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Thomas Williams

 

Illustrazione di Lisa Kopper, tratta dalla copertina dall’edizione inglese del 1978 della Souvenir Press

 

I Bambini di Tsuga

 

(1977)

 

Ad Ann e Peter

 

traduzione di Luigi Scialanca

 

Indice

 

Capitolo Primo: Una Casetta in un Paese Selvaggio

Capitolo Secondo: Tsuga e la Porta Nera

Capitolo Terzo: Il Mese di Ghiaccio di Ferro

Capitolo Quarto: La Montagna e la Cascata

Capitolo Quinto: Il Paese Nascosto

Capitolo Sesto: Verso la Prateria

Capitolo Settimo: Fuoco e Cibo

Capitolo Ottavo: Il Grande Sempreverde

Capitolo Nono: Il Sacrificio

Capitolo Decimo: Il Vecchio Zannastorta

Capitolo Primo

 

Una Casetta in un Paese Selvaggio

 

C’era una volta, in tempi ormai lontani, una famiglia di nome Hemlock, che abitava ai piedi di un’alta e bella montagna di latifoglie, ombrosi sempreverdi e nudi spuntoni di granito: il Monte Cascom. Non vi erano altre case che la loro per un centinaio di miglia di boschi e praterie e acquitrini, e laghi e fiumi azzurri senza nome, dove gli animali che corrono vivevano a modo loro, correndo e volando, e gli animali che vanno piano socchiudevano gli occhi con noncuranza sui lunghi anni che avevano da vivere.

Tim Hemlock era un cacciatore, un artigiano e un agricoltore; insieme a sua moglie, Eugenia, aveva diboscato un orto e due campicelli e li conservava lottando contro la buia foresta che tentava continuamente di insinuarvisi di nuovo, di infilare le sue propaggini in ogni radura e di ricoprire ogni cosa con le sue foglie. Era un uomo silenzioso, riflessivo, affabile con i suoi e con gli animali, ma di quando in quando aveva l’aria di chi ha in mente o nel cuore qualcosa che lo rende triste, quasi arcigno. Osservava e ascoltava un sacco, com’è bene fare in una terra selvaggia, ma negli sguardi e nei silenzi suoi c’era molto più di quel che diceva. Lavorava sodo e si prendeva cura della moglie e dei figli, ed essi lo sapevano, ma non avrebbe mai rivelato loro che cosa gli sembrava o sperava di scorgere nelle tempestose nubi sopra il Monte Cascom, o di udire nelle voci del vento.

Quel giorno, nella casetta di tronchi degli Hemlock, Jen, di sette anni, stava aiutando la mamma con la grossa zangola di legno per il burro, dandole il cambio finché la panna era fresca e la manovella facile da girare. Arn, di quasi dieci, era fuori, nella grotta che fungeva da magazzino e da frigorifero scavata nella collina dietro la casa, e aiutava il babbo a tagliare le tremule carni di un cervo in lunghe strisce da mettere a seccare all’effimero sole d’ottobre. Era autunno, infatti, il tempo che precede le gelide tempeste che vengono giù dalle montagne con il bianco sibilo della neve, e tutta la famiglia si stava preparando alla lunga stagione buia, quando le giornate sarebbero diventate sempre più brevi, il vento tagliente come un coltello, e la loro vacca Oky, il bue Brin, le due capre e il maiale sarebbero a malapena riusciti a scaldare con i loro corpi la piccola stalla. Che sembrava vuota, ora, dopo che il toroche poi era il fratello di Brin ― in primavera si era smarrito lontano dal pascolo e non aveva più fatto ritorno. E dopo che il vitellino di Oky era morto nascendo. Ma nella casetta di tronchi degli Hemlock il focolare avrebbe pur sempre fiammeggiato di giorno e rosseggiato di notte, divorando il prezioso midollo delle latifoglie accatastato sotto la lunga grondaia da Arn e dal babbo dopo che Brin l’aveva trainato fin là dai boschi sulla slitta calzata di ferro.

In cucina Eugenia cantava, gli azzurri occhi limpidi come il cielo d’ottobre, i lunghi capelli castani raccolti nelle trecce intessute da Jen. Cantava la canzone del burro, e la figlia l’accompagnava, ogni tanto, ma per la maggior parte del tempo ascoltava la dolce voce della mamma:

Dalla notte viene il giorno,

Dal sottile viene il grosso.

Oky sa come cresce il burro,

mentre le pale girano svelte.

Nella grotta, intanto, sulla spessa tavola d’acero accanto all’uscio, il coltello di Arn tagliava la rossa carne del cervo in lunghe e sottili fettucce. Il babbo era più rapido, e le sue strisce più lunghe e sottili, ma al figlio diceva che stava facendo un buon lavoro.

“Devi essere svelto e preciso quando hai a che fare col dono del cervo...” spiegò. “Ricorda che noi, per lui, non facciamo quello che facciamo per Oky, per Brin, per le capre e il maiale. I cervi provvedono da soli a sé stessi e ogni inverno son lì lì per morire di fame, e noi non li aiutiamo in alcun modo. Perciò la loro carne è un dono, per noi.”

“Come il salmone nel fiume,” disse Arn.

“Sì,” rispose il babbo.

Gli Hemlock erano in attesa del Mercante, che una volta all’anno arrivava su una lunga canoa. Ogni tanto Arn e Jen interrompevano quel che stavano facendo e guardavano giù nella valle alla volta del fiume, domandandosi con eccitazione se sarebbero riusciti a vedere la canoa fin dal primo momento, quando avrebbe fatto rotta oltre le rapide verso l’ultimo approdo della stagione. Ogni ottobre il Mercante portava lingotti di piombo per farne palle da fucile, un barilotto di polvere nera da venti libbre, pietre focaie, aghi, sale, olio da lampada, lana d’acciaio, ramponi e strapping. Se Tim Hemlock aveva avuto una buona stagione di caccia e un buon inverno nella fucina accanto alla stalla (dove Arn pompava il mantice per lui) e se anche Jen e Eugenia avevano avuto un buon inverno a fare mocassini di pelle di cervo decorati con gli aculei di porcospino che tagliavano in perline, candeggiavano, tingevano e infilavano su cordicelle, allora gli Hemlock avrebbero potuto scambiare pelli e pellicce, coltelli d’acciaio e di corno di cervo di Tim e bei mocassini. Il Mercante sarebbe tornato alla canoa e avrebbe portato loro anche della liquirizia, del cioccolato in polvere, del tè, e altre cose che essi avrebbero gradito molto, ma di cui non avevano davvero bisogno.

Accadde dunque che Jen, avendo fatto il suo turno alla zangola, andò alla porta sperando d’essere la prima a scorgere la canoa del Mercante sull’azzurro fiume. Ma quando aprì la porta balzò indietro con un grido, perché lì, impettita sulla soglia e perfettamente immobile, c’era qualcuno: una personcina tutta in marrone, infagottata in un vestito marrone di pelle di cervo che le arrivava fino ai piedi.

Era una donna vecchissima, dai capelli bianchi e sottili, la vecchia faccia non meno bruna degli abiti di pelle di cervo. E non parlava, non cambiava espressione, se ne stava lì e basta, gli antichi occhi color del bronzo splendenti su Jen. Il suo viso era coperto da profonde rughe che s’intersecavano come le screpolature nel fango di uno stagno prosciugato, ma fra una ruga e l’altra la pelle era liscia e lucida come la cera scura. E tra le mani teneva un cesto di giunchi intrecciati.

La madre di Jen udì il grido della figlia e corse alla porta. E anche lei si spaventò, poiché da molti anni gli Hemlock non avevano altri visitatori che il Mercante.

“Chi siete?” domandò Eugenia; ma la donna non si mosse né disse una parola. Solo i suoi vecchi occhi scintillanti, come se cercassero qualcuno, si spostarono dalla figlia alla madre e da loro verso l’interno della casetta.

“Va’ a chiamare tuo padre,” disse Eugenia, e Jen fece un largo giro attorno alla vecchia e corse alla grotta, dove Arn e il babbo stavano lavorando.

“C’è una vecchietta tutta marrone!” disse Jen. Sentiva che stava per mettersi a piangere, era sconvolta. “È sulla porta! Mi ha fatto paura!”

Di corsa tornarono alla casetta, e i bambini, che subito guardarono il padre, scorsero sul suo viso una strana espressione quando egli si rivolse alla vecchietta.

“Chi siete?” le domandò, ma aveva un’aria incerta, come se pensasse che non avrebbe dovuto chiederglielo. Sembrava che stesse cercando di ricordare qualcosa.

Quando lo vide, la vecchietta si mosse per la prima volta, facendo dei cenni col capo, e gli porse il cesto. Egli lo prese, ancora dubbioso, e annuì anche lui per tre volte. La vecchietta, il volto immobile come se fosse di legno, annuì tre volte a mo’ di risposta. E da quel momento Tim Hemlock non tentò più di dirle una sola parola.

Passò il cesto di giunchi a Eugenia, indicò la casetta, mise le mani a forma di tetto, indicò il proprio cuore, poi la vecchietta, e infine compì con una mano un lento e ampio gesto verso la porta, offrendole di entrare. Ella lo fece, camminando così scorrevolmente che sembrò che non lo facesse coi piedi, ma scivolando sul terreno. Andò dritta verso la panca vicino al focolare e vi si accomodò, con la consunta e cenciosa sottana di pelle di cervo che le copriva i piedi. Le sue mani erano nodose; le dita brune, dalle giunture gonfie e visibilmente doloranti, davano l’impressione di piegarsi nei punti sbagliati. Ma con quei suoi movimenti armoniosi ella sembrava in grado di parlare per mezzo di esse come se niente fosse. Piegò entrambe le mani a coppa, indicò il cesto tenuto da Eugenia, poi mise una mano al di sopra di esso a mo’ di coperchio e la sollevò annuendo col capo. E tutti compresero che Eugenia doveva aprire il cesto.

I bambini si fecero più vicini per guardare. Il cesto conteneva svariati piccoli oggetti, ognuno avvolto con cura in una foglia di tiglio. Per primi c’erano dei funghi, messi in cima perché fragili; poi dei corals rosa, bianchi e celesti; delle spugnole, che in effetti sembravano proprio delle spugne marroni; delle vesce d’un bianco purissimo, che affettate e fritte avrebbero avuto un sapore di carne; dei funghi-bistecca, che avevano esattamente l’aspetto che il loro nome dichiarava, e dei funghi-ostriche che sembravano proprio tali. E poi ce n’erano di arancioni e gialli che gli Hemlock non avevano mai veduto prima, e che non avrebbero osato assaggiare se li avessero visti.

Sotto i funghi c’erano delle perfette scatoline di corteccia di betulla disposte l’una accanto all’altra. Eugenia le prese a una a una e le mise sulla grande tavola di quercia. Sul coperchio di ogni scatola c’era l’immagine di una pianta intagliata nella corteccia, e all’interno di ciascuna vi era una polvere di diverso colore, impalpabile come la farina. Arn, a cui piaceva raccogliere cibi selvatici, credette di riconoscere alcune delle piante: un piè-d’oca, una punta-di-freccia, una roseroot, un kinnikinic, una salicornia, una portulaca, un’acetosella... Ma qualche pianta non riuscì a riconoscerla.

C’era poi un’altra scatoletta, piena di una finissima polvere marrone, che sul coperchio recava l’immagine di una graziosa manina pendente verso il basso.

“Dice che sono un regalo per noi,” annunciò Tim Hemlock.

“Ma che cosa sono tutte quelle polveri?” disse Eugenia.

“Non lo so. Ma sono un regalo, quindi le metteremo sulla mensola,” rispose Tim Hemlock, e così fecero. Misero le scatoline sul ripiano sopra il camino, dove sarebbero state all’asciutto. E la vecchietta non si mosse né parlò, ma i suoi occhi brillarono.

Nei giorni che seguirono gli Hemlock mangiarono i funghi che sapevano buoni, ma lasciarono quelli arancioni e gialli sulla mensola, dentro le foglie.

Passarono i giorni, e la vecchietta sedeva sulla panca vicino al fuoco. Se ne stava lì tranquilla per tutta la giornata, muovendosi appena. Usciva nelle prime ore del mattino, da poco prima dell’alba a poco dopo, ma poi tornava a scivolare dolcemente al suo posto sulla panca di legno. Mangiava pochissimo e non creava alcun problema, ma dopo una settimana o poco più Eugenia cominciò a sentirsi un po’ inquieta.

Lei e Jen erano fuori, quel giorno, vicino all’abbeveratoio dove Tim Hemlock e Arn stavano lavorando, ed ella domandò a Tim Hemlock quanto a lungo la vecchietta intendesse restare.

“Non che mi dia fastidio,” disse Eugenia, “ma se ne sta lì a guardarmi tutto il tempo, e questo mi rende nervosa.”

“E poi ha uno strano odore,” soggiunse Jen. “Un odore come quando passeggi nei boschi e arriva una specie di ventata animalesca, calda, e non sai da dove viene.”

“Se almeno potessi chiacchierare con lei,” disse Eugenia. “Chi è? Che cosa ci fa, qui?”

Eugenia glielo chiedeva perché talvolta Tim Hemlock e la vecchietta conversavano con le mani e nessuno riusciva a decifrare i loro gesti; tranne i più semplici, come “Gradireste ancora un po’ di zuppa?” che in effetti era abbastanza facile da capire.

“Non so con certezza chi sia,” disse lentamente Tim Hemlock, la perplessità dipinta sul viso. “Ma so che dobbiamo permetterle di rimanere.”

Più tardi, mentre lui e Arn e Jen stavano dando da mangiare agli animali nella stalla, Arn disse: “Com’è che sai parlare con lei, papà?”

“Non lo so,” rispose il babbo. “Mio nonno, Shem Hemlock ― cioè il tuo bisnonno ― sapeva parlare in quel modo. Una volta, quand’ero ragazzo ― quando avevo all’incirca la tua età, Arn, e uno dell’Antica Gente venne a casa di mio padre ― mio padre mi disse che il nonno lo sapeva fare. Ma lui non era in grado di farlo. Non so proprio come mai lo sappia fare io.”

“La vecchia signora è una dell’Antica Gente?” domandò Jen. Stava grattando il largo muso di Oky, la vacca.

“Dev’essere l’ultima, se lo è,” rispose Tim Hemlock.

“Si chiamavano l’Antica Gente perché erano tutti vecchi come lei?” domandò Arn.

“No, è che loro erano qui prima di noi.”

“E se ne sono andati tutti?”

“Lo si è creduto per molti anni,” disse Tim Hemlock; e i bambini, vedendo che il babbo si faceva meditabondo e silenzioso, non dissero altro.

Più tardi parlarono del nonno, della sua fattoria lontana molte miglia e molte colline e valli, e di come era stata distrutta da un grande incendio della foresta quando il babbo era giovane. Il nonno, allora, era tornato nei luoghi in cui la gente vive tutta insieme, ma il babbo, invece, aveva lasciato la fattoria annerita e si era spinto ancor più in profondità in quelle regioni selvagge. “Andai più in là,” disse Tim Hemlock. “Qualcosa mi indusse ad andare ancora più in là, verso la montagna.”

La montagna ― il Monte Cascomera sempre stata un luogo proibito. Nessuno ci andava. Circolavano vecchie leggende sugli Dei che l’Antica Gente vi aveva lasciato estinguendosi, e sul fatto che quegli Dei, essendo immortali, vivessero ancora sulla montagna amareggiati e soli.

Una sera, una fredda sera della fine di Novembre, quando l’inverno si era ormai chiuso su di loro come una morsa e le finestre della piccola casetta erano impellicciate di brina, Tim Hemlock disse: “Il Mercante non viene più, quest’anno. È troppo tardi. Il fiume ha cominciato a gelare.”

L’avevano pensato tutti, ma era qualcosa di troppo grave per parlarne. E ora sedevano in silenzio, poiché senza la polvere e le pallottole, senza l’olio da lampada, il sale, l’acciaio e la pietra focaia, l’inverno sarebbe stato lungo e duro nella migliore delle ipotesi, ma nella peggiore sarebbero morti di fame. Jen scorse la paura negli azzurri occhi della mamma e andò da lei, si mise fra le ginocchia di sua madre e guardò in sù, nei suoi occhi che si erano fatti cupi come quel blu che in una nube di tempesta si scambia per quello del cielo finché non ci si accorge che in realtà è anch’esso parte del buio della nuvola. Jen appoggiò la testa al corpo della mamma per sentirne il calore.

Anche Arn taceva, poiché sapeva quanto fossero poche la polvere e le pallottole che al babbo erano rimaste. Ogni anno il Mercante poteva portare loro solo una certa quantità di ogni cosa, per via del lungo e difficile viaggio sù per il fiume, e in autunno erano sempre a corto di provviste. Arn guardò il lungo fucile a pietra focaia appeso ai sostegni di zoccolo di cervo sulla parete di tronchi, la sua grossa impugnatura d’acero, le guarnizioni d’ottone incise con immagini di animali e di piante. Dal suo gancio pendeva la sacca di cuoio ornata di perline in cui il babbo ne custodiva gli accessori, il piccolo corno degli inneschi e il corno grosso della polvere nera, pieno ora solo per metà.

La vecchietta sedeva ancor più silenziosa degli altri, ma a un tratto i suoi occhi luminosi si volsero verso Tim Hemlock ed ella cominciò a parlare con lui con le mani. Egli replicò, e ben presto le loro mani presero a muoversi sempre più velocemente, come se danzassero nell’aria, le grandi e callose mani da lavoratore di Tim Hemlock e le contorte manine brune della vecchia signora splendenti nel riverbero del focolare.

Dopo che li ebbe osservati per un po’, Eugenia si mise a urlare: “Che cosa state dicendo? Si può sapere cosa state dicendo?!” Era vicina alle lacrime.

Tim Hemlock e la vecchietta smisero di muovere le mani, ed egli si volse verso Eugenia: “Ha detto che il mese di ghiaccio di ferro sarà il peggiore,” le spiegò, “ma che cosa intenda dire non lo so proprio...”

“Non è giusto!” gridò Eugenia. “Perché non può parlare?”

“Perché non sa la nostra lingua.”

Egli vedeva quanto Eugenia era triste, perciò andò da lei e la abbracciò. Ma non c’era nulla che potesse dirle per rassicurarla, a parte una bugia, e dunque non disse nulla.

I bambini guardavano la vecchietta, che sedeva immobile come se fosse di legno riflettendo con la faccia scura i bagliori arancioni del fuoco.

Fu Jen la prima che credette di scorgere nei suoi occhi infossati qualcosa di ancor più misterioso e intenso che nessuno di loro aveva notato. Ma non ne parlò, poiché, sebbene non credesse che la donna capisse la loro lingua, non avrebbe mai potuto parlare di lei in sua presenza come se ella non fosse lì.

Più tardi, però, quella stessa notte, dopo che tutti si furono addormentati, Jen si destò con una strana domanda in mente, come se qualcosa l’avesse indotta a svegliarsi.

I bambini dormivano nel solaio, dove c’era più calore. Ma Jen, quando si alzò, si mise il piumino intorno alle spalle, perché il fuoco aveva cominciato ad affievolirsi e perfino nel solaio faceva un freddo pungente. Girò intorno al tramezzo di legno che divideva il suo letto da quello di Arn. Era buio; dal camino non arrivava che qualche bagliore ogni tanto, che prima di spegnersi di nuovo non riusciva che a riflettersi debolmente sulle travi del tetto.

“Arn,” mormorò. Dovette cercarlo a tastoni per trovare la cima della sua testa, la sola parte di lui che non era completamente avvolta nei piumini e nelle coperte. “Arn!” ripeté. “Svegliati!” Gli diede un colpetto sul cocuzzolo.

“Uff... Grunt...” borbottò lui.

“Svegliati!” bisbigliò lei.

Cha?”

“Shhh!”

Cha fattuh?”

“Svegliati!”

Alla fine egli si svegliò del tutto. “Che succede?” sussurrò. “Dev’essere mezzanotte...”

“Sì. Ma c’è qualcosa di molto strano che dobbiamo scoprire.”

“A mezzanotte?”

“Sì, perché lei è addormentata.”

Chi è addormentata?”

“La vecchia signora. Dorme profondamente. L’ho osservata. Se ne sta lì seduta come al solito, ma dorme profondamente. E c’è qualcosa che noi dobbiamo riuscire a scoprire. Non so perché. Ma sono i suoi occhi. C’è qualcosa di strano nei suoi occhi.”

“Lo so già,” bisbigliò Arn di rimando.

“Ma questo è davvero strano. Ho paura di andar giù a guardare da sola, quindi devi venire con me.”

“L’idea non mi piace.”

“Neanche a me, se vuoi saperlo, ma è qualcosa che dobbiamo fare.”

“Vuoi andare a guardare i suoi occhi? Ma come puoi farlo, se dorme? E se si sveglia?”

“È un’occasione che dobbiamo cogliere. Dobbiamo, Arn. Non lo so perché, ma so che dobbiamo.”

Arn avrebbe potuto dirlo fin da prima, che lei la pensava così. La sua sorellina non aveva che sette anni, ma quando decideva qualcosa... be’, la decideva. E poi lui era curioso, benché spaventato. Così brancolarono un po’ per il solaio, cercando i vestiti e mettendoseli, e poi Jen seguì Arn giù per la scala a pioli.

Nei bagliori morenti del fuoco poterono scorgere, sulla sua panca dall’altra parte della stanza, la figura impettita della vecchietta che se ne stava seduta così diritta da sembrare sveglia. Ma nello stesso tempo udirono il respiro prolungato e uniforme del suo sonno. Piano piano, più silenziosamente che poterono, attraversarono la stanza. Il respiro tranquillo continuò. Tremavano entrambi dalla paura, eppure dovevano seguitare a muoversi verso l’indistinta figura della vecchietta che sedeva così inflessibilmente eretta benché dormisse. Che cosa stavano combinando? Lo pensarono tutti e due, ma era come se qualcosa li spingesse ugualmente ad andare avanti in silenzio, a piedi nudi, verso quella presenza che metteva loro paura.

“Ci servirebbe una candela,” sussurrò Jen in un orecchio di Arn. “Dobbiamo guardarla in faccia.” Benché questo sembrasse ancor più pericoloso, Arn prese una candela dalla tavola e l’accese senza far rumore da una fiammella nel camino.

Ora che erano più vicini, l’odore della vecchietta era diventato più forte. Per Arn era come il primo sbuffo d’aria che usciva dalla pancia di un cervo quando il lungo coltello del babbo lo apriva per estrarne gli intestini, o il modo in cui le foglie trattengono e conservano traccia del passaggio di un orso bruno attraverso di esse, al punto che i capelli ti si rizzano sulla nuca prima che tu possa renderti conto di che cosa quell’odore significhi, e quando poi lo capisci, e ti guardi intorno con ansia cercando tuo padre, sembra che siano stati i tuoi capelli ritti a dirtelo, anziché il tuo naso. Per Jen, invece, era l’odore degli animaletti appena nati, una volpe che lecca i suoi piccoli ancora bagnati nelle profondità di un’umida caverna. Un odore che le avevano talvolta portato le tiepide folate dell’inizio della primavera.

Si avvicinarono ancora di più, ancora di più ― la vecchietta sempre immobile ― udendo solo i suoi respiri regolari, uniformi. Avevano creduto di essersi ormai abituati alla presenza della vecchia signora nella casetta, ma adesso, in piena notte, mentre tutto il mondo dormiva ed erano impegnati in una strana ricerca che non potevano non sentire colpevole per la sua stessa clandestinità, ella sembrava incombere su di loro.

Arn tenne la candela davanti all’antica faccia dormiente. Se quegli occhi si fossero aperti, Arn era sicuro che sarebbe morto per lo spavento. Ma gli occhi non si aprirono. La faccia rugosa luccicò, bruna come il legno lucidato, quadrati e rombi e triangoli intagliati da crepe profonde. La bocca della vecchietta era chiusa, le labbra strette, piegate agli angoli. Grigi peli arricciati pendevano da un neo nero sul mento infossato.

Poi, come in sogno, Jen vide il proprio braccio tendersi con diffidenza verso quella faccia e avvicinarsi sempre di più, di più, fino a sentir sulla mano il tiepido alito della vecchietta, fino a toccarle una bruna palpebra rugosa e a sollevarla dall’occhio incavato.

Ma ciò che videro fu così strano che per lo stupore si dimenticarono quasi di aver paura. Poiché sotto la palpebra non c’era pupilla né iride, ma una piccola sfera trasparente e luminosa che sembrava di vetro, nella quale intravidero come in una limpida giornata d’inverno verdi abeti e una cascata cristallina, e alle spalle dell’impeto selvaggio dell’acqua una cupa montagna. Sopra le cui tetre rocce, nere nuvole rotolavano le une sulle altre e si sollevavano contro un cielo oscuro.

Dopo che ebbero osservato la cascata, la montagna e le nuvole per un tempo sufficiente a non dimenticarle mai più, Jen lasciò che la vecchia pelle di quella palpebra tornasse a posto. Poi si scambiarono una lunga occhiata e senza dire una parola si ritrassero dalla vecchietta, spensero la candela e si arrampicarono di nuovo sul soppalco, dove caddero entrambi in un sonno pieno di sogni in cui campeggiavano la sinistra bellezza di una montagna, nuvole che si levavano e acqua che cadeva.

 

*

 

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*

 

Capitolo Secondo

 

Tsuga e la Porta Nera

 

La mattina dopo, Jen e Arn si svegliarono mentre Eugenia metteva dell’altra legna sul fuoco sotto il bollitore sibilante. Faceva freddo, c’era un freddo pungente persino nel solaio, e i bambini rimasero avvolti nelle coperte fino al naso per non passare di colpo dal tepore del letto ai vestiti gelati.

A un tratto, però, rammentando ciò che avevano visto nel bel mezzo della notte, entrambi provarono un senso di stupore e di apprensione per quel che avevano fatto.

“Jen,” bisbigliò Arn attraverso il tramezzo fra i due giacigli, “Jen, ti ricordi anche tu quello che mi ricordo io?”

“Sì...” bisbigliò Jen di rimando. “Dev’essere accaduto davvero.”

“Mi sa che è meglio non parlarne,” disse Arn. “Tu che ne pensi?”

“Non son sicura del perché, ma lo credo anch’io.”

“Sù, bambini,” li chiamò Eugenia. “Mi sono accorta che siete svegli. C’è del porridge caldo, pan di granturco e miele per colazione!”

Con l’acquolina in bocca, si fecero coraggio e in un attimo furono ai piedi della scaletta, davanti al fuoco che scoppiettava nel camino, a riscaldarsi da un lato e dall’altro. La vecchietta non era ancora tornata dal luogo misterioso ― qualunque fosse ― in cui si recava prima dell’alba, ma sia Jen che Arn guardarono con aria colpevole verso il suo solito posto sulla panca di legno vicino al fuoco.

Di lì a poco Tim Hemlock rientrò dalla stalla, fermandosi sulla soglia a scrollarsi la neve dai mocassini in modo che si potesse spazzarla fuori con un sol colpo della scopa di vimini. Aveva munto Oky e la capra, e aveva pulito e dato da mangiare a Oky, a Brin, al maiale e al caprone. Mise i due secchi di latte sul ripiano refrigerante della dispensa, il punto dove sarebbero stati più al fresco (ma non sarebbero gelati) e prima che potesse togliersi il giaccone di pelle, la porta si aprì di nuovo e la vecchia signora, tutta marrone nella sua pelliccia di daino, scivolò dentro non meno scorrevolmente che se fosse stata senza gambe. E come al solitocon la vecchia faccia bruna e raggrinzita priva di espressione, tranne che per quell’aria decrepita che sembrava dire: “Com’è pesante il cielo, da sorreggere!” andò difilato al suo posto sulla panca e si sedette.

Si sarebbe detto che non sapesse che i bambini, qualche ora prima, avevano dato una sbirciatina nel profondo del suo occhio.

Le giornate divennero più fredde e più brevi a mano a mano che l’inverno calava su di loro dalla cima della tenebrosa mole del Monte Cascom. Il freddo gemeva nelle travi della casetta, nei telai delle finestre, nei cardini della porta bianchi di brina. Ed era così terribile, quel freddo, che per cento miglia all’intorno il verde delle conifere ne diventava quasi grigio, e gli alberi che in inverno perdono le foglie facevano scricchiolare i nudi rami contro il cielo gelido.

Venne la neve, e poi di nuovo, finché i sentieri per la stalla e i suoi annessi e per la grotta nella collina somigliarono a delle gallerie. Tim Hemlock ― quando andava a caccia per procurarsi un po’ di carne, di cui cominciavano ad aver bisogno più disperatamente che in qualsiasi altro inverno che avessero mai visto ― s’incamminava sulla neve alta calzando le racchette da neve più ampie e lunghe che possedeva. Tornava nel tardo pomeriggio, poco prima che calasse la notte, spossatole sopracciglia bianche di brina che a poco a poco si liquefaceva nel tepore della casettaattaccava al piolo il fucile che non aveva usato e si toglieva il giaccone di pelle e i gambali di cuoio induriti dal gelo per appenderli alla porta. I bambini si rendevano conto di quanto l’avevano sfinito il freddo, la neve profonda e l’interminabile marcia che aveva sopportato. Il suo volto appariva smagrito, emaciato, e un punto su una guancia, che una volta gli si era congelato, diventava di un rosso brillante non appena egli si accasciava su una sedia davanti al fuoco. Spaventava i bambini vedere il padre così stanco, benché egli si sforzasse, quando si sedevano tutti insieme per la cena, di mostrarsi di buon umore anche se le porzioni si facevano ogni giorno più piccole.

Un giorno, con il cielo quasi nero già nel primo pomeriggio e una tormenta che si librava sul Monte Cascom in attesa di piombare giù ululando, il babbo rientrò esausto dopo aver zoppicato fino a casa dal luogo in cui era caduto sbattendo il ginocchio sulla racchetta da neve. Eugenia gli portò una scodella di minestra di patate ben calda ed egli vi soffiò stancamente, accogliendone il tepore fra le dita intirizzite. Sembrava troppo stanco perfino per parlare, ma poi: “Non ci resta che macellare il maiale,” disse a Eugenia.

Era una prospettiva terribile, per gli Hemlock. Avevano dato al Mercante molti mocassini e alcuni coltelli in cambio del porcellino che gli aveva portato l’anno prima, nella speranza che per l’autunno si sarebbe ingrassato a forza di ghiande e di granone. Ma quello mangiava e mangiava e non diventava né grande né grosso. Era un maiale vagabondo, dal muso allungato, più selvatico che domestico.

“Potrebbe non esserci abbastanza cibo per Oky e Brin, e senza di loro non possiamo sopravvivere. Proprio non ci possiamo permettere di continuare a nutrire il maiale,” disse Tim Hemlock. “Non credo che la tormenta si scatenerà prima di domani notte, quindi dobbiamo farlo domattina come prima cosa.”

“Non ci sarà un granché di grasso o di carne, in quel maiale,” commentò Eugenia.

La vecchia signora guardava dall’uno all’altro, mentre parlavano, e solo i suoi occhi si muovevano, nelle buie e decrepite orbite.

Il mattino dopo, così, poco prima dell’alba, ci fu del sangue sulla neve, di un rosso vivo che a mano a mano sfumava colando fra i cristalli di ghiaccio. Il maiale morì alla svelta, senza accorgersene, tramortito con una mazza da fabbro e dissanguato mentre era appeso per le zampe a un cavalletto di saplings. Arn aiutò a scuoiarlo e a tagliarne le magre carni. Eugenia e Jen ne misero da parte le viscere e tutto il sangue che poterono. Serbarono quasi tutto ― perfino i quattro puntuti zoccoli fessi ― in modo che tutto ciò che non si sarebbe potuto salare e seccare fosse mangiato fresco, e tutto ciò che non si poteva mangiare fresco fosse sistemato nel punto più alto del tetto, in un nascondiglio a prova di lupo e di orso, affinché lo congelasse l’inverno. Ma nel pomeriggio, quando tutto fu fatto e si cominciarono a sentire i primi morsi della tormenta, era ben poca la carne che gli Hemlock avevano ricavato, e ancora meno era il prezioso grasso che avrebbe dovuto dargli forza contro il freddo.

Arn e Jen pensavano al maiale. Non avevano avuto il tempo di conoscerlo a fondo come Oky e Brin ― specialmente Oky, la prediletta di Jen. E adesso non c’era più, si era trasformato in braciole e magre bistecche, in fette di pancetta non salate, in costolette, nell’occorrente per la soppressata, in budelli per salsicce, in una pelle da conciare, in qualche ossobuco. Jen si domandava se gli altri animali fossero consapevoli dell’accaduto, e se sentissero la mancanza della sua compagnia, in quella stalla fredda e buia. Se lo domandava specialmente delle capre, i cui vividi occhi dalle misteriose iridi oblunghe sembravano saperne più di quel che dicevano. Il recinto del maiale era vuoto: non potevano non essersene accorti, tutti quanti.

L’inverno non finiva mai. Agli Hemlock sembrava che durasse da anni. La carne di cervo essiccata, affumicata e conservata in salamoia, il salmone affumicato proveniente dal fiume e il maiale congelato se n’erano andati alla svelta. Tutto il midollo era stato estratto da tutti gli ossibuchi. Avevano della farina di granturco, un po’ di farina di grano, della verdura secca e qualche patata che aveva germogliato ed era ormai raggrinzita e ammuffita. Il latte di Oky e della capra era adesso terribilmente importante, per loro. Tim Hemlock doveva trascorrere la maggior parte della giornata fuori, in cerca di selvaggina, perché non poteva neanche pensare di macellare Oky, o Brin, o le capre. Ma tutti loro sapevano che l’avrebbe fatto, però, se avesse dovuto.

“Non capisco dove siano andati a finire i cervi,” disse una notte a Eugenia mentre i bambini dormivano. “Quest’anno non hanno svernato in nessuno dei soliti posti. Se ne sono andati e basta. Sembra che non ci sia nessuno, in giro, quest’inverno ― non un’alce, una volpe, una lepre, uno scoiattolo rosso, un topo zampe-bianche, una pernice. Si direbbe che gli animali abbiano abbandonato in massa la foresta.”

Parlava, e lo sguardo della vecchia signora non si staccava dalla sua faccia stanca. Era ormai da molto tempo che Tim Hemlock non provava a discorrere con lei a gesti, e anche questa volta si limitò a crollare le spalle sconsolatamente, come se non avesse più parole. Ed Eugenia vide quanto era esausto.

La riserva di legna da ardere accatastata sotto il cornicione si stava assottigliando, oltre tutto, tanto che gli Hemlock vi attingevano con parsimonia, e la casetta non era allegra e calda come gli altri inverni. Nella fornace vicino alla stalla il fuoco non era mai acceso. Sembrava che la foresta che essi conoscevano così bene li avesse abbandonati. Era la loro casa e con loro era sempre stata generosa, benché severa, ma adesso era diventata avara, nient’altro che fredda neve e muti alberi congelati.

A dicembre il sentiero fra la stalla e la grotta divenne una galleria, illuminata a mala pena dalla fredda luce azzurrognola che filtrava dal soffitto di neve. Sebbene ciò riparasse il sentiero dal vento gelido, all’interno c’era un freddo da mozzare il fiato, come dentro un blocco di ghiaccio.

Non fu tra i più felici, il Natale di quell’anno, benché tutti facessero del proprio meglio. Tim Hemlock tagliò la cima di un abete del balsamo che spuntava appena dalla neve e la portò nella casetta, ma non poterono decorarla con le candele perché non avevano più sego. Jen e Arn presero nel solaio i personaggi del presepe ― il bambino e i genitori scolpiti nel legno, e con loro il bue e l’asinello ― e li sistemarono a sinistra dell’albero. I pupazzetti sembravano a loro agio e al calduccio, intorno alla mangiatoia colma di fieno. A destra dell’albero ― in un piccolo cerchio intorno al cervo e all’alberello, che era un ramo dell’abete del balsamo ― misero invece gli animali selvatici. Ma non avevano sella di cervo, che era il loro pranzo di Natale tradizionale, e tutto ciò che riuscirono a mettere in tavola, oltre a qualche focaccia d’avena, fu una zuppa di patate e d’avena con dentro un po’ d’erba cipollina essiccata.

Dopo mangiato, mentre cantavano Silent Night, Holy Night, Eugenia non poté trattenere le lacrime. Tim Hemlock, come faceva sempre la Vigilia di Natale, andò nella stanza da letto sul retro, si mise la mantella di pelle di cervo e la maschera da cervo con le corna e tornò camminando lentamente, con la flemmatica solennità dei cervi. Si guardò intorno silenziosamente, poi si sedette a tavola. Eugenia prese il pupazzetto di zucchero d’acero che aveva fatto quella mattina e tenendolo con attenzione sul piatto del coltello lo porse al cervo, che lo assaggiò, si tolse il costume e divise il pupazzetto di zucchero fra tutti i presenti. La vecchia signora osservò tutto questo con i suoi vecchi occhi raggianti, e accettò la sua porzione di dolce con un cenno del capo.

Poi, quando si riunirono intorno al fuoco e venne il momento di una buona storia, Tim Hemlock raccontò quella che aveva udito da suo nonno su Tsuga, un grande cacciatore dell’Antica Gente conosciuto anche come Va-troppo-lontano. Jen e Arn la sapevano a memoria, ma erano sempre felici di ascoltarla di nuovo, perché il padre, raccontandola, cambiava: i suoi occhi diventavano più luminosi, e la voce e i gesti si riempivano di un’eccitazione che lo rendeva più simile a loro.

“Si dice,” cominciò Tim Hemlock, “che l’Antica Gente non vide mai i suoi Dei, poté solo udirne le voci nell’acqua, nel vento, nel tuono...” E andò avanti con la vecchia storia narrando loro di quando Tsuga, mentre cacciava in terre remote e selvagge, capitò su una montagna sconosciuta e ne risalì le anguste valli finché non giunse dinanzi a una porta di pietra nera. Le impronte del cervo che stava inseguendo terminavano lì, davanti a quella pietra. Qualche versione della storia che il nonno di Tim Hemlock gli aveva raccontato diceva che la pietra era sostenuta da enormi cardini, altre sostenevano che si trattava invece di una pietra in bilico, che oscillava sul suo fulcro. Tsuga allungò una mano per toccarla, ma in quel momento udì la voce del tuono e la ritirò spaventato, perché il tuono era ovunque, intorno a lui, benché il cielo fosse azzurro.

A dispetto della paura Tsuga era comunque curioso, da uomo che non si era mai trattenuto dall’andare a vedere che cosa ci fosse dall’altra parte di una collina, aveva sempre guadato anche i fiumi più larghi e aveva braccato tutte le prede finché non le aveva raggiunte. Rimase lì a tremare dinanzi alla pietra, poi allungò di nuovo una mano per toccarla. Attonito, la vide ruotare lentamente aprendosi a poco a poco su una fitta tenebra, dalla quale scaturì una voce profonda: “Dove sono i tuoi bambini?” domandò la voce, triste come il vento. “Dove sono i tuoi bambini?”

“Sono al sicuro a casa,” riuscì a dire Tsuga, benché la sua voce tremasse.

“Nessun posto è sicuro,” rispose quella voce che sembrava fatta di vento.

“Perché non posso vederti?” domandò Tsuga, la cui curiosità era più forte della paura.

“I tuoi occhi non vedono altro che ciò che devi uccidere. Dove sono i tuoi bambini?”

Era più vento che voce, adesso, e si dissolse, mentre la roccia nera lentamente si richiudeva, nel suono che in autunno fa il vento tra gli alberi.

Tsuga ritornò a casa, viaggiando per parecchi giorni dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba. Era il sole a indicargli la strada, e di notte le stelle, e non si fermava che per mangiare un po’ di carne fredda o di focaccia d’avena quando cominciava a sentirsi debole per la fame. Orsi, cervi, lupi e ogni altro animale di quelle terre selvagge gli si mostravano senza timore, comprendendo che non avrebbe interrotto la corsa per dar loro la caccia. Non tese mai l’arco né sguainò il coltello, durante quel lungo viaggio, e quando infine arrivò a casa scoprì che tutte le sue provviste erano bruciate e la sua famiglia era sul punto di morire di fame. Allora, benché fosse così debole che a malapena poteva tendere l’arco, vide che doveva al più presto procurare loro del cibo. E mentre si voltava sulla soglia della casetta, un vento riarso venne a lui attraverso gli alberi con un lungo sospiro, e un leggiadro cerbiatto dalla coda bianca, una femmina, uscì dalla foresta guardandolo tristemente, in attesa della sua freccia.

“Per tutta la vita,” disse Tim Hemlock, “Tsuga cercò di ritrovare la Porta Nera, perché era l’unica soglia che non aveva varcato, ma non la trovò mai. Quando i figli dei suoi figli furono adulti, ed egli era ormai un vecchio dai capelli bianchi e dalla pelle rugosa, partì per una lunga stagione di caccia dalla quale non fece ritorno. E la gente disse che alla fine doveva averla ritrovata, la Porta Nera.”

Il vento gemette contro le finestrelle della casupola, e uno sbuffo sceso giù per il camino dissuase per un istante il fuoco dall’alzarvisi. Tim Hemlock taceva, ora, e i suoi occhi fissavano pensierosi qualcosa che non era in quella tiepida stanza. Arn si domandò dove fossero finiti, i pensieri del babbo, e per un attimo si sentì solo.

Quando furono a letto, dove andavano tutti presto (tranne la vecchia signora) per non consumare troppa legna e stare al caldo, Eugenia disse a Tim Hemlock: “Ma perché è ancora qui, quella vecchia? Non fa che star lì seduta senza dire una parola, e si mangia quel po’ di cibo che ci è rimasto. Perché è dovuta venire proprio quest’inverno?”

“Mangia pochissimo,” disse Tim Hemlock. “Non possiamo mica buttarla fuori al freddo a morire.”

“Certo che no. Non volevo dir questo! Ma se soltanto se ne fosse andata in autunno! Perché mai è dovuta arrivare proprio in questo terribile inverno?”

“Non lo so. Non ha voluto rispondermi, quando ho provato a domandarle chi sia e da dove venga. Si direbbe che le domande non le capisca. Eppure si trattava di semplici domande in quella sua lingua. Forse è solo una vecchia vagabonda che è sopravvissuta a tutta la sua famiglia. Se supera l’inverno, se ne andrà da qualche altra parte. Lo sai, lei crede d’aver pagato il suo sostentamento con quelle scatoline e quei funghi.”

Eugenia sospirò. “Sì, lo so... Ma a che cosa serviranno tutte quelle polveri?”

“A caval donato...” disse Tim Hemlock. “Verdure selvatiche, funghi, tuberi, erbe... Sono tante le cose che non sappiamo...”

“Ma di che cosa parlate con le mani? Non potresti chiederglielo?”

“Parla per enigmi. Non vuol rispondere alle mie domande. Dovrò scoprire le risposte in qualche altro modo.”

“Quali risposte?”

“So a malapena le domande, e tu vorresti già conoscere le risposte,” disse Tim Hemlock. E sembrava così affaticato e triste, che Eugenia cercò di non lasciargli intravedere quanto la sua risposta l’avesse ferita.

Ma i bambini, dal soppalco, udirono il padre e la madre discutere, e anche se non compresero quel che dicevano, percepirono tuttavia il senso d’infelicità e di pericolo che trapelava dalle loro voci. Il babbo e la mamma erano tristi, e non solo perché il Mercante non era venuto e perché l’inverno sarebbe stato lungo e terribile. Tutti e due i bambini si erano più volte domandati come mai non avessero raccontato ai genitori ciò che avevano visto nell’occhio della vecchia signora. Ma la ragione, lo sapevano entrambi, era che non volevano turbare il padre e la madre in alcun modo.

“Arn,” sussurrò Jen, “sei sveglio?”

“Sì,” sussurrò Arn di rimando.

“Non è stato un Natale molto allegro, vero?”

“No.”

“Chissà com’erano, i bambini di Tsuga...” disse Jen.

Arn ci penso sù un momento. “Come noi, forse... Ma non credo. Perché erano dell’Antica Gente, loro... E forse la storia è inventata, comunque.”

“Forse, anche la vecchia signora è dell’Antica Gente,” disse Jen.

“Hai mai visto le sue impronte nella neve?” disse Arn. “Sono strane, a vedersi. Sono impronte di mocassini, ma sono rivolte in dentro, in un certo modo, e sembrano storte.”

Jen non disse nulla per un po’, e poi: “Noi siamo i soli bambini che abbiamo mai conosciuto,” osservò. “Magari gli altri bambini non sono come noi.”

“Ma quando tu eri piccola ci fu uno straniero che passò di qui. Avevo cinque anni, e me lo ricordo. Disse che aveva un ragazzino proprio come me.”

“Non me lo ricordo,” disse Jen.

“Era tutto marrone, vestito di pelle di cervo da capo a piedi, aveva i capelli castani ed era marrone dappertutto, e questo è tutto ciò che posso ricordare oltre a quello che disse di me.”

“E di me non disse niente?”

“Non che io ricordi. E tu eri solo una pupetta, comunque.”

“Non riesco a immaginare che aspetto abbia un bambino appena nato. Tranne Gesù bambino, forse, ma lui è solo un pupazzetto di legno.”

Tacquero entrambi per un po’.

“Mi domando se Tsuga avesse una bambina della mia età,” disse Jen.

 

*

 

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*

 

Capitolo Terzo

 

Il Mese di Ghiaccio di Ferro

 

Il primo di febbraio, il mese più gelido, la catastrofe si abbatté sugli Hemlock, e per due volte nello stesso, amaro giorno. Il latte di Oky cominciò a esaurirsi. Ne diede meno di un quarto di litro, quella mattina. E dopo la mungitura Tim Hemlock fu colpito da una malattia debilitante, con febbre alta. A un tratto si sentì così stremato da poter a malapena ripercorrere barcollando la galleria dalla stalla fino a casa e accasciarsi sudando e tremando davanti al focherello che ardeva nel camino.

“C’è qualcosa di strano, nell’aria,” disse. “È in arrivo un cambiamento.”

“Che genere di cambiamento?” domandò Arn.

“Non lo so. Sembra tutto più pesante...” disse il babbo.

Ma Eugenia, Jen e Arn non percepivano nulla di strano, e si preoccuparono per lui ancora di più pensando che quella sensazione fosse dovuta alla malattia. Lo avvolsero in una grande pelliccia d’orso, scaldarono dell’acqua perché potesse metterci i piedi ogni volta che rabbrividiva, gli misero delle pezzuole fresche e umide sulla fronte quando la febbre saliva. Nessuno prestò attenzione alla vecchietta, che ancora sedeva al suo posto come una scultura in legno e continuava ad osservare ogni cosa.

Più tardi, però, verso mezzogiorno, anch’essi cominciarono a notare qualcosa di strano. Dapprima fu un flebile rumore che sembrava venire da ogni direzione, quel tipo di suono quasi impercettibile che si ha l’impressione di avere nella testa, e che poi s’insinua a poco a poco nelle orecchie mentre non ci si pensa e a un tratto si impone di nuovo all’attenzione. A mano a mano che diventava più forte, ognuno iniziava a domandarsi se anche gli altri lo udissero... una sorta di lievissimo rumore d’acqua, una specie di sgocciolio come non l’avevano più udito da quando la morsa del gelo si era chiusa su di loro alla fine dell’autunno. Diventava sempre più forte, sempre più forte, e all’improvviso si ritrovarono a domandarsi l’un l’altro: “Che cos’è? Che cos’è questo rumore?” Sembrava venire da ogni parte.

Arn andò alla porta e l’aprì. Fu accolto da un’ondata di tepore. Tiepida aria balsamica entrò nella casetta intrufolandosi al di sopra di lui nel vano della porta aperta, tiepida come in un caldo giorno d’estate. La volta della galleria di neve era crollata, e il cielo azzurro, luminoso, e lo scintillio del sole sulla neve ― una luce intensa, quale egli non vedeva da settimane ― ferirono i suoi occhi e lo abbagliarono. E i ruscelli d’acqua della neve che si scioglieva facevano quasi un ruggito, scrosciando come piccole cascate dalle grondaie della casetta e dai tetti della fornace e della stalla.

“Sembra estate!” esclamò. L’aria calda, entrando a fiotti nella casupola, copriva il tavolo e le sedie di un velo sottile quando ne toccava le superfici più fredde.

“È la falsa primavera!” disse Eugenia. Ma non si era mai vista una falsa primavera così calda. Avevano già cominciato a sudare, nei loro pesanti abiti invernali.

“Non durerà a lungo,” disse Tim Hemlock. Ad Arn parve di sentire del timore, nella fioca, lenta voce del babbo privo di forze, e per un attimo rabbrividì nonostante il caldo.

Ma l’inatteso tepore estivo fu meraviglioso per i bambini, che per tutto quel tempo avevano avuto sempre più freddo a mano a mano che la fame cresceva in loro. Per alcuni giorni Jen non era andata a trovare Oky nella stalla, così si mise i suoi stivaletti impermeabili ― quelli con le cuciture spalmate di resina d’abete ― avanzò faticosamente tra le muraglie di neve nella melmosa fanghiglia del sentiero e andò ad aprire la porta all’aria fredda della stalla, contenta di star portando il caldo agli animali.

“Oky?” chiamò, mentre i suoi occhi cominciavano ad abituarsi alla penombra odorosa di fieno. Si fece avanti, tenendosi alla ringhiera di legno, finché non ci vide di nuovo: “Oky?”

Arrivò al recinto di Oky e Brin. Udì i lenti movimenti dei grossi animali. L’impiantito scricchiolò e tiepidi olezzi la avvolsero, più intensi dell’atmosfera estiva che si era riversata nella stalla. Vide l’ampio e umido naso di Oky, la sua larga faccia da mucca, le orecchie piegate in cima, i bruni occhi dall’aria così gentile. E Oky diede in un profondo sospiro, accompagnato da un suono di gola basso e mormorante, per far sapere a Jen che era la benvenuta nella fumante e polverosa dimora invernale degli animali. Mentre Brin, più calmo e riflessivo di Oky, emise un placido muggito, per metà suono e per metà respiro, e rimase indietro, nel recinto quadrato, a giacere sul fieno con le grosse zampe anteriori piegate davanti all’ampio petto spazioso.

Talvolta Jen era assolutamente certa di parlare con Oky, ma in altri momenti arrivava a domandarsi se fosse proprio vero che loro due si capivano a vicenda. Forse era lei che nella sua mente s’inventava le parole di Oky, e Oky in realtà non le aveva affatto pronunciate. Quanto a Brin, non aveva mai l’aria di dire un granché. Né Jen udiva mai quel che pensavano le capre. Sembravano così sveglie, abili, astute, ma non era mai riuscita a capirle.

Oky invece le diceva molte cose, e rispondeva alle sue domande in modi che sembravano davvero troppo singolari per credere che Jen se li fosse immaginati da sé. Erano pensieri da mucca, lente risposte profonde da ruminante, e non meno ponderate di quanto erano pesanti il gran corpo e le ossa di Oky. “Oky sa come cresce il burro”, faceva la canzone, e si sarebbe detto che fossero parole di Oky anche quelle.

“Il babbo sta male, Oky,” disse Jen. “E tu non ci hai dato molto latte, stamattina. Sei malata anche tu? Spero di no.”

Oky mosse la testa lentamente, sospirando, le grandi fauci che biascicavano piano da una parte all’altra, e a Jen parve di udire gravi ed echeggianti parole. Parole che raccontavano di un vitellino, un vitellino bianco e marrone dalle lunghe zampe ancora insicure e la bella testolina ossuta, e di quanto il latte di Oky fosse ricco di panna, al tempo in cui ella poteva ancora trasformare l’aria tiepida e la dolce erba di trifoglio in abbondanza e nutrimento, donatori di vita. Mentre adesso Oky era triste, triste e depressa fin nel più profondo dei concavi abissi quadripartiti del suo essere mucca, schiacciata dal peso della nostalgia per un luogo ove era stata una volta tanto tempo prima, per una vasta prateria e un esile vitellino, una dolce acqua e il verde tepore dell’erba.

Jen fu presa dalla malinconia nel percepire l’intenso struggimento dell’amica. Le era sempre stata così riconoscente per il latte e il burro e il formaggio che dava loro! Era Oky che donava loro la vita, e la sua pena ― per la perdita di quella bella e ricca prateria e del vitellino dalle lunghe zampe ossute ― non poteva non addolorare anche la bambina come se anche lei fosse stata felice e serena in quel luogo tanto tempo prima.

Ancor prima che Jen tornasse a casa dalla stalla, un nuovo mutamento di clima calò inesorabilmente su di loro dal Monte Cascom. L’aria calda fluì attraverso le piccole radure della fattoria, corse umida fra la casupola e le sue dépendances e fu seguita da un freddo così intenso che più che un vento fu qualcosa di tangibile, come una muraglia in movimento. Mentre Jen camminava verso casa, le suole degli stivaletti minacciarono di congelarsi saldandosi alla fanghiglia, che si stava trasformando in ghiaccio trasparente. Per poco non dovette abbandonarne uno sulla soglia. Fu sul punto di restare lì, come un albero dalle radici ben confitte in quel ghiaccio repentino.

Nella casupola, anche gli altri se n’erano accorti. Il tetto scricchiolava come sotto un pugno gigantesco mentre la neve umida si tramutava in ghiaccio. Tim Hemlock, rabbrividendo davanti al fuoco nella pelliccia d’orso, commentò: “Adesso ogni cosa diventerà di ghiaccio massiccio. Ogni cosa diventerà dura come il ferro.”

“Ferro...” ripeté Arn. Ricordava vagamente qualcosa, riguardo al ferro e al ghiaccio duro come il ferro.

“Dovremo staccare la legna dalla catasta con le scuri,” mormorò Tim Hemlock. “E anche le porte. Tutte le porte saranno serrate dal gelo.”

Ghiaccio di ferro, pensava Arn. Quand’era che l’aveva già sentito?

Il freddo non diminuì col passare dei giorni. Andava in cerca di ogni fessura, di ogni interstizio della casupola, e vi si insinuava come un brivido. E ogni giorno Tim Hemlock stava un po’ peggio, come se il freddo avesse trovato il modo di penetrare in lui e lo stesse congelando giù per la gola e nel petto. Poteva appena bere quel po’ di minestra calda che Eugenia gli preparava, e finì col giacere su un pagliericcio davanti al fuoco tremando e boccheggiando. Arn, coprendosi con tutti gli abiti che poteva mettersi addosso senza che gli impedissero di muoversi, aveva scalpellato meglio che poteva le porte della casetta e della stalla, e con l’aiuto di Eugenia e di Jen si prendeva cura degli animali e faceva a pezzi i ciocchi che distaccava dalla catasta congelata per trascinarli sul ghiaccio livido. Dovevano portare dei ramponi di ferro fissati agli stivali, ma i chiodi facevano ben poca presa su quel ghiaccio, più duro di qualsiasi altro mai visto prima.

Oky dava loro ogni giorno meno latte. La capra ne dava la solita modesta quantità, ma naturalmente le sue mammelle erano più piccole di quelle di Oky. Le capre non parevano badare granché al freddo e al ghiaccio, come se dicessero: “Noi possiamo arrampicarci ovunque, e vivere di qualsiasi cosa.” Jen, che passava ore e ore nella stalla con Oky, aveva l’impressione di udire affermazioni del genere, dalle capre, ma le sembrava anche che i loro pensieri fossero freddi, altezzosi, e non la riguardassero affatto.

Finché ― un giorno che non avevano da mangiare che un pezzo di pane, delle bacche secche e un po’ di latte annacquato ― Tim Hemlock non poté più udirli né rispondere loro e giacque immobile con gli occhi chiusi, traendo brevi ansiti precipitosi come i respiri di un topolino. La sua pelle era sempre più fredda e secca. Eugenia tentò di trasmettergli un po’ di calore per dare a sé stessa un po’ di speranza, ma in cuor suo era alla disperazione. Non avrebbe potuto sopportare di continuare a vivere, se Tim Hemlock se ne fosse andato. E che cosa ne sarebbe stato dei suoi poveri figlioli tanto amati? Quel gelo spietato si sarebbe insinuato nella casetta e nei loro corpi e li avrebbe consegnati per l’eternità al mondo remoto dei morti.

Arn e Jen capivano quanto fosse grave la malattia del babbo, anche se Eugenia tentava di nasconderglielo. E tuttavia non potevano credere che Tim Hemlock, che era sempre stato così forte, li aveva sempre protetti e sempre aveva provveduto loro, potesse ora essere così debole e malato. Gli sembrava impossibile. Se ne sarebbero resi conto all’improvviso e come ridestandosi da un sogno, che quell’uomo forte e silenzioso non avrebbe più parlato con loro, né udito le loro voci, né veduto le loro lacrime.

Quella sera, a cena, Arn non poté mangiare. La sua crosta di pane non si ammorbidiva nella sua bocca. Restava dura come il ferro... Ferro, pensò. E fu allora che ricordò. Era stata la vecchia signora. Erano tutti così preoccupati e spaventati per il babbo, che non avevano più pensato alla vecchia signora. Come se fosse un pezzo di legno posato lì sulla panca per tutto il giorno. Ma una volta, parlando con le mani, ella aveva detto a Tim Hemlock: “Il mese di ghiaccio di ferro sarà il peggiore.” E adesso erano proprio nel mese del ghiaccio di ferro. Febbraio. E con questi pensieri egli fu di nuovo consapevole del mistero della vecchia signora, che ella aveva portato con sé come un dono quando per la prima volta era apparsa sulla soglia della casetta. E sì, erano ancora là, sullo scaffale, tutte le sue scatoline di corteccia di betulla piene di polverine, ciascuna con la sua piccola figura intagliata sul coperchio. Ne rammentava qualcuno, di quei disegni di piante: pie’ d’oca, sagittaria, radice di rosa, kinnikinic, salicornia, portulaca, acetosella. Le altre non le aveva riconosciute... A un tratto sentì che era giunto il momento di aprirle, quelle scatole. Se non altro perché tutte le piante che aveva identificato erano buone da mangiare, e loro erano affamati. Cosicché prese uno sgabello e vi salì per arrivare allo scaffale.

“Che cosa stai facendo?” domandò Eugenia.

“Abbiamo trovato da mangiare,” rispose Arn. “Tieni, Jen, prendile a mano a mano che te le passo.”

“Ma non sappiamo che cosa c’è dentro!” esclamò Eugenia.

“Lo so io. Di qualcuna, almeno.” Chissà come, sapeva di aver ragione e che non era ancora troppo tardi, anche se ci mancava poco. E allora gli accadde di cogliere un movimento con la coda dell’occhio, qualcosa di bruno che si spostava. Guardò, e con grande stupore scoprì che la vecchia signora lo stava fissando con occhi sgranati.

Stava parlando con lui! Aveva proteso un braccio, la mano mollemente ciondolante dal polso. E quella mano gli rammentava qualcosa... Forse il disegno di una mano? Ma certo! Ricordava, infatti, che sul coperchio di una delle scatole c’era la figura di una mano come quella, graziosamente pendula... Subito la prese e la porse alla donna.

Ella annuì col capo, e la sua lucida vecchia faccia coperta di rughe rimase impassibile, ma gli occhi brillarono. Protese le braccia, e le mani presero a muoversi rapidamente ― sù e giù, avanti e indietro ― mentre le vecchie dita deformate si muovevano anch’esse. Arn, però, non capiva nulla di ciò che ella stava cercando di dirgli, e perse di nuovo la speranza. Ma uno strano fenomeno cominciò piano piano a verificarsi. Mai, in seguito, avrebbe saputo spiegarsi come successe, ma a poco a poco iniziò a comprendere ogni cosa: e i gesti della donna, che un minuto prima non erano che gli scatti e i guizzi privi di significato delle braccia e delle mani di una vecchia signora, a un tratto presero a trasformarsi in acqua, in una scatola, in una polverina, in una tazza. Altri movimenti all’improvviso significarono aprire, versare, riscaldare, mescolare, e alla fine tutti i diversi tipi di parole ― le parole per le cose e le parole per le azioni ― divennero chiari quasi come quelle che aveva ascoltato e pronunciato per tutta la vita.

La vecchia signora annuì per tre volte, quando ebbe finito di parlare, ed egli annuì per tre volte a mo’ di risposta e diede inizio ai preparativi. Jen ed Eugenia lo osservarono stupite mentre metteva in una grande tazza la giusta quantità di polverina marrone tratta dalla scatola con la figura della mano, ci versava sopra un po’ d’acqua calda dalla pentola sul fuoco, aggiungeva un pizzico di kinnikinic e un pizzico di salicornia, e infine mescolava il tutto con un cucchiaio di legno. Quindi prese dallo scaffale le due varietà di funghi che non avevano ancora osato assaggiare ― quelli gialli e quelli rossi. Erano secchi, ormai, ed egli li mise nel mortaio e col pestello li ridusse in polvere.

“Ma che cosa pensi di fare con quella roba, Arn?” domandò Eugenia. “Potrebbe essere pericolosa!”

“Sto preparando una medicina per il babbo,” rispose Arn, versando i funghi macinati nella tazza fumante.

“No!” gridò Eugenia. “Potrebbe essere velenosa! Non sappiamo che roba sia!”

“Sei sicuro, Arn?” disse Jen.

“No, non sono proprio sicuro,” ribatté Arn, “ma sento che devo farlo.”

Ed Eugenia, che sapeva che il marito stava sempre peggio e poteva morire, infine si rese conto che per quanto fosse disperato voler tentare qualcosa che era loro del tutto sconosciuto, tuttavia non potevano non farlo.

Quando ebbe preparato la mistura secondo le direttive della vecchia signora, Arn sostenne con un braccio la testa del babbo e accostò quella misteriosa brodaglia fumante alle sue labbra. Il vapore era giallo-arancione, quasi altrettanto denso del liquido, e Arn lo vedeva entrare nelle narici del babbo ogni volta che egli traeva i suoi brevi respiri affannosi. Ma presto quei respiri divennero più lunghi, tanto più lunghi quanto più vapore penetrava nel corpo del malato, più lunghi e più leggeri, e Arn sentì il collo del babbo abbandonarsi e rilassarsi sul suo braccio e vide che un po’ di colorito cominciava a poco a poco a riapparire sul suo viso.

Finalmente Tim Hemlock socchiuse gli occhi. Arn accostò la tazza alle sue labbra ed egli bevve il brodo marroncino. Poi, quando l’ebbe bevuto tutto, richiuse gli occhi e si addormentò profondamente ― di gran lunga troppo profondamente perché le loro voci potessero raggiungerlo. Ma per lo meno fu un sonno dal respiro più tranquillo.

I suoi si volsero allora a ringraziare la vecchia signora meglio che potevano. Per tutto l’inverno ella era stata lì, al solito posto, sulla panca di legno vicino al camino. Ogni giorno la sua bruna e silenziosa presenza era stata lì...

Ma adesso se n’era andata.

Non potevano crederci. Guardarono ancora, strabuzzando gli occhi. Ma se n’era proprio andata, tutta quanta eccetto un paio di eleganti mocassini di pelle di cervo ordinatamente disposti l’uno accanto all’altro là dove fino a poco prima c’erano i suoi piedi.

“Ma non poteva uscire con questo freddo senza i suoi mocassini!” gridò Jen. Corse alla porta, ma fuori non vide che livido ghiaccio dappertutto, e sentì l’aria così gelida che, quando tentò di inspirare, le narici le si chiusero. Il ghiaccio era un po’ più basso sul sentiero per la stalla, ma a perdita d’occhio non si scorgeva che ghiaccio bluastro in ogni direzione, ondulato e scivoloso, e nessuna traccia della vecchia signora.

Fu allora che Jen si accorse che la porta della stalla era socchiusa. Forse era lì che era andata! In un lampo si mise il giaccone di pelle, gli stivali e i guanti e s’inoltrò nel gelo esterno per andare a vedere che cosa era successo.

Quando tornò, Jen piangeva. “Anche Oky se n’è andata!” gridò. “Oh, povera Oky! Morirà di freddo! Non troverà nulla da mangiare!”

Arn ed Eugenia corsero nella stalla con lei, ed era proprio così. Brin e le capre erano ancora lì, appena visibili nella semi-oscurità, ma Oky non c’era più. E non si poteva dire quale direzione avesse preso, perché sul ghiaccio le impronte degli zoccoli non si vedono. Era stata la vecchia signora ad aprirle il recinto e la porta della stalla? Aveva forse portato Oky via con sé?

“Arn, quando hai dato da mangiare agli animali hai lasciato aperta la porta della stalla?” domandò Eugenia.

“No, certo che no!” disse Arn.

La più sconvolta era Jen. Amava Oky, e le era grata per il latte e il burro e il formaggio che essa dava loro. Per Arn, invece, una mucca era fatta per dare latte e questo era tutto, e non riusciva a capire, benché sapesse anche lui che non potevano permettersi di perdere Oky, come mai Jen si disperasse a quel modo.

“Oky sarà affamata!” gridò Jen. “Dove andrà a finire, sul ghiaccio, senza un posto per dormire e senza nulla da mangiare?”

Cercarono di rassicurarla, ma Jen non voleva essere consolata. Si misero allora i loro abiti più caldi e aiutandosi con i ramponi fecero un ampio giro sulla pianura di ghiaccio levigato che ricopriva i campi e la foresta, ma non trovarono alcuna traccia di Oky, né impronte né segni di alcun genere. E quando tornarono nella casetta, dove Tim Hemlock continuava a dormire sul pagliericcio davanti al fuoco, Eugenia preparò una zuppa con quel po’ di cibo che avevano e vi aggiunse qualcuna delle polverine che Arn aveva identificato grazie alle figure incise sulle scatole di corteccia di betulla.

Jen si calmò, a poco a poco, e mangiò un po’ di zuppa. Ma quella notte, quando salì sulla scala a pioli del soppalco e s’infilò tra le calde trapunte, non poté pensare che a Oky sperduta in quella landa selvaggia e misteriosa, affamata e sola. Oky, che era stata così generosa con loro, tutta sola e senza nessuno che l’aiutasse in quella terra crudele, così diversa dai tiepidi campi verdeggianti per i quali si struggeva di nostalgia. Proprio in quel momento il gelo assassino la stava forse abbattendo su un fianco, impacciata come doveva essere su quel ghiaccio duro e scivoloso!... Jen non poteva pensare ad altro. Non riusciva a dormire, nel suo caldo lettuccio, mentre Oky era fuori al freddo. E così, quando tutti si furono addormentati, si alzò più silenziosamente che poté, si mise il giaccone di pelle, i guanti dal dorso di pelle, gli stivali  con l’interno di pelle e con affilati ramponi da ghiaccio sulle suole, si tirò sù il cappuccio con le frange e s’incamminò nel chiaro di luna, così limpido e luminoso che sembrava di camminare nel freddo glaciale della luna stessa.

Non sapeva dove andare a cercarla, la povera Oky, ma doveva andare. Per prima cosa, però, sarebbe tornata nella stalla per vedere se c’era qualcosa da scoprire, là. Brin, forse, uscendo dalla sua calda e flemmatica magnificenza, avrebbe potuto dirle qualcosa. O magari quelle furbone delle capre, che avevan l’aria di saperla così lunga. Dovevano aver visto ogni cosa, quelle, attraverso le nere fessure degli occhietti gialli.

Ristette nell’alito della stalla, nel chiarore lunare che vi s’insinuava e nell’odore salato del fieno e del letame, chiamando: “Brin? Brin?”

Il bue mosse lievemente una gigantesca parte di sé ― il petto, o forse un fianco, ma Jen non poté vederlo bene, all’inizio ― e un profondo brontolio fuoriuscì da uno dei quattro scompartimenti del suo stomaco: “Sono solo una bestia, io, e non capisco un granché. Oky era bella calda, e mi aiutava a udire i rumori. E poi sapeva fiutare i lupi, e gli orsi affamati. Ma se n’è andata, e io sono solo un bueforte, ma con poche idee.”

“Ma dove è andata, Brin? Dov’è andata?”

Seguirà la luna, perché altrimenti come potrebbe vederci?”

“Ma la luna va verso il Monte Cascom!”

Perché fai domande a un bue? Se io fossi un toro, potrei parlare con te con i miei occhi e le mie corna.”

Alle spalle della bambina, le capre tentennarono il capo l’una verso l’altra e pestarono i piedi, ma i loro pensieri erano al di là della sua comprensione.

Jen non sapeva se davvero avesse udito qualcosa, a parte i movimenti degli animali nel recinto e gli scricchiolii delle assi congelate, ma non poté non dirigersi là dove la luna tramontava ed era proibito andare: verso il Monte Cascom, la tenebrosa montagna sacra dell’Antica Gente, dove solo l’Antica Gente aveva il diritto di recarsi, se mai di essa era ancora vivo qualcuno. Del resto, non si diceva forse che gli Dei dell’Antica Gente non sarebbero mai morti, e che privati del loro popolo erano diventati gretti e malvagi?

Ma Oky non sapeva niente di tutto ciò. Se solo avesse potuto raggiungerla prima che s’avventurasse nei luoghi proibiti, Jen l’avrebbe ricondotta a casa, nel bel calduccio della stalla. In fondo, con i suoi ramponi, lei poteva procedere sul ghiaccio molto meglio di Oky sui suoi zoccoli sdrucciolevoli.

Zoccoli,” dissero le capre dietro di lei. La bambina si voltò, incerta se avesse udito qualcosa o no. “Abbiamo tutte gli zoccoli, qui. Abbiamo zoccoli fessi. Perfino quello che è stato ucciso. Perfino quella che se n’è andata...” dissero le capre scrollando i velli lanosi e pestando con gli zoccoli sull’impiantito.

“Ma dov’è andata Oky?” domandò Jen, pur senza aspettarsi che le rispondessero. E a un tratto la capra belò ― un alto e insensato gracchiare nell’oscurità della stalla ― e il caprone s’inginocchiò e si rialzò di scatto con tutte quattro le zampe. Sembravano entrambi divertiti. Jen non poté capirli, e del resto non era sicura di aver udito davvero qualcosa, ma avvertì la loro inimicizia, sentì la freddezza e la distanza che separavano i pensieri di quegli animali dai suoi.

 

*

 

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*

 

Capitolo Quarto

 

La Montagna e la Cascata

 

Jen prese le briglie di corda di Oky e se le mise a tracolla. Uscì dalla stalla, chiudendo con cura la porta sul suo tepore, e subito l’aria esterna, gelida e senza vento, le entrò nelle narici e nel petto. Ed ella seppe che non sarebbe dovuta andare da sola nella foresta su quel ghiaccio scricchiolante, liscio come le onde di un laghetto congelato.

I ramponi cigolarono, lamentandosi della durezza del suolo, quando ella si inoltrò fra i muti alberi ghiacciati.

E non appena lasciò la stalla, la casetta e i suoi annessi, fu come se stesse andando via, via, come se si tuffasse in acque profonde, lontano dalla luce che conosceva e dall’aria che poteva respirare liberamente. La casa si allontanò, diventando sempre più piccola, e solo gli alberi, d’argento su un lato e neri dall’altro, parvero continuare a muoversi intorno a lei mentre li oltrepassava. Il rumore dei suoi ramponi d’acciaio sul ghiaccio era l’unico suono della foresta, e perfino quei flebili cigolii sembravano essere diventati più cupi e più desolati nel gelo circostante. I soli colori erano l’argento e il blu scuro, e lo spazio intorno a lei non era mosso che dal suo muoversi attraverso di esso. Si fermò per chiamare: “Oky? Oky?”, ma la sua voce suonò troppo debole e inerme e solitaria, ed ella ne fu spaventata.

Gli alberi, immobili nel gelo, non le risposero. Per la maggior parte abeti, formavano su di lei un tenebroso intrico, il cui silenzio, nella calma di vento assoluta, aveva qualcosa di innaturale. Eppure, in quegli stessi luoghi, essi avevano sempre mormorato l’uno verso l’altro, anche se talvolta quasi impercettibilmente. Ma ora anche il vento era morto. E lo sguardo di Jen si perdeva in un’interminabile navata di tronchi d’albero, in fondo alla quale non c’era che il chiarore della luna: un corridoio così lungo e uniforme che non poteva non essere una strada o un sentiero, ella pensava, e lo pensava anche quando arrivava alla fine e vedeva che non c’era alcuna fine, solo distese irregolari di ghiaccio e alberi muti che di nuovo formavano altre navate in tutte le direzioni.

La bambina seguì la luna nel suo cammino attraverso il cielo alla volta del Monte Cascom, e anche se la nera mole della montagna le appariva solo di quando in quando fra i rami, lei la sentiva lo stesso, continuamente, come un peso tremendo che gravava sul mondo. Stava andando dove né il babbo né la mamma né suo fratello erano mai andati. L’aria morta che non poteva non respirare le rapiva il calore interno e lo disperdeva fuori di lei in piccole nubi di vapore. I suoi piedi diventavano a ogni passo più freddi. Era stanca, indebolita dalla fame che per troppo tempo aveva sofferto. E le briglie di Oky, che all’inizio le erano parse leggere, adesso si facevano di momento in momento più pesanti e più dure, affaticando sempre di più le sue esili spalle.

“Oky! Oky! Dove sei?” gridava, ma la sua voce si perdeva. Non c’era niente, là, a parte lei stessa, che avesse orecchie per le sue flebili grida, e gridare quel nome non serviva che a farla ripensare ai begli occhi castani di Oky e al loro affettuoso calore ― sempre che il gelo non glielo avesse portato via tutto. Poiché a quest’ora Oky poteva esser morta stecchita come il maiale che avevano macellato, i cui rosei fianchi erano diventati così immobili e freddi che non aveva avuto alcuna importanza che i coltelli ne facessero dei pezzi di qualcos’altro ― pezzi che avevano nomi diversi e che non facevano più parte di qualcosa di vivo, come prosciutto, pancetta, braciole. Il maiale non era meno tranquillo di quei dossi di ghiaccio, dopo, ma dov’era andata a finire la sua vita? E Oky poteva morire altrettanto facilmente, e lo stesso poteva accadere a ogni altro essere vivente. Quel mondo di ghiaccio non se ne sarebbe curato affatto.

“Oky? Oky?” gridò, e rimase in ascolto. Ma non ci fu risposta, nessuna risposta. Era come se la sua vocina non potesse andare più lontano delle sue labbra gelate, ma Jen continuò a mettere un piede davanti all’altro, badando attentamente a non cadere, e ad andare sempre più avanti, sempre più avanti, sola nella foresta misteriosa.

Per tutta la notte seguì il cammino della luna. Talvolta, mentre risaliva un lungo pendio dove gli alberi erano più radi, il riverbero della luna sul ghiaccio quasi ne raddoppiava la luce. Poi gli alberi si avvicinavano di nuovo, affollandosi cupi intorno a lei, e i rami bassi, secchi come dita di scheletri, la toccavano mentre passava.

A poco a poco, avvicinandosi alla cima ghiacciata del Monte Cascom, la luna si offuscò. A est, alle spalle della bambina, apparve la prima luce del nuovo giorno, e a quel misterioso chiarore, all’inizio più tenue ma più esteso di quello lunare, Jen cominciò a udire un lungo e ininterrotto sospiro, come se gli Dei dell’Antica Gente piangessero la scomparsa del loro popolo. Era un sospiro quasi impercettibile, all’inizio, ma crebbe d’intensità, a mano a mano che la bambina si avvicinava alla montagna risalendone le prime pendici, fino a diventare un suono furibondo, fino a tramutarsi in un urlo di uragano e poi, alla fine, in un profondo boato: il cupo rimbombo del potere.

Jen ne ebbe timore; non aveva mai sentito niente del genere in vita sua. Sembrava venire da una bocca gigantesca, come se la montagna in persona espellesse ruggendo il proprio dolore attraverso una spaccatura o un canyon. Finché, mentre si arrampicava sempre più lentamente per la stanchezza e la paura, la bambina sbucò su una prominenza ghiacciata, dove gli alberi si diradavano, e si ritrovò a guardare ― giù, dentro un abisso senza fondo ― il tuono che fino a quel momento aveva solo udito: un immenso precipizio d’acqua spumeggiante che roteando e avvolgendosi su se stessa scorreva lentamente sulla roccia, lassù, e da una cengia spaccata, troppo lentamente per quell’ininterrotto ruggito, cadeva giù nell’abisso che la inghiottiva. Al di sopra della cascata un alto abete fremeva al vento stagliandosi contro il cielo nero, e il vento scaturiva dalla cascata stessa, dalla pressione rimbombante e ululante dell’acqua che scendeva nel baratro con un ruggito che valicava le nubi di vapore e di spruzzi che lo risalivano ribollendo e coprivano le rocce di ghiaccio scintillante.

Era lo stesso precipizio d’acqua bianca, la stessa montagna, gli stessi alberi contorti dal vento sullo sfondo di un cielo sinistro che Jen aveva già visto ― ma silenziosi, quella volta ― nell’occhio addormentato della vecchia signora.

La vista di quell’immensa cascata le fece venire le vertigini, ed ella si aggrappò con tutte le forze a un piccolo abete cercando di scacciare dalla mente l’immagine di sé stessa che vi precipitava ― giù, sempre più giù, fin in fondo all’abisso... Dopo un po’ si rese conto che la temperatura era leggermente più alta, lì dove si trovava. Era forse l’attrito dell’acqua che rendeva quel luogo più caldo?... Poi scorse quello che sembrava un sentiero, una stretta sporgenza ― una cengia ― che correva lungo il precipizio in direzione del centro della cascata, ed ebbe l’impressione di scorgervi delle impronte... Sì, là, nel ghiaccio semifuso, c’era un’orma di cervo dalle aggraziate piccole cavità, e vicino a essa delle impronte di zoccoli più grandi che sarebbero potute essere di Oky, poiché erano molto più larghe di quanto potesse esserlo qualsiasi impronta di cervo.

“Oky!” chiamò, ma niente poteva sovrastare lo scroscio e il rimbombo dell’acqua. Doveva per forza andare avanti, benché il sentiero ― se davvero era un sentiero ― fosse così angusto e così vicino al ciglio dell’abisso che la bambina si sentiva come se una mano la spingesse verso quell’aguzza sporgenza per farla precipitare fin in fondo al baratro. Era stretta come una mensola, quella pista, e dove conducesse lo si poteva solo immaginare. A stento la si vedeva continuare lungo il bordo del precipizio, apparendo e scomparendo nella foschia che saliva turbinando dalla cascata per poi sparirvi del tutto. Oky doveva averla percorsa insieme a un cervo ― se le impronte erano davvero di Oky ― ma non era tornata indietro. E Jen doveva seguirla.

Mai, prima di allora, la bambina era stata così lontano da casa, nemmeno con il babbo, e neanche lui era mai arrivato così vicino al Monte Cascom. Aveva paura, e tuttavia nel cuore della sua paura c’era qualcos’altro, qualcosa di duro come la pietra che le diceva che mai e poi mai avrebbe rinunciato all’impresa, per quanto terribile fosse. Il babbo era malato, tutti loro stavano lentamente morendo di fame, Oky si era perduta... Non poteva che proseguire, dunque, e l’avrebbe fatto anche se il mondo intero si fosse rivoltato contro di lei per distruggerla. “Andrò avanti a tutti i costi,” disse, ma il cupo ruggito dell’acqua non le permise di udire la propria voce. Poteva sentirla dentro, la sua vocina di bimba, ma non udirla. “Andrò avanti a tutti i costi.”

Forse Oky era ormai soltanto una carcassa di mucca, fradicia d’acqua e tutta pesta, che le rapide facevano ruzzolare tra gli scogli laggiù. In certi punti la cengia era larga sì e no un piede, fra le rocce a picco e il precipizio. Ma poco dopo la bambina scorgeva di nuovo, dinanzi a sé, la larga impronta di uno zoccolo. “Andrò avanti a tutti i costi,” diceva allora, e la sua piccola voce, annientata dal frastuono dell’acqua, era tutto ciò che poteva opporre alla paura.

Jen si trascinò lungo la stretta mensola di roccia, l’acqua che precipitava nell’abisso rimbombò sempre più forte a mano a mano che ella si avvicinava alla cascata, la massa d’acqua divenne così gigantesca che per un orribile momento fu più reale e concreta d’ogni altra cosa al mondo e la bambina e il precipizio sfrecciarono verso il cielo mentre la cascata sembrava fermarsi. Jen si aggrappò con tutte e due le mani a una roccia coperta di muschio e chiuse gli occhi stretti stretti, aspettando ansiosamente che quel moto spaventoso si arrestasse. Quando aprì gli occhi, dopo un po’, sperando che il dirupo fosse di nuovo stabile, vide di nuovo solo il livido grigiore dell’acqua che precipitava. E proprio davanti a lei, nel muschio, c’era l’ampia impronta di uno zoccolo di Oky. Oky era passata di là, anche se la cengia in quel punto era così stretta che Jen non riusciva neppure a immaginare come Oky potesse aver mantenuto l’equilibrio. I suoi larghi fianchi dovevano aver strusciato contro la roccia.

Rabbrividì di freddo e di paura. Per quanto facesse meno freddo, lì, rispetto alla foresta ghiacciata, la foschia umida le si insinuava nei vestiti. E le briglie di Oky, pesanti per l’acqua che le impregnava, gravavano sempre più sulle sue spalle.

Il cuore della cascata era livido, e pesante come un fiotto di schegge di cristallo, ma la bambina proseguì finché la cengia, dietro le colonne d’acqua che precipitavano urlando e sibilando nell’immane ruggito dell’abisso, non la condusse dinanzi a una stretta e buia fessura nella roccia umida proprio alle spalle della cascata. Davanti ai suoi occhi, la nebbia si precipitava turbinando in quello squarcio. Jen esitò, cercando di farsi coraggio. Oky non poteva essere andata da nessun’altra parte che in quel buco nero, se non era precipitata sulle rocce tra i vortici delle rapide.

La vista di quella tenebra fu lì lì per sopraffarla; l’idea di penetrare in quel buco, in quella caverna senza luce, andava contro tutto ciò che le era stato insegnato in vita sua. Ma in quel momento Jen analizzò la propria paura come se in lei, bambina di sette anni, vi fosse al tempo stesso un’altra Jen, forse più vecchia, che conosceva gli animali e i loro linguaggi o comunque aveva delle ben radicate teorie su di essi; una Jen che aveva guardato nell’occhio della vecchia signora e in esso aveva scorto proprio questo luogo; una Jen che era ormai troppo consapevole per le semplici paure dell’infanzia. E tuttavia no, non è che fosse già troppo saggia e adulta per tali paure ― poiché esse son forse le paure più profonde che ci siano ― ma nonostante ciò vi era qualcosa, in lei, che la spingeva a varcare quella soglia e ad avventurarsi nell’ignoto. Si slacciò i ramponi, li legò alle briglie di Oky e avanzò nell’oscurità. Il suolo era liscio, nel passaggio, come se fosse stato levigato dall’acqua o dai piedi, e andava a poco a poco digradando. La bambina avanzava a tentoni, sfiorando con una mano la parete, liscia e bagnata, e con l’altra saggiando l’aria umida dinanzi a sé. E dopo che ebbe brancolato a lungo, il rimbombo e il ruggito della cascata cominciarono a diminuire, e affievolendosi risuonarono dietro di lei come un interminabile lamento che diventava sempre più triste, sempre più cupo.

“Oky?” chiamò, ma la sua voce riecheggiò misteriosa verso di lei, compressa dalle rocce incombenti in un suono acuto e penetrante che sembrava venire da tutte le parti.

Perciò non chiamò più e risparmiò le forze, cercando la strada a tentoni. Il passaggio di quando in quando svoltava, e a volte saliva per poi scendere di nuovo. La bambina, gli occhi sbarrati nel buio, cercava di percepire qualche barlume di luce sforzandosi come se la sua vista respirasse attraverso di essi e il buio li stesse soffocando. Le sembrava di aver già percorso delle miglia in quelle tenebre più nere della notte, più oscure di qualsiasi altro vuoto in cui avesse mai sbarrato gli occhi fino allora.

Avanzò a tentoni per così tanto tempo, che cominciò a pensare che non sarebbe mai più uscita da quella nera galleria e che essa non sarebbe mai finita, sarebbe continuata sempre più giù, diventando sempre più buia e puzzando sempre più di caverna e di umidità a mano a mano che sprofondava nei recessi della montagna. Ma poi, a poco a poco e impercettibilmente, l’odore cambiò. Le sembrò sbagliato, all’inizio, e poi malinconico e colmo di nostalgia, poiché quello che stava annusando, benché ancora fioco in quell’aria stagnante, era senz’altro il ricco profumo delle foglie e della terra, il caldo e vivido sentore dell’autunno. Ma lei sapeva bene che fuori era febbraio, il mese del gelo, e che era entrata nel corridoio di pietra da un mondo di ghiaccio.

Nel mondo che aveva lasciato c’erano la sua famiglia e la sua casa; ciascuno dei suoi piccoli passi l’aveva portata un po’ più lontano da loro. Se adesso quell’odore caldo e il crescente tepore dell’aria cominciavano a essere così gentili con lei, be’, questo era semplicemente troppo indecifrabile, troppo distante da tutto ciò che aveva lasciato dietro di sé. Pensò che doveva tornare indietro, sentì che ogni attimo poteva essere l’ultimo in cui le sarebbe stato ancora possibile ritrovare la sua famiglia.

Poi, in lontananza, scorse un fioco bagliore. Iniziava già a domandarsi se i suoi occhi avrebbero funzionato ancora, dopo che si erano così duramente affaticati nella più completa oscurità senza poter vedere alcunché, quando li raggiunse quel flebile barlume di luce ― una specie di aurora, con ogni probabilità ― ed ella poté procedere un po’ più rapidamente. Cominciò anche a udire degli strani rumori, dei lievi squittii e una specie di morbidi battiti che crescevano d’intensità a mano a mano che avanzava a tentoni verso la luce. Era quasi come se li sentisse fisicamente, quei suoni, piuttosto che udirli. E stava accadendo anche qualcos’altro: la fredda parete di pietra, che per tutto il tempo aveva tastato con una mano mentre brancolava nel buio, adesso si stava allontanando da lei e dalla piccola luce verso la quale voleva andare, e mentre quei milioni di acuti squittii diventavano sempre più forti, ella comprese ― dall’eco dei suoi passi e dai morbidi battiti vellutati che si addensavano in una sorta d’invisibile nube tutt’intorno a lei ― di essere entrata in una grande sala.

Non vedeva nulla, poteva solo sentire quello schiamazzo e quella specie di vento ansimante che veniva dall’alto. Proseguì, tremante, mettendo avanti prima un piede e poi l’altro. La luce si faceva più intensa, cominciava ad avere una forma. Doveva essere un buco nella roccia, un’altra galleria, una via verso la luce del giorno... C’era qualcosa di molle sotto i suoi piedi, ora, più o meno un pollice di cedevole fanghiglia, e un odore fruttato che le ricordò le galline che avevano l’anno precedente, prima che la volpe rossa penetrasse nel pollaio e se le portasse via tutte.

Poi lo spiraglio di luce in lontananza ammiccò come un grande occhio, ammiccò e luccicò, si aprì di nuovo e si chiuse finché non fu nero come tutto il resto e la bambina rimase al buio a vacillare senza più nulla a cui aggrapparsi. Si sentì mancare, fu lì lì per cadere in quella roba molliccia che aveva sotto i piedi, e quando recuperò l’equilibrio, in quell’immensa e assoluta oscurità, non aveva più la minima idea di dove fosse stata la luce. Era come quel gioco che facevano sempre lei e Arn, in cui uno doveva chiudere gli occhi e ruotare su sé stesso fino a non saper più dove fossero le cose nella stanza... Ma questo la fece pensare ad Arn e alla mamma e al papà, che erano insieme nella loro calda casetta davanti al fuoco che ardeva arancione e silenzioso, e a lei che invece era laggiù, sola nelle viscere della montagna a cui le era stato detto di non avvicinarsi mai, circondata dal buio e da quel rumore schiamazzante. Se fosse inciampata e avesse fatto un capitombolo, o se si fosse data per vinta, sarebbe caduta in quella sostanza morbida e appiccicosa che aveva l’odore che ha la terra sotto il posatoio dei polli. Non poteva restar lì a barcollare sull’orlo dell’ignoto. Sarebbe stata la sua fine.

La luce riapparve, a poco a poco, non dove Jen pensava che fosse ― ma poi la ragione le disse che no, la luce non poteva che essere dov’era stata ― e tutto quel mondo buio ruotò su sé stesso con estrema lentezza, spietatamente, facendole girare la testa. Squittii e battiti erano meno intensi, ora, e si rese conto che quei suoni si erano dissolti nelle tenebre per tutto il tempo che lo spiraglio di luce era stato chiuso, come se fossero colati via attraverso il buco stesso. E la cosa continuava anche ora, mentre la bambina camminava verso la luce il più rapidamente che osava permettersi: quei suoni ― i battiti e gli squittii e gli sbuffi di vento ― fluivano intorno a lei. Poteva anche vederli, adesso: erano delle macchioline nere sullo sfondo del chiarore e scorrevano via a centinaia attraverso il buco, offuscandolo e facendolo ammiccare ― quando la fluente moltitudine si assottigliava ― fino a spegnere di nuovo la luce. Si fece più vicina a dove la corrente si trasformava in un’impetuosa fiumana, e il frastuono divenne un’ininterrotta marea di vibrazioni dentro la sua testa. Le macchioline nere erano più nitide, ora. Ali coriacee che battevano, piccoli corpi scuri: era finita in una grotta di pipistrelli, ma aveva trovato l’uscita e non ne era lontana.

Non appena fu in grado di scorgere le rocce, cominciò ad arrampicarsi più velocemente verso la luce. I pipistrelli continuavano a fluire intorno a lei senza toccarla se non col vento delle loro ali. La luce diventava sempre più intensa, tanto che all’inizio le fece male agli occhi. Intravide un cielo azzurro, verdi cime di alberi, e il sollievo di rivedere la luce del giorno la fece incespicare e piangere. Arrivò all’uscita, infine, e corse fuori insieme a un nugolo di pipistrelli. Fu accolta da un piacevole tepore carico di odori autunnali, e ai suoi piedi vide un’ampia vallata, un lago blu disseminato di isole, vaste praterie, alberi centenari, e intorno a tutto ciò una muraglia di colossali montagne che si perdevano in lontananza in un luccicante biancore.

La nube di pipistrelli aleggiava sull’ingresso della caverna roteando vorticosamente nel fulgore del giorno. Due enormi falchi volteggiavano su quel nero turbine e a ogni istante piombavano dall’alto e dai fianchi su di esso, che li accoglieva dentro di sé e li lasciava precipitare in linea retta al proprio interno, mentre ciascun pipistrello ― delle migliaia che formavano la nube ― solo all’ultimo momento si sottraeva con uno scarto ai loro artigli inarcati. Ma poi ci fu uno scontro, nell’aria. Jen poté quasi sentirlo. In tutto quel fluire e cadere ci fu come un colpo, in qualche punto del vortice ci fu un intasamento, poi un altro, e un altro ancora, e all’improvviso i due falchi ricomparvero al di sotto della nube decelerando, le ali spalancate, le code inarcate come dei ventagli: ciascuno stringendo fra gli artigli un pipistrello massacrato.

Un altro pipistrello svolazzò giù e cadde a terra ai piedi della bambina, una delle ali delicate piegata verso l’alto e lo scuro corpicino peloso insanguinato. Tentò di volare di nuovo, ma l’ala era rotta, il fragile polso che la sosteneva era spezzato. Jen ne fu dispiaciuta, e chinandosi sulla bestiola la vide battere i piccoli denti e ne scorse il nasino rosa, nudo e piatto come il muso di un maialino. Larghe orecchie appuntite sporgevano dalla testolina piene di peluzzi bianchi. Era brutto, a vedersi, ma la bambina sapeva che lo era solo per lei, non per sé stesso. Voleva aiutarlo. I pipistrelli nella caverna erano stati un incubo per lei, l’avevano spaventata crudelmente, ma in verità era stata Jen a impaurire loro e a indurli a volar fuori in pieno giorno, quando i rapaci godono di un vantaggio che non hanno al crepuscolo o all’alba. In qualche modo era stata lei, dunque, a provocare la sofferenza dell’animaletto. Ma quando provò ad avvicinarglisi di più, quello sentì la sua presenza, o la vide con i suoi occhietti come capocchie di spillo, o la udì nell’eco dei suoi pigolii, e aprì la bocca tossendo, pieno d’odio e di terrore, per mostrarle i dentini bianchi. Non poteva più volare, era condannato a morte, ma non se ne rendeva conto. Era Jen a saperlo, e a capire che non poteva aiutarlo.

Intanto il nugolo di pipistrelli era tornato a roteare sull’ingresso della caverna e vi rifluiva come una nube di fumo risucchiata dalla cappa di un camino. Jen si affrettò ad allontanarsi, e da dietro un ginepro vide la grotta accoglierli di nuovo a migliaia nel riparo delle sue tenebre. L’aria fu presto sgombra, tiepida negli ultimi raggi del sole che calava sulle candide cime dei monti. I falchi erano due puntini lassù, risalivano il precipizio alle sue spalle. Il pipistrello ferito se n’era andato? No, eccolo là, immobile vicino a quel masso e ormai abbandonato a quello speciale silenzio che indica che una creatura ha subito ben altri danni, oltre a quelli visibili, e che per essi è morta.

Quando il sole si dileguò dietro il bianco orizzonte lontano, l’aria si fece più fredda e la luce mutò, divenne dorata come se la riflettessero sulla vallata gli alti nevai che ne segnavano il confine orientale. Ma dove lei si trovava non era inverno, e il dolce profumo del ginepro si fondeva con i vividi odori dell’autunno. Se Oky era arrivata fin lì, era probabile che fosse ancora viva, magari in quella verde prateria laggiù, al di là della cupa foresta. Per un momento, l’idea che Oky potesse essere vicina le fece risentire un po’ del suo calmo tepore, poi tutto cambiò, e di nuovo le parve impossibile che si potesse essere più spaventati e soli di quanto lo era lei. Ignorava se quell’improvvisa debolezza scaturisse dalla paura o dalla fame. Ma tra lei e la sua casa c’era la grotta dei pipistrelli. Non voleva neanche pensare di rientrare in quella tenebra urlante, e anche se ci fosse tornata sapeva che sotto l’immensa volta della caverna non sarebbe mai riuscita a trovare lo stretto passaggio che l’avrebbe ricondotta verso casa.

“Oky?” chiamò, ma la sua voce volò via, si perse chissà dove in quella valle misteriosa. Aveva ancora sulle spalle le briglie della mucca e i ramponi di ferro, e le pesavano, perciò slegò i ramponi dalle briglie, che tenne con sé, e li lasciò su una roccia vicino all’ingresso della grotta. Voleva allontanarsi di là e cercare di raggiungere la prateria più in basso prima dell’imbrunire, quando i pipistrelli sarebbero rifluiti come un uragano nero nella vallata sempre più buia. E comunque aveva paura, perché anche nella prateria, seppure avesse trovato la strada per arrivarvi, ella sarebbe stata sola; non sarebbe mica stato il campicello del babbo, quello, dove da ogni punto si poteva scorgere il fumo che usciva dal comignolo della casetta.

Non poté trovare nessuna impronta di zoccoli sulle ghiaia fuori dalla grotta, né tanto meno aveva potuto scorgerne qualcuna alla fioca luce evanescente della grotta, dove non osava tornare a guardare. Doveva cercare di indovinare quale direzione Oky avesse preso e sperare di ritrovarne le tracce nei boschi, dove il terreno è più soffice.

Il suo giaccone di pelle era troppo caldo per camminare, adesso, ma non lo lasciò perché sapeva che ne avrebbe avuto bisogno di notte, quando il gelo sarebbe calato nella valle dai fianchi innevati dei monti. Si rammaricava di non aver portato con sé il suo zainetto e un po’ di cuoio greggio per legare il giaccone in un fagotto. Arn ci avrebbe pensato. A lui piaceva moltissimo il suo equipaggiamento. Se soltanto fosse stato lì con lei, Jen non avrebbe avuto così tanta paura. Lei era troppo giovane e non ne sapeva ancora abbastanza per andare così lontano da casa, ma ormai era troppo tardi. Si mise il giaccone sotto braccio, le briglie di Oky su una spalla, e si avviò per la discesa rocciosa. A mano a mano che andava più giù, cominciavano ad apparire alberi e cespugli. E il buio scendeva con lei: come il freddo, sembrava colare giù a poco a poco per depositarsi nella valle. Jen si sentiva sempre più debole per la fame; ogni volta che faceva un passo falso, si sentiva le ginocchia come se fossero d’acqua calda.

In una luce morente giunse a un acquitrino che doveva attraversare. Quando vi si addentrò, qualcosa si mosse vicinissimo a lei, qualcosa grosso come un tronco. Per un attimo sentì il terreno molliccio abbassarsi davanti a quel qualcosa come se il fondo della palude prendesse la forma di un’amaca, poi la cosa si levò dinanzi a lei sempre più alta, sempre più alta, e la bambina vide che era un orso: un orso dalle spalle strette e massicce e dalla testa enorme. Guardava in giù, verso di lei, avvolto nella penombra del crepuscolo, improvvisamente immobile, valutandola. E a Jen, come le capitava talvolta con Oky, parve di udire i profondi e rimbombanti pensieri della belva che si facevano linguaggio. Lì per lì voleva mettersi a gridare, tentare di scappare, ma poi quei lenti e profondi pensieri penetrarono nella sua mente con tutta la potenza della calma e della contemplazione da cui scaturivano, e la costrinsero al silenzio.

Che cos’è questo animaletto?

È abbastanza piccolo perché io lo ignori.

Ammenoché non sia buono da mangiare...

Jen sentì quello sguardo severo chinarsi su di lei, e nello stesso momento si vide già abbrancata e schiacciata fra la sterpaglia dell’acquitrino. Non si vedeva com’era, ma come un viluppo di pelo e di vestiti e di pelle, con odori che si levavano dal suo corpo nella forma di un fioco bagliore bluastro che fluttuava e mutava come un’aurora boreale. E i pensieri profondi dell’orso mutarono, si fecero più incerti ed esitanti.

Questo animaletto mi rammenta un antico pericolo.

Non ho fame...

Non sono arrabbiato...

Credo che me ne andrò.

L’orso si voltò silenziosamente, la nera mole del suo corpo ricadde prona, e il terreno acquitrinoso riprese a muoversi a mano a mano che la belva si allontanava con tutta calma e pesantemente attraverso la sterpaglia.

Tremando, la bambina trasse i più profondi respiri che osò permettersi. Ogni volta che sbatteva le palpebre, il buio sembrava diventare due volte più profondo e i giovani abeti ai lati della palude si dissolvevano in orribili e misteriosi abissi. Nella foresta, un uccello notturno gridava come se si fosse improvvisamente allarmato.

Jen non sapeva dove andare. Guadò faticosamente la palude fino a un punto in cui il terreno, fra gli abeti, divenne più solido. Non riusciva a vedere nulla, lì. Andare avanti in quelle condizioni poteva essere pericoloso, o addirittura impossibile. Perciò fece la sola cosa che poteva fare. Tastò fra le radici e gli aghi secchi finché non trovo uno spazio fra due radici, una cavità in cui nascondersi e raggomitolarsi. Poi, con la testa sotto il giaccone, pianse in silenzio per un po’, badando a non far rumore.

 

*

 

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*

 

Capitolo Quinto

 

Il Paese Nascosto

 

Nella casetta di tronchi degli Hemlock, lontana da Jen parecchie miglia di ghiaccio duro come il ferro, la gelida luce dell’alba si fece strada attraverso gli alberi congelati, fra i quali non volavano uccelli né spirava un alito di vento.

Sebbene Eugenia si fosse alzata spesso, durante la notte, per mettere dell’altra legna sul fuoco ― in modo che Tim Hemlock, addormentato su un pagliericcio dinanzi al camino, potesse stare al caldo ― sul far del giorno la brace era quasi spenta e la cenere era ormai fredda. La pallida luce dell’alba passava attraverso i ghiaccioli che pendevano dalle grondaie, uniti l’uno all’altro come dita palmate a formare degli spessi schermi fuori dalle finestrelle della casupola. Eugenia si alzò rabbrividendo ― ma con più speranza, perché Tim Hemlock dormiva meglio ― e ravvivò il fuoco: non così tanto quanto le sarebbe piaciuto, perché la scorta di legna si era molto assottigliata, ma abbastanza perché il suo giallo tepore si diffondesse in un attimo tutt’intorno al focolare.

Arn chiamò dal solaio: “Jen?... È lì, Jen?”

Capirono subito che Jen se n’era andata. Non fuori, o nella stalla, ma proprio via. E Arn poco dopo rientrò, sfregandosi i guanti sul naso gelato, per dire a Eugenia che aveva visto le impronte dei suoi ramponi, simili ai piccoli squarci prodotti nel ghiaccio da una piccozza, disposte in linea retta in direzione del Monte Cascom.

“È andata dietro a Oky,” disse Eugenia. “Oh, Jen!” Si volse verso il marito che dormiva, guardò il suo viso bruno, scarno, sofferente, ma rasserenato dal sonno: “Tim! Tim!” gridò. Ma egli non poteva udirla.

Arn vide il terrore della mamma, e non ci pensò sù: “La troverò io!” esclamò.

“No,” disse Eugenia. “Tu devi restare qui e prenderti cura del babbo. Nutrilo con quel brodo che sai preparare tu, e bada che il fuoco non si spenga.”

“Ma io la troverei!” replicò Arn. “Son sicuro che la troverei! Si scivola, là fuori, potresti cadere! Mentre a me non mi succede niente, se cado. A volte lo faccio apposta!”

“Devo trovare Jen,” disse Eugenia.

Arn capì che continuare a discutere con lei sarebbe stato inutile, ma prima che si avviasse riuscì a farle bere un po’ di brodo caldo. Poi Eugenia mise un po’ di focaccia d’avena in una delle capaci tasche del suo giaccone di pelle di cervo, per darla a Jen se l’avesse trovata, e Arn l’aiutò a fissare i ramponi agli stivali più saldamente che poté. Quando fu pronta, baciò Arn e Tim Hemlock e si avventurò nel gelo.

Eugenia conosceva fin troppo bene le vecchie dicerie sul Monte Cascom e sulle sue potenti divinità orbate del loro popolo. Ma il sentiero tracciato sul ghiaccio dai graffi dei ramponi di Jen portava a nord-ovest, proprio verso la nera e torreggiante montagna.

Per tutto il giorno camminò tra gli alberi silenziosi, arrampicandosi faticosamente sul ghiaccio con le mani e coi piedi, finché udì anche lei il lungo sospiro che a poco a poco si trasformava in un rombo spaventoso e giunse su quell’ultimo spuntone ghiacciato sul quale Jen si era fermata a guardare la cascata, che l’aveva sbigottita col suo ruggito. Quando Eugenia vide lo stretto sentiero sull’orlo del precipizio, e capì dalle impronte che Jen lo aveva percorso e non era tornata indietro per la stessa via, ebbe paura di non riuscire a costringersi ad andare avanti. I luoghi elevati la terrorizzavano. Aveva sempre temuto che vi fosse in lei quasi la volontà di cadere. Ma con gli occhi della mente le parve di scorgere il visetto dolce e determinato di Jen, e andò avanti. Più volte, su quel sentiero viscido, pensò di essere sul punto di arrendersi e precipitare, o di morire di paura. La cascata sembrava voler attirarla verso il basso, sembrava voler discutere con lei con il suo severo boato, dirle che tutto era perduto, che doveva abbandonarsi e metter fine una volta per sempre alla paura su quelle rocce e nell’acqua laggiù.

Ma il sentiero divenne ancora più stretto, e a un certo punto Eugenia dovette fermarsi, aggrappata alla nera muraglia che incombeva su di lei, e pregare i suoi nervi e la sua forza che non l’abbandonassero. Poi ― dopo ore, o giorni, o un’intera eternità ― arrivò dietro la turbinante foschia della cascata, là dove le altissime colonne d’acqua piombavano nel vuoto accanto a lei e sembrava che tutto il mondo precipitasse intorno alla stretta sporgenza di roccia a cui ella si aggrappava. Là il sentiero cessava, non andava oltre. Finiva. Davanti a lei non c’era che roccia nera che grondava acqua. Sotto di lei, quell’acqua che sembrava attirarla piombava giù verso la tonante nube di vapore a centinaia di piedi più in basso. Non c’era una sola fessura, un solo punto su cui poggiare un piede o un dito. Eugenia capì, dalle impronte, che Jen non era tornata indietro lungo il sentiero. E dovette convincersi che Jen e Oky erano cadute ― che altro poteva pensare? ― e che ormai erano morte entrambe.

Per il dolore avrebbe voluto buttarsi anche lei, cedere alla disperazione, lasciarsi cadere. Ma non poté dimenticare che a casa c’erano suo figlio e suo marito, che erano ancora vivi e avevano bisogno di lei. Si tenne stretta alla parete, mantenendo l’equilibrio nonostante la gelida voce che dal fondo del precipizio la chiamava dalle rocce e dall’acqua: Perché soffrire? Vieni, vieni giù insieme all’acqua e falla finita con tutto. Vieni, vieni quaggiù insieme a noi, vieni dove tutto è freddo e finito per sempre. Eugenia sentiva il potere di quella voce, ne percepiva la forza d’attrazione come braccia invisibili che la trascinavano verso il baratro. Ma non le si arrese, e l’atto più coraggioso di tutta la sua vita fu proprio questa resistenza, questo suo voltarsi, pensando alla famiglia che l’aspettava, e tornare indietro piano piano, avanzando con infinita prudenza sull’angusta sporgenza di roccia malgrado la terribile debolezza e la disperazione che la facevano piangere e gridare. Poi, lontano dalla cascata, quando fu di nuovo in balia del gelo, il vapore che le aveva impregnato gli abiti li solidificò, e dovette rompere il ghiaccio che aveva addosso per non essere costretta a fermarsi del tutto.

Era buio da un pezzo quando arrivò a casa, ma quella stessa luna quasi piena che drenava il calore del mondo come un infernale magnete di ghiaccio sospeso nel cielo le fece vedere dove metteva i piedi. Arn la stava aspettando. Tim Hemlock dormiva ancora.

“Jen è morta!” gridò. “È caduta nella cascata. So che è morta!”

Aveva la febbre, era molto debole. Arn la aiutò a sfilarsi il giaccone congelato e i gambali e la fece sedere vicino al fuoco. Non riusciva a credere che la sorellina se ne fosse andata per sempre. Non voleva crederlo, e non l’avrebbe creduto: sarebbe andato e l’avrebbe trovata lui stesso. Ma sapeva che la madre non l’avrebbe lasciato andare, perciò non glielo chiese. Era esausta, si vedeva, e tra poco si sarebbe addormentata; aspettò, dunque, pensando a Jen sperduta sulla montagna proibita e al fatto che ora ci sarebbe dovuto andare anche lui. Pensò anche di non farlo, di restarsene lì, vicino a quel bel fuoco caldo ― solo lui e la mamma ed il babbo, adesso ― al sicuro nella casetta. Ma sapeva che sarebbe andato, dal momento che non poteva andare il babbo. Era suo dovere. La mamma era stata coraggiosa, ma non conosceva quella terra selvaggia come lui. Il babbo gli aveva insegnato a seguire una traccia evanescente come un respiro, a vedere un animale che non c’era, a capire com’era fatto dai suoi escrementi o dal semplice graffio di un artiglio sulla corteccia di un albero. Era arrivato il momento di metterle a frutto, le conoscenze che il babbo gli aveva impartito.

E così, quando la luna era ancora alta e i genitori entrambi addormentati, Arn si preparò. Prese una delle piccole scatole di corteccia di betulla e vi mise un po’ della polvere marroncina contenuta nella scatoletta con il disegno della manina ciondolante, un po’ di portulaca in polvere e di acetosella, e un po’ di funghi secchi. Prese il pezzo di focaccia rafferma rimasto nel giaccone della mamma, una pietra focaia e qualche esca nel borsone del babbo, quaranta piedi di spago di canapa dallo scaffale accanto alla porta di casa, il piccolo ma tagliente coltello con relativo fodero che il babbo aveva forgiato per lui un anno prima, e un pentolino di ferro per il caso che avesse avuto bisogno di cucinare. La scatoletta di corteccia d’avena, la focaccia, la corda, la pietra focaia, le esche e il pentolino li sistemò nel suo zainetto. Il coltello se lo mise alla cintura, assicurandone il fodero ― per non perderlo ― con una cinghia di cuoio greggio. Lanciò un’occhiata al fucile a pietra del babbo, ma si rese conto che per lui sarebbe stato troppo lungo e pesante perfino se avesse sparato appoggiandolo su un sostegno. Se il Mercante fosse venuto, quell’anno, il babbo gli avrebbe fatto un piccolo fucile, di piccolo calibro; l’avevano progettato insieme... Ma non gli era di alcuna utilità star lì a rimpiangere quel che non aveva. Sulla porta si mise i ramponi, si mise lo zaino sulle spalle sopra il giaccone di pelle e tranquillamente lasciò la calda casetta illuminata dal fuoco per avventurarsi nella foresta gelata alla luce della luna.

Era l’alba quando arrivò alla cengia coperta di ghiaccio su cui Jen e poi la mamma avevano affrontato il tremendo frastuono della cascata. Si accorse subito di trovarsi dinanzi alla stessa acqua, alla stessa roccia nera e agli stessi precipizi incoronati di abeti che lui e Jen avevano intravisto nell’occhio della vecchia signora. E la cosa gli parve malvagia, ma al contempo si disse che la vecchia signora non poteva essere del tutto cattiva. Non gli aveva forse insegnato, nel misterioso linguaggio che ora conosceva anche lui, a preparare la medicina che aveva fatto bene al babbo?... Pur tuttavia egli sapeva che la più grande malvagità non è mai facile da riconoscere proprio perché sovente concede qualcosa per poi togliere di più. È paziente, sa aspettare, sa parlare in modo persuasivo. Arn aveva appreso queste cose dalle vecchie storie in cui la morte è raccontata come qualcosa di realmente esistente, che si accanisce contro i buoni non meno che contro i cattivi. Si era fatto male, in passato, qualche volta, e talvolta era stato in pena; sapeva bene che cosa accade a tutto ciò che vive ― agli alberi, agli animali, al maialino che avevano macellato e mangiato, all’erba alta che tagliavano in estate e in autunno. Ma nonostante ciò trovò le impronte sulla stretta sporgenza di roccia, ne comprese il senso così come suo padre gli aveva insegnato a fare, e andò avanti.

In nessun momento pensò che il suo corpo potesse tradirlo e farlo precipitare; se la sporgenza reggeva, anche lui avrebbe retto. Era stanco e affamato, ma in fondo era quasi un uomo, il solo uomo della famiglia che non fosse malato, e sarebbe andato avanti finché non avesse visto da sé che cosa ne era stato della sua sorellina ― o finché non fosse accaduto anche a lui ciò che era accaduto a lei.

Arrivò sullo stretto ripiano di roccia e trovò, dietro le sfreccianti colonne d’acqua, il medesimo pertugio nero che anche Jen aveva trovato. Con l’acqua che sibilava dietro di lui e ruggiva dal basso, si tenne aggrappato alla parete e cercò. Sì, sulla cengia c’erano dei piccoli graffi: dovevano averli prodotti i ramponi di Jen. Anche la mamma, a giudicare dalle impronte e da quanto aveva detto, doveva essere arrivata fin là, ed era strano che non avesse visto l’ingresso della grotta, o quanto meno che non gliene avesse parlato. Per un attimo pensò di trovarsi nel posto sbagliato; ma poi si rammentò di quel che diceva suo padre, che una traccia è un’indicazione non meno affidabile della cosa che l’ha fatta, anche se tende a non imprimersi nella memoria con la forza con cui la cosa si imprime nella realtà. Doveva credere a quel che gli occhi gli mostravano, e non dubitarne mai. Jen, Oky e un cervo erano passati di là, così come aveva fatto la mamma, ma solo le impronte della mamma tornavano indietro. Si rese conto di essere una persona logica, pratica, a differenza di Jen che invece tendeva a udire strane voci e a fare le cose senza pensarci bene prima. Come la notte che a tutti i costi era voluta andare a sbirciare nell’occhio della vecchia signora. Aveva la tendenza a fare cose di quel genere, e per motivi che non spiegava mai.

Che cosa mai poteva averla indotta ― si stupì ― a entrare da sola in quell’umida caverna in cerca di una mucca? Perché mai si era data così tanta pena per una mucca? Dato che Jen le aveva, le sue ragioni, per quel che faceva: le sue irragionevoli ragioni. Pensò che ora sarebbe andato là dentro anche lui, perché doveva trovare sua sorella e riportarla a casa. Per un momento, a dispetto della paura, fu orgoglioso di sé stesso. Ma poi una vocina gli disse che in parte erano proprio le sconosciute ragioni di Jen e la loro autorità su di lui, ciò che gli stava dando il coraggio di penetrare là dentro. Lei ci era entrata per prima, da sola; lui per secondo, e sapendo che dopo tutto aveva pur sempre qualche possibilità di ritrovarsi in sua compagnia, in quelle tenebre.

Si tolse i ramponi e li legò allo zaino, poi fissò tutte le cinghie in modo che lo zaino non calasse e non gli pesasse sulle spalle. Alla cintura aveva il coltello dalla lama luccicante e lievemente ricurva che il babbo aveva forgiato per lui e che egli aveva arrotato e lucidato. Aveva scelto con cura una parte di un corno di cervo che fosse dello spessore giusto e la cui curvatura si adattasse alla sua mano, e con dei rivetti aveva fissato il codolo del coltello all’interno di esso. Aveva ricavato un fodero da due sottili pezzi di abete cured, due pezzi che aveva unito l’uno all’altro e legati con della pelle di daino, cucita quand’era umida in modo che seccandosi si restringesse intorno al fodero e diventasse dura e tesa.

Slegò la cinghia ed estrasse la lucida lama dal fodero. Era molto tagliente, era stata affilata e resa tagliente sulla coramella come un rasoio, e l’orgoglio di aver contribuito a farla suscitò in lui la sensazione di essere pronto a tutto, e che quell’eccellente strumento lo avrebbe aiutato in qualsiasi cosa si fosse trovato a dover fare. Si volse, come per dire addio alla luce. (Aveva una pietra focaia e delle esche, nello zaino, in caso di bisogno. Ma sapeva che Jen non le aveva avute, e voleva serbare il fuoco per le necessità più gravi). Poi entrò nella grotta.

Il rumore della cascata si affievolì a mano a mano che egli si addentrava nella montagna, finché non fu che un debole sospiro sempre più lontano dietro di lui. L’eco dei suoi passi prudenti, malsicuri, gli diceva che il passaggio era così stretto che almeno non doveva preoccuparsi di perdere la pista. Spesso lo allarmavano le brusche svolte e le discese del cunicolo, e una volta la sua stessa tosse e l’eco aspra e bizzarra che le rispose. La sua mano non faceva che stringersi sull’elsa del coltello. I suoi occhi erano sempre spalancati, sgranati, alla ricerca di un barlume di luce. Qualche volta li chiudeva con forza e vedeva miriadi di minuscole stelle, ma quelle ― lo sapeva ― erano solo nella sua testa. Doveva assolutamente smetterla di immaginare mostri, cose morte-ma-ancora-vive, pallide creature che protendevano tentacoli verso i suoi occhi senza luce. Si costrinse a pensare al motivo per cui era lì, che non aveva niente a che fare con i mostri o con antiche leggende: doveva trovare Jen, possibilmente anche Oky, e ricondurle a casa. Riguardo a Oky non si faceva molte illusioni, poiché gli sembrava proprio una cosa da pazzi che avesse lasciato la stalla, relativamente calda, per avventurarsi in mezzo al ghiaccio. La mucca doveva aver perduto la ragione, oppure qualcuno l’aveva fatta uscire e se l’era portata via ― probabilmente la vecchia signora. In ogni caso, nella faccenda dovevano essere implicate anche altre forze, oltre alla bovina stupidità di Oky, ma Arn non aveva la minima idea di come avrebbe potuto lottare contro di esse. Jen, invece, poteva almeno essere rimproverata ― se fosse riuscito a trovarla.

Continuò ad andare avanti, e dopo un lungo cammino percepì i vividi odori autunnali che anche Jen aveva sentito. Giunse, infine, nella grande caverna, e subito riconobbe il tanfo di pipistrelli, perché una volta gli era capitato di fiutarlo esplorando una grotta più piccola ― una profonda rientranza sotto una cengia, non lontano dal più occidentale dei campi del babbo. Se là dentro c’erano dei pipistrelli, da qualche parte doveva esserci anche un’uscita, altrimenti al crepuscolo non sarebbero potuti volar fuori in cerca di cibo. Non ne avvertiva la presenza e non scorgeva alcuna luce, dunque doveva essere ancora buio. Ma la prova tangibile che i pipistrelli frequentavano la grotta era sotto i suoi piedi: un soffice strato del loro sterco. Sarebbe stato il momento di usare la pietra focaia e le esche ― ma poi, benché morisse dalla voglia di luce, di qualsiasi tipo di luce, pensò che se più avanti c’era un’apertura, un po’ di luce la si sarebbe dovuta scorgere anche di notte perfino se il cielo là fuori era molto nuvoloso, e che, se avesse guardato il fuoco, i suoi occhi non sarebbero più stati abbastanza sensibili per percepirla.

Iniziò ad attraversare la grotta, dunque, saggiando il terreno davanti a sé per timore d’imbattersi in qualche ostacolo o addirittura in un crepaccio. Finalmente, dopo che ebbe attraversato la grotta in varie direzioni senza sapere se stesse girando in tondo o andando a zigzag, scorse una debole foschia bluastra e andò verso di essa, arrampicandosi su una massa di pietrisco in leggera pendenza e sperando con tutte le forze che quella fioca caligine non fosse solo un inganno dell’immaginazione. E a un tratto vide una stella. Vacillava, ammiccava, ma era senza dubbio una stella, e fu come se potesse di nuovo respirare dopo che era stato lì lì per morire soffocato.

Uscì a precipizio e si fermò. L’aria era calma, là fuori, ma dopo l’atmosfera viziata della grotta gli sembrò ventosa, piena di vita. Sapeva di sconfinate distanze e d’immensi spazi aperti. Alte nubi si muovevano sul suo capo. Di tanto in tanto, qualche stella faceva capolino tra di esse. Non poteva seguire Jen al buio, perciò si allontanò un po’ dall’ingresso della caverna e trovò degli arbusti di ginepro, fra i cui rami spinosi poteva riposare fino al mattino. Lì per lì pensò di chiamarla, ma poi preferì non turbare la quiete della notte, non rivelare la propria presenza in un luogo che non poteva vedere. Era affamato. Il pensiero della focaccia nello zaino gli fece venire l’acquolina in bocca, ma l’aveva portata per Jen. Perciò, invece di pensare al cibo, decise che avrebbe tentato di concedersi un po’ di riposo, e magari di dormire.

 

*

 

Quando Eugenia si svegliò, giù nella casetta, il fuoco era quasi spento. Ancora una volta la grigia luce dell’alba filtrava, esangue, dalle finestre incrostate di ghiaccio. La casa era fredda ― troppo fredda, quasi gelata. Immediatamente si rese conto di quanto era vuota. Jen se n’era andata, era perduta per sempre. E Arn doveva essere affamato. Aveva potuto mangiare ben poco, ultimamente. Eugenia non aveva potuto prendersi cura dei suoi bambini... Suo marito continuava a dormire sul pagliericcio, i suoi respiri si dileguavano in sbuffi di vapore al di sopra delle sue scarne narici.

“Arn,” chiamò dolcemente volgendosi verso il soppalco. “Vieni giù, Arn, ché ti preparo un po’ di colazione...”

Non ci fu risposta.

 

*

 

Arn si destò con la sensazione che fosse passato del tempo. Aveva fatto uno strano sogno. Ma in fondo quasi tutti i sogni sono strani... Aveva sognato di vedere centinaia di persone che se ne stavano a conversare, o a cucinare su piccoli fuochi, mentre alcune entravano e uscivano da casette di tronchi o da tende. Arn non aveva mai visto più di cinque o sei persone insieme in vita sua: la sua famiglia, il Mercante, la vecchia signora e uno straniero che rammentava appena e di cui Jen non aveva alcun ricordo. Era successo, gli avevano raccontato, quando aveva solo tre anni, e tutto ciò che poteva ricordare di quell’evento era che l’ospite era un tipo robusto, dagli abiti marroni e con la barba castana. Eppure nel sogno c’erano tutte quelle persone insieme, in quello che non poteva essere che un villaggio, e nessuna di esse sembrava trovarlo strano.

Una luce si levò nel cielo a oriente, delineando lentamente le cime di alte montagne e raggiungendo di lì a poco gli innevati precipizi che delimitavano a ovest una profonda vallata. Più la luce si faceva più intensa, più il suo sogno si dileguava, e Arn si mise a osservare la valle e l’anfiteatro di montagne che la racchiudeva. Sebbene il pallido sole invernale fosse lo stesso dei giorni precedenti, il clima di quel luogo era diverso. Il sole sorgeva lungo un angolo molto basso, e si capiva che non si sarebbe innalzato di molto, su quei picchi, prima di cominciare a calare. Eppure nella valle non faceva affatto freddo, come se fosse settembre o tutt’al più ottobre, anziché febbraio. Le foglie delle giovani betulle erano gialle, proprio come se stessero per cadere, e laggiù, sugli alti cespugli di mirtilli lungo il pendio sassoso, le piccole bacche mature erano di un bel rosso acceso. Più in basso, al di là della foresta d’abeti e di abeti del balsamo, c’erano un lago blu che non era affatto ghiacciato e una verde prateria, e ancora più in là, dopo un’altra buia foresta di sempreverdi, una nube di vapore si levava in lente volute da quella che doveva essere una palude o uno stagno. Ovunque, tutt’intorno alla valle, acque spumeggianti sprizzavano dal limitare delle nevi e cadevano a fiotti sulle rocce grigie, scomparendo tra gli alberi sottostanti. La vallata era piena di vita, mica ibernata come la gelida landa selvaggia dalla quale era venuto!

Tornò all’ingresso della caverna per cercare un segno del passaggio di Jen, e là, su una roccia, vide i suoi ramponi di ferro, i piccoli ramponi che il babbo aveva forgiato per lei. Jen non si vedeva da nessuna parte, ma su quella roccia c’era la prova indiscutibile che era stata lì. La chiamò, allora, ma non ebbe risposta: la gran distanza rese flebile il grido. Una leggera brezza mosse le cime degli alberi in fondo al pendio, e la nebbia salì silenziosamente attraverso la vallata. Arn slegò i suoi ramponi dallo zaino e li mise accanto a quelli di Jen, in modo che se fosse tornata alla caverna da un’altra parte vedesse che anche lui era passato di lì. Rammentando ciò che il babbo gli aveva insegnato, cercò qualche altra traccia prima di formulare un’ipotesi sulla direzione che la sorellina poteva aver preso. Trovò lievi tracce di sterco di pipistrello che potevano esser state lasciate dai suoi scarponcini; trovò una macchiolina di sangue secco, che lo atterrì finché non s’imbatté nel pipistrello morto, ripiegato su sé stesso come un guantino grigio, e comprese che il sangue era uscito dalle sue ferite. E poi c’erano due falchi, lassù, che giravano lenti, planavano e osservavano ogni cosa.

Alla fine si convinse che Jen doveva essere andata verso quei prati più in basso, vicino al lago. Con ogni probabilità stava seguendo Oky o sperava di ritrovarla, e a una mucca quella prateria doveva sembrare proprio un bel posticino. Magari Arn avrebbe ritrovato le sue tracce fra quegli alberi, dove il terreno era più soffice. E laggiù avrebbe trovato anche delle bacche commestibili e dell’acqua, perché aveva fame e sete e sapeva che avrebbe avuto bisogno di energia, per andare avanti.

Quando il sole si alzò sopra la muraglia di monti, l’aria divenne più calda. Prima di avviarsi giù per il ghiaione, il bambino si tolse la giacca, l’arrotolò più strettamente che poté e l’assicurò allo zaino. I mirtilli erano aspri, tuttavia ne mangiò qualcuno e se ne riempì le tasche.

Ancora una volta, quando nelle fresche dimore verdeggianti della foresta gli alberi si ersero su di lui come oscure torri e la luce si attenuò, gli venne fatto di pensare alle antiche divinità di cui si diceva che risiedessero sul Monte Cascom. Anche quella valle doveva far parte della montagna o addirittura esserne racchiusa, se il suo senso dell’orientamento non lo ingannava. Di sicuro il babbo non si era mai spinto fin lì. Ma la valle era splendida, dopo tutto, con quel singolare tepore e i dolci colori autunnali. Era così facile procedere sugli aghi d’abete invece che sul ghiaccio, come se si fosse ancora verso la fine dell’autunno!

Dopo un po’ arrivò allo stesso acquitrino in cui si era imbattuta Jen. Non gli sfuggì il punto in cui un grosso animale, forse un orso, aveva spezzato e schiacciato le piante di mirtillo. Ma lì, come d’altronde nel bosco, il terreno si rivelò così molle e fibroso da non trattenere alcuna impronta. Presso la palude, però, poté rivedere le ombre gettate dal sole ormai basso, e questo gli permise di ricalcolare la propria posizione. La prateria e il lago dovevano essere a sud, dov’è il sole a mezzogiorno.

Prima d’inoltrarsi nei cupi corridoi di abeti, Arn ripensò a casa. Poteva fare dietro-front, raggiungere la grotta dei pipistrelli, con l’aiuto del fuoco ripercorrere il cunicolo fino alla cascata e di là tornare nel suo mondo. Che era molto freddo, è vero, ma era anche il solo luogo in cui poteva ritrovare il babbo, e la mamma, e la casetta dov’era nato. Avrebbe preferito mille volte esser lì a tremare davanti a un misero focherello, piuttosto che qui in questo tepore autunnale. Sì, poteva fare dietro-front e tornare a casa. Ma poi, con gli occhi della mente, rivide i ramponi di Jen appoggiati su una roccia. Nella sua paura e solitudine aveva cominciato a dimenticarli, ma quei ramponi erano pur sempre là ed erano di Jen, e Jen era la sua sorellina, e anche lei ― a dispetto del suo folle attaccamento per quella mucca ― doveva aver fame ed esser sola.

Certo che poteva fare dietro-front e tornare a casa. Poteva indurre il suo corpo a farlo, ma in qualche misteriosa e oscura maniera la parte più importante di lui ― cioè l’immagine che aveva di sé ― voleva invece rimanere lì, esser lasciata per l’eternità in quella valle aliena. Gli parve ― quando pervenne a questa conclusione e la fuga gli fu definitivamente preclusa ― che qualcosa di libero ed egoista e innocente lo abbandonasse per sempre, e ne ritrasse un senso di perdita e di sconforto. E tuttavia ― pur mentre soffriva per la perdita ― al tempo stesso si sentì un po’ meno impaurito. Fra qualche mese (se fosse sopravvissuto così a lungo, gli disse una nuova voce dentro di lui) avrebbe avuto dieci anni e si sarebbe avviato verso la virilità. E dieci anni sono tanti, sono un’età in cui i ferri del mestiere cominciano a non esser più i giocattoli. Il coltello che portava alla cintura, per esempio, per quanto piccolo, non era certo un giocattolo, né tanto meno lo erano il suo zaino e le cose che conteneva.

Ed è meglio che non lo siano, disse la nuova voce. Poiché tuo padre non è qui.

 

*

 

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*

 

Capitolo Sesto

 

Verso la Prateria

 

Un filo grigio usciva dal comignolo della casetta degli Hemlock, attanagliata dal ghiaccio come da una gigantesca mano che tentasse di stritolarla flettendo le gelide dita stecchite intorno al tetto e alle pareti di tronchi.

Anche all’interno l’aria era mortalmente fredda, fatta eccezione per un piccolo spazio dinanzi al fuoco. Tim Hemlock giaceva addormentato sul suo pagliericcio, coperto da una pelle d’orso, e la sua bruna faccia scarnita era serena, ma del tutto inconsapevole. Eugenia, infagottata nel giaccone, attizzava il fuoco con cautela e di quando in quando lo alimentava con quel che rimaneva della provvista di legna. Poteva fare ben poco altro. Si era di nuovo avventurata sul ghiaccio sulle tracce di Arn, ma aveva finito col ritrovarsi dinanzi all’impenetrabile muraglia dietro la terrificante cascata.

Era rientrata così indebolita dalla fame e dalla disperazione, che a malapena era stata in grado di slegare, tagliare e trascinare in casa quella poca legna e di riaccendere il fuoco. Non c’era più niente da mangiare tranne le sementi che si erano riproposti di piantare a primavera, accuratamente conservate dentro i sacchi di canapa che pendevano dalle travi del tetto. C’era un sacco per il granturco, e altri per i semi di pomodoro, di rapa, di cocomero, di zucca, di fagiolo e di molti altri vegetali, inclusi il frumento e l’erba coda-di-topo. In un buio deposito scavato sotto il pavimento della casetta c’erano le preziose patate da semina. E per tutto quel tempo Eugenia aveva cercato di non pensarci nemmeno, alla possibilità di servirsene come cibo... Ma dovevano pur mangiare, se volevano sopravvivere, e così alla fine si decise a prendere un po’ di granturco, trovò delle patate da semina che erano germogliate in un paio di punti o più, le tagliò a metà, e con lo scarso latte che le accordò la capra fece un po’ di zuppa, che diede al marito goccia dopo goccia spremendola da una spugnetta. Tim Hemlock non era abbastanza cosciente per vederla o parlare con lei, ma riuscì a mandar giù il brodino. Quando la moglie gli sollevò la testa e le spalle per darglielo, le parve leggero come una forcata di fieno. Benché dormisse serenamente e prendesse la zuppa, si vedeva che era ogni giorno più magro, e il suo naso era sottile e affilato come una lama.

Per la prima volta dacché Eugenia ne aveva memoria, la sorgente sulla collina si era congelata. Quando era dovuta uscire per fare a pezzi con un piccone quel ghiaccio bluastro, si era sentita come se l’aria gelida le rubasse via il calore stesso della vita. Se i due che erano rimasti dovevano sopravvivere, che avessero fuoco e cibo, si era detta... Ma subito dopo non aveva potuto non pensare ai suoi bambini, che erano precipitati nell’abisso della cascata ed erano annegati, e si domandò come facesse a stare ancora lì a preoccuparsi se sarebbe morta o vissuta.

Sapeva che Tim Hemlock aveva bisogno di un cibo più sostanzioso, e così, quando venne il mattino e si svegliò infreddolita e dolorante nella casetta senza più fuoco, Eugenia si vestì e andò nella stalla. Aveva deciso di tirar fuori il caprone dalla stalla e di macellarlo. La cosa le avrebbe tolto tutta la forza che le restava, ma suo marito doveva avere tutto il nutrimento che solo la carne poteva dargli.

C’era silenzio, nella penombra della stalla, quando vi entrò. Brin trasse dei lunghi sospiri, ma non emise altro suono. Quando gli occhi della donna si abituarono alla semi-oscurità, ella vide che le capre erano ritte l’una a fianco all’altra, il maschio nel proprio recinto e la femmina nel suo, e che entrambi rimanevano immobili e sgranavano su di lei i loro strani occhi giallastri. Non muovevano la testa, non colpivano il terreno con gli stretti zoccoli com’erano soliti fare: si limitavano a fissarla con gli occhi sbarrati come se sapessero che cos’era venuta a fare. Del resto, aveva in mano un cappio di corda. E in una delle sue tasche, inguainato in un fodero di cuoio, c’era il tagliente coltello da macellaio a lama corta.

Le capre la fissarono. La femmina mosse le fauci una volta, ruminando, poi si fermò. Noi sappiamo qualcosa, parevano voler dire con quell’immota tensione. Eugenia poteva quasi udirle, le loro secche voci caprine.

Distolse lo sguardo, uscì, chiuse la porta della stalla, fece scorrere il paletto e tornò nella casetta, dove mise il cappio e il coltello sul tavolo e rimase a guardarli, sbalordita dalla propria incapacità di portare a termine quel che sapeva di dover fare. Tim Hemlock continuava a dormire. Non ce la faceva a svegliarlo. Si sarebbe sdraiata accanto a lui sul pagliericcio, si sarebbe coperta con la pelle d’orso e avrebbe atteso la fine. La loro piccola fattoria sperduta in quella landa selvaggia sarebbe perita, la foresta se la sarebbe ripresa. Gli animali però doveva liberarli ― benché sapesse che sarebbero morti lo stesso anche loro... Tutti questi pensieri attraversarono la sua mente mentre se ne stava lì a contemplare il marito, stranamente calma... Ma no, non poteva abbandonarlo. Avrebbe bruciato le tavole, le panche, le cassette e le sedie, avrebbe continuato a trasformare in cibo il grano, i fagioli e le patate da semina finché ne sarebbero rimasti. Forse, quando anche l’ultimo di essi se ne fosse andato, con la forza della disperazione sarebbe riuscita ad ammazzare le capre. Era capace di caricare il fucile a pietra. Ma il pensiero di ritornare nell’animalesco silenzio della stalla impugnando quell’arma la sgomentò. Le capre avrebbero capito, e lei avrebbe capito loro.

Attizzò il fuoco con forza, si sedette accanto a esso in quel che restava del calore del suo focolare, prese una mano del marito e la tenne stretta. Benché ancora dura e piena di calli sul palmo e sulle dita, quella mano era ridotta a pelle e ossa.

Se davvero fosse finito tutto ― la sua vita, la sua famiglia ― ella avrebbe almeno potuto ricordare i tempi della loro felicità, e le altre avversità che avevano superato, gli altri brutti inverni. Lei e Tim Hemlock si erano sposati giovanissimi, là dove vivevano i genitori di lui. Suo padre e sua madre erano morti quando lei era ancora una bambina, ed era stato convenuto che ella fosse affidata agli Hemlock. Se li ricordava a malapena, suo padre e sua madre. Aveva sposato Tim Hemlock quando lei aveva sedici anni e lui diciotto. Sapeva già, a quell’epoca, che egli aveva intenzione di addentrarsi ancor più in profondità in quelle terre selvagge, ma non se n’era preoccupata più di tanto. Erano entrambi giovani, forti. Lui non era mai riuscito a spiegarle per quale motivo dovesse proprio vivere in quella landa remota, dove l’unico filo di fumo era quello che usciva dal comignolo della loro casupola. Le era parso che più che voler lasciarsi alle spalle il resto della gente, egli fosse in cerca di qualcosa. Era considerato un tipo un po’ strano, chiuso in sé stesso. Proprio come il nonno, diceva la gente, che era stato un uomo cupo e taciturno che se ne andava per la sua strada, e a ogni stagione di caccia spariva nella foresta per settimane, o addirittura per mesi.

Molte volte Eugenia aveva studiato l’espressione del marito mentre scrutava il Monte Cascom, specie la mattina presto, all’alba, quando il sole, levandosi su quegli interminabili pendii e su quei picchi di granito, rendeva ogni albero e ogni roccia così nitidi e vicini che la grande montagna sembrava ancor più prossima e imponente di quanto fosse, e incombente su di loro come una muraglia. In quei momenti Tim aveva un’aria perplessa e al contempo testarda, di curiosità inappagata. La sera, spesso, i bambini lo inducevano a raccontare loro qualche leggenda dell’Antica Gente e dei suoi Dei; dopo di che, sorridendo di quelle portentose vicende, lui diceva sempre che le antiche storie erano solo delle fiabe, e che essi non avrebbero dovuto scambiarle per fatti realmente accaduti. Lui, però, al Monte Cascom non si era mai voluto avvicinare.

Aiutava la moglie a insegnare ai bambini a leggere e a far di conto, affinché imparassero tutto ciò che una persona non può ignorare. Ma ciò che sapeva far meglio era insegnare loro quel che bisognava sapere della foresta.

Per un attimo le sembrò di essere arrabbiata, con lui, per averli portati così lontano da quelli che adesso avrebbero potuto aiutarli. Ma poi si disse che Tim era fatto così, e che lei a sedici anni lo sapeva bene come ora. Proprio per questo aveva provato quel fremito di risentimento, prima che la preoccupazione lo spegnesse.

Ricordò le lunghe sere accanto al focolare, quando i bambini ascoltavano le antiche leggende, e le parve di sentire di nuovo il tepore dei loro corpicini quando l’abbracciavano prima di andare a dormire; ricordò che ogni notte aveva avuto la certezza che essi dormivano nel soppalco tranquillamente, protetti contro l’assalto dell’inverno dal calore che saliva dal focolare. Mentre ora il soppalco era vuoto, invece, e anche lei era vuota, perfino di lacrime. Dov’erano i suoi bambini? Il figlio e la figlia di Tim Hemlock se n’erano andati, li avevano lasciati per sempre, erano stati portati via da un mondo gelido che non aveva pietà per i deboli, né per i piccoli, né per nessuno.

Per tutta risposta il vento si scagliò contro la casetta, e il ghiaccio all’intorno risuonò come il ferro quando viene battuto.

 *

Jen si destò al primo pallore argenteo del cielo, il momento più freddo della notte. I suoi piedi avevano fatto capolino da sotto il giaccone ed erano tutti intirizziti, così tirò sù le gambe più che poté e si appallottolò, ma tremava ancora. Il freddo la faceva sentire ancora più sola, in quella valle misteriosa. Un topo dalle zampine bianche si appollaiò su una radice davanti alla sua faccia e la guardò, ma scappò via terrorizzato quando lei strabuzzò gli occhi. Lo udì rovistare a lungo tra gli aghi d’abete coperti di brina, e temette che non riuscisse a ricordare dov’era la sua tana. Sapeva che cosa l’animaletto stava pensando, percepiva il terrore e l’agitazione scatenati in lui dall’aver trovato quell’enorme animale nel bel mezzo del suo solito percorso mattutino.

Ricordava, confusamente, le vocine o i pensieri di altri animali che si erano imbattuti nel suo corpo durante la notte, e le incuriosite o timorose domande che si erano posti prima di allontanarsi da lei.

Si alzò molto prima che il sole facesse la sua comparsa da dietro le montagne, e di nuovo camminò tra quei lugubri abeti nella direzione in cui sperava che fosse la prateria. C’era una livida oscurità sotto quegli abeti, un’umida e fredda tenebra. Camminò per molto tempo sui cumuli di aghi d’abete, senza far rumore, prima del sorger del sole. Non vide neanche un’impronta, né tracce di alcun genere, e si domandò con ansia se in quell’ andare di qua e di là e abbassarsi di continuo per evitare i tronchi degli alberi e i rami morti più bassi non rischiasse di tornare indietro senza accorgersene. Aveva ancora freddo e tremava, dopo la lunga notte all’addiaccio, e si struggeva dal desiderio di sbucare in qualche luogo aperto, dove finalmente avrebbe potuto sentire su di sé i raggi del sole, per quanto invernali e pallidi fossero. C’erano dei grossi sassi e dei grovigli di rami caduti e di piante rampicanti, appena visibili sotto la livida volta degli abeti. A un certo punto, quando si trovò a guadare un ruscelletto, un piede le scivolò da un masso traballante dentro la nera corrente, e gelide lame d’acqua s’infilarono dentro i suoi scarponcini. Doveva assolutamente trovare un po’ di sole per farli asciugare insieme alle calze prima che calasse di nuovo la notte, o i suoi piedi si sarebbero congelati mentre dormiva. Sapeva bene quanto facilmente il calore interno poteva sfuggirle attraverso l’umidità.

Le sue forze stavano per esaurirsi, tanto che per la fame si fermò a estrarre una pallina di resina da un abete e si mise a masticarla. Ne avrebbe ricavato ben poca sostanza, ma ruminare un po’ quell’appiccicume amaro dal sentore di abete la fece star meglio come se fosse del vero cibo.

Più avanti le sembrò di vedere il chiarore di una radura, e si diresse a quella volta più svelta che poté. Si rivelò una palude di ontani, una distesa di nera acqua stagnante che serpeggiava fra i tronchi contorti. Avrebbe dovuto girarle attorno, allontanandosi dalla sua strada. Fra gli alberi che la attorniavano c’erano molti pioppi, betulle gialle e frassini rosicchiati dai castori. Corti ceppi, incisi e resi aguzzi dai loro denti, spuntavano qua e là. La palude di ontani era probabilmente l’ultima propaggine di un laghetto di castori che doveva essere molto grande. Avrebbe dovuto indovinare quale fosse la via più breve per aggirarlo. Il babbo o Arn sarebbero stati in grado di dirglielo, forse dopo aver dato una sola occhiata alle tracce lasciate dai castori, che partivano dagli alberi, correvano dentro una bassa depressione fangosa e cessavano dove l’acqua si faceva profonda. Ma lei non ne era capace, perciò decise di girare verso destra, disperandosi per non poter continuare dritta a sud, verso il sole, là dove supponeva che si trovasse la prateria ― sempre che fosse vero quel che lei pensava, che il sole di mezzogiorno indichi il sud. Era confusa, probabilmente si era smarrita, e poiché si trovava in quella valle perduta era doppiamente smarrita. Dov’era Oky, la sua amica? Si asciugò le lacrime, dicendosi che di sicuro non le sarebbero servite a nulla. I suoi piedi bagnati sciaguattavano negli scarponcini, e le pesavano a ogni passo che faceva.

 

*

 

Arn era arrivato sulla riva di un acquitrino dove i salici crescevano in folti cespugli. “Con i salici si fanno i fischietti,” disse ad alta voce. Aveva chiamato Jen molte volte, durante il mattino, ma gli abeti avevano assorbito la sua voce ed egli si era reso conto che essa non poteva essere andata molto lontano. Ma un buon fischio, Jen avrebbe potuto udirlo. Estrasse il coltello e recise una bacchetta di salice dello spessore del suo pollice, ne tagliò un pezzo di circa otto centimetri e vi fece una tacca a mo’ di foro. Come il babbo gli aveva mostrato, lo incise accuratamente tutt’intorno, a livello della corteccia, e cominciò a picchiettare su quest’ultima col dorso della lama per distaccarla dal legno, in modo che si sfilasse ed egli potesse aprire un varco per l’aria in cima alla bacchetta. Dopo di che, con qualche ulteriore aggiustamento, ottenne il suono penetrante che desiderava. Lo strumento non sarebbe durato che qualche giorno, finché la corteccia non si fosse seccata e rotta, ma nel frattempo egli avrebbe potuto trarne un fischio che sarebbe arrivato due volte più lontano di qualunque grido. Quando lo ebbe finito lo provò, sperando che Jen, se l’avesse udito, lo riconoscesse per quel che era. Il babbo ne aveva fatto uno anche per lei, durante l’estate, e lei ci aveva soffiato dentro finché anche le orecchie di Arn avevano cominciato a fischiare.

A mano a mano che procedeva verso sud, schivando i rami bassi e avanzando con prudenza nei tratti acquitrinosi, di quando in quando si fermava per un po’ e soffiava nel fischietto. Aveva fame. Era praticamente sicuro che sarebbe stato in grado di procurarsi del cibo, in un modo o nell’altro, ma sentiva che aveva il dovere di ritrovare Jen, prima. Lei non era esperta quanto lui, riguardo ai boschi, e per quel che ne sapeva non aveva con sé un coltello né una corda, né alcunché di utile. Mentre lui aveva il pezzo di focaccia stantia che aveva serbato per lei, il pentolino di ferro e alcune delle polverine della vecchia signora. Se solo fosse riuscito a trovare Jen, avrebbe potuto darle qualcosa da mangiare, almeno.

 

 *

 

A Jen sembrava di non essersi mai mossa, da quando aveva cominciato ad aggirare lo stagno dei castori. Andava, andava, ma ogni punto sembrava identico al precedente. I canali d’acqua torbida potevano esser diventati un po’ meno profondi, ma di sicuro erano più alti dei suoi scarponcini e troppo larghi per superarli con un balzo. E poi il fondo sembrava fangoso: rischiava di sprofondarvi fino alla cintola, se avesse tentato di guadarli, e perfino di restare impantanata. Quindi seguitò a cercare di aggirare la palude, inciampando sempre più spesso a causa della debolezza. Cadde molte volte, mentre cercava di scavalcare dei rami bassi che sapeva che avrebbe potuto spostare, se fosse stata più forte. Provava il desiderio di lasciar perdere tutto, sdraiarsi sul terreno umido e piangere, ma sapeva che la palude doveva pur finire da qualche parte, e che lei doveva a ogni costo tornare al sole e asciugarsi prima che cadesse la notte. Non l’aiutava sapere che la palude, per i castori, era la casa che essi stessi avevano reso confortevole. A loro piacevano i suoi ammassi di rami commestibili e di corteccia, i suoi canali d’acqua torbida. E Jen sentiva nell’aria ammuffita il loro orgoglio per il proprio lavoro, fonte di vita e di benessere. Ma per lei quel luogo era solo una sorta di trappola.

E dinanzi a lei c’era sempre l’immagine di Oky, grossa e gentile, che forse era laggiù nella prateria in attesa di darle il benvenuto con un dolce muuu di riconoscimento. Allora si sarebbe sdraiata accanto a Oky, e sarebbe stata al calduccio.

Finalmente il terreno cominciò a risalire e le depressioni acquitrinose si fecero più distanti l’una dall’altra. Le erbacce e il sottobosco cambiarono, gli alberi divennero più alti. A mano a mano che aggirava il laghetto dei castori, pini e ginepri prendevano il sopravvento. Grandi roveti di more dagli steli ormai nudi, spogli di frutti, crescevano qua e là fra i ginepri, così che ella si trovò a dover scegliere fra i rami di ginepro che le guizzavano addosso come elastici e i barbigli uncinati dei roveti che le si abbarbicavano alle maniche e ai calzoni, quando non le si ficcavano senz’altro nella pelle. Era quasi impossibile scavalcare i ginepri, che la costringevano ad abbassarsi e rialzarsi in continuazione e le facevano perdere l’equilibrio. Tentò di avanzare carponi sotto i rami dei pini, ma quei varchi terminavano spesso contro un ginepro o dei grovigli di more, che erano come dei bracci dentati che cercavano di stritolarla.

Stava tentando di scavalcare una macchia di ginepri, ciascuno dei quali aveva il diametro della sua testa, quando a un tratto cadde dritta fra i tronchetti rugosi, le piccole bacche di ginepro le girarono intorno come minuscole stelline blu e si ritrovò carponi al di sotto dei rami, in una specie di cunicolo. Il terreno era tutto calpestato da zoccoli appuntiti, e c’era odore di maiale, il dolce-amaro, pungente odor di maiale, proprio come quello del porcile nella stalla di casa, solo che qui era più acre, più vivace e selvatico.

Ebbe la sensazione mai provata, ma che aveva udito descrivere, di aver violato un confine. Non l’aveva fatto apposta; era caduta nel cunicolo per caso. Ma sapeva che questo non importava. Tentò di arrampicarsi di nuovo fuori di là, ma i rami che l’avevano fatta cadere erano ora rivolti dalla parte sbagliata e non la lasciavano uscire. Piegandosi, riuscì ad avanzare giù per il cunicolo. Cinghiali, pensò, questo posto deve appartenere a dei cinghiali. Lungo i lati, i tronchi di ginepro erano feriti fino al midollo come da falci. Non appena si mosse, però, udì o forse sentì sotto i piedi un rumoreggiare sordo, come di tuoni ancora lontani in avvicinamento al di là di una montagna. Cercò una via d’uscita, verso l’alto o di fianco, ma rami e tronchi erano troppo spessi; allora si mise a correre, curva, benché non fosse affatto sicura della direzione dalla quale provenivano quei tonfi. Era possibile che stesse correndo proprio verso di loro, o che il rumore dopo tutto non fosse provocato da ciò che lei pensava ― cioè da zoccoli di cinghiali in corsa che fan tremare la terra.

L’odore di maiale era molto forte, intorno a lei, e nello scappare non le fu certo d’aiuto il ripensare al maialino che aveva mangiato, ai suoi lunghi fianchi rosei, alle sue rade setole gialle e all’espressione ottusa dei suoi occhietti. Sui quali era poi calata la mazza che lo aveva trasformato in altre cose, e lui non c’era stato più.

Il rimbombo era sempre più vicino. Per la debolezza e la stanchezza dovette fermarsi; non le sarebbe servito a nulla continuare a correre. E in quel momento, nitida e dolce al di sopra del rimbombo, le giunse la sfacciata canzoncina di uno chickadee. Guardò in sù e vide l’uccellino appollaiato sopra la sua testa su un ramo di pino. Erano stati i lunghi rami bassi dell’albero a togliere il sole al ginepro, che all’ombra del pino non era potuto crescere. Lo chickadee si volse verso di lei e la guardò, annuendo con il nero capino e con la pettorina. “Chicka dee dee dee,” cantò, e balzò su un ramo più alto. La bambina vide che poteva arrampicarsi fuori dal cunicolo aggrappandosi a quegli stessi rami. Il rimbombo era sempre più violento, e con la poca forza che le restava ― e quel po’ di più che le diede la paura ― Jen si tirò sù fino al primo ramo e poi si arrampicò ancora più sù, lungo il nero tronco del pino, finché non ebbe messo tra sé e il percorso dei cinghiali una distanza pari a quella del soppalco dal pavimento di casa sua.

Il rombo crebbe ancora, ma adesso la bambina non era più sul suo percorso. L’albero oscillava, ma era robusto; e a lei erano sempre piaciuti i pini bianchi, con le loro flessuose e verdeggianti bacchette piene d’aghi e la loro calma così risoluta. Lo chickadee saltava e danzava da un ramo all’altro come se non avesse peso, per nulla preoccupato né da lei né dal tuono che si avvicinava.

Sotto di lei, il primo cinghiale arrivò al trotto battendo pesantemente il terreno. Era marrone scuro, coperto di folti peli ruvidi ― proprio niente a che vedere col maialino che aveva conosciuto. Era almeno quattro volte più grosso, questo. Le sue spalle erano enormi, e dal muso allungato spuntavano quattro grosse zanne di un giallo splendente, due sopra e due sotto, come se avesse nella bocca lunghe lame ricurve che sbucavano da entrambi i lati. Altri cinghiali lo seguivano, le spalle alte e i quarti posteriori inclinati all’indietro. Si sentiva venir sù il loro odore, si vedevano le loro orecchie pelose dimenarsi mentre trottavano. E nel loro ansimare e grugnire parve a Jen di udire un canto o una litania che era per metà senza parole ― benché le parole fossero probabilmente sue: “A radici, a radici, a radici,” dicevano i loro pensieri, “A radici, a cibo, a ghiande, a ciccia, e andremo tutti a far bisboccia!

Le parole, o il significato delle parole, sgorgavano dal loro ansimante andare come se il rimbombo degli zoccoli, l’odore e le parole stesse fossero una cosa sola. Ma lei si teneva stretta all’albero e non si muoveva.

L’ultimo cinghiale si fermò bruscamente, tanto che gli zoccoli si conficcarono nel terreno, e tirò sù a destra e a sinistra col rotondo naso piatto da maiale; poi, lentamente, come se già sapesse che cosa stava per trovare, alzò la grossa testa verso di lei. Nei suoi occhi si accese un bagliore rosso-sangue e le zanne luccicarono di saliva, brillante avorio giallo-marrone che colava lungo i bordi affilati. Lei non poteva più udire i suoi pensieri, adesso che quello la fissava, ma in quegli occhi rossastri le sembrava che si specchiasse il sangue che sentiva pulsare nelle proprie vene. Si sentì piccola, indifesa; perfino l’albero parve diventare più esile, sotto quello sguardo. Chiuse gli occhi per non ricambiarlo e si tenne più stretta che poteva, e quando li riaprì, il cinghiale se n’era andato. Senza fare il più piccolo rumore.

Si domandò se la bestia si fosse resa conto che lei aveva aiutato a macellare un maiale e ne aveva mangiato la carne. Ma qualunque cosa il cinghiale avesse pensato, era stata troppo oscura e profonda perché lei potesse arrivare a comprenderla.

Il sole si stava abbassando, ormai, e i suoi raggi erano deboli, pallidi, perché le arrivavano attraverso i rami sopra di lei. Lo chickadee se n’era andato, solo una ghiandaia azzurra passava in volo, alta nel cielo al di sopra degli alberi, lanciandosi in picchiata e gridando come se fosse vicina alla meta. Da più lontano, un’altra ghiandaia le rispose. L’aria era più fredda, adesso. Quando Jen pesò di nuovo sui piedi umidi, si accorse che si erano come intorpiditi ai calcagni. Era ora che si muovesse. I cinghiali si dirigevano anche loro verso sud; non poteva che seguirli. Era preoccupata per Oky. Che cosa le avrebbero fatto, se l’avessero trovata? I maiali mangiano tutto ciò che trovano, ma sarebbero capaci di uccidere una mucca?

Forse il cunicolo si sarebbe rivelato un sentiero. I cinghiali, probabilmente, lo usavano solo per superare la macchia di ginepri e di cespugli di more. Se voleva muoversi di là, una buona volta, doveva infilarsi di nuovo in quel budello; non aveva scelta.

Proprio nel momento in cui si staccò dall’albero e si lasciò cadere nel cunicolo, udì in lontananza un lungo fischio acutissimo. Era inimmaginabile che un uccello o un altro animale potesse lanciare un richiamo così lungo e acuto. Avrebbe voluto pensarci sù ancora un po’, ma doveva arrivare alla fine del cunicolo più in fretta che poteva, e trovare la verde prateria che sapeva essere laggiù, da qualche parte verso sud...

Se solo fosse riuscita a raggiungerla!... I boschi, i roveti, i rami contorti, le paludi e i colpi di vento erano tutti contro di lei. I cinghiali potevano ripresentarsi, e lei non sapeva che cosa potessero farle. Aveva violato la loro proprietà. Ma forse la prateria non esisteva nemmeno, e dalla grotta dei pipistrelli non aveva intravisto che un miraggio. O una distesa di muschio fluttuante su uno smisurato abisso d’acqua.

Finalmente il cunicolo dei cinghiali ebbe fine e si trovò in un bosco più aperto, dove non doveva più temere che qualcosa sbucasse fuori all’improvviso alle sue spalle. Passato il bosco, arrivò a un ampio torrente disseminato di rapide, di rocce e di pozze profonde. Prim’ancora di vederlo, ne udì il freddo sciaguattare e sospirare davanti a lei. E quando vi giunse, ecco che propriò là, sull’altra sponda, c’era la prateria che saliva a poco a poco verso sud, obliqua distesa di autentica erba. Piccoli drappelli di alberi erano sparsi sulla sua liscia superficie ondulata, ancora tutta verde tranne nei punti in cui il gelo le aveva aggiunto qualche tocco di bruno. Alcuni animali, forse dei cervi, pascolavano in lontananza ai piedi di un alto sempreverde che se ne stava da solo. Una di quelle bestie era più grossa e tozza delle altre. Aveva una macchia bianca sul collo. A quella distanza Jen poteva appena scorgerla, la macchia bianca. Ma era Oky.

“Oky!” gridò, e naturalmente lo sciaguattante ruscello coprì il suono della sua voce. Doveva attraversarlo, per andare da Oky, ma era troppo largo e profondo. E sui massi il vapore acqueo si era condensato in glasse di ghiaccio. Un po’ più a valle, però, un albero era caduto attraverso il torrente. Non doveva essere troppo difficile raggiungere l’altra riva camminandoci sopra. Era un grosso acero, marcito al centro e spaccato fino alle radici rivolte verso il cielo, ma di sicuro avrebbe retto il suo peso, se fosse riuscita a reggersi in equilibrio su di esso. In alcuni punti il tronco era coperto di ghiaccio, ma la bambina vi salì lo stesso e con cautela cominciò ad avanzare piano piano al di sopra del torrente, tenendosi in equilibrio con le braccia e le gambe. Era quasi arrivata dall’altra parte, quando la corteccia marcia, il legno putrido e la segatura prodotta dagli insetti del legno cedettero sotto i suoi piedi e la scaraventarono in acqua.

Grazie ai vestiti il colpo non fu immediato, ma nel tempo che impiegò a dibattersi fino a una secca e a rimettersi in piedi, i suoi abiti divennero così gelidi da paralizzarla e così pesanti che sembravano di pietra. Lame di ghiaccio la trafissero dappertutto. Provò a camminare, ma dovette mettersi carponi e gattonare fino a riva, dove finalmente poté rialzarsi. “Oky! Oky!” gridò, addentrandosi nella prateria. Ma gli animali che aveva visto poco prima erano scomparsi, portandosi via anche quello più tarchiato che lei aveva pensato fosse Oky. Niente si muoveva, a perdita d’occhio, tranne alcuni corvi che in lontananza vogavano sulle loro corte ali nere, ma così lontano che non poteva udirli gracchiare. Erano ancora al sole, che invece aveva abbandonato lei e la prateria. Una luce dorata sfiorava ancora la cima dell’alto sempreverde vicino al quale le era parso di scorgere Oky, ma proprio in quel momento anch’essa si tramutò in un verde cupo e tenebroso. Eppure doveva a tutti i costi cercare di muovere le gambe fino a quell’albero. Se si fosse fermata adesso, di sicuro sarebbe morta assiderata. Sarebbe piombata in quel sonno spaventoso contro il quale l’avevano messa in guardia una volta, che traveste il gelo da tepore e in men che non si dica ti toglie la vita.

Senza più il sole, la vacua immobilità dell’aria le diede un senso di oppressione. Le maniche si coprirono di brina e i pantaloni cominciarono a congelarsi, tanto che quando fece i primi passi crepitarono. Camminò con quegli abiti gelati come se fosse chiusa dentro un’armatura, lottando contro di essi a ogni passo. Le briglie di corda, che portava ancora sotto braccio avvolte intorno alla spalla, sembravano fatte di legno. I suoi piedi si erano intorpiditi, e il torpore strisciava sù per le gambe, si comunicava alle palme delle mani e ai polsi partendo dalle punte delle dita. Avanzava barcollando verso l’albero, più in fretta che poteva, e tuttavia le sembrava sempre lontano. Come in un sogno che aveva fatto una volta, nel quale qualcosa che ella desiderava si allontanava da lei mentre le sue gambe e le sue braccia si muovevano così lentamente, ma così lentamente, che sembravano fatte di melassa. Solo che da quel sogno a un certo punto si era svegliata; mentre questa era la realtà.

Da molto lontano, verso ovest, le giunse il lungo, sibilante richiamo, sùbito seguito da un altro, di qualche uccello o di chissà quale altro petulante animale che Jen era troppo stanca per poter anche solo pensare di identificare. Si era sdraiata per terra, le spighette di fieno le pungevano le guance senza farle male. Non riusciva a ricordare di essere caduta, né il momento in cui aveva toccato il suolo. Dentro era ancora calda, c’era ancora una piccola zona tiepida al centro del suo corpo, ma quel calore stava diventando sempre più debole: voleva solo riposarsi, dormire. Premuto contro le stoppie ispide e i fili d’erba schiacciati, il suo orecchio sinistro percepì un debole mormorio che sembrava scaturire dal sottosuolo, da tutte le minuscole cose vive all’interno di esso, tutte le piantine e gli animaletti che dormono i loro sonni invernali dentro la terra che giace al di sotto dei campi. Loro, in effetti, stavano semplicemente dormendo, ma il sonno in cui Jen stava pian piano cadendo non era quel genere di sonno dal quale immancabilmente ci si risveglia. Attenta! Attenta!, gridava una vocina dentro di lei contro il finto tepore che la pervadeva. Il mormorio dal sottosuolo era come un lamento, e tuttavia in qualche modo suonava indifferente al suo destino, come se, pur mentre piangeva la sua morte, non potesse al tempo stesso dimenticare che la vita altrui sarebbe continuata. Ma la bambina udì il flebile grido d’allarme che le veniva da dentro, e con le ultime forze si sollevò sulle ginocchia e gridò ancora: “Oky! Oky! Oky!” prima di essere nuovamente ghermita dal tepore del falso sonno.

 

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