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lunedì 14 giugno
Tra le rovine della Scuola vagano come zombie gli “insegnanti” di destra
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Vista da fuori la Scuola può sembrare ancora in piedi. Dentro, invece, è distrutta.
Come l’Aquila ― lugubre “parco a tema” dell’immaginario della Destra ― la Scuola è già oggi quel che l’Italia sarà tra pochissimo: l’ammasso di rovine morali e materiali che il berluscismo aveva in mente fin dagli inizi (solo che lo credeva e continua a crederlo, farneticando, un’immagine realistica dell’Italia nelle mani dei “comunisti”) e che giorno dopo giorno sta implacabilmente rendendo vero: come un nemico invasore che voglia far davvero, di noi e del nostro Paese, l’oggetto mostruoso che ha dentro di sé, ma che delira di vedere davanti a sé mentre continua a colpirlo.
Eppure tra le rovine, con infinita immaginazione, coraggio, intelligenza, i Bambini, i Ragazzi, molti Insegnanti, Presidi, Bidelli ― sostenuti da Famiglie non meno forti e generose ― tentano malgrado tutto di vivere, non solo di sopravvivere: continuare a imparare gli uni dagli altri, crescere, realizzarsi.
Ed è difficilissimo, ai limiti dell’impossibile: come fai a esser bravo tra rovine che a ogni passo feriscono il cuore e la mente? Come fai a esser bravo sapendo, nel cuore e nella mente, che a ogni passo calpesti le ombre invisibili di decine di migliaia di Colleghi Precari che dalla Scuola sono stati cacciati, di decine di migliaia di Giovani che nella Scuola non entreranno mai?
E tuttavia c’è di peggio, benché si stenti a crederlo: c’è che fra noi si aggirano come zombie gli “insegnanti” di destra, e la loro vista, la loro semplice presenza ― quel ciondolare stranito, scombiccherato, ma al tempo stesso incomprensibilmente, orribilmente “normale” ― stringono il cuore, opprimono l’immaginazione, tolgono le forze più delle rovine, più degli scacciati e scomparsi. Poiché gli “insegnanti” di destra, nella stragrande maggioranza dell’orda informe loro, son zombie che non azzannano il corpo, ma la mente: li guardi e li vedi sereni, rilassati, disinvolti, perfino scattanti; cerchi di non guardarli e li senti, come sempre, chiacchieroni di niente, ridanciani nel vuoto; e allora capisci, ed è questo l’incomprensibile orribile che più fa star male, che costoro non si pentono, non chiedono scusa, non si sentono in colpa e neanche stupidi per aver consegnato la Scuola ai suoi devastatori. Vagano tra le rovine come se niente fosse ― come se oggi fosse ieri, l’odio amore, la morte vita ― e nei loro volti, negli sguardi, nelle movenze, sembrano, forse inconsciamente, intenti ad assomigliare a quegli animali che si dice che sopravvivrebbero perfino alla distruzione atomica. Eppure non sono animali, sono Esseri Umani, e la loro rigida e tuttavia snervata insensibilità, che non capisci se da navigati bluffisti o da mentecatti, proprio per questo fa male fin quasi a ucciderti dentro: perché rischia di farti disperare nell’Essere Umano, constatare che un Essere Umano può ridursi non solo a non vedere, a non capire, a non sentire, ma addirittura a star bene, almeno all’apparenza, nella rovina, nella distruzione, nella morte.
Forse per costoro, che tra le rovine della Scuola si aggirano come zombie ― gli “insegnanti” di destra ― la rovina non è una catastrofe: è la conferma che attendevano e speravano. Forse da decenni vivevano male, e mentre noi pur fra mille difficoltà ci amavamo, imparavamo gli uni dagli altri, ci realizzavamo, eravamo felici, loro invece si odiavano e deformavano e deturpavano sempre di più; forse ogni giorno erano meno all’altezza di quel che in origine li accomunava a noi, e oscuramente lo intuivano o lo temevano; sì, per questo, forse, la rovina è oggi per loro un orribile sollievo: per la “liberazione” di sentirsi finalmente adeguati alla realtà che li circonda, in una Scuola che va in rovina come loro. Come certi animali, che si dice che sopravvivrebbero perfino alla distruzione atomica, si sentono più a loro agio nella sporcizia che nella pulizia, più sicuri nell’orrore che nella bellezza, più forti nel disfacimento dell’entropia che dinanzi all’avverarsi della creatività.
Ti passano accanto, entrano nelle aule, ne escono, e tu vedi e comprendi che è proprio così: non si pentono, non si scusano, non si sentono in colpa e nemmeno stupidi ― per aver votato per quindici anni per quel berluscismo che già nei quindici precedenti, in tv, aveva dato evidenti prove delle sue “capacità” ― perché in effetti, in qualche inconcepibile modo pazzesco, adesso nella rovina della Scuola stanno meglio di prima: adesso son loro che stanno bene, adesso sei tu che stai male.
E perciò son zombie, questi “insegnanti” di destra, che all’aspetto riescono a non sembrare morti viventi più di quanto lo sembri la florida vegetazione che trae linfa dai cimiteri: tanto che qualche volta possono perfino mettere allegria, a vederli, in chi non li conosce e non sa dove affondino le radici.
C’è il fatuo, balordo attempato che riesce perfino a sembrar simpatico, con la sua faccia da eterno bamboccio, perché l’atroce immobilità mentale che espira come un venticello malsano l’ha colto così, in quel sorrisone luccicante da bambolotto, e così l’ha lasciato: lui, che di quando in quando si riscuote e tenta di simulare l’impossibile serietà dei matti (quella che invece li tradisce, perché non ha capo né coda) e che in quello stato ha sempre detto che tutto andava bene, che tutto sarebbe sempre andato bene, che eravamo noi a non capire ― noi sciocchi o, va da sé, pervicacemente malevoli ― le magnifiche sorti e progressive della Scuola berluscista; lui, ora, sprofondato fino al collo nell’evidenza della rovina, gongola, freme, non sta più nella pelle per il sollievo di non dover più fingersi savio: entra ed esce dalle aule distrutte con l’aria di un turista dell’orrore, e con tutto sé stesso si sforza di comunicare anche a te la sua serenità, la fiducia, la certezza che è così che dev’essere: di contagiare anche te con il mortale piacere di rotolarsi nel disfacimento godendo che sia esso, il disfacimento, ad aver da imparare da lui, oggi, e non più lui ad affannarsi dietro la realizzazione altrui come un atleta spompato.
Sposato a una megera ― ne riparleremo fra poco ― il bamboccio è così giulivo che non trova neanche in lei la propria punizione e non soffre, per averla sposata, più di quanto soffra della rovina della Scuola; anzi: va in solluchero ogni volta che se la ritrova accanto, poiché ritrova in lei la sua “Gelmini” personale, la donna instancabile nell’esser per l’uomo ciò che per il viandante son certe vie, di cui si favoleggia, dove la forza di gravità è invertita, la salita tramutata in discesa e la discesa in salita: la donna, insomma, che dalla rovina dell’uomo trae conforto e consolazione al disprezzo di sé.
C’è poi il fascista per sempre, che per decenni ha tormentato con battute maligne i Bambini e i Ragazzi di famiglie di sinistra ben sapendo che a farli disperare non sarebbero bastati, come per molti colleghi, l’apatia quasi inorganica dei movimenti, gli occhi da alligatore acquattato nel fango, il gorgoglio della voce abbandonata dagli affetti: c’è troppa vita, nei Bambini e nei Ragazzi, perché si lascino intimidire e rassegnare solo dall’immaginazione, bisogna ferirli in profondità e ripetutamente, col contatto continuo con l’odio e il disprezzo per l’Essere Umano ch’è l’unica materia di cui il fascista per sempre è insegnante sul serio: ha sempre saputo come farlo, l’ha sempre fatto, con l’istinto dell’alligatore che dal fango si avventa sulla preda e nel fango la trascina con sé, e tra le rovine della Scuola si sente ora perfettamente mimetizzato e silenziosamente ne gode: immobile, gonfio, segnato anche lui da miriadi d’invisibili crepe, contempla il disastro che lo circonda e con l’invisibile ronzio che è la sua più autentica voce ringrazia il berluscismo per aver fatto davvero, della Scuola, l’ammasso di macerie che per lui è sempre stata, ma che da solo non era mai riuscito del tutto a costringere anche gli altri a vedere tale.
Ma l’attempato bamboccio, o il fascista per sempre ― o il ben più diffuso frescone “né di qua né di là” ― alla fin fine son solo una minoranza: gli “insegnanti” di destra, si sa, son soprattutto megere, e sono loro, dunque, la più gran parte degli zombie che si aggirano tra le rovine della Scuola. E con una tranquillità in più, rispetto agli uomini, a cementarne le facce da sfingi pietrificate da cui le riconosci tutte, le giovani, le vecchie e perfino quelle che si fingono di sinistra: i soldi dei mariti, che come per magia han sempre tramutato in argent de poche i miserabili stipendi “scippati” agli insegnanti veri, e che adesso conferiscono un tocco di realismo all’imperturbata soddisfazione con cui starnazzano fra le macerie come arpie. Si fantasticano ricche, le megere, credono che la rovina non arriverà a lambire i funerei salotti o gli idromassaggi in cui forse si salvano, masturbandosi, dall’arrivare a drogarsi; e in questa stupida illusione se la ridono spensierate mentre i Bambini e i Ragazzi (che abbandonano a sé stessi ogni volta che possono affinché si convincano di esser davvero ripugnanti, visto che le “insegnanti” proprio non ce la fanno a sopportarli a lungo) subiscono ulteriori angherie dai più fragili tra loro, quelli a cui l’odio e il disprezzo delle megere stanno imprimendo il tocco finale della metamorfosi in bulli.
Le più inquietanti tra le megere, più simili a ultracorpi che a zombie, son le giovani e “belle” che il berluscismo ha coltivato e concimato, come “baccelloni” nelle incubatrici, fin dalle culle illuminate più dagli schermi televisivi che dalla luce e dal calore dei volti materni: occultate nei loro burqa cosmetici, massmediatici e chirurgo-estetici, sono streghe che riescono a sembrare attraenti a chiunque meno che a quelli sui quali il loro esibizionismo non ha effetto, data la giovanissima età: i Bambini, i soli che non guardano loro i culi e le tette e gli unici, perciò, a non poter sottrarsi neanche un minuto, durante le lunghe ore di scuola, agli occhi cattivi che quasi solo essi vedono e da cui quasi nessuno perciò li difende.
Ma la più ripugnante, fra le megere che svolazzano sulle rovine della Scuola, è la maestra violenta. Che fra tanta distruzione, nel chiuso dell’aula resa soffocante anche in inverno dai miasmi della sua follia, sfoga picchiando i Bambini l’immaginazione malata che altrove riesce a nascondere così bene, oltre che con gli orpelli che il denaro non suo le elargisce per anestetizzarla, proprio perché quasi nessuno difende i Bambini che indifesi son tramutati in mostriciattoli dai suoi occhi da strega affinché lei possa odiarli, disprezzarli e picchiarli per poi tornare a starnazzare con le sue simili come se niente fosse.
L’ultimo episodio di cui siamo venuti a conoscenza è di cinque anni fa, ma è probabile che il fenomeno continui. Non diremo dove, in quale paese, in quale Scuola, in quale Classe. Non faremo nomi, o li faremo – se richiesti – solo a chi di dovere. Racconteremo il fatto, e ne trarremo qualche considerazione.
Da anni gli Alunni delle medie, in alcuni paesi della Valle dell’Aniene, raccontano di essere stati picchiati da certe maestre e da certi maestri. Non di quando in quando, sporadicamente – che del resto non sarebbe meno grave – ma sistematicamente. Non in un impeto di rabbia – che del resto non sarebbe meno ripugnante – ma con la tranquillità e la freddezza che ad altri, agli insegnanti veri, riesce difficile mantenere anche solo per “mettere un brutto voto” o per alzare la voce a rimproverare.
Alcuni insegnanti e presidi, più o meno a mezza bocca, confermavano. Qualcuno addirittura si autoaccusava. Ma ridacchiando, come se raccontasse una barzelletta. Si sarebbe mostrato molto più dispiaciuto, pensavamo, se avesse dato o visto dare uno scappellotto al cane o al gatto di casa.
Speravamo che non accadesse più. Ma ci illudevamo. Poche settimane fa, in una Prima media della Valle dell’Aniene, un ragazzino di undici-dodici anni ha scritto in un tema (che è nelle nostre mani e vi rimarrà, lo ripetiamo, affinché ci sia possibile esibirlo se ne verremo richiesti) che quando era in Prima elementare, il primo giorno dell’anno scolastico 2004-2005, una sua piccola compagna che piangeva per tornare a casa, e che disperata non voleva sentire ragioni e “buttava per terra tutto ciò che le capitava tra le mani”, fu schiaffeggiata dalla maestra perché la facesse finita. Perché “si calmasse”. “Maestra”?! “Maestra” per chi? “Maestra” di che cosa? “Maestra” per modo di dire.
Come abbiamo detto, pensavamo che le “maestre” e i “maestri” violenti fossero ormai tutti morti o in pensione. Leggere quel tema, dunque, è stato uno shock. Tanto più che la violenza subìta da quella bambina era stata descritta dal compagno, a cinque anni di distanza dal fatto, senza disapprovarla in alcun modo: non come un crimine, non come una dolorosa umiliazione, ma come un episodio buffo, curioso; o tutt’al più come una “gloriosa” cicatrice da esibire dinanzi all’insegnante attuale per spiegargli come mai, nonostante la sua (dell’insegnante attuale) conclamata “severità”, sia molto difficile provare nostalgia per “maestrine” di tal fatta, che invece che per deamicisiane “penne rosse” si fan ricordare per le percosse. E intanto la bambina in questione, la vittima di quell’abuso, ascoltava, assentiva – ricordava benissimo il fatto e lo confermava – ma anche lei sembrava ignara della sua gravità. E tutti gli altri dichiaravano senza scomporsi che sì, era andata proprio così, e non era accaduto solo una volta: la “maestra” picchiava spesso e volentieri, e aveva seguitato a farlo per cinque anni. Impunita. “Certe volte faceva malissimo,” ha aggiunto un’altra ragazzina, “perché aveva le dita piene di anelli. E mica se li toglieva”. Detto serenamente, senza rabbia né tristezza, con meno partecipazione – con meno partecipazione cosciente – di quella con cui avrebbero ricordato un rimprovero o un’insufficienza. Come se essere picchiati fosse un evento troppo abituale per considerarlo qualcosa di più di un semplice contrattempo.
Abbiamo detto che non faremo nomi, o che li faremo, se richiesti, solo a chi di dovere. Ma nessuno si stupirà, ne siamo certi – fra i Bambini, i Ragazzi, gli Insegnanti, i Presidi, i Bidelli, che tra le rovine della Scuola, con infinita immaginazione, coraggio, intelligenza, e sostenuti da Famiglie non meno forti e generose, tentano malgrado tutto di vivere, non solo di sopravvivere, continuando a imparare e a realizzarsi gli uni con gli altri – se diciamo che la zombie megera e picchiatrice è una “insegnante” di destra: una fra i tanti ai quali dobbiamo il berluscismo che dell’Italia tutta, non solo della Scuola, sta facendo un ammasso di macerie morali e materiali; una fra i tanti che non si pentono, non chiedono scusa, non si sentono in colpa e neanche stupidi per aver consegnato il Paese ai devastatori: ma anzi ridono, al telefono e ovunque, e ridono non tanto o non solo per il lucro che pensano di ricavarne (come troppo frettolosamente si è concluso riguardo a quello che rideva la notte del terremoto dell’Aquila) quanto soprattutto per la soddisfazione esclusivamente umana – qualunque animale è capace di trar piacere da un vantaggio materiale – di veder finalmente un Paese distrutto corrispondere e confermare il loro odio.
È la scuola pubblica il mattatoio per il quale passerà il maggior numero di vittime destinate alla “macelleria sociale” evocata dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. La manovra finanziaria taglia le gambe alla scuola pubblica e abbatte un considerevole capitale umano, soprattutto i giovani, le prime vittime della crisi. La manovra umilia ancora una volta gli insegnanti, già tra i più poveri d’Europa e in precedenza dissanguati da una Finanziaria, quella del 2008, che ha rapinato otto miliardi di euro dai fondi destinati all’istruzione. Ai docenti e al resto del personale scolastico la manovra finanziaria sottrae risorse che vanno dall’11 al 15% dello stipendio, mentre i “sacrifici” dei sottosegretari si fermano al 6% della loro retribuzione, per i ministri e i parlamentari la riduzione è del 5,3% e per i dirigenti ministeriali del 2,5%. Il personale della scuola viene aggredito dalla manovra su tre fronti. Il primo è il blocco del contratto collettivo, quando da anni i docenti attendono almeno un avvicinamento delle retribuzioni a quelle dei colleghi degli altri Paesi industrializzati. Il secondo è l’unica gratifica per chi lavora nella scuola, gli scatti di anzianità, che vengono congelati sùbito con una misura che di fatto corrisponde al taglio degli stipendi operato in Grecia. Ancora, la manovra colpisce l’indennità di buonuscita, e questo significa che i suoi effetti iniqui si ripercuoteranno sulla vita intera di ogni docente e lavoratore della scuola. Poi c’è un’iniquità nell’iniquità, perché la manovra spara nel mucchio. Per esempio, chi avrebbe maturato uno scatto di anzianità nel 2011 sarà penalizzato più dei colleghi che avrebbero avuto accesso al “gradone” successivo nel 2010, e questo accadrà senza alcun motivo e mentre fioccano le dichiarazioni ministeriali sui danni prodotti nella scuola dalla mancata introduzione di criteri meritocratici nella carriera dei docenti. E c’è un’ingiustizia che si aggiunge all’ingiustizia: nella manovra non si toccano i soldi destinati alle scuole paritarie: 130 milioni nel 2011 e 200 milioni nel 2012. (Giuseppe Benedetti su left di venerdì 11 giugno 2010).
Ogni tanto il governo fa anche cose buone ed è giusto riconoscerlo. La Finanziaria, per esempio, ha identificato e punito la categoria che maggiormente danneggia il Paese, la più pericolosa per la democrazia. I lettori a questo punto penseranno agli evasori fiscali. Ma in quale Paese vivete? Gli evasori sono brave persone, laboriose, creano reddito, soprattutto per se stessi, votano a destra. Per questo il governo li premia con un altro condono. D’altra parte, è a favore dell’evasione che si fanno le manovre finanziarie. Da quando Berlusconi è tornato a Palazzo Chigi, l’evasione è passata, secondo i dati de Il Sole 24 Ore, da cento a centoventi miliardi di euro l’anno. Venti miliardi di euro in più. Che bisogna recuperare da altri. Anzitutto dagli insegnanti. Questi mascalzoni che riempiono la testa dei nostri figli di cognizioni inutili, culturame, latinorum e algoritmi. Quando potrebbero portare in classe un bello schermo ultrapiatto e sintonizzarlo per tutto il tempo della lezione sul Grande fratello. Comunisti con il pallino dell’istruzione, che rovina il popolo. A loro tocca giustamente il salasso peggiore della manovra: due miliardi di euro (dopo gli altri 8 miliardi di euro in tre anni già rubati alla Scuola dalla Finanziaria del 2008, n.d.r.). Fra le nazioni del G20, soltanto una ha capito che per uscire dalla crisi il passo decisivo è tagliare l’istruzione. Questa nazione siamo noi, è l’Italia. Lo diciamo con un brivido di orgoglio. (Curzio Maltese su Il Venerdì di Repubblica di venerdì 4 giugno 2010).
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Bruciare le bandiere è brutto. Ma questa bandiera della teocrazia israeliana sta bruciando per uno spiacevole quanto involontario incidente: qualcuno l’ha avvicinata al fosforo con cui l’esercito israeliano ha bombardato Bambini, Donne e Uomini di Gaza...
C’è Dio contro Obama? O solo lo Stato israeliano?
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La notte fra il 30 e il 31 maggio lo Stato israeliano ha dimostrato ancora una volta che uno Stato teocratico ― uno Stato, cioè, che delira di basarsi su quel ch’è superiore all’Umano ― non può non essere uno Stato contro l’Umano. E come tale, per quanto abilmente si finga democratico, non può evitare la violenza contro l’Umano. E non può non tradire, perpetrandola, il proprio criminale fanatismo.
Ma lo Stato israeliano è davvero teocratico? La risposta è sì: è uno Stato teocratico perché (o, per essere generosi, dacché) il principio fondamentale di ogni sua valutazione, decisione e azione è la volontà di impedire che i cittadini israeliani non di religione ebraica diventino la maggioranza del suo elettorato.
Se le cose stanno così ― e le cose, ormai è tragicamente certo, stanno così ― fin dove potrà spingersi, lo Stato israeliano, pur di evitare che l’incremento demografico palestinese pacificamente lo estingua in quanto Stato confessionale ebraico?
L’impiego del fosforo contro la popolazione civile di Gaza e l’atto di pirateria della notte fra il 30 e il 31 maggio fanno temere, purtroppo, che la Teocrazia israeliana abbia messo in conto di poter spingersi fino e oltre ogni immaginabile estremo. E ciò non deve stupire: chi agisce per volontà di Dio, infatti, non può imporsi né addirittura intravedere alcun limite alle proprie azioni, poiché sarebbe come voler limitare Dio. Né può attribuire alcun valore ai Diritti Umani, quando si tratta di salvaguardare quelli divini, poiché sarebbe come mettere gli Uomini al di sopra del Creatore.
Lo Stato isrealiano, dunque, finché non troverà l’amore, l’intelligenza e il coraggio di rinunciare a essere uno Stato teocratico, è condannato a divenire sempre meno democratico, sempre più nemico dell’Umanità e sempre più pazzo e violento contro di essa. Questa e non altra è la risposta all’accorata domanda dello scrittore israeliano David Grossman: “In qualche modo tutte queste stoltezze, compresa l’operazione assurda e letale di ieri notte, sembrano far parte di un processo di corruzione che si fa sempre più diffuso in Israele. Si ha la sensazione che le strutture governative siano unte, guaste. Che forse, a causa dell’ansia provocata dalle loro azioni, dai loro errori negli ultimi decenni, dalla disperazione di sciogliere un nodo sempre più intricato, queste strutture divengano sempre più fossilizzate, sempre più refrattarie alle sfide di una realtà complessa e delicata, che perdano la freschezza, l’originalità e la creatività che un tempo le caratterizzavano, che caratterizzavano tutto Israele” (La Repubblica, martedì 1° giugno 2010). Unto, guasto... Non sono gli aggettivi che da sempre vengono spontaneamente alla mente accanto all’aggettivo pretesco?
Come il protagonista de La Morte corre sul Fiume ― unico, stupendo film diretto da Charles Laughton nel 1955 ― la Teocrazia israeliana ha sulle nocche della mano destra la parola hate, odio, su quelle della sinistra la parola love, amore, ed è informata direttamente da Dio su chi meriti l’uno ― la morte ― e chi l’altro ― la schiavitù. Lo sterminato campo di concentramento di Gaza ― un milione e mezzo di Uomini, di Donne e di Bambini in prigionia per aver democraticamente votato per Hamas anziché per l’Olp ― è attualmente nella stretta soffocante della mano destra della Teocrazia israeliana. Una stretta che i pacifisti che cercavano di raggiungere Gaza speravano di disserrare. Ma può un Dio tollerare che i suoi nemici lo rendano un po’ meno Dio, un poco più umano? La Teocrazia israeliana ha stretto il pugno dell’odio e ha strangolato nove persone. Lo tenga bene a mente chi ancora s’illude d’aver a che fare, in Israele, con una democrazia “occidentale”: non è così, e prima capiremo che quello Stato non è sostanzialmente diverso da regimi come quello iraniano, tanto meglio sarà per tutti e per la Pace nel Mondo.
Il governo degli Stati Uniti, dunque ― l’attuale governo ― come può non rendersi conto che il delirio di onnipotenza della Teocrazia israeliana è arrivato al punto di tentare di metterlo in ginocchio? Come può non vedere che la strage sul traghetto Mavi Marmara è, sì, un attacco alla Turchia ― nelle stesse ore, guarda caso, in cui i Curdi del PKK uccidevano sei militari turchi a Iskenderun con missili di cui non si sa chi li abbia provvisti ― ma attraverso la Turchia colpisce almeno altrettanto gli Stati Uniti, che della Turchia, in quella parte del pianeta, non possono fare a meno?
Non è bastato alla Teocrazia israeliana lo schiaffo dei “nuovi insediamenti di coloni autorizzati proprio nel bel mezzo di una visita del vicepresidente Usa Joe Biden in Israele” (Federico Rampini, La Repubblica, martedì 1° giugno 2010); ci volevano i morti, ci voleva una strage di civili inermi in acque internazionali, su una nave civile di uno dei principali alleati degli Stati Uniti, per darle la sicurezza di aver fatto capire a Barack Obama che la mano destra della Teocrazia israeliana è pronta a stringersi su di lui; e poi, per soprammercato, anche lo sfacciato annullamento del viaggio di Netanyahu a Washington: l’aggressore che fa l’offeso con l’aggredito, secondo la ben nota tecnica inaugurata dal lupo contro l’agnello nella favola di Esopo... Ci voleva tutto questo, nel delirante immaginario teocratico, perché in quella che esso vede come la “testa dura” del primo presidente nero della storia americana penetri e si radichi il terrore del Dio per il quale l’agnello sacrificale era soprattutto lui, Obama, la notte fra il 30 e il 31 maggio sul traghetto Mavi Marmara.
Scrive Gad Lerner su La Repubblica del 1° giugno: “Impossibile sfuggire alla suggestione che in una tiepida notte d’inizio estate le acque del Mediterraneo abbiano vissuto un Exodus all’incontrario”. Ma si sbaglia: il Mavi Marmara è piuttosto un nuovo Lusitania, e non all’incontrario. Dal quale si tratta ora di vedere se Obama si lascerà spaventare ― e vorrebbe dire, ahinoi, che anche lui teme troppo il divino per voler saperne dell’Umano ― o se invece saprà rispondere come merita a chi vuol fargliene un sanguinoso spauracchio. Poiché molti Paesi, ivi compreso il nostro, sono in attesa e in ansia di sapere se negli Stati Uniti ci sia finalmente un vero difensore dell’Umanità o solo l’ennesimo “esportatore di democrazia” (dove più gli fa comodo) più o meno ben camuffato.
(P.s.: Sì, lo sappiamo: c’è chi parla della strage del traghetto Mavi Marmara come di un “gesto sconsiderato e stupido”. Sono i più astuti avvocati della Teocrazia isrealiana. Non c’è alcuna stupidità. C’è la follia lucida di un serial killer e la sua mostruosa abilità nel farsi stimare e benvolere dagli stupidi veri).
In questa foto d’epoca, la nave britannica Lusitania lascia il porto di New York per compiere il suo ultimo viaggio (1915): durante la navigazione al largo della costa irlandese la nave fu attaccata da un sottomarino tedesco e in venti minuti affondò. L’affondamento costò la vita a 1198 persone, tra cui molti cittadini statunitensi. I Tedeschi dichiararono che la nave stava trasportando armi, ma la Gran Bretagna e gli Stati Uniti respinsero l'accusa. Questo episodio costituì uno dei fattori che determinarono la partecipazione degli Stati Uniti alla Prima guerra mondiale. (Dall’Enciclopedia Microsoft Encarta 2001).
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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).
L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.
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