Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
La Terra vista da Anticoli Corrado nel febbraio del 2013
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GRAZIE e GRAZIE e GRAZIE ai 21 carissimi compagni, amici e concittadini anticolani che hanno dato la preferenza a Giulio Pelonzi! Su 244 voti che il Partito democratico ha ottenuto ad Anticoli Corrado per la Regione, il vostro e nostro 8,6% è molto! Giulio purtroppo non è stato eletto, ma con tutto l’onore che merita: ha ottenuto molte migliaia di preferenze (non poche delle quali, a Roma e nel Lazio, anche dalla campagna “cinematografica” di ScuolAnticoli) è il primo dei non eletti e, soprattutto, si è confermato un uomo libero. Sono onorato e fiero di averlo sostenuto, e ancor più onorato e fiero per il sostegno che gli è giunto dal voto di Anticoli Corrado: e dunque grazie, di nuovo, grazie infinite a tutti voi! Dopo la cena elettorale del 10 febbraio non ho cercato né chiamato alcuno (anche se talvolta avrei voluto farlo e anche se sapevo che non tutti vi stavano dimostrando lo stesso rispetto), ma avevo fermamente deciso che, se le cose fossero andate male, avrei rinunciato a ogni attività politica locale e avrei lasciato Anticoli anche fisicamente: voi, invece, mi avete dato 21 ottimi motivi per insistere e resistere! (P.s.: per il commento al voto, sia nazionale che anticolano, mi prendo ancora fino a domenica. Ma solo per la dovuta calma, perché di cose da dire ne ho... Oh, se ne ho!). (Mercoledì 27 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: Pinocchio, di Luigi Comencini. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
Pinocchio ― lo sanno tutti ― vuol diventare un bambino vero. E perché vuol diventare un bambino vero? “Perché è finto, è un burattino di legno!” diranno i piccoli lettori. “No, ragazzi, state sbagliando. Pinocchio è di legno, è vero, ma siete proprio sicuri che sia finto?” Una bambola, per esempio ― che so?, una di quelle Barbie che la notte, mentre le padroncine dormono, se ne stanno buone buone in uno scatolone e non vanno in giro per casa a curiosare o a spaventare il gatto ― una Barbie, dicevo, è sicuramente finta. Non è, cioè, una ragazza vera. Non è, insomma, un autentico essere umano, ma solo la sua riproduzione inanimata e miniaturizzata. Pinocchio, invece, parla e qualche volta dice bugie, va a spasso e si caccia nei guai, mangia, dorme, piange e può essere triste o allegro, affettuoso o arrabbiato, sciocco o astutissimo. Ha tutte le caratteristiche e fa tutto ciò che fanno i bambini veri, insomma. Anzi, in certi momenti la sua vita sembra perfino più avventurosa ed emozionante di quella di un bambino vero. Ripeto, dunque, la mia domanda: siamo proprio sicuri che Pinocchio sia finto? E se lo è ― se davvero è finto ― in che senso lo è? Diciamo sùbito che per più di metà del romanzo (cioè per venticinque capitoli su trentasei) Pinocchio non ha la minima idea di non essere un bambino vero. E non ce l’hanno neanche gli altri ― da Geppetto al Grillo-parlante, da Mangiafuoco al Gatto e alla Volpe ― che talora si riferiscono a lui come a un burattino, è vero, ma la maggior parte delle volte lo chiamano ragazzo: “Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori” gli dice il Grillo-parlante. “Ma io, ragazzo mio, non ho più nulla da darti,” gli dice Geppetto dopo che Pinocchio ha divorato le tre pere. “Tu sei un gran bravo ragazzo,” gli dice perfino Mangiafuoco, “vieni qui da me e dammi un bacio...” E si potrebbero fare molti altri esempi, e aggiungere che anche Pinocchio, naturalmente, nella prima parte del romanzo, pensa a sé stesso come a un bambino autentico: “Davvero,” dice fra sé pochi minuti prima d’incontrare nel bosco i suoi assassini, “come siamo disgraziati noi altri poveri ragazzi...” Un istante dopo, raggiunto dal Gatto e dalla Volpe, Pinocchio viene impiccato, agonizza e muore. E forse è proprio questa esperienza (la più terribile e, in genere, l’ultima che si possa fare!) a mettere in moto nella sua mente il processo che lo porterà a riconoscere che in lui c’è qualcosa che non va. Poco dopo, infatti, Pinocchio incontra la persona più importante della sua vita: la Fata dai capelli turchini. Che per un po’, essendo ancora bambina, gli fa da sorella; ma che poi (non a caso dopo esser morta anche lei) diventa donna e può dunque essere per lui la mamma che Pinocchio non ha mai avuto. Come sorellina, la Fata gli salva la vita (che già non è poco) e si prende cura di lui. Ma come mamma gli rivela (nel venticinquesimo capitolo) ciò che né Pinocchio né altri avevano ancora capito: che il burattino, appunto, non può essere chiamato ragazzo perché ragazzo non è. Perché non è un ragazzo vero. Rileggiamo, dunque, quel che Pinocchio e la Fata si dicono in questo fondamentale capitolo, e capiremo, finalmente, in che senso il burattino è finto... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Sabato 23 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Voterò per il Partito democratico (e alla Regione Lazio per Giulio Pelonzi) sapendo che rischio di pentirmene. Ma è un rischio che voglio correre, e in queste righe spiegherò perché. A un partito di sinistra chiedo tre cose, per votarlo senza “tapparmi il naso”: 1. Che il partito sia lontano dai potenti e dai potentati finanziari, imprenditoriali, mediatici, ideologici e religiosi. Che tutti gli esseri umani, cioè, per il partito siano uguali come lo sono per la Costituzione. Che nessuno, per il partito, sia più importante, più rispettato e più autorevole di altri. Che il maggior imprenditore finanziario o industriale del Paese “valga” per il partito quanto un immigrato clandestino accampato sotto un ponte. Che la Chiesa non sia più influente di ogni altra associazione privata, e che nessuna associazione privata sia più ascoltata di un uomo o di una donna qualsiasi. Se così non è, se il partito non vuole o non sa pretendere e ottenere da ogni suo membro il rispetto del più fondamentale tra i fondamentali princìpi della Costituzione ― l’eguaglianza dei diritti ― il partito non è di sinistra e non è neanche un partito: è una massoneria sotto mentite spoglie. 2. Che il partito non sia un potentato e non si comporti come tale contro i suoi membri e i suoi elettori. Che esso, cioè, sia una libera associazione di uomini e donne liberi ed eguali: rispettosi delle norme democratiche (cioè discusse e votate da tutti, non da un gruppetto autoreferenziale di “legislatori”) che ne regolano le attività, ma affettivamente e intellettualmente indipendenti l’uno dall’altro e dal partito stesso, e rispettati l’uno dall’altro e dal partito indipendentemente dalla carica che nel partito ricoprono e/o dal numero di militanti e/o di elettori che fanno loro riferimento. Che il partito come tale e ogni suo membro, insomma, non siano i “controllori” o i “pastori” di chicchessia. Se così non è, se il partito si crede il padre superiore dei suoi membri e i suoi membri i padri superiori di chi non lo è, il partito non è di sinistra e non è neanche un partito: è una setta di fanatici o, nella migliore delle ipotesi, una Chiesa. 3. Che il partito leghi la sua esistenza, la sua etica, la sua ricerca teorica, ogni sua attività, ogni sua azione e l’intero suo programma politico a un unico principio: l’assoluto valore di ogni essere umano, nella propria irripetibile unicità, dinanzi e al di sopra di tutto ciò che in qualsiasi modo tende ad aggredirne la suprema dignità e ad ostacolarlo nella realizzazione della sua personalità. Se così non è, se il partito non riesce cioè a rimanere molto più umano che istituzionale, neanche il più massiccio ricorso alla “droga” dei sondaggi d’opinione potrà ricostruire il suo rapporto con la “base”, all’interno e all’esterno, e il partito sarà sempre meno un partito di sinistra e sempre più un potentato fra altri potentati. È così il Partito democratico? O si può dire, almeno, che tenti di esserlo? Negli anni scorsi, e per non pochi anni, no. Nei decisivi anni scorsi il Partito democratico, mentre sosteneva di voler separarsi da ciò che vi era di deteriore nel suo passato comunista, invece lo portava con sé e addirittura lo rafforzava: rimaneva un potentato, diventava sempre più sordo e insensibile dinanzi all’umano, sempre più anaffettivo (ma senza più l’ideologia che prima lo induceva a mitigare o almeno a mascherare la prepotenza), tendeva a rapportarsi quasi solo ad altri potentati, abbandonava ogni ricerca (ammesso e non concesso che l’avesse mai intrapresa) sull’essere umano. Non occorre fare esempi né nomi: tutti hanno visto e tutti sanno (tranne chi è interessato a non vedere né sapere) verso quale precipizio morale, intellettuale e politico è stato avviato il Partito democratico nei decisivi anni scorsi, e per non pochi anni. Perché, dunque, voglio votare per il Partito democratico il 24 (o il 25) febbraio? Per un dato di fatto. Per una speranza. E per alcuni indizi che la speranza non sia fallace. 1. Il dato di fatto è che il Partito democratico è il partito di sinistra, in Italia e (forse) nel mondo, in cui la deriva anti-umana, sopraffattoria, istupidente, distruttiva e autodistruttiva di cui sopra (o l’immobilismo teorico e pratico che a parole le si oppone ma in effetti la rispecchia) è andata, nonostante tutto, meno avanti; che per questo è tuttora guardato con diffidenza (anche se calante) dalle destre di tutto il pianeta; e che, per questo, raccoglie ancora le attese (via via più flebili), la fiducia (sempre più condizionata) e i consensi (via via meno convinti) di milioni di Italiani che, diversamente da quanto accade in altri Paesi, sono ancora, per la maggior parte, ben più di sinistra del partito che li rappresenta. 2. La speranza è che Pierluigi Bersani, e quelli che più sinceramente ne sostengono l’azione, siano davvero intenzionati e stiano davvero riuscendo a invertire la deriva di cui sopra e a spingere il partito (vale a dire: ognuno dei suoi membri) verso la consapevolezza che la via su cui si sono avviati negli anni scorsi è senza uscita, e che del tutto falsa è l’“identità” in cui su quella via si stanno imprigionando: consapevolezza che, per quanto dolorosa, è la premessa indispensabile della ricerca e della realizzazione di una identità di sinistra davvero nuova: di giorno in giorno più lontana, cioè, dall’annullamento dell’umano. 3. Gli indizi (che la speranza non sia fallace) sono: A. La lotta senza quartiere scatenata contro la “linea” di Pierluigi Bersani da vari potentati interni ed esterni al partito (religiosi, istituzionali, economici, intellettuali, culturali, mediatici: c’è solo l’imbarazzo della scelta), lotta che è arrivata fino a minacciare la scissione e che solo l’avvicinarsi delle elezioni ha (provvisoriamente) attenuato. B. L’uscita dal partito (o almeno la rinuncia a candidarsi) di alcuni tra i suoi esponenti di primo piano più implicati nella deriva anti-umana di cui sopra. (Indizi “a doppio taglio”, purtroppo, poiché lasciano intuire che se il Partito non vincerà trionfalmente le elezioni ― se, cioè, Bersani ne uscirà sconfitto anche solo in parte ― la deriva anti-umana riprenderà e sarà addirittura più rapida e irrefrenabile che negli scorsi anni). Questo dato di fatto, questa speranza e questi indizi mi assicurano che il mio voto non si convertirà in un’ennesima, amara delusione già a pochi giorni dalle elezioni? No. Ma quando mai si è sicuri di qualcosa, riguardo al futuro?... Eppure sì, di qualcosa sono sicuro: che, se dovrò convincermi di essermi ed essere stato ingannato, questa sarà l’ultima volta che il Partito democratico riuscirà a ingannarmi. Una parola su Giulio Pelonzi, al quale andrà il mio voto per la Regione Lazio. Perché a lui? Non “solo” perché l’ho conosciuto (anche se di recente) e ne ho tratto una buona impressione. Non “solo” perché una buona impressione ne hanno tratto i miei più cari amici. Ma anche e soprattutto perché Giulio Pelonzi, a quel che so ― e Gianluca Santilli, candidato alla Camera ― sono gli unici dirigenti del Partito democratico (senza tuttavia dimenticare le parole non equivoche pronunciate da Pierluigi Bersani durante un recente dibattito al Teatro Eliseo) che hanno manifestato sincero interesse per le scoperte e la ricerca di Massimo Fagioli sulla realtà psichica umana e sulla vitale distinzione tra i bisogni, che ci accomunano agli altri animali, e le esigenze che da essi radicalmente ci distinguono. Scoperte e ricerca che hanno, tra l’altro, un così profondo e rivoluzionario valore sociale e politico, che la passione, l’intelligenza e il coraggio di entrare in rapporto con esse costituiscono ― come è sempre più evidente ― la condizione inderogabile di ogni tentativo di trasformazione, verso una più valida realizzazione umana, che non voglia condannarsi in partenza alla sterilità e al fallimento. (Sabato 16 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com). Post scriptum anticolano. Gli attuali dirigenti del Partito democratico ad Anticoli Corrado, a mio giudizio, per quanto “bersaniani” possano definirsi (ammesso e non concesso che si definiscano tali: non lo so e non m’interessa) nei decisivi anni scorsi sono stati i rappresentanti senza se e senza ma, nel nostro piccolo paese, della deriva del partito che ho tratteggiato nelle righe precedenti, e in direzione di essa hanno purtroppo influito su molti (ma non su tutti) gli Anticolani di sinistra. Politicamente, perciò, io non ripongo in loro alcuna fiducia, anche se umanamente non ritengo impossibile che perfino essi (in particolare i più giovani) riescano, un giorno, a incamminarsi su una strada diversa. Se, pertanto, dovessi giudicare il Partito democratico dall’esperienza che essi me hanno fornito, non lo voterei neanche se fosse l’ultimo partito sulla faccia della Terra. Ma non posso e non voglio giudicarlo così: non voglio credere (credere è sempre stata, per me, un’operazione ai limiti dell’impossibile) all’immagine del partito che costoro cercano di far passare per vera. E spero, malgrado tutto, di non esser mai costretto ad ammettere che invece lo è. (Sabato 16 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Sabato 16 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: L’isola del tesoro, di Fraser Heston. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
Di Jim Hawkins, il protagonista de L’Isola del Tesoro (che tutti, buoni e cattivi, chiamano semplicemente “ragazzo”) non conosciamo l’età. Ma sappiamo che Stevenson, a poco più di trent’anni, scrisse il romanzo per Samuel Lloyd Osbourne, figlio dodicenne dell’americana Fanny Vandegrift (che poco prima aveva divorziato dal marito per amore dello scrittore e si era trasferita in Scozia col bambino). Non è azzardato, dunque, supporre che l’età di Jim sia quella di Samuel: l’età, cioè, al confine tra infanzia e adolescenza, in cui i Bimbi Sperduti tornano talvolta ad accendere, sulla collina che domina l’isola del loro naufragio, il falò che qualcuno dovrebbe scorgere da una nave all’orizzonte. Come Victor, il bambino selvaggio dell’Aveyron, che verso i dodici anni esce dai boschi alla ricerca degli altri. Un tempo, però, chi rispondeva alle invocazioni dell’infanzia umana che lottava per non dissolversi in un’età adulta disumana? Erano pochi i grandi diversi da quelli a cui i piccoli non volevano finire col somigliare. La vita era troppo dura e brutale perché ci si potesse rifiutare di esserlo altrettanto e sperare, malgrado ciò, di non morire giovani. Quasi tutti gli adulti erano pirati: cacciati per i sette mari dal vento maledetto di poche idee deliranti, infidi o feroci come iene nel bisogno e nella bramosia, insensibili come la morte a tutto il resto. L’immaginazione era degradata e distorta quasi sùbito, nel bambino annullato e negato, e il poco che ne sopravviveva nei grandi era troppo disumano perché essi potessero vedere nei piccoli qualcosa di più e di diverso da ciò che a suo tempo era stato visto in loro. Ora, invece, qualcuno risponde. Il dottor Itard, per esempio, giovane di venticinque anni, nel 1801 accoglie in casa un bambino abbandonato e si dedica a lui (sia pure con l’aiuto di una governante) con l’obiettivo di reintegrarlo nel consorzio umano. Il tentativo fallisce, come sappiamo, soprattutto perché l’adulto stabilisce col bambino (nel quale non vede, come Itard lascia scritto, che “un debole e poco intelligente animale”) un rapporto troppo freddo, distaccato, impersonale: analogo, sul piano psichico, a quello di chi cerchi di salvare qualcuno dall’annegare senza però toccarlo. Ma nel 1828 un altro bambino “selvaggio”, Kaspar Hauser, apparso in una piazza di Norimberga dopo aver trascorso tutta l’infanzia in uno scantinato buio, riesce a recuperare con l’aiuto di persone amorevoli la sensibilità perduta, si affeziona ai benefattori, impara a parlare, a leggere, a scrivere, a suonare il piano. È il segno, se finalmente Hansel e Gretel possono talvolta tornare a casa, che l’immagine del bambino sta cambiando: che alcuni adulti, adesso, arrivano a intravedere nella “bestiolina” o nel “mostriciattolo”, benché celato e oppresso dall’immane zavorra di tutto ciò che credono debba essergli asportato o mutato per farne un uomo, anche qualcosa di prezioso che li attrae, li interessa, suscita il loro amore. Ed ecco (nel 1881) un giovane scrittore, Robert Louis Stevenson, che all’età di trentun’anni trascorre le serate con un bambino di dodici che non è suo figlio... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Sabato 16 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Martedì 12 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Martedì 12 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Lunedì 11 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
Lettera di Pierluigi Bersani (qui in Word, qui in pdf) a La Repubblica di lunedì 13 febbraio 2013 (o meglio: lui l’avrà scritta a La Repubblica, ma La Repubblica ha pensato bene di pubblicarla sulla sua edizione-fantasma del lunedì, la meno letta della settimana): Caro Direttore, in questi giorni si parla molto di fisco ma troppo poco di lavoro, sanità, scuola. Se saremo chiamati a governare, restituire all’istruzione le risorse, la stabilità e la fiducia sarà il cuore del programma. Insieme, naturalmente, con occupazione e moralità. Dico questo nella convinzione che le ricette economiche non bastano a uscire dalla crisi: per fermare il declino è necessario rilanciare la formazione. In Europa, il nostro è uno dei Paesi con meno laureati, dove si legge di meno e si abbandona più precocemente la scuola. Questo incide nello sviluppo economico, sociale e culturale. Se dunque c’è un settore in favore del quale è giusto che altri ambiti della spesa statale rinuncino a qualcosa, quello è la formazione dei giovani. Dovremo investire in istruzione e diritto allo studio larga parte delle risorse rese disponibili dalla lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, per riportare gradualmente l’investimento al livello medio dell’Ocse. Se toccherà a noi governare, ci impegniamo ad affrontare tre emergenze. Anzitutto la sicurezza delle scuole. Il 64 per cento degli edifici non rispetta le norme. Ricordiamo le tragedie di Rivoli e di San Giuliano. Non possiamo permettere il ripetersi di simili disastri mentre i nostri figli e nipoti sono seduti in un banco. Per questo, come proponiamo da tempo, lanceremo un programma per la messa in sicurezza di ospedali e scuole, finanziato con la riduzione della spesa per armamenti e con fondi strutturali europei. Occorre liberare risorse allentando il patto di stabilità interno per gli enti locali che investono per dotarsi di ambienti di apprendimento innovativi ed ecosostenibili. Nello stesso tempo, vogliamo approvare una nostra proposta, scritta con l’associazione Libera, perché i cittadini possano destinare l’8 per mille dello Stato all’edilizia scolastica. In secondo luogo, è con gli insegnanti che vogliamo cambiare la scuola per combattere la dispersione scolastica. Per dimezzarla entro il 2020, come chiede l’Europa, servono interventi mirati. Il tasso di abbandono scolastico in Italia è all 18 per cento, con punte del 25-30 per cento nel Sud e nelle periferie delle grandi città. La media europea è del 13 per cento e andrà ridotta al 10 per il 2020. Come sanno gli insegnanti, sono soprattutto i pre-adolescenti e gli adolescenti che lasciano la scuola, già alle medie o nei primi anni delle superiori, in particolare negli istituti tecnici e professionali. Se ne vanno non perché siano meno bravi o intelligenti, ma perché in quell’età una scelta immatura di indirizzo scolastico può essere fatale. Molti non ce la fanno perché l’ambiente sociale e familiare di provenienza è disagiato, con povertà materiali e culturali che rendono difficile l’inserimento scolastico. In questo modo la scuola rischia di essere lo specchio di una società ingiusta, invece di un “ascensore sociale”. Il giusto riconoscimento del merito dev’essere accompagnato dalla valorizzazione delle opportunità che ognuno ha di accedere alla formazione, altrimenti diventa solo la certificazione di un privilegio di nascita o di censo. Se toccherà a noi, ci impegneremo per affrontare questa situazione: formazione offerta ai docenti in servizio per innovare la didattica, nuove tecnologie, scuole aperte tutto il giorno, rilancio della formazione tecnica e professionale, necessaria anche per sostenere il Made in Italy e contrastare la disoccupazione giovanile. Infine serve un nuovo sistema di formazione e reclutamento degli insegnanti. Dagli anni Ottanta, sono state approvate continue riforme, con una stratificazione di diritti, spesso lesi, e sistemi ingarbugliati di punteggio, che hanno alimentato sfruttamento e frustrazione professionale, precarietà di vita degli insegnanti e precarietà dell’apprendere. Migliaia di studenti ogni anno salutano maestri e professori a giugno nella certezza di non ritrovarli a settembre. Quello che serve è un nuovo piano pluriennale di esaurimento delle graduatorie per eliminare la precarietà dalla scuola e offrire la continuità didattica agli studenti. Bisogna definire un sistema che leghi la formazione iniziale al reclutamento e sappia selezionare i migliori laureati per accedere alla professione di insegnante attraverso numeri programmati per dare una dotazione di personale stabile a ogni istituto. In conclusione, vorrei che la scuola accompagnasse il cambiamento che ho in mente per l’Italia. Molti ricordano con affetto e riconoscenza almeno un insegnante che gli ha trasmesso uno spunto per mettersi in cammino col passo giusto. Nessun’altra figura incide così in profondità nel patrimonio morale di una nazione. Deve tenerlo presente chi coltiva ambizioni per il futuro italiano, perché non si riforma la scuola se non si ha un grande progetto di ricostruzione civica del Paese. Non smarrirò questa consapevolezza se toccherà ai democratici e ai progressisti governare l’Italia. (Lunedì 11 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: I 400 colpi, di François Truffaut. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
Antoine Doinel ha tredici anni. Vive a Parigi con i genitori, va a scuola, e tra i suoi compagni c’è il suo migliore amico, René. Una vita normale, identica a quella di milioni di suoi coetanei. Ma fin dalla prima scena de I quattrocento colpi siamo indotti a sospettare (e ben presto costretti a vedere) che le cose non stanno così: la vita di Antoine non è quella che un ragazzino dovrebbe vivere. E non è felice. Scopriamo, dapprima, che “va male” a scuola. Poi che gli insegnanti (e specialmente il professore di Lettere) “ce l’hanno” con lui. Poi che la mamma lo tratta male. Poi che dice un sacco di bugie. Poi che ruba, in casa e fuori. E non appena ci rendiamo conto con orrore che ha imboccato una strada in discesa, ecco che la discesa si fa ripidissima: Antoine scappa di casa, commette un furto più grave degli altri, finisce in riformatorio, scappa, è inseguito dalle guardie… Ma cosa gli accadrà in seguito non ci è dato di vederlo: non sapremo neanche se lo riprenderanno o no, il film termina qui, con un’ultima immagine di Antoine che ci guarda dritto negli occhi, smarrito, e sembra domandare, lui a noi, quello che anche noi vorremmo sapere: Come sono arrivato a questo punto? Cosa ne sarà di me? Uno degli aspetti de I quattrocento colpi che ne fanno un capolavoro (non solo di Truffaut, ma della cinematografia mondiale) è che risponde a queste domande proprio come lo fa la vita: nascondendo la dolorosa verità sotto un’apparenza di normalità che è difficilissimo penetrare. Ci si riesce solo se si vuol bene a questo ragazzino e ci s’interessa a lui fino a cogliere i piccoli indizi che i suoi due persecutori (la madre e il professore) si lasciano di quando in quando sfuggire. Indizi che sono minuscoli nel film come lo sono, appunto, nella realtà, e ai quali coloro che si occupano di Antoine non danno, invece, la minima importanza. Eppure sono lì, ben visibili: discorsi e gesti dell’insegnante e della madre sotto gli occhi (e le orecchie, e le menti) di tutti. Ma nessuno li coglie. Nessuno, di conseguenza, può neanche tentare di fermare la progressione di eventi (in apparenza irresistibile) che a partire da un dato momento, con tremenda celerità, sospinge Antoine verso la rovina. E le terribili domande, finito il film, sono ancora senza risposta: Come sono arrivato a questo punto? Cosa ne sarà di me? Dobbiamo ripartire dal principio, se vogliamo rimediare alla nostra incapacità di vedere (e I quattrocento colpi, capolavoro di un regista che riconosceva in Alfred Hitchcock un maestro, in effetti è costruito in modo che si debba rivederlo più volte, perché è misterioso e allusivo come un “giallo” ma senza un detective che nel finale riunisca tutti i personaggi, riepiloghi i fatti, ne riveli i nessi e il senso, e finalmente “inchiodi” il colpevole). Truffaut ci costringe insomma a trattare la sua creatura, il film, come nessuno ha mai trattato il bambino Antoine Doinel, e solo così, guardandolo e ascoltandolo con l’interesse profondo che nasce dall’amore, a poco a poco ci permette di capire e di sapere... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Sabato 9 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Lunedì 4 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: Stand by me, di Rob Reiner. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
“Perché questi ragazzi vanno alla ricerca di un cadavere?” si domanda lo spettatore già dopo pochi minuti di film. “Che senso ha? Cosa significa? A che serve un’impresa del genere?” La risposta dei protagonisti (“per diventare famosi”) convince e non convince... È possibile, certo, che la prospettiva della fama (e soprattutto di apparire in televisione) sia affascinante per dei ragazzi il cui maggior problema è il fatto che nessuno al mondo si cura di loro, al punto che essi stessi non riescono più a considerare preziosa e importante la propria esistenza. Come è possibile che proprio una motivazione del genere abbia indotto anche il ragazzo investito dal treno a scappare di casa. Ma possiamo accontentarci di questa spiegazione? Può il desiderio di “attrarre l’attenzione” su di sé e sui propri problemi essere la causa di tutti i comportamenti cosiddetti “devianti” dei ragazzi? Anche se così fosse, del resto, per ognuno di quei comportamenti dovremmo comunque cercare una risposta in più, che ne spieghi il significato specifico: perché, dovremmo domandarci, quel ragazzo ha fatto proprio quella cosa per “attrarre l’attenzione”? E dovremmo assolutamente trovare la risposta, se gli vogliamo bene, o arriverebbe presto il momento in cui anche lui, come i fratelli maggiori dei protagonisti di Stand by me, farebbe di tutto per non attrarre più l’attenzione degli adulti su di sé. Torniamo, allora, alla domanda da cui siamo partiti ― perché questi ragazzi si mettono alla ricerca di un cadavere? ― e cerchiamo di darle qualche altra risposta meno ovvia... Consideriamo, in primo luogo, il fatto che l’amicizia tra i protagonisti è arrivata a un punto di svolta, forse di non ritorno: tutti e quattro, infatti, sanno che alla fine dell’estate dovranno separarsi, e almeno Gordie e Chris capiscono anche che la vita, d’ora in poi, li allontanerà l’uno dall’altro sempre di più. Sentono incombere uno di quegli addii definitivi che “alludono” alla morte. E credono, perciò (o è l’autore che lo crede per loro) di dover prepararsi a esso sottoponendosi a una prova che li fortifichi. Ma non c’è solo questo... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Domenica 3 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
Cominciarono Berlusconi, Tremonti e il loro ministro-fantoccio della Pubblica (D)Istruzione, Mariastella Gelmini: tra il 2008 e il 2011, licenziando 130.000 precari, derubarono la Scuola, cioè i bambini e i ragazzi, di 12 miliardi di euro (che fine hanno fatto? Non si sa) e per ottenere la complicità dei docenti promisero (vedi qui, qui e qui) di spendere il 30% di quei tagli per “premiare i meritevoli” (che fine hanno fatto? Mistero). Ora continua Monti col suo ministro-fantoccio Profumo: continua a derubare la Scuola, cioè i bambini e i ragazzi, e per ottenere la complicità degli insegnanti vuole indurli a intascare parte del maltolto camuffata da “restituzione” degli scatti di anzianità. Solo la Cgil (clicca qui per leggere il documento) ha respinto questa proposta indecente e ricattatoria. Gli altri sindacati dicono che il loro compito è quello di contrattare per ottenere comunque qualcosa per i lavoratori. Ma i fondi destinati alla didattica ― destinati cioè (lo ripeto) ai bambini e ai ragazzi e al loro futuro ― son forse qualcosa di cui un lavoratore che sia rimasto umano può accettare di privarli? Gli altri sindacati ribattono che quei fondi non vengono spesi dalle scuole, ma non è così: vero è che i governi, da anni, astutamente li inviano alle scuole sempre più tardi, e che le scuole, di conseguenza, per timore che non arrivino affatto, onestamente non se la sentono di impegnarli prima di averli ricevuti. No, la Cgil fa molto bene a rifiutarsi di derubare i bambini e i ragazzi, e io le dichiaro qui pubblicamente la mia riconoscenza per non aver fatto di me, che alla Cgil sono iscritto, un complice del governo in questo crimine. Crimine? Sì. Sono certo, infatti, che la distruzione della Scuola e dello Stato sociale imposta all’Italia e al mondo dalle tirannie finanziarie, per i drammatici effetti che avrà sui giovani nei prossimi decenni, sarà giudicata in futuro un crimine contro l’Umanità. Sono certo che chiunque ne approfitti sarà considerato complice di tale crimine. E sono certo che sia proprio questo che i governi asserviti alle tirannie finanziarie tentano di fare: degradare una parte dei cittadini a propri complici contro altri cittadini. I giovani contro gli anziani, i figli contro i padri, i cosiddetti garantiti contro i non garantiti, occupati e disoccupati gli uni contro gli altri, lavoratori contro pensionati, gli Italiani contro i Greci, e ora perfino gli insegnanti contro i bambini e i ragazzi: non guerre tra poveri, come qualcuno ingenuamente crede, ma tentativi di tramutare i cittadini in criminali inducendoli ad appropriarsi di una parte (più o meno ingente, talora immaginaria) dei profitti incamerati dai governi e dalle tirannie finanziarie sulla pelle dei più deboli. Non ricorda forse ciò che fecero i nazisti in Polonia quando offrirono ai Polacchi le case e le proprietà che gli Ebrei erano stati costretti ad abbandonare? È ora che tutti capiscano, che tutti dicano NO: la dignità umana non ha prezzo, niente e nessuno potrebbero più restituircela dopo che avessimo accettato di farci complici dei nuovi nazisti contro altri esseri umani come noi e perfino contro i nostri stessi figli. (Domenica 3 febbraio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).
L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.
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