al tempo stesso tenace e debole nel suo essere così mostruosamente umano. Poiché il “mostro” è sempre l’essere umano: anche se in tutta “buona fede” si è convinti di avercela con l’Ebreo, con l’Immigrato, con il Rom, con il Rovistatore di spazzatura, con il Mendicante, con la Prostituta, con l’Impiegato statale, con l’Insegnante, col Lavavetri, chi in realtà si odia è l’umano, nel cui odio e disprezzo si è stati allevati, odiati e disprezzati dalla Società adulta fin dalla nascita.
Insaccarlo in una divisa, questo mostro, è per nasconderlo alla vista dei normalizzati, per toglierselo di torno, per non vederlo materialmente più, e così insinuare e coltivare anche nel bambino il dubbio di essere ― sotto il grembiulino ― brutto, ripugnante, insopportabile alla vista, e di non potersi rendere accettabile altrimenti che facendosi uguale, ordinato, uniforme anche sotto, dentro, rinunciando a quel che rende ogni bambino unico, conculcando la propria “pericolosa” creatività ― che per natura non sopporta altro ordine che quello che essa liberamente crea, e ricrea, liberamente giocando con gli altri ― fino a piagarla, a deformarla, a farne una forza davvero annientatrice, davvero mostruosa. Ed è per questo che il grembiulino è tanto più umiliante e distruttivo quanto più si pretende e si vuol far accettare come grazioso, decorativo, tenero: perché al contrario è solo chiamandolo orribile che si può aiutare il bambino costretto a indossarlo a non cadere nella trappola di credere di dover essere abbellito e migliorato.
No, la Mariastella Gelmini ― ministro dell’Istruzione per motivi che ignoriamo ― non è diversa (benché sembri tanto una bambina) dal Berlusconi, dal Maroni, dall’Alemanno, dal Brunetta, dal Veltroni stile 2007, dallo Scalfari, dal Pirani (del quale prima o poi parleremo molto più del Merlo) o dal Merlo stesso che “si dimentica” di includere i ragazzi fra i suoi poveracci. La Gelmini è come loro e peggio, perché la sua crociata non è meno razzista delle loro e forse lo è di più. Poiché non contenta ― né più né meno dei suoi sodali ― di razziare e depredare la Scuola e lo Stato tutto per indebolirne e distruggerne le funzioni regolatrici e perequative in difesa dei più deboli, non contenta di contribuire (sia pure con i non eccezionali mezzi di cui è dotata) allo sforzo del governo di rendere il lavoro e la vita impossibile a chi non si uniforma al tipo umano di cui esso è espressione, lei vuol anche rimettere il grembiulino, di forza, ai bambini. Mentre verrebbe da dire che dovrebbe metterlo lei, se non fosse che anche così potrebbe sembrare una bambina solo a chi per forza volesse vederla tale.
Per motivi che ignoriamo.
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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).
L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.
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