Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
La Terra vista da Anticoli Corrado nell’aprile del 2013
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La sensazione dell’umano Inizio I signori del pianeta - La ricerca delle origini dell’uomo, di Ian Tattersall, un libro del 2012 tradotto e pubblicato da Le Scienze, e sùbito incontro la bella immagine qui sopra (la si può ingrandire cliccandola). La didascalia dice: Rappresentazione monocromatica di un affresco policromo oggi molto sbiadito, realizzato circa 14.000 anni fa nella grotta di Font de Gaume, in Francia. Una femmina di renna si inchina davanti a un maschio che si sporge in avanti e le lecca delicatamente la testa. (Disegno di Diana Salles a partire da una rappresentazione di H. Breuil). Commosso, mi domando: possibile che l’artista intendesse questo dipinto solo come la raffigurazione naturalistica di due renne in amore? No, mi rispondo, non è possibile: la femmina si inchina al maschio, il maschio si inchina alla femmina, al gesto di lei risponde quello di lui ― dunque qui ci siamo noi, c’è l’umano, e soprattutto c’è quel che passa tra una donna e un uomo che si amano. È lei che prende l’iniziativa, lui non potrebbe leccarle la testa se lei non si offrisse: l’apparente “sottomissione” della femmina è invece il “potere” di dar vita al rapporto, la “dominanza” del maschio è invece accettazione dell’iniziativa di lei; eppure, al tempo stesso, lei non può che domandare, mentre lui può rispondere... ma, se lei non chiedesse, cosa potrebbe lui? No: sono insieme, e basta. E il dipinto è del loro essere insieme: non un preliminare d’accoppiamento fra due mammiferi non umani (che senso avrebbe avuto dipingerlo?) ma un istante (reso dall’artista universale ed eterno) di perfetta armonia tra una donna e un uomo. Bello? Sembra anche a me, e me ne stupisco: come mai proprio stasera si ridesta la mia capacità di pensare così “in bellezza”? C’entra, mi chiedo, il fatto che poco prima di aprire il libro di Tattersall ho chiuso L’uomo nel cortile - Lezioni 2005 di Massimo Fagioli? C’entra di sicuro, mi rispondo, e questo mi dà il coraggio di lanciarmi in pensieri ancora più arditi (di cui però, nel caso siano errati, mi prendo per intero la responsabilità)... E mi domando: se le due “renne” sono la donna e l’uomo perfettamente insieme, perché dipingerli come animali e non come umani? Possibile che togliendo, apparentemente, l’umanità da una raffigurazione di essa, in realtà la si renda di gran lunga più “visibile”, più potente, più sconvolgente?... Non lo so. Ma da questa domanda, un istante dopo, ne scaturisce un’altra: possibile che gli esseri umani, 14.000 anni fa, ancora non parlassero? Sì, lo so, erano nostri antenati, erano Homo sapiens fatti proprio come noi, potevano parlare non meno bene di noi: perché non farlo? Nessuno glielo proibiva. D’accordo, penso, ma perché avrebbero dovuto, visto che nessuno glielo ordinava? A cosa sarebbe servito, se tutto ciò che avevano da dirsi poteva essere semplicemente mostrato? Il linguaggio è necessario a una società complessa. A piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori non sarebbe in fondo solo d’impaccio? Non sarebbe meglio, per loro, semplicemente guardarsi agire e fare le cose insieme (anziché insegnarsi), accompagnarsi l’un l’altro (anziché indirizzarsi), dipingere (anziché raccontare) e soprattutto esprimere gli affetti (sia piacevoli che spiacevoli) con la musica delle voci che cantano? Forse cantavano, mi chiedo, anziché parlare, e il canto non era di parole ma di suoni che liberamente scaturivano dal movimento umano interno? Forse è dal canto che il linguaggio è poi (molto poi) venuto a irregimentare quel che nel canto si dispiegava? Possibile che togliendo, apparentemente, l’umanità dalle voci che la esprimevano, i nostri antenati in realtà la rendessero di gran lunga più udibile, più potente, più sconvolgente?... Basta: mi fermo. Prima di dire altro, voglio “rinfrescare”un po’ la mia documentazione in materia rileggendomi, per esempio, Le vie dei canti di Chatwin. Magari, a vent’anni dalla prima lettura, lo capisco un po’ di più... Soprattutto se continuo a tenere aperto L’uomo nel cortile. Dove si leggono (si sentono?), con la mente che sentendo si risveglia (a volte anche troppo rapidamente e intensamente), parole (canti?) immensi come questo: Si crea così una realtà che è quella del primo anno di vita, in cui il bambino sente il suono ma, ovviamente, non capisce la lettera delle cose, però sentendo quel suono, nella misura in cui non è narcisista e non è cannibale, fa rapporto interumano. E non è il rapporto interumano del linguaggio articolato, è un rapporto interumano... percezione non c’è, intuizione nemmeno... mi pare una volta di aver adoperato o tentato di usare un’altra parola che è sensazione, e credo che si possa immaginare, con questa povera idea cosciente, che il neonato quando sente il suono della voce abbia una sensazione, una sensazione che gli dice che lui è un essere umano. Non è che gli dice, perché lui non ha nemmeno il pensiero verbale, però sa ― o meglio non lo sa, vive la cosa ― che questa sensazione data dal suono non è un rumore qualsiasi: è un qualcosa che nasce da un altro essere umano. E allora realizza la prima cosa, certamente non verbale, certamente non razionale, di un rapporto interumano basato soltanto sulla sensazione (Massimo Fagioli, L’uomo nel cortile - Lezioni 2005, L’Asino d’oro edizioni, Roma, 2012, pp 100-101). (Lunedì 22 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
Il governo che vuol farci impazzire Clicca qui per scaricare il testo in pdf - qui per scaricarlo in Word.
Abbiamo sempre saputo (e sempre sapremo) che non tutti noi, da adulti, continuiamo ad agire bene. Che non tutti, da adulti, rimaniamo onesti, leali, generosi, solidali, intelligenti. Che alcuni, purtroppo (attraverso le più varie vicende esistenziali, ma in ogni caso per ignoranza e odio contro la propria umanità) col tempo diventano individui i cui comportamenti danneggiano e fanno soffrire più o meno gravemente loro stessi, chi è loro vicino e, se arrivano al potere, intere classi sociali e intere nazioni. I termini sinistra e destra, essendo di origine storica, possono cambiare significato e anche scomparire. Ma ciò che non cambierà mai è l’esigenza di distinguerci da chi ci danneggia e ci fa star male, aiutarlo a ritrovare sé stesso e, se ciò risulta impossibile, isolarlo e metterlo in condizione di non nuocere. Questo sono (o dovrebbero essere) la sinistra e la destra finché non avremo nuovi termini per designarle: la sinistra, le donne e gli uomini che cercano di continuare a distinguersi in meglio da chi danneggia e fa star male sé stesso e gli altri; la destra, le donne e gli uomini che più o meno gravemente sono diventati donne e uomini che danneggiano e fanno star male sé stessi e gli altri. Il compito della sinistra, perciò, è duplice: verso sé stessa, distinguersi sempre più dalla destra in meglio; verso la destra, aiutarla a contrastare la deriva che altrimenti la renderebbe sempre più pericolosa per sé stessa e per la società. Chi nega che la sinistra e la destra siano diverse e abbiano fini non coincidenti e talora opposti, chi vuole indebolire questa fondamentale distinzione o addirittura cancellarla, perciò, mette in pericolo sia la sinistra che la destra perché aggredisce il più importante dei rapporti sociali: la ricerca individuale e collettiva e la cura reciproca che aiutano la società a progredire (migliorare) anziché regredire (peggiorare). Ricerca e cura reciproche che possono anche essere molto conflittuali, ma che resteranno pacifiche finché la sinistra manterrà il sentimento gioioso della responsabilità affettiva e morale che lo star meglio le assegna verso la destra, e la destra il sentimento doloroso ma salutare della debolezza affettiva e morale (più o meno grave, ma pur sempre migliorabile) che il confronto con la sinistra le arreca. Chi non distingue più la sinistra dalla destra, chi vuol indebolire e cancellare la distinzione fra esse, sono perciò gli uomini e le donne più pericolosi per la società e i peggiori nemici di entrambe le parti: nemici delle donne e degli uomini di sinistra perché ne aggrediscono la resistenza umana e cercano di farli diventare peggiori; nemici delle donne e degli uomini di destra perché ne aggrediscono le residue possibilità di ritrovare sé stessi attraverso un confronto anche aspro, ma leale, con donne e uomini che li riconoscono e li pretendono umani più e meglio di quanto essi riconoscono e pretendono da sé. Il mostruoso governo Napolitano-Letta-Alfano, dunque (anche se alcuni ministri fossero donne e uomini stimabili, che però non dovrebbero avallarlo con la loro presenza e che, per la natura di esso, niente potranno ottenerne di positivo) è il governo moralmente più violento che l’Italia ha avuto dal 1943 a oggi: il governo che con la sua stessa esistenza, prim’ancora che tenti o faccia qualsiasi cosa, aggredisce e mette a rischio l’identità, la resistenza e la salute mentale della stragrande maggioranza degli Italiani. Ma la responsabilità di questo governo non è pari tra il Pdl e il Pd: la colpa maggiore, l’aggressione più malsana e violenta nei confronti dei cittadini, è di gran lunga del Partito democratico, che da anni e decenni fa di tutto per indebolire e cancellare la distinzione fra destra e sinistra. Mentre la destra, almeno, è rimasta tale. Sempre più insensata e aggressiva? È vero. Ma che altro è, l’aggressività forsennata della destra, se non una richiesta sempre più sgangherata e sempre meno consapevole che la sinistra torni a prendersi cura di lei? Come adolescenti in difficoltà, le destre europee e americana moltiplicano balordaggini e atti di bullismo nel tentativo di ottenere finalmente un po’ di attenzione e di cura. Mentre le cosiddette (e invece finte) “sinistre”, come genitori violenti, non fanno che riempirle di “regali” senza amore incattivendole sempre più e impoverendo e facendo disperare e impazzire l’intera società. I cui segni di malattia ― tutti lo vediamo ogni giorno ― sono sempre più gravi. (Post scriptum. Benché diffidassi del Partito democratico per lo sciagurato suo connubio con gli ex democristiani, e pur avendolo duramente attaccato su ScuolAnticoli, dal 2006 a oggi, per la sua deriva destrorsa sempre più accentuata e volgare, ho sostenuto Pierluigi Bersani pensando che volesse e potesse restituire il partito all’umanità e alla sinistra scacciandone i fasulli, i profittatori e i venduti. Non ne sono pentito: penso tuttora che Bersani fosse davvero intenzionato a ciò. Ma ho sbagliato, e me ne scuso con chiunque io abbia indotto a condividere il mio errore: il Partito democratico non è riformabile perché è ormai un partito profondamente e convintamente di destra ― forse ancor più del Pdl ― i cui dissensi interni (tutti!), quando non vertono su squallide inimicizie personali o su questioni di potere, ad altro non mirano che a stabilire se sia più “moderno” turlupinare e aggredire gli Italiani da cattofascisti o da naziliberisti. Dico, con gioia, che sono certo che non sarò mai un grillino: mai ho avuto duci, in vita mia, e non inizierò ad averne ora. Ma la seconda cosa di cui più son certo dopo di questa ― e lo dico, invece, con grandissimo dolore ― è che quanto prima il Partito democratico finirà di confondere le menti e i cuori di tutti gli Italiani, di sinistra o di destra che siano, tanto meglio sarà per il Paese e per l’Europa intera). (Post scriptum anticolano. Tutto ciò vale anche per i dirigenti del Pd di Anticoli Corrado che con due anni di anticipo inaugurarono nel 2011 un collaborazionismo non meno nefando fra il partito e lo spezzone più estremo, e più fragile, della destra locale: hanno poco da vantarsi, io penso, e molto da preoccuparsi, per essere stati fra i primi ad abbandonare chi continua a lottare e, nonostante loro, a resistere).. Clicca qui per scaricare il testo in pdf - qui per scaricarlo in Word. (Lunedì 29 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
(Immagine tratta da Segnalazioni).
Spiegare un Film a un Bambino: Moby Dick, di John Huston. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
Moby Dick è la Natura nel suo aspetto più terribile? La Natura anaffettiva, che non ubbidendo che alle proprie leggi ci piega e ci distrugge? Ciò che le nostre realizzazioni non potranno forse mai “addomesticare”: i terremoti, le eruzioni vulcaniche, le stelle che esplodono distruggendo interi sistemi solari, la morte stessa? Ciò, insomma, al cui irresistibile potere dovremmo rassegnarci? E Achab, che invece non si rassegna, siamo noi stessi che ci ribelliamo alla nostra condizione e ai nostri limiti? È l’Umanità come escrescenza maligna, che non accetta di esser parte disciplinata e umile della Natura e che rischia consapevolmente e insensatamente la distruzione pur di trionfare su di essa? Se così fosse, Achab sarebbe quel che ne pensano Huston e Bradbury: lo smisurato orgoglio della scienza del Novecento (e della politica sua complice) che affette da sindrome di onnipotenza e da bramosia di potere e di ricchezza, e senza più alcun rispetto per gli esseri umani e per il pianeta, inventano e implementano tecnologie dalle potenzialità sempre più mostruose e sempre meno controllabili. È un’interpretazione suggestiva, e comprensibile se si considera che nel 1956, quando il film fu girato, il mondo era sull’orlo di un conflitto nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica che lo avrebbe ridotto a un deserto radioattivo. Ma è sbagliata: Melville non era un profeta delle sventure del progresso, ma del peso insopportabile della “civiltà” sotto le proteiformi ma fondamentalmente identiche tirannie della fede e dell’ideologia. L’incipit di Moby Dick ― Ismaele che corre al mare per sfuggire al “novembre umido e piovigginoso” che gli “scende nell’anima”, e con lui le “migliaia e migliaia di mortali perduti in fantasticherie oceaniche” che ignoti desideri muovono ad affollare le banchine di New York da ogni parte dell’entroterra, “da viottoli e da vicoli, da vie e da corsi, dal nord, dall’est, dal sud e dall’ovest”; Ismaele e gli altri che neanche gli spaventosi ammonimenti di padre Mapple a chi tenta di sottrarsi a Dio riescono a trattenere a terra ― cosa cercano se non una realizzazione, quale che sia, purché lontano dall’“ordine costituito” che non riconosce altre identità che quelle del Padre e dei padri? No: il mare di Melville e del suo Ismaele altro non essendo che lo sconfinato oceano di ogni possibile impresa dell’uomo per l’uomo, come si può cucire loro addosso gli abiti da moralisti dei nemici del progresso in nome della Natura? È proprio il progresso quel che Ismaele cerca, cioè il movimento, fuori dalle morte gore in cui i padre Mapple vorrebbero vederlo marcire. E Achab non è, dunque, il titano dell’autoaffermazione umana, che l’Onnipotente incenerirà per punirne l’orgoglio blasfemo, ma l’“eroe” negativo dell’autodistruzione umana: colui che, in nome di un qualche Onnipotente, da quello stesso invincibile impulso al libero movimento vuol trarre la volontà e la forza, sopprimendolo entro di sé e negli altri, di rendersi non umano... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Venerdì 26 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Le migliori domande dei bambini sui film:
(Venerdì 26 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Bersani piange e quasi tutti gli altri se ne fregano? (Clicca sulla foto se vuoi vederla, tristemente, meglio...) (Domenica 21 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Sabato 20 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: 2001: Odissea nello spazio, S. Kubrick. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
Cos’è il monolito nero? È davvero un oggetto di provenienza extraterrestre? Un “richiamo” inviato sulla Terra da premurose intelligenze aliene per indirizzarci sulla via del progresso, elevarci a poco a poco a un certo grado di sviluppo scientifico e tecnologico e infine attirarci nello spazio verso di loro? E come mai, se è così, dopo averci chiamato e misteriosamente guidato per milioni di anni, esse si rifiutano di mostrarsi? Perché ci abbandonano a noi stessi proprio quando l’astronauta David Bowman finalmente le raggiunge? Forse nemmeno Kubrick lo sapeva, se è vero che fu sempre incuriosito dalle interpretazioni del suo capolavoro che gli venivano proposte. O forse cortesemente fingeva di interessarsi a esse, ma sapeva bene che nei 146 minuti di 2001: Odissea nello spazio non vi sono che esseri umani, solo imprese e realizzazioni umane e, di quando in quando, la riproposizione di un enigma ― il monolito nero ― che accompagna l’Umanità da centinaia di millenni senza mai fornirle né riceverne spiegazioni di sorta. Il monolito non viene dalle stelle. Le indica, questo sì. E indicandole ― parallelepipedo esattamente allineato, fin dalla prima apparizione, all’illusoria perpendicolare che separerebbe ogni punto della superficie terrestre dall’infinito ― esso “recita” nel film la parte dell’equivoco mentale e ideologico (non alieno ma “nostrano”) che nel corso del tempo ci ha sempre distolto dal calore degli affetti e dalla ricchezza dell’immaginazione per sottometterci al regime che a quel che ci rende umani non ha mai dato tregua: la tirannia della razionalità. Sotto il cui dominio, in 2001: Odissea nello spazio, i violenti inizi delle nostre vicende non possono che ripetersi tali e quali fino alla fine, quando il bisogno, l’impotenza, la paura, e la mera sopravvivenza fisica come unico scopo possibile, rendono l’astronauta David Bowman (e noi con lui) altrettanto poco umani degli ominini da cui ci siamo evoluti. Meno, anzi, poiché essi erano creature sociali mentre Bowman non lo è più. E che la “caverna” spaziale sia mille volte più confortevole e sicura di quella preistorica non cambierebbe nulla se in essa ― seguendo fin in fondo allo spazio e al tempo il richiamo del monolito nero ― tornassimo ad aver di umano più niente. La struttura circolare del film, cioè ― poiché tutto è circolare o sferico, in 2001: dalla pozza che gli ominini si contendono alla stazione spaziale rotante, dall’occhio avvolgente di Hal 9000 alla “danza” di Bowman con sé stesso nel vuoto affettivo in cui la sua vita a poco a poco si spegne ― altro non è che l’immagine di una “rivoluzione” che invece è un vicolo cieco: l’impossibile “quadratura del cerchio” dell’umano entro l’inflessibile geometria ― il monolito nero ― che pretende di ridurlo all’esattamente misurabile, al matematicamente dimostrabile, all’esclusivamente utile. Di ridurlo, vale a dire, al non umano. L’urlo di trionfo dell’antenato che esulta per aver abbattuto un suo simile sfracellandogli il cranio che anche in lui si sottometteva alla medesima razionalità violenta non è, come può sembrare, un inno inarticolato alle “magnifiche sorti e progressive” dell’Umanità che si è messa in cammino. Non in Kubrick. Sfido chiunque a trovare nella filmografia kubrickiana un inno di gioia. Di trionfo, sì. Ma di un “trionfo”... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Sabato 20 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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L’Istituto che quasi Mi uccise... Mentre Il Venerdì di Repubblica fa pubblicità gratuita ai gesuiti e alle loro cosiddette “scuole”, mi sembra doveroso ripubblicare L’Istituto che quasi Mi uccise, un mio articolo del 2010 che aveva tre protagonisti: Luigi Scialanca, Mario Draghi e... l’Istituto che quasi uccise me, ma non lui: lui, lo mandò a dirigere una delle tirannie finanziarie più micidiali del pianeta: la Banca centrale europea. Testo che iniziava così: Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, ha scritto per L’Osservatore Romano l’elogio funebre del gesuita Franco Rozzi, antico preside del liceo classico dell’Istituto Massimiliano Massimo di Roma: Ho frequentato l’Istituto Massimo per dieci anni: negli ultimi cinque, del ginnasio e del liceo classico, il preside era padre Rozzi. Erano anni in cui si passava molto tempo a scuola: lo sport, le altre attività portavano spesso la giornata scolastica al tardo pomeriggio. Gli incontri con padre Rozzi erano perciò frequenti: da quelli con contenuti prevalentemente disciplinari ad altri in cui voleva essere informato dell’andamento scolastico. La sua autorità era indiscussa, la sua giustizia veniva amministrata con lucidità ed equilibrio, era ben spiegata, spesso temperata dall’ironia, sempre un’occasione per trasmettere il suo messaggio educativo, che ha inciso in profondità generazioni di alunni: la responsabilità di compiere al meglio il proprio dovere non è solo individuale, ma sociale; non solo terrena, ma spirituale. Curiosa coincidenza. Più o meno in quegli stessi anni (il Draghi è del ’47, chi scrive del ’51) anch’io fui costretto dai genitori in una scuola del genere: gli ultimi due delle elementari, i tre delle medie e i due del ginnasio. Non dai gesuiti e non al Massimo, però, ma nel non meno prestigioso Istituto che Marco Bellocchio, senza farne il nome, immortalò nel 1972 nel film In nome del Padre. Io lo chiamerò semplicemente l’Istituto, e ai “padri” che lo dirigevano darò il nome di cristaldi. “Ti saranno vicini per tutta la vita,” disse mia madre a me che non avevo ancora nove anni. Non intendeva i preti ― ne aveva un’immagine assai più ingenua di quella della “cara” cugina che l’aveva convinta a togliermi dalla Scuola statale ― ma i nuovi compagni, tutti di nobili o ricche famiglie, che secondo lei sarebbero stati i miei più veri e solidali amici fino alla morte. E che invece mi mostrarono come l’abiezione di molti Italiani dinanzi ai potenti abbia spesso inizio dinanzi a minuscoli miserabili capaci di apparire grandi e spaventosi solo a dei bambini abbandonati a tremare nel buio delle loro ombre... Clicca qui per continuare a leggere. Qui per scaricare il testo in formato pdf. Qui per scaricare il testo in formato word. (Venerdì 19 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Venerdì 19 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Roma, piazza della Repubblica, sabato 5 dicembre 2009. È il NoBerlusconiDay indetto dal Popolo Viola. Ma qualcuno pensa che non si possa manifestare contro Berlusconi senza manifestare anche contro D’Alema. Chissà perché, eh? (Foto di Luigi Scialanca). (Venerdì 19 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Mercoledì 17 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Lunedì 15 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
I peggiori Sette Anni della nostra Vita di Luigi Scialanca Parte Prima: dal 2006 al 2011 (e prima: dal 1943 al 2006...) Clicca qui per il testo in pdf - Clicca qui per il testo in word
Cosa ha dato all’Italia Giorgio Napolitano? I suoi rapporti con Silvio Berlusconi iniziano (secondo Michele De Lucia, autore de Il baratto, Kaos edizioni, 2008) nell’aprile del 1985, quando “esce a Milano il primo numero de Il Moderno, mensile (poi settimanale) della corrente “migliorista” del Partito comunista italiano (cioè della destra tecnocratica e filo-craxiana del partito guidata, appunto, da Giorgio Napolitano) animato da Gianni Cervetti [...] all’insegna dello slogan «l’innovazione nella società, nell’economia, nella cultura»” (p. 104). Febbraio 1986. Il Moderno “migliorista” (cioè napolitanista) scrive che “la rivoluzione Berlusconi [è] di gran lunga la più importante, cui ancora qualcuno si ostina a non portare il rispetto che merita per essere stato il principale agente di modernizzazione, nelle aziende, nelle agenzie, nei media concorrenti. Una rivoluzione che ha trasformato Milano in capitale televisiva e che ha fatto nascere, oltre a una cultura pubblicitaria nuova, mille strutture e capacità produttive” (p. 115). Con chi ce l’avevano i napolitanisti de Il Moderno? Chi era che nel 1986 ancora “si ostinava a non portare” a quel gran “rivoluzionario” di Berlusconi “il rispetto che meritava”? La mia idea è che nel 1986, schierandosi con Berlusconi “senza se e senza ma”, Napolitano e napolitanisti abbiano dato inizio alla terza fase di una guerra totale contro la Sinistra italiana iniziata molti anni prima. Attenzione: non contro i comunisti ― che a Napolitano andavano benissimo finché furono stalinisti, togliattiani e vaticani ― ma contro ogni possibilità, ogni sia pur timido tentativo, ogni remoto barlume di speranza che in Italia vedesse finalmente la luce una Sinistra vera: davvero libera, davvero laica, davvero democratica. Prima fase: il Napolitano fascista1. Seconda fase: il Napolitano cattocomunista2. Terza fase: il Napolitano berluscista. Quarta fase: il Napolitano napolitanista, capo della destra del Pd. Aprile 1987. Il Moderno “esce con un’intera pagina pubblicitaria della Fininvest. È la prima di una lunga serie di inserzioni pubblicitarie dalla misteriosa utilità per l’inserzionista, dato che il giornale è semi-clandestino e vende meno di 500 copie [...] Intanto uno dei fondatori del Moderno, l’onorevole Gianni Cervetti, alla metà di aprile è di nuovo a Mosca [...] E il 18 aprile l’agenzia Ansa da Mosca informa che in Urss, insieme al compagno Cervetti, c’è anche Canale 5” (pp 126-127). Febbraio 1988: “La destra del Pci, attraverso Il Moderno, difende il monopolio privato Fininvest [e] inneggia al miracolo imprenditoriale di Berlusconi, proiettato anche all’estero” (pp 136-137). Giugno 1989. Il Moderno “pubblica un megaservizio su Giocare al calcio a Milano, con un panegirico di Berlusconi miracoloso presidente milanista che «ha cambiato tutto: adesso la sua squadra è una vera e propria azienda» e così via. Il giornale della corrente di destra del Pci è ormai un bollettino della Fininvest, e le pagine di pubblicità comprate dal gruppo berlusconiano ormai non si contano” (p. 148). Fine di settembre del 1989. Il Moderno “pubblica l’inserto Milanesi a Mosca. Dall’ecologia agli spot nella città di Gorbaciov. Il settimanale della corrente di destra del Pci inneggia ancora e sempre al magico Berlusconi, questa volta capace di «mostrare ai sovietici cos’è la pubblicità» (pp 152-153). Ma anche “nell’inchiesta Mani pulite, al capitolo relativo alle tangenti rosse, ci sono il periodico Il Moderno e la Fininvest, nonché il compagno Cervetti” (p. 185). Finché, il 9 marzo 1995 [governo Dini succeduto al primo governo Berlusconi fatto cadere dalla Lega, nota di ScuolAnticoli] “l’ex comunista Giorgio Napolitano, già leader della corrente migliorista capeggiata a Milano da Gianni Cervetti, viene eletto presidente della Commissione per il riordino del sistema radiotelevisivo” (p. 195). Che coincidenza: un “ammiratore” quasi “ante marcia” di Berlusconi, “ammirato” a sua volta da Berlusconi a suon di pubblicità della Fininvest per la rivista milanese della sua corrente, messo a “riordinare” il sistema radiotelevisivo italiano. Che, come tutti sanno, viene “riordinato” così bene, che il potere quasi assoluto di Berlusconi sull’etere nostrano non ha mai corso alcun pericolo3. Fin qui Il baratto, di Michele De Lucia, edito da Kaos. Da qui in poi, l’archivio di ScuolAnticoli... Nel 2006, il governo Prodi “promuove” Napolitano presidente della Repubblica. Per tutta ricompensa, alla fine del 2007, Napolitano sponsorizza l’operazione mediatico-politica con cui Walter Veltroni provoca la caduta del governo Prodi per mettere fuori gioco la cosiddetta “sinistra radicale” e, obiettivo ben più importante, la sinistra interna del Partito democratico. Complice (non si sa se più irresponsabile o più insipiente) del duo Napolitano-Veltroni nell’azzardata scommessa: il presidente della Camera Fausto Bertinotti. È il primo golpe soft del settennato napolitanista. Ma non sarà l’ultimo. Nel luglio del 2008, a governo Berlusconi appena insediato, Napolitano mette la sua firma sotto la legge (nota come lodo Alfano) che garantisce l’immunità alle quattro più alte cariche dello Stato (La Repubblica, 24 luglio 2008). Un regalo prezioso, per il Cavaliere, che può così sostenere (risibilmente, ma tant’è) che non si tratti di una legge ad personam, visto che è una legge... ad personas: Giorgio, Gianfranco, Roberto e Silvio. Giorgio potrebbe non firmarla? Lo possa o meno, l’articolo 73 della Costituzione gli dà un mese di tempo, per farlo. Lui, invece, da bravo “migliorista” de Il moderno, si precipita. Ottobre 2008. Gli osservatori notano che mentre il presidente francese Sarkozy (!), rivolgendosi al papa, ha ricordato esplicitamente che altrettanto impegnati della Chiesa cattolica sono atei ed agnostici, al Quirinale il termine “pluralismo” non c’è nel discorso presidenziale (La Repubblica, 5 ottobre 2008). Ottobre 2008. Riferendosi alle proteste di insegnanti, studenti e famiglie contro la cosiddetta “riforma” Gelmini-Tremonti che sottrae ai bambini e ai ragazzi italiani tredici miliardi di euro in tre anni e rende la Scuola italiana la più misera d’Europa, Napolitano lapidariamente dichiara: Non si possono dire solo dei no (La Repubblica, 17 ottobre 2008). Lui infatti, che mai ha osato dire dei no a Mussolini, a Stalin, a Togliatti, a Kissinger e a Berlusconi (finché erano potenti) non sopporta chi invece sa dirli. Novembre 2008. Giorgio Napolitano, principal promotore dell’incultura politica e democratica riassumibile nella frase “Bisogna andare oltre la destra e la sinistra”, dichiara: Non c’è più spazio né per il militarismo né per l’antimilitarismo. È sancita una cultura della pace (La Repubblica, 5 novembre 2008). Intanto è scoppiata la peggiore crisi economica globale dopo quella del 1929. Ma niente paura, Giorgio Napolitano ha già pronta la ricetta per aggravarla fino alla rovina: Ci vogliono rigore e sacrifici, dichiara (La Repubblica, 15 novembre 2008). Gli risponde come merita l’economista Lucio Gallino: Una classe politica rinnovata dovrebbe avere tra i suoi primi scopi l’allargamento della partecipazione dei cittadini, insieme con il rientro dell’economia nel suo alveo di strumento di cui la società decide gli impieghi, piuttosto che subirla come una padrona. Conosciamo bene l’obiezione: quando l’economia mondiale rischia di crollare, occorrono drastici rimedi economici, che i cittadini debbono accettare. Se non fosse che qui siamo dinanzi a un rovesciamento del rapporto tra cause ed effetti. È stata l’abdicazione della politica, il porsi diligentemente al servizio dell’economia, che ha prodotto i disastri economici cui stiamo assistendo. Sono le leggi che la politica ha varato, in una con la sua assenza di scopi da porre all’economia: produrre tramite il lavoro più sicurezza umana piuttosto che insicurezza, ridurre gli abissi delle diseguaglianze, estendere la fruizione dei beni pubblici al maggior numero. Commento (di allora) di ScuolAnticoli: “Questo sì che sarebbe un messaggio di Capodanno degno di un paese civile. Ma qualcosa ci dice che da Napolitano non lo ascolteremo mai”. Febbraio 2009. Napolitano nomina alla Corte costituzionale Paolo Grossi, giurista cattolico vicino al Vaticano che insegna Storia del diritto medievale e moderno all’università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed è stato giudice del Tribunale ecclesiastico regionale etrusco e professore onorario della Pontificia universidad catolica del Perù. Una nomina che Berlusconi accoglie con soddisfazione: “È una scelta apprezzabile, che condivido” (La Repubblica, 18 febbraio 2009). Perché stupirsi? È naturale che Berlusconi apprezzi e condivida: la scelta di Giorgio, notano gli osservatori, riduce fin quasi a zero le probabilità che la Corte giudichi incostituzionale il lodo Alfano. Marzo 2009. Napolitano, commemorando Marco Biagi, dà il via all’attacco all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori con tre anni di anticipo sul tristo duo Monti-Fornero: In un campo come quello delle politiche del lavoro sarebbe necessario uno sforzo comune, cui nessuna delle due parti si sottragga, per riconoscere e coltivare gli elementi di continuità e le possibilità di convergenza che vi si legano... Avvertendo l’esigenza di uscire da logiche puramente difensive, non lasciandosi guidare da vecchi riflessi di arroccamento attorno a visioni e conquiste del passato, a favore del rinnovamento del sistema delle garanzie a tutela dei meno protetti (La Repubblica, 20 marzo 2009). Plaudono i due finti-sinistri (e futuri renzisti) Ichino (finta sinistra nazi-liberista) e Treu (finta sinistra cattofascista) che, richiesti di un commento alle untuose parole presidenziali, dichiarano senza peli sulla lingua: Biagi e D’Antona volevano il cambiamento e sono stati uccisi da chi quel cambiamento teme. Anzi: da chi quel cambiamento aborrisce (Pietro). L’appello di Napolitano è giusto. L’eccessiva ideologizzazione ha impedito molte soluzioni pragmatiche sul mercato del lavoro. Spesso si sono riaffacciati argomenti e polemiche da anni ’50... D’altra parte sono anni che le resistenze ideologiche rallentano i cambiamenti. Un esempio? L’articolo 18: resta un tabù... E non c’è dubbio che la Cgil ha in sé elementi di conservatorismo quando impedisce di affrontare, magari anche a fin di bene, qualsiasi novità (Tiziano). Giugno 2009. Approssimandosi il G8 della povera Aquila, Napolitano non trova di meglio che invitare i media a non disturbare il grande manovratore Silvio Berlusconi: Sarebbe giusto, di qui al G8, data la delicatezza di questo grosso appuntamento internazionale, avere una tregua nelle polemiche. Capisco le ragioni dell’informazione e della politica, ma il mio augurio e il mio auspicio in questo momento sono di una tregua (La Repubblica, 29 giugno 2009). E quando mai, o Napolitano, verso tutte le peggior destre italiche e globali hai tu auspicato qualcosa di diverso dalla tregua e dalla bandiera bianca? Ottobre 2009. Napolitano, continuando a farsi promotore dell’incultura politica e democratica volgarmente riassumibile nella frase “Bisogna andare oltre la destra e la sinistra”, dichiara: Per fortuna in Italia ci sono tanti terreni che lo scontro politico non può contaminare. L’Italia del volontariato, dell’impegno civile non partigiano. È l’Italia migliore. È l’Italia che serve soltanto all’interesse comune, senza cadere nella spirale dello scontro politico (La Repubblica, 7 ottobre 2009). Cosa significa? Che Giorgio Napolitano, senza alcuno scrupolo per la possibilità che fra i suoi ascoltatori ci siano dei bambini, definisce contaminante il confronto politico e attribuisce al termine partigiano una connotazione negativa. Ma che altro ci si può aspettare da chi dal farsi partigiano si guardò bene, quand’era il momento? Tralasciamo alcuni fatterelli “minori” (Napolitano che restituisce a Gaetano Caltagirone il titolo di cavaliere che Pertini gli aveva tolto per indegnità, Napolitano che ricorda Craxi con accenti così commossi da riscuotere l’affettuosa approvazione di Gianni De Michelis) e arriviamo al cruciale marzo del 2010. Quando, nell’imminenza delle elezioni regionali, Giorgio Napolitano firma senza fiatare il decreto “urgente” di Berlusconi che “mira a consentire lo svolgimento regolare delle consultazioni elettorali regionali” e d’imperio risolve il caos delle liste irregolari e non presentate in tempo. Dopo le leggi ad personam e ad familiam, ecco la legge ad listam che entra in vigore oggi dopo la firma apposta ieri sera, alle 23:45, dal capo dello Stato. La formula per ottenere il sì di Napolitano è stata “decreto interpretativo” invece che “innovativo” (La Repubblica, 6 marzo 2010)4. Il colpo inferto alla legalità dal duo Napolitano-Berlusconi è così grave che questa volta perfino Eugenio Scalfari, che di Giorgio Napolitano e il supremo “reggicoda”, non può esimersi dall’osservare: Poiché nel diritto pubblico un precedente produce una variante valida anche per il futuro, questo precedente potrà essere invocato d’ora in poi per condonare qualunque irregolarità procedurale a discrezione del governo. Non bastava il sistema delle ordinanze, immediatamente esecutive e sottratte a ogni vaglio preventivo di costituzionalità; a esso si aggiungerà d’ora in poi il decreto interpretativo facendo diventare norma l’aberrante principio che la sostanza prevale sempre sulla forma, come dichiarò pochi giorni fa il presidente del Senato, Schifani, dando espressione impudentemente esplicita a un principio eversivo della legalità. Un decreto interpretativo con potere retroattivo realizza questo gravissimo precedente. Si difende Giorgio Napolitano: Il problema da risolvere era, da qualche giorno, quello di garantire che si andasse dovunque alle elezioni regionali con la piena partecipazione dei diversi schieramenti politici. Non era sostenibile che potessero non parteciparvi nella più grande regione italiana il candidato presidente e la lista del maggior partito politico di governo, per gli errori nella presentazione della lista contestati dall’ufficio competente costituito presso la Corte d’appello di Milano. I tempi si erano a tal punto ristretti, dopo i già intervenuti pronunciamenti delle Corti d’appello di Roma e Milano, che quel provvedimento non poteva essere che un decreto legge. Esso non ha presentato, a mio avviso, evidenti vizi di incostituzionalità (La Repubblica, 7 marzo 2010). Gli risponde come merita Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale: Un abuso, una corruzione della forza della legge per violare insieme uguaglianza e imparzialità... importanti sempre, importantissime in materia elettorale. L’uguaglianza. In passato, quante sono state le esclusioni dalle elezioni di candidati e liste, per gli stessi motivi di oggi? Chi ha protestato? Chi ha mai pensato che si dovessero rivedere le regole per ammetterle? La legge garantiva l’uguaglianza nella partecipazione. Si dice: ma qui è questione del “principale contendente”. Il tarlo sta proprio in quel “principale”. Nelle elezioni non ci sono “principali” a priori. Come devono sentirsi i “secondari”? L’argomento del principale contendente è preoccupante. Il fatto che sia stato preso per buono mostra il virus che è entrato nelle nostre coscienze: il numero, la forza del numero, determina un plusvalore in tema di diritti. L’imparzialità. Il “principale contendente” beneficia del decreto che esso stesso si è fatto: è imparzialità? Abbiamo perso il significato della legge. Le leggi sono state piegate a interessi partigiani perché chi dispone della forza dei numeri ritiene di poter piegare a fini propri, anche privati, il più pubblico di tutti gli atti: la legge, appunto. La legge 400 dell’88 regola la decretazione d’urgenza: l’articolo 15, al comma 2, fa divieto di usare il decreto “in materia elettorale”. Primo: un decreto in questa materia non si poteva fare. Secondo: soggetti politici interessati modificano unilateralmente la legislazione elettorale a proprio favore. Terzo: si finge che sia un’interpretazione, laddove è evidente l’innovazione. Quarto: l’innovazione avviene con formule del tutto generiche che espongono l’autorità giudiziaria, quale che sia la sua decisione, all’accusa di partigianeria. Non sempre le condizioni consentono ciò che ci aspetteremmo. Quali sono le condizioni cui alludo? Sono una sorta di violenza latente che talora viene anche minacciata. Sono molto preoccupato: vedo il tentativo di far prevalere le ragioni della forza su quelle del diritto. Napolitano invece, forse perché ai golpe soft sta prendendo gusto, non vede alcunché. E ottiene così i complimenti (che un’altra tempra d’uomo respingerebbe) di un Umberto Bossi: Napolitano è stato molto equilibrato: ogni giorno che passa, vicenda dopo vicenda, si dimostra un ottimo presidente (La Repubblica, 7 marzo 2010). Giugno 2010. Napolitano commenta gli ulteriori tagli (per 25 miliardi) che il governo Berlusconi ha inferto alla Scuola e alla Magistratura: Occorre un grande sforzo, fatto anche di sacrifici, per aprire all’Italia una prospettiva di sviluppo più sicuro e più forte (La Repubblica, 2 giugno 2010). Novembre 2010. Berlusconi, sfiancato da scandali d’ogni sorta e dalla “cacciata” di Fini dal Pdl, perde la maggioranza in Parlamento: un voto di fiducia può mandarlo a casa. Ma interviene Napolitano e media tra Camera e Senato: voto di fiducia insieme il 14 dicembre. Bersani: troppo in là5 (titolo de La Repubblica del 17 novembre 2010). E Berlusconi? Approfitta del mese concessogli per una “campagna” parlamentare che lo mette di nuovo al riparo. L’acquisto più vantaggioso? Quello di Scilipoti. Dicembre 2010. Napolitano scrive al Csm e raccomanda prudenza ed estremo “riserbo” sulle pratiche a tutela dei giudici. Sulla cui “natura ed efficacia” non nasconde le sue “perplessità” perché esse rischiano di risolversi “in una dichiarazione unilaterale esposta al rischio di un’ulteriore spirale polemica”. Con chi ce l’ha? Accontenta chi dal centrodestra gli ha scritto per protestare contro la pratica a favore di Fabio De Pasquale, definito da Berlusconi un “famigerato pm”. Ora loro sono soddisfatti. Per i pidiellìni Cicchitto e Quagliariello, Napolitano va nella giusta direzione. Al Csm chi avrebbe voluto discutere già ieri la pratica su De Pasquale in plenum ha dovuto retrocedere, visto che, dice Napolitano, siamo “in una fase delicatissima della vita istituzionale” (La Repubblica, 2 dicembre 2010). E già: è sempre “delicatissima” la vita istituzionale, per Napolitano, pur di criticare i giudici che fanno il proprio dovere. Arriviamo, così, al marzo 2011. La crisi economica globale (e in particolare quella italiana) si stanno “avvitando”, lo spread cresce, Berlusconi ― che le “presentabili” destre europee amavano o almeno tolleravano benissimo finché “sdoganava” il neofascismo e aggrediva lo Stato sociale, la Scuola, la Sanità, i diritti dei Lavoratori ― cade invece in disgrazia ora che “nicchia” dinanzi alle loro richieste sempre più feroci... e Napolitano che fa? Una “rimpatriata” con l’Amerikano più tenebroso di tutti i tempi: Nel pomeriggio, fuori agenda ufficiale, un incontro con Henry Kissinger all’insegna del vecchio rapporto di conoscenza del presidente con l’ex segretario di Stato (La Repubblica, 29 marzo 2011). Per dirsi cosa? Non lo sapremo mai. Ma ne abbiamo visto gli effetti nei mesi successivi. Oh, se li abbiamo visti. Quattro settimane dopo, alla fine di aprile, Giorgio Napolitano sceglie la questione libica, e la decisione da prendere sulla partecipazione italiana ai bombardamenti, per sferrare il primo attacco pubblico all’uomo a lui più inviso al mondo, Pier Luigi Bersani: La telefonata forse più difficile da quando è segretario del Pd, Pier Luigi Bersani l’ha avuta con Napolitano, che sulla Libia ha chiesto alle forze politiche “senso di responsabilità” e la consapevolezza che “in gioco ci sono gli interessi nazionali”. In una parola, di non buttarla in caciara guardando solo l’orto di casa e la spallata a Berlusconi. Ma è proprio quel richiamo istituzionale a dividere i Democratici. Da una parte chi pensa che proprio non si doveva irritare il Quirinale votando nuove mozioni in Parlamento. Dall’altra chi, Bindi e Franceschini in testa, ritiene che la strada sia obbligata. Ma per dire quanto pesi l’ammonimento del Colle e come approfondisca i solchi nelle file democratiche, basti sapere che al Senato la capogruppo Anna Finocchiaro non è affatto orientata a seguire la strada della mozione: “Valutiamo bene, attenti,” aveva già detto un paio di giorni fa. Luigi Zanda, uno dei vice capogruppo del Pd, ironizza: “Noi qui siamo napoletaniani. Che senso avrebbe ripetere a distanza di pochi giorni un voto? Noi dobbiamo incalzare il centrodestra sulla missione, ben venga la discussione. A far emergere le fratture nella maggioranza ci abbiamo giustamente pensato alla Camera”. Lo stesso D’Alema ci tiene a far sapere di essere “né pro né contro” la strada della mozione, chiamandosi fuori. E Stefano Ceccanti ritiene che ci sia una questione di opportunità e che, se al Senato si votasse sulla Libia, a ridosso delle amministrative, non sarebbe un bel vedere un’opposizione spaccata. Il termometro dell’irritazione del Quirinale starebbe nel seguente commento: l’opposizione sale sulle barricate in politica estera, quando non dovrebbe, e poi quando si vota sull’economia ci sono quaranta deputati assenti (La Repubblica, 30 aprile 2011). Traduzione: una parte del Partito democratico, capitanata da Napolitano, è a favore della partecipazione italiana ai bombardamenti sulla Libia. Traduzione della traduzione: la destra del Pd, capitanata da Napolitano, sulla Libia mostra di essere disposta perfino a dividere il partito a pochi giorni dalle elezioni, pur di mettere Bersani in difficoltà. È solo la prova generale. L’attacco “vero” di Napolitano a Bersani arriva ai primi di maggio: Credibile. Affidabile. Praticabile. “O la sinistra immagina così l’alternativa, oppure resterà all’opposizione”. Firmato: Giorgio Napolitano. Che cita Antonio Giolitti, ma intanto sottoscrive, attualizza. Primo, serve credibilità. “Bisogna essere capaci di esercitare l’azione di governo”. Secondo: l’affidabilità. “Bisogna togliersi di dosso il sospetto di volersi insediare al potere come un’alternativa senza alternativa”. Terzo: offrire soluzioni praticabili. “Bisogna rendere realistico e convincente il perseguimento degli obiettivi, gli ostacoli da superare e la gradualità da adottare”. (La Repubblica, 5 maggio 2011). Pierluigi Bersani, cioè, per Giorgio Napolitano non è credibile né affidabile. È una dichiarazione di guerra: d’ora in poi Napolitano farà di tutto, fino all’ultimo giorno del suo tristissimo mandato, per impedire a Bersani di diventare presidente del Consiglio e al Partito democratico di andare al governo sotto la guida di Bersani. Luglio 2011. Giorgio Napolitano: Maggioranza e opposizione devono concordare sulla necessità di conseguire l’obiettivo del pareggio di bilancio. Voglio che questo obiettivo non sia messo in discussione da nessuna parte politica (La Repubblica, 11 luglio 2011). Dà ordini, il presidente, come se già fosse stato informato (da un uccellino?) che tra poche settimane sarà chiamato re Giorgio. E i suoi ordini, come al solito, possono essere condensati in una sola parola che è sempre la stessa: inciucio Pd-Pdl. Sì: in Italia, all’inizio dell’estate di due anni fa, è ormai iniziata la “guerra civile fredda” che dura tuttora. Quale guerra civile? Quella di Napolitano e dei suoi dipendenti, nel Pd e fuori, per evitare che la caduta di Berlusconi, reclamata ormai con violenza dalle destre finanziarie e politiche europee (camuffate da “mercati”) svendendo i nostri titoli e minacciando di far fallire l’Italia, porti a elezioni anticipate che darebbero al Pd una maggioranza schiacciante. Non, si badi bene, perché Napolitano non voglia la vittoria del Pd (gli starebbe benissimo, se fosse la vittoria del suo Pd) ma perché non vuole che la vittoria sia di Bersani e lo “incoroni” presidente del Consiglio. Come evitarlo? Ovvio: inchiodando il Partito democratico all’inciucio col Pdl. Che per Bersani vorrebbe dire perdere tutta la credibilità che da quando è segretario si è a poco a poco riconquistato tra i milioni di Italiani di sinistra delusi dalla deriva destrorsa degli anni precedenti. Ma come farlo, l’inciucio, se Berlusconi deve cadere? L’Italia non lo sa ancora, ma un certo Monti Mario è stato già avvisato di cominciare a scaldare i motori. Intanto, con la scusa dell’emergenza economica, l’inciucio può già partire e l’immagine di sinistra di Bersani può cominciare a essere insozzata: Ancora una volta è il presidente a dover prendere in mano la situazione: “Oggi più che mai dovrebbe sprigionarsi nel nostro Paese un impegno di coesione nazionale di cui c’è bisogno per affrontare le difficili prove che sono all’ordine del giorno”. Un appello ad approvare la manovra in modo bipartisan raccolto dall’opposizione. Così, in serata, il Quirinale tira le somme: “Il presidente Napolitano ha preso nota con viva soddisfazione degli annunci dell’opposizione nel senso di un impegno a concorrere, con pochi qualificati emendamenti, a una rapidissima approvazione della necessaria manovra. Ci si attende che a ciò corrisponda l’immediata disponibilità di governo e maggioranza a condurre le consultazioni e a ricercare convergenze”. E così sarà. [...] Resta ferma la richiesta dell’opposizione a non inserire un nuovo salvaFininvest e a rinunciare alla fiducia. In serata, dal Cairo, il segretario Bersani aggiunge: “Berlusconi non mi ha ancora chiamato. Se mi chiama, il confronto si fa in Parlamento. Ci stiamo comportando così per l’Italia, non per Berlusconi. Ma voteremo contro la manovra” (La Repubblica, 12 luglio 2011). Ci stiamo comportando così per l’Italia, non per Berlusconi... Ci crede davvero, Pierluigi Bersani? È mai possibile che davvero non veda la trappola che Napolitano e i napolitanisti stanno tendendo non solo a lui, ma a tutti gli Italiani che sperano di veder finalmente la Sinistra e il Paese sfuggire alle grinfie del naziliberismo globale, del cattofascismo italico e di un berluscismo “senza” Berlusconi ancor peggiore di quello “con”? Oppure la vede, la trappola, la vede benissimo ma niente può fare per non cadervi? E, se è così, perché non può far niente? Quale minaccia pesa su di lui? Luglio 2011. Mentre attacca Bersani, e attraverso Bersani la Sinistra e il Paese, Giorgio Napolitano non dimentica certo di avercela coi giudici quasi quanto ce l’ha col segretario del Pd: Nell’avvio e nella conduzione delle indagini sappiate applicare scrupolosamente le norme e far uso sapiente ed equilibrato dei mezzi investigativi bilanciando le esigenze del procedimento con la piena tutela dei diritti costituzionalmente garantiti. Il discorso vale anche per le intercettazioni, cui non sempre si fa ricorso solo nei casi di assoluta indispensabilità per le specifiche indagini, e delle quali viene poi spesso divulgato il contenuto, pur quando esso è privo di rilievo processuale, ma può essere lesivo della privatezza dell’indagato o di soggetti estranei al giudizio. Evitate l’inserimento nei procedimenti giudiziari di riferimenti non pertinenti o chiaramente eccedenti rispetto alle finalità dei provvedimenti stessi, così come usate il massimo scrupolo per decidere l’apertura di un procedimento e, a maggior ragione, la richiesta o l’applicazione di misure cautelari. Dal 2007 ho chiesto ai magistrati di ispirare le proprie condotte a criteri di misura e riservatezza, a non cedere a fuorvianti esposizioni mediatiche, a non sentirsi investiti di improprie ed esorbitanti missioni, a non indulgere in atteggiamenti protagonistici e personalistici che possono mettere in discussione l’imparzialità dei singoli, dell’ufficio giudiziario cui appartengono, della magistratura in generale. (L’Unità, 22 luglio 2011). Traduzione: Berlusconi sta per cadere, ma mi serve quasi altrettanto forte di quando era in sella. Guai, dunque, a chi pensasse di approfittare della sua apparente “disgrazia” per associarlo finalmente alle patrie galere. Ma il monito è solo pro-Cavaliere? Chissà. Agosto 2011. Napolitano riceve pieno sostegno da quell’altro amerikano “eccellente” che è Sergio Marchionne. Appoggio a che cosa? A un governo ancor più di destra del berluscista: Il mondo non capisce la nostra confusione, dichiara Marchionne, non capisce cosa accade in Italia, e tutto ciò ci danneggia moltissimo. C’è chi ha compiuto anche scorrettezze nella sua vita quotidiana. In altri Paesi sarebbe stato costretto a dimettersi immediatamente. Invece da noi non succede nulla. Io non so con chi parlare. Abbiamo un grande problema di credibilità del Paese. Serve una leadership in grado di recuperare la coesione. Sono d’accordo con il capo dello Stato. Serve una leadership impegnata nel fare, nel risolvere i problemi in modo credibile. Ovviamente non tocca a me fare nomi, non è il mio mestiere. Sto con Giorgio Napolitano: è arrivato il momento della coesione. Non ci possiamo più permettere questa confusione: è necessario avere una leadership più forte che ridia credibilità al Paese. Bob King, il presidente dell’Uav, il sindacato metalmeccanico Usa, anche oggi ha spiegato esattamente qual è la sua visione del sindacato. Ha detto che in un mercato globalizzato, il loro obiettivo è lavorare insieme all’azienda per migliorare la qualità del prodotto, aumentare le vendite. Ha spiegato le ragioni che lo hanno spinto ad abbandonare la via giudiziaria, le querele e le denunce. In Italia invece ci sono sette sindacati e nessuno di loro è realmente rappresentativo. Se vogliamo un futuro, dobbiamo lavorare assieme per il successo comune. Aspetto solo la decisione del Tribunale di Torino per tornare alla carica. La Fiat ha bisogno della certezza del diritto, non possiamo vivere nell’incertezza. Poi la gente non è fessa, farà la sua parte e la seguirà (La Repubblica, 4 agosto 2011). Potrebbe essere più chiara di così, la situazione italiana dell’estate 2011? Le destre europee e americana, le tirannie finanziarie globali (e quel poco che resta di tirannie industriali in grado di tener loro testa) sono con Napolitano e con la destra del Pd contro lo Stato sociale e contro i lavoratori. E contro Bersani. E contro Berlusconi. Contro Berlusconi?! Come sarebbe a dire? Forse che Berlusconi è invece a favore dei lavoratori e dello Stato sociale? No, certo che Berlusconi non è a loro favore. Ma non è così contro come lor signori vorrebbero. E, soprattutto, se lasciato a sé stesso rischia di cadere nel momento e nel modo “sbagliato”: in un momento e in un modo, cioè, che rendano impossibile impedire l’ascesa al governo del Partito democratico sotto la guida di Pierluigi Bersani. Perciò chi deve cadere è Berlusconi, certo, ma non per sé stesso: per far cadere Bersani. (Fine della prima parte. Continua...) (Martedì 9 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com). 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[1] Giorgio Napolitano, nato nel 1924, si iscrisse a Giurisprudenza a Napoli nel 1942. In quegli anni, mentre Mussolini lasciava deportare gli Ebrei italiani nei campi di sterminio nazisti, Napolitano era dei Guf, i Gruppi universitari fascisti (che ovviamente non erano affatto... antifascisti) e faceva il critico teatrale per il settimanale fascista IX maggio. L’iscrizione di Napolitano al Pci è del 1945, quando la sconfitta del nazifascismo è ormai cosa fatta (senza di lui e contro di lui) e le Quattro Giornate che hanno liberato Napoli, risalenti all’ormai lontano 27-30 settembre 1943, si sono svolte senza il suo contributo.
[2] Nel 1956, mentre Budapest era invasa dai carri armati sovietici, l’Unità definiva “teppisti” gli operai e gli studenti insorti e Antonio Giolitti e altri dirigenti lasciavano il Pci, Giorgio Napolitano elogiava i sovietici. L’Unione Sovietica, infatti, secondo lui, invadendo l’Ungheria, aveva contribuito alla “pace nel mondo”. Giorgio Napolitano, novembre 1956: “Come si può, ad esempio, non polemizzare aspramente col compagno Giolitti quando egli afferma che oltre che in Polonia anche in Ungheria hanno difeso il partito non quelli che hanno taciuto ma quelli che hanno criticato? È assurdo oggi continuare a negare che all’interno del partito ungherese (in contrapposto agli errori gravi del gruppo dirigente, errori che noi abbiamo denunciato come causa prima dei drammatici avvenimenti verificatisi in quel paese) non ci si è limitati a sviluppare la critica, ma si è scatenata una lotta disgregatrice, di fazioni, giungendo a fare appello alle masse contro il partito. È assurdo oggi continuare a negare che questa azione disgregatrice sia stata, in uno con gli errori del gruppo dirigente, la causa della tragedia ungherese. Il compagno Giolitti ha detto di essersi convinto che il processo di distensione non è irreversibile, pur continuando a ritenere, come riteniamo tutti noi, che la distensione e la coesistenza debbano rimanere il nostro obiettivo, l’obiettivo della nostra lotta. Ma poi ci ha detto che l’intervento sovietico poteva giustificarsi solo in funzione della politica dei blocchi contrapposti, quasi lasciandoci intendere (e qui sarebbe stato meglio che, senza cadere nella doppiezza che ha di continuo rimproverato agli altri, si fosse più chiaramente pronunciato) che l’intervento sovietico si giustifica solo dal punto di vista delle esigenze militari e strategiche dell’Unione Sovietica; senza vedere come nel quadro della aggravata situazione internazionale, del pericolo non solo del ritorno alla guerra fredda ma dello scatenamento di una guerra calda, l’intervento sovietico in Ungheria, evitando che nel cuore d’Europa si creasse un focolaio di provocazioni e permettendo all’Urss di intervenire con decisione e con forza per fermare l’aggressione imperialista nel Medio Oriente, abbia contribuito in misura decisiva, oltre che ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss, ma a salvare la pace nel mondo”.
[3] Nel 1994, tornato sui banchi parlamentari dopo essere stato presidente della Camera, Napolitano è incaricato dal Pds di pronunciare la dichiarazione di voto sulla fiducia al governo Berlusconi I. Al termine del discorso Silvio Berlusconi si congratula con lui per aver auspicato “una linea di confronto non distruttivo tra maggioranza e opposizione”. Nel 1996 Romano Prodi lo sceglie come ministro degli Interni del suo governo. Come primo ex-comunista a occupare tale carica, Napolitano propone (con Livia Turco) quella che diverrà nel luglio 1998 la Legge Turco-Napolitano che istituisce i centri di permanenza temporanea (CPT) per gli immigrati clandestini. Mentre ricopre tale incarico, Napolitano è molto criticato per non aver attuato una tempestiva e adeguata sorveglianza su Licio Gelli, fuggito all’estero il 28 aprile 1998 dopo la sentenza definitiva di condanna per depistaggio e strage (la strage di Bologna del 1980) da parte della Cassazione. Per questi fatti il direttore di MicroMega, Paolo Flores d’Arcais, ne chiede le dimissioni (http://it.wikipedia.org/wiki/Giorgio_Napolitano).
[4] Legge ad listam con cui, tra l’altro, il Giorgio Napolitano del 2010 (poiché nella sua storia “tutto si tiene”) en passant fornisce al Giorgio Napolitano del 2013 il “precedente” che gli permetterà di definire comprensibile, contro il potere giudiziario, la preoccupazione del Pdl di veder garantito che il leader dello schieramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento.
[5] Bersani, si noti, è l’unico che osa dire che il tempo concesso da Napolitano a Berlusconi è troppo.
Dal sito de
La Repubblica:
Giorgio Napolitano lancia un appello a Pd e Pdl affinché trovino un
punto di incontro su un governo di collaborazione. E per farlo ricorda
il passato, nel commemorare al Senato la figura di Gerardo Chiaromonte,
dirigente del Pci tra i principali artefici del compromesso storico.
“Allora”
dice
“ci
volle coraggio per quella scelta di inedita larga intesa e solidarietà,
imposta da minacce e prove che per l’Italia
si chiamavano inflazione e situazione finanziaria fuori controllo e
aggressione terroristica allo Stato democratico come degenerazione
ultima dell’estremismo
demagogico”.
Ha parlato il capo supremo del Partito trasversale dell’inciucio
(e, in particolare, della destra interna del Pd cattoliberista), l’uomo
che per tutta la vita, prima come giovane fascista (mentre Mussolini si
arroccava a Salò e deportava gli Ebrei nei campi di sterminio nazisti),
poi come cattocomunista stalinista (mentre l’Unione sovietica invadeva
l’Ungheria), poi come berluscista (mentre Berlusconi gettava le basi del
suo impero mediatico-politico) e infine, in proprio, come
napolitanista, ha fatto quanto poteva contro la Sinistra vera e
contro la libertà e la democrazia nel nostro Paese.
(Lunedì 8 aprile 2013. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com). *
Spiegare un Film a un Bambino: La guerra del fuoco, di J.-J. Annaud. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
Accade qualcosa, durante il lungo viaggio di Amoukar, Ika, Naoh e Gaw, che conferisce alla loro epica avventura un più profondo significato lasciandoci intuire che essi sono alla ricerca, oltre che del fuoco, di capire la propria umanità: cosa li distingua, cioè, in quanto animali umani, da tutti gli altri. Alludo al momento in cui i tre cercatori e la loro compagna si imbattono nei mammouth. Non a caso tale episodio è parte del drammatico confronto fra i protagonisti e la tribù di cannibali che ha catturato la bella Ika. Chi sono, infatti, i cannibali? Sono gli umani che trattano altri umani come se fossero animali non umani, delle cui carni ci si può cibare. Sono, cioè, gli umani che non riconoscono (o non vedono più) alcuna differenza tra gli umani e gli altri animali, e che perciò credono di poter tiranneggiare, sfruttare e perfino uccidere e macellare un essere umano come una bestia. Sono, insomma, gli umani che, nell’impossibile e folle tentativo di annullare l’umanità altrui, in realtà rinunciano alla propria umanità. E in tal modo non diventano però animali essi stessi (poiché nessun vivente può dismettere le caratteristiche della propria specie per assumere quelle di un’altra) ma una sorta di mostri indefinibili, strani. Perciò lottare contro i cannibali (e contro chiunque tratti gli umani come cose, o come animali non umani) significa cercare e scoprire in che cosa consista la nostra umanità. Li per lì, la vista dei colossali ed enigmatici pachidermi, che li guardano con ira e rivolgono minacciosamente verso di loro le lunghe zanne ricurve, è terrorizzante sia per Amoukar e i suoi compagni sia per i cannibali, che interrompono l’inseguimento e si acquattano fra i cespugli. Ma poi Amoukar ha un’intuizione: “Quegli esseri giganteschi,” egli pensa, “sono certamente superiori a noi, piccoli uomini (cioè, diremmo oggi, sono creature sovraumane, divine) e hanno diritto al nostro umile omaggio. Ma sono anche animali, e perciò gradiranno anche un po’ di cibo”. Si china dunque a raccogliere un ciuffo d’erba e avanza lentamente verso i pachidermi, curvo fin quasi a terra in un inchino pieno di terrore ma tenendo alta la mano con cui porge loro il suo dono: e i mammouth non solo accettano l’offerta e permettono ai protagonisti di passare, ma si lasciano aizzare contro i cannibali e li mettono in fuga. Amoukar, in quel momento, scopre che la Natura, in qualche modo, è “sensibile” all’immaginazione umana. Che la Natura, cioè, può essere trasformata dall’immaginazione umana Poiché noi siamo diversi dagli altri animali. Abbiamo caratteristiche che nessun altro vivente ha. In che cosa consiste questa diversità? Quali differenze ci rendono così speciali (per il meglio o, purtroppo, per il peggio) da poter essere stupendi o mostruosi, geniali o distruttivi, solidali o cannibali?... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Domenica 7 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Spiegare un Film a un Bambino: Il buio oltre la siepe, di R. Mulligan. (Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media. Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto semplicistiche. Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e... non dimenticare di citarne l’autore!)
C’è, nel buio oltre la siepe, il lavoro dei bambini per capire il mondo sconcertante degli adulti, bellissimo e atroce, e per non esserne distrutti fisicamente e mentalmente. In questo il romanzo di Harper Lee continua la grande e incompresa novità ottocentesca e della prima metà del Novecento della ricomparsa dei piccoli umani dal buio di un annullamento millenario (gli abbandoni e i ritrovamenti, le fughe e i ritorni, le sparizioni e riapparizioni di Hänsel e Gretel, di Maria Stahlbaum, di Tom Sawyer, di Huckleberry Finn, di Jim Hawkins, di Pinocchio, di Egòruška, di Holden e Phoebe Caulfield) e la arricchisce e la completa immaginando una bambina lì, nel “luogo” cruciale in cui i bambini scompaiono, a un passo dalla siepe che divide la luce dal buio, e narrando il suo diventare grande senza mai mettere in dubbio il suo essere fin dalla nascita: una bambina ― Jean Louise Finch, detta Scout ― che fin quasi alla fine del libro comprende poco di quel che accade e mette tutti in imbarazzo con le sue gaffe, e intanto è però inconsapevolmente in rapporto con gli altri a un livello di cui solo lei è capace (Atticus: “C’è voluta nientemeno che una bambina di otto anni per farli rientrare in sé! Ciò dimostra che anche una banda di bruti può essere fermata, semplicemente perché son pur sempre esseri umani. Chissà, forse avremmo bisogno di una polizia composta di bambini... Voi ragazzi stanotte siete riusciti [ma è stata solo Scout, n.d.r.] a far sì che Walther Cunningham si mettesse nei miei panni per un attimo, ed è bastato”) e sa intuire, o sentire, quel che nessun altro intuisce né sente: “Persino i neonati stavan tranquilli, e per un attimo mi chiesi se fossero stati soffocati al petto dalle loro madri” pensa, al processo, quando si rende conto che Mayella Ewell sta mentendo perché Tom Robinson muoia: una bambina capace di sentire il mondo capovolgersi e l’umano farsi disumano, ma che un attimo dopo, quando “Jem si volge a Dill spiegandogli [...] i punti più interessanti del dibattito”, si chiede “quali possano essere”! C’è, poi, nel buio oltre la siepe, il rapporto di Scout e Jem e del loro amico Dill con un adulto, un padre, Atticus Finch, che è l’uomo migliore che ci possa essere, perché ha il coraggio di entrare in conflitto con i suoi concittadini (“prima di vivere con gli altri, bisogna che viva con me stesso”) per difendere i diritti fondamentali di ogni essere umano e per meritarsi il rispetto dei figli (“Se non lo facessi [...] non potrei dire a te o a Jem: fa’ questo e non far quello”) e che lotta, diversamente dai suoi nemici e dagli avversari, senza tentare di rendersi anaffettivo nemmeno quando la sua sensibilità per la sventurata condizione di Mayella Ewell rischia di indebolirlo nella difesa della giustizia che per lui è tutto: poiché Mayella è una “strega”, certo, ma è figlia anche lei, come Scout e Jem, e anche in lei, dunque, Atticus non può non vedere quell’umanità meno forte, e perciò “a rischio”, i bambini, le donne, i neri, i “diversi”, che egli è al mondo per difendere, per far sì che non precipitino (Atticus, infatti, è un catcher in the rye adulto, che è riuscito a realizzare il suo sogno) in quel buio oltre la siepe che a Maycomb non è notte, né sonno, né tanto meno l’irrazionale profondo ch’è solo umano, ma il “luogo” spaventoso della segregazione e tortura di chi non è tollerato ― perché bambino o perché donna, perché di un altro colore o perché “diverso” ― dall’ordine implacabile dei maschi adulti bianchi e delle loro signore. Ordine di cui anche Atticus, perfino Atticus, è parte, ma che egli si ostina invece a credere il “luogo” della luce, l’unico in cui si può vivere con giustizia e umanamente e rispettando i diritti di tutti. E perciò non capisce, Atticus, come sia possibile che altri vi siano invece così pieni d’odio, violenti, stupidi (lo dice più di una volta: “non capisco”; e lo dice in particolare a Scout, perché è con la figlia che Atticus arriva quasi a superare sé stesso e a vedere... che vi è qualcosa che lui non vede, nella luce e nel buio al di qua e al di là della siepe). Dinanzi ai piccoli e ai deboli, vittime “predestinate” dell’ordine di Maycomb, Atticus si erge a impersonare quell’ordine da uomo buono, giusto, amorevole, ed è con loro gentile, dolce, paziente, affettuoso, sempre presente, giusto, severo solo quando è necessario (e anche allora soffrendo): tutto, insomma, Atticus è tutto quel che si può desiderare. Meno una cosa: nel buio non si arrischia, non entra, non va a vedere. E mai vi si fermerebbe a vivere. Perciò Tom Robinson, rinchiuso nella cella della morte dalla stessa Maycomb della “luce” da cui Atticus non può uscire, tenta la fuga da solo. E perciò soccombe. Ha un solo difetto, infatti, Atticus... (Clicca qui per continuare a leggere!). (Martedì 2 aprile 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).
L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.
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