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Indice
Capitolo Primo: Una Casetta in un Paese Selvaggio Capitolo Secondo: Tsuga e la Porta Nera Capitolo Terzo: Il Mese di Ghiaccio di Ferro Capitolo Quarto: La Montagna e la Cascata Capitolo Quinto: Il Paese Nascosto Capitolo Sesto: Verso la Prateria Capitolo Settimo: Fuoco e Cibo Capitolo Ottavo: Il Grande Sempreverde Capitolo Nono: Il Sacrificio Capitolo Decimo: Il Vecchio Zannastorta
Una Casetta in un Paese Selvaggio
C’era
una volta, in tempi ormai lontani, una famiglia di nome Hemlock, che abitava ai
piedi di un’alta e bella montagna di latifoglie, ombrosi sempreverdi e nudi
spuntoni di granito: il Monte Cascom. Non vi erano altre case che la loro per un
centinaio di miglia di boschi e praterie e acquitrini, e laghi e fiumi azzurri
senza nome, dove gli animali che corrono vivevano a modo loro, correndo e
volando, e gli animali che vanno piano socchiudevano gli occhi con noncuranza
sui lunghi anni che avevano da vivere. Tim Hemlock era un cacciatore, un artigiano e un agricoltore; insieme a sua moglie, Eugenia, aveva diboscato un orto e due campicelli e li conservava lottando contro la buia foresta che tentava continuamente di insinuarvisi di nuovo, di infilare le sue propaggini in ogni radura e di ricoprire ogni cosa con le sue foglie. Era un uomo silenzioso, riflessivo, affabile con i suoi e con gli animali, ma di quando in quando aveva l’aria di chi ha in mente o nel cuore qualcosa che lo rende triste, quasi arcigno. Osservava e ascoltava un sacco, com’è bene fare in una terra selvaggia, ma negli sguardi e nei silenzi suoi c’era molto più di quel che diceva. Lavorava sodo e si prendeva cura della moglie e dei figli, ed essi lo sapevano, ma non avrebbe mai rivelato loro che cosa gli sembrava o sperava di scorgere nelle tempestose nubi sopra il Monte Cascom, o di udire nelle voci del vento.
Quel
giorno, nella casetta di tronchi degli Hemlock, Jen, di sette anni, stava
aiutando la mamma con la grossa zangola di legno per il burro, dandole il cambio
finché la panna era fresca e la manovella facile da girare. Arn, di quasi
dieci, era fuori, nella grotta che fungeva da magazzino e da frigorifero scavata
nella collina dietro la casa, e aiutava il babbo a tagliare le tremule carni di
un cervo in lunghe strisce da mettere a seccare all’effimero sole d’ottobre.
Era autunno, infatti, il tempo che precede le gelide tempeste che vengono giù
dalle montagne con il bianco sibilo della neve, e tutta la famiglia si stava
preparando alla lunga stagione buia, quando le giornate sarebbero diventate
sempre più brevi, il vento tagliente come un coltello, e la loro vacca Oky, il
bue Brin, le due capre e il maiale sarebbero a malapena riusciti a scaldare con
i loro corpi la piccola stalla. Che sembrava vuota, ora, dopo che il toro
― che poi
era il fratello di Brin ― in primavera si era smarrito lontano dal pascolo
e non aveva più fatto ritorno. E dopo che il vitellino di Oky era morto
nascendo. Ma nella casetta di tronchi degli Hemlock il focolare avrebbe pur
sempre fiammeggiato di giorno e rosseggiato di notte, divorando il prezioso
midollo delle latifoglie accatastato sotto la lunga grondaia da Arn e dal babbo
dopo che Brin l’aveva trainato fin là dai boschi sulla slitta calzata di
ferro.
In
cucina Eugenia cantava, gli azzurri occhi limpidi come il cielo d’ottobre, i
lunghi capelli castani raccolti nelle trecce intessute da Jen. Cantava la
canzone del burro, e la figlia l’accompagnava, ogni tanto, ma per la maggior
parte del tempo ascoltava la dolce voce della mamma:
“Dalla
notte viene il giorno,
Dal
sottile viene il grosso.
Oky
sa come cresce il burro,
mentre
le pale girano svelte.”
“Devi
essere svelto e preciso quando hai a che fare col dono del cervo...” spiegò.
“Ricorda che noi, per lui, non facciamo quello che facciamo per Oky, per Brin,
per le capre e il maiale. I cervi provvedono da soli a sé stessi e ogni inverno
son lì lì per morire di fame, e noi non li aiutiamo in alcun modo. Perciò la
loro carne è un dono, per noi.”
“Come
il salmone nel fiume,” disse Arn.
“Sì,”
rispose il babbo.
Gli
Hemlock erano in attesa del Mercante, che una volta all’anno arrivava su una
lunga canoa. Ogni tanto Arn e Jen interrompevano quel che stavano facendo e
guardavano giù nella valle alla volta del fiume, domandandosi con eccitazione
se sarebbero riusciti a vedere la canoa fin dal primo momento, quando avrebbe
fatto rotta oltre le rapide verso l’ultimo approdo della stagione. Ogni
ottobre il Mercante portava lingotti di piombo per farne palle da fucile, un
barilotto di polvere nera da venti libbre, pietre focaie, aghi, sale, olio da
lampada, lana d’acciaio, ramponi e strapping. Se Tim Hemlock aveva
avuto una buona stagione di caccia e un buon inverno nella fucina accanto alla
stalla (dove Arn pompava il mantice per lui) e se anche Jen e Eugenia avevano
avuto un buon inverno a fare mocassini di pelle di cervo decorati con gli aculei
di porcospino che tagliavano in perline, candeggiavano, tingevano e infilavano
su cordicelle, allora gli Hemlock avrebbero potuto scambiare pelli e pellicce,
coltelli d’acciaio e di corno di cervo di Tim e bei mocassini. Il Mercante
sarebbe tornato alla canoa e avrebbe portato loro anche della liquirizia, del
cioccolato in polvere, del tè, e altre cose che essi avrebbero gradito molto,
ma di cui non avevano davvero bisogno.
Accadde
dunque che Jen, avendo fatto il suo turno alla zangola, andò alla porta
sperando d’essere la prima a scorgere la canoa del Mercante sull’azzurro
fiume. Ma quando aprì la porta balzò indietro con un grido, perché lì,
impettita sulla soglia e perfettamente immobile, c’era qualcuno: una
personcina tutta in marrone, infagottata in un vestito marrone di pelle di cervo
che le arrivava fino ai piedi.
Era
una donna vecchissima, dai capelli bianchi e sottili, la vecchia faccia non meno
bruna degli abiti di pelle di cervo. E non parlava, non cambiava espressione, se
ne stava lì e basta, gli antichi occhi color del bronzo splendenti su Jen. Il
suo viso era coperto da profonde rughe che s’intersecavano come le
screpolature nel fango di uno stagno prosciugato, ma fra una ruga e l’altra la
pelle era liscia e lucida come la cera scura. E tra le mani teneva un cesto di
giunchi intrecciati.
La
madre di Jen udì il grido della figlia e corse alla porta. E anche lei si
spaventò, poiché da molti anni gli Hemlock non avevano altri visitatori che il
Mercante.
“Chi
siete?” domandò Eugenia; ma la donna non si mosse né disse una parola. Solo
i suoi vecchi occhi scintillanti, come se cercassero qualcuno, si spostarono
dalla figlia alla madre e da loro verso l’interno della casetta.
“Va’
a chiamare tuo padre,” disse Eugenia, e Jen fece un largo giro attorno alla
vecchia e corse alla grotta, dove Arn e il babbo stavano lavorando.
“C’è
una vecchietta tutta marrone!” disse Jen. Sentiva che stava per mettersi a
piangere, era sconvolta. “È sulla porta! Mi ha fatto paura!”
Di
corsa tornarono alla casetta, e i bambini, che subito guardarono il padre,
scorsero sul suo viso una strana espressione quando egli si rivolse alla
vecchietta.
“Chi
siete?” le domandò, ma aveva un’aria incerta, come se pensasse che non
avrebbe dovuto chiederglielo. Sembrava che stesse cercando di ricordare
qualcosa.
Quando
lo vide, la vecchietta si mosse per la prima volta, facendo dei cenni col capo,
e gli porse il cesto. Egli lo prese, ancora dubbioso, e annuì anche lui per tre
volte. La vecchietta, il volto immobile come se fosse di legno, annuì tre volte
a mo’ di risposta. E da quel momento Tim Hemlock non tentò più di dirle una
sola parola.
Passò
il cesto di giunchi a Eugenia, indicò la casetta, mise le mani a forma di
tetto, indicò il proprio cuore, poi la vecchietta, e infine compì con una mano
un lento e ampio gesto verso la porta, offrendole di entrare. Ella lo fece,
camminando così scorrevolmente che sembrò che non lo facesse coi piedi, ma
scivolando sul terreno. Andò dritta verso la panca vicino al focolare e vi si
accomodò, con la consunta e cenciosa sottana di pelle di cervo che le copriva i
piedi. Le sue mani erano nodose; le dita brune, dalle giunture gonfie e
visibilmente doloranti, davano l’impressione di piegarsi nei punti sbagliati.
Ma con quei suoi movimenti armoniosi ella sembrava in grado di parlare per mezzo
di esse come se niente fosse. Piegò entrambe le mani a coppa, indicò il cesto
tenuto da Eugenia, poi mise una mano al di sopra di esso a mo’ di coperchio e
la sollevò annuendo col capo. E tutti compresero che Eugenia doveva aprire il
cesto.
I
bambini si fecero più vicini per guardare. Il cesto conteneva svariati piccoli
oggetti, ognuno avvolto con cura in una foglia di tiglio. Per primi c’erano
dei funghi, messi in cima perché fragili; poi dei corals rosa, bianchi e
celesti; delle spugnole, che in effetti sembravano proprio delle spugne marroni;
delle vesce d’un bianco purissimo, che affettate e fritte avrebbero avuto un
sapore di carne; dei funghi-bistecca, che avevano esattamente l’aspetto che il
loro nome dichiarava, e dei funghi-ostriche che sembravano proprio tali. E poi
ce n’erano di arancioni e gialli che gli Hemlock non avevano mai veduto prima,
e che non avrebbero osato assaggiare se li avessero visti.
Sotto
i funghi c’erano delle perfette scatoline di corteccia di betulla disposte
l’una accanto all’altra. Eugenia le prese a una a una e le mise sulla grande
tavola di quercia. Sul coperchio di ogni scatola c’era l’immagine di una
pianta intagliata nella corteccia, e all’interno di ciascuna vi era una
polvere di diverso colore, impalpabile come la farina. Arn, a cui piaceva
raccogliere cibi selvatici, credette di riconoscere alcune delle piante: un piè-d’oca,
una punta-di-freccia, una roseroot, un kinnikinic, una salicornia,
una portulaca, un’acetosella... Ma qualche pianta non riuscì a riconoscerla.
C’era
poi un’altra scatoletta, piena di una finissima polvere marrone, che sul
coperchio recava l’immagine di una graziosa manina pendente verso il basso.
“Dice
che sono un regalo per noi,” annunciò Tim Hemlock.
“Ma
che cosa sono tutte quelle polveri?” disse Eugenia.
“Non
lo so. Ma sono un regalo, quindi le metteremo sulla mensola,” rispose Tim
Hemlock, e così fecero. Misero le scatoline sul ripiano sopra il camino, dove
sarebbero state all’asciutto. E la vecchietta non si mosse né parlò, ma i
suoi occhi brillarono.
Nei
giorni che seguirono gli Hemlock mangiarono i funghi che sapevano buoni, ma
lasciarono quelli arancioni e gialli sulla mensola, dentro le foglie.
Passarono
i giorni, e la vecchietta sedeva sulla panca vicino al fuoco. Se ne stava lì
tranquilla per tutta la giornata, muovendosi appena. Usciva nelle prime ore del
mattino, da poco prima dell’alba a poco dopo, ma poi tornava a scivolare
dolcemente al suo posto sulla panca di legno. Mangiava pochissimo e non creava
alcun problema, ma dopo una settimana o poco più Eugenia cominciò a sentirsi
un po’ inquieta.
Lei
e Jen erano fuori, quel giorno, vicino all’abbeveratoio dove Tim Hemlock e Arn
stavano lavorando, ed ella domandò a Tim Hemlock quanto a lungo la vecchietta
intendesse restare.
“Non
che mi dia fastidio,” disse Eugenia, “ma se ne sta lì a guardarmi tutto il
tempo, e questo mi rende nervosa.”
“E
poi ha uno strano odore,” soggiunse Jen. “Un odore come quando passeggi nei
boschi e arriva una specie di ventata animalesca, calda, e non sai da dove
viene.”
“Se
almeno potessi chiacchierare con lei,” disse Eugenia. “Chi è? Che
cosa ci fa, qui?”
Eugenia
glielo chiedeva perché talvolta Tim Hemlock e la vecchietta conversavano con le
mani e nessuno riusciva a decifrare i loro gesti; tranne i più semplici, come
“Gradireste ancora un po’ di zuppa?” che in effetti era abbastanza facile
da capire.
“Non
so con certezza chi sia,” disse lentamente Tim Hemlock, la perplessità
dipinta sul viso. “Ma so che dobbiamo permetterle di rimanere.”
Più
tardi, mentre lui e Arn e Jen stavano dando da mangiare agli animali nella
stalla, Arn disse: “Com’è che sai parlare con lei, papà?”
“Non
lo so,” rispose il babbo. “Mio nonno, Shem Hemlock ― cioè il tuo
bisnonno ― sapeva parlare in quel modo. Una volta, quand’ero ragazzo
― quando avevo all’incirca la tua età, Arn,
e
uno dell’Antica Gente venne a casa di mio padre
― mio
padre mi disse che il nonno lo sapeva fare. Ma lui non era in grado di farlo.
Non so proprio come mai lo sappia fare io.”
“La
vecchia signora è una dell’Antica Gente?” domandò Jen. Stava grattando il
largo muso di Oky, la vacca.
“Dev’essere
l’ultima, se lo è,” rispose Tim Hemlock.
“Si
chiamavano l’Antica Gente perché erano tutti vecchi come lei?” domandò
Arn.
“No,
è che loro erano qui prima di noi.”
“E
se ne sono andati tutti?”
“Lo
si è creduto per molti anni,” disse Tim Hemlock; e i bambini, vedendo che il
babbo si faceva meditabondo e silenzioso, non dissero altro.
Più
tardi parlarono del nonno, della sua fattoria lontana molte miglia e molte
colline e valli, e di come era stata distrutta da un grande incendio della
foresta quando il babbo era giovane. Il nonno, allora, era tornato nei luoghi in
cui la gente vive tutta insieme, ma il babbo, invece, aveva lasciato la fattoria
annerita e si era spinto ancor più in profondità in quelle regioni selvagge.
“Andai più in là,” disse Tim Hemlock. “Qualcosa mi indusse ad andare
ancora più in là, verso la montagna.”
La
montagna
― il Monte
Cascom
― era
sempre stata un luogo proibito. Nessuno ci andava. Circolavano vecchie leggende
sugli Dei che l’Antica Gente vi aveva lasciato estinguendosi, e sul fatto che
quegli Dei, essendo immortali, vivessero ancora sulla montagna amareggiati e
soli.
Una
sera, una fredda sera della fine di Novembre, quando l’inverno si era ormai
chiuso su di loro come una morsa e le finestre della piccola casetta erano
impellicciate di brina, Tim Hemlock disse: “Il Mercante non viene più,
quest’anno. È troppo tardi. Il fiume ha cominciato a gelare.”
L’avevano
pensato tutti, ma era qualcosa di troppo grave per parlarne. E ora sedevano in
silenzio, poiché senza la polvere e le pallottole, senza l’olio da lampada,
il sale, l’acciaio e la pietra focaia, l’inverno sarebbe stato lungo e duro
nella migliore delle ipotesi, ma nella peggiore sarebbero morti di fame. Jen
scorse la paura negli azzurri occhi della mamma e andò da lei, si mise fra le
ginocchia di sua madre e guardò in sù, nei suoi occhi che si erano fatti cupi
come quel blu che in una nube di tempesta si scambia per quello del cielo finché
non ci si accorge che in realtà è anch’esso parte del buio della nuvola. Jen
appoggiò la testa al corpo della mamma per sentirne il calore.
Anche
Arn taceva, poiché sapeva quanto fossero poche la polvere e le pallottole che
al babbo erano rimaste. Ogni anno il Mercante poteva portare loro solo una certa
quantità di ogni cosa, per via del lungo e difficile viaggio sù per il fiume,
e in autunno erano sempre a corto di provviste. Arn guardò il lungo fucile a
pietra focaia appeso ai sostegni di zoccolo di cervo sulla parete di tronchi, la
sua grossa impugnatura d’acero, le guarnizioni d’ottone incise con immagini
di animali e di piante. Dal suo gancio pendeva la sacca di cuoio ornata di
perline in cui il babbo ne custodiva gli accessori, il piccolo corno degli
inneschi e il corno grosso della polvere nera, pieno ora solo per metà.
La
vecchietta sedeva ancor più silenziosa degli altri, ma a un tratto i suoi occhi
luminosi si volsero verso Tim Hemlock ed ella cominciò a parlare con lui con le
mani. Egli replicò, e ben presto le loro mani presero a muoversi sempre più
velocemente, come se danzassero nell’aria, le grandi e callose mani da
lavoratore di Tim Hemlock e le contorte manine brune della vecchia signora
splendenti nel riverbero del focolare.
Dopo
che li ebbe osservati per un po’, Eugenia si mise a urlare: “Che cosa state
dicendo? Si può sapere cosa state dicendo?!” Era vicina alle lacrime.
Tim
Hemlock e la vecchietta smisero di muovere le mani, ed egli si volse verso
Eugenia: “Ha detto che il mese di ghiaccio di ferro sarà il peggiore,” le
spiegò, “ma che cosa intenda dire non lo so proprio...”
“Non
è giusto!” gridò Eugenia. “Perché non può parlare?”
“Perché
non sa la nostra lingua.”
Egli
vedeva quanto Eugenia era triste, perciò andò da lei e la abbracciò. Ma non
c’era nulla che potesse dirle per rassicurarla, a parte una bugia, e dunque
non disse nulla.
I
bambini guardavano la vecchietta, che sedeva immobile come se fosse di legno
riflettendo con la faccia scura i bagliori arancioni del fuoco.
Fu
Jen la prima che credette di scorgere nei suoi occhi infossati qualcosa di ancor
più misterioso e intenso che nessuno di loro aveva notato. Ma non ne parlò,
poiché, sebbene non credesse che la donna capisse la loro lingua, non avrebbe
mai potuto parlare di lei in sua presenza come se ella non fosse lì.
Più
tardi, però, quella stessa notte, dopo che tutti si furono addormentati, Jen si
destò con una strana domanda in mente, come se qualcosa l’avesse indotta a
svegliarsi.
I
bambini dormivano nel solaio, dove c’era più calore. Ma Jen, quando si alzò,
si mise il piumino intorno alle spalle, perché il fuoco aveva cominciato ad
affievolirsi e perfino nel solaio faceva un freddo pungente. Girò intorno al
tramezzo di legno che divideva il suo letto da quello di Arn. Era buio; dal
camino non arrivava che qualche bagliore ogni tanto, che prima di spegnersi di
nuovo non riusciva che a riflettersi debolmente sulle travi del tetto.
“Arn,”
mormorò. Dovette cercarlo a tastoni per trovare la cima della sua testa, la
sola parte di lui che non era completamente avvolta nei piumini e nelle coperte.
“Arn!” ripeté. “Svegliati!” Gli diede un colpetto sul cocuzzolo.
“Uff...
Grunt...” borbottò lui.
“Svegliati!”
bisbigliò lei.
“Cha?”
“Shhh!”
“Cha
fattuh?”
“Svegliati!”
Alla
fine egli si svegliò del tutto. “Che succede?” sussurrò. “Dev’essere
mezzanotte...”
“Sì.
Ma c’è qualcosa di molto strano che dobbiamo scoprire.”
“A
mezzanotte?”
“Sì,
perché lei è addormentata.”
“Chi
è addormentata?”
“La
vecchia signora. Dorme profondamente. L’ho osservata. Se ne sta lì seduta
come al solito, ma dorme profondamente. E c’è qualcosa che noi dobbiamo
riuscire a scoprire. Non so perché. Ma sono i suoi occhi. C’è qualcosa di
strano nei suoi occhi.”
“Lo
so già,” bisbigliò Arn di rimando.
“Ma
questo è davvero strano. Ho paura di andar giù a guardare da sola,
quindi devi venire con me.”
“L’idea
non mi piace.”
“Neanche
a me, se vuoi saperlo, ma è qualcosa che dobbiamo fare.”
“Vuoi
andare a guardare i suoi occhi? Ma come puoi farlo, se dorme? E se si
sveglia?”
“È
un’occasione che dobbiamo cogliere. Dobbiamo, Arn. Non lo so perché,
ma so che dobbiamo.”
Arn
avrebbe potuto dirlo fin da prima, che lei la pensava così. La sua sorellina
non aveva che sette anni, ma quando decideva qualcosa... be’, la decideva. E
poi lui era curioso, benché spaventato. Così brancolarono un po’ per il
solaio, cercando i vestiti e mettendoseli, e poi Jen seguì Arn giù per la
scala a pioli.
Nei
bagliori morenti del fuoco poterono scorgere, sulla sua panca dall’altra parte
della stanza, la figura impettita della vecchietta che se ne stava seduta così
diritta da sembrare sveglia. Ma nello stesso tempo udirono il respiro prolungato
e uniforme del suo sonno. Piano piano, più silenziosamente che poterono,
attraversarono la stanza. Il respiro tranquillo continuò. Tremavano entrambi
dalla paura, eppure dovevano seguitare a muoversi verso l’indistinta figura
della vecchietta che sedeva così inflessibilmente eretta benché dormisse. Che
cosa stavano combinando? Lo pensarono tutti e due, ma era come se qualcosa
li spingesse ugualmente ad andare avanti in silenzio, a piedi nudi, verso quella
presenza che metteva loro paura.
“Ci
servirebbe una candela,” sussurrò Jen in un orecchio di Arn. “Dobbiamo
guardarla in faccia.” Benché questo sembrasse ancor più pericoloso, Arn
prese una candela dalla tavola e l’accese senza far rumore da una fiammella
nel camino.
Ora
che erano più vicini, l’odore della vecchietta era diventato più forte. Per
Arn era come il primo sbuffo d’aria che usciva dalla pancia di un cervo quando
il lungo coltello del babbo lo apriva per estrarne gli intestini, o il modo in
cui le foglie trattengono e conservano traccia del passaggio di un orso bruno
attraverso di esse, al punto che i capelli ti si rizzano sulla nuca prima che tu
possa renderti conto di che cosa quell’odore significhi, e quando poi lo
capisci, e ti guardi intorno con ansia cercando tuo padre, sembra che siano
stati i tuoi capelli ritti a dirtelo, anziché il tuo naso. Per Jen, invece, era
l’odore degli animaletti appena nati, una volpe che lecca i suoi piccoli
ancora bagnati nelle profondità di un’umida caverna. Un odore che le avevano
talvolta portato le tiepide folate dell’inizio della primavera.
Si
avvicinarono ancora di più, ancora di più ― la vecchietta sempre
immobile ― udendo solo i suoi respiri regolari, uniformi. Avevano creduto
di essersi ormai abituati alla presenza della vecchia signora nella casetta, ma
adesso, in piena notte, mentre tutto il mondo dormiva ed erano impegnati in una
strana ricerca che non potevano non sentire colpevole per la sua stessa
clandestinità, ella sembrava incombere su di loro.
Arn
tenne la candela davanti all’antica faccia dormiente. Se quegli occhi si
fossero aperti, Arn era sicuro che sarebbe morto per lo spavento. Ma gli occhi
non si aprirono. La faccia rugosa luccicò, bruna come il legno lucidato,
quadrati e rombi e triangoli intagliati da crepe profonde. La bocca della
vecchietta era chiusa, le labbra strette, piegate agli angoli. Grigi peli
arricciati pendevano da un neo nero sul mento infossato.
Poi,
come in sogno, Jen vide il proprio braccio tendersi con diffidenza verso quella
faccia e avvicinarsi sempre di più, di più, fino a sentir sulla mano il
tiepido alito della vecchietta, fino a toccarle una bruna palpebra rugosa e a
sollevarla dall’occhio incavato.
Ma
ciò che videro fu così strano che per lo stupore si dimenticarono quasi di
aver paura. Poiché sotto la palpebra non c’era pupilla né iride, ma una
piccola sfera trasparente e luminosa che sembrava di vetro, nella quale
intravidero come in una limpida giornata d’inverno verdi abeti e una cascata
cristallina, e alle spalle dell’impeto selvaggio dell’acqua una cupa
montagna. Sopra le cui tetre rocce, nere nuvole rotolavano le une sulle altre e
si sollevavano contro un cielo oscuro. Dopo che ebbero osservato la cascata, la montagna e le nuvole per un tempo sufficiente a non dimenticarle mai più, Jen lasciò che la vecchia pelle di quella palpebra tornasse a posto. Poi si scambiarono una lunga occhiata e senza dire una parola si ritrassero dalla vecchietta, spensero la candela e si arrampicarono di nuovo sul soppalco, dove caddero entrambi in un sonno pieno di sogni in cui campeggiavano la sinistra bellezza di una montagna, nuvole che si levavano e acqua che cadeva.
*
*
Tsuga
e la Porta Nera
La
mattina dopo, Jen e Arn si svegliarono mentre Eugenia metteva dell’altra legna
sul fuoco sotto il bollitore sibilante. Faceva freddo, c’era un freddo
pungente persino nel solaio, e i bambini rimasero avvolti nelle coperte fino al
naso per non passare di colpo dal tepore del letto ai vestiti gelati.
A
un tratto, però, rammentando ciò che avevano visto nel bel mezzo della notte,
entrambi provarono un senso di stupore e di apprensione per quel che avevano
fatto.
“Jen,”
bisbigliò Arn attraverso il tramezzo fra i due giacigli, “Jen, ti ricordi
anche tu quello che mi ricordo io?”
“Sì...”
bisbigliò Jen di rimando. “Dev’essere accaduto davvero.”
“Mi
sa che è meglio non parlarne,” disse Arn. “Tu che ne pensi?”
“Non
son sicura del perché, ma lo credo anch’io.”
“Sù,
bambini,” li chiamò Eugenia. “Mi sono accorta che siete svegli. C’è del porridge
caldo, pan di granturco e miele per colazione!”
Con
l’acquolina in bocca, si fecero coraggio e in un attimo furono ai
piedi della scaletta, davanti al fuoco che scoppiettava nel camino, a
riscaldarsi da un lato e dall’altro. La vecchietta non era ancora
tornata dal luogo misterioso ― qualunque fosse ― in cui si
recava prima dell’alba, ma sia Jen che Arn guardarono con aria colpevole verso
il suo solito posto sulla panca di legno vicino al fuoco.
Di
lì a poco Tim Hemlock rientrò dalla stalla, fermandosi sulla soglia a
scrollarsi la neve dai mocassini in modo che si potesse spazzarla fuori con un
sol colpo della scopa di vimini. Aveva munto Oky e la capra, e aveva pulito e
dato da mangiare a Oky, a Brin, al maiale e al caprone. Mise i due secchi di
latte sul ripiano refrigerante della dispensa, il punto dove
sarebbero stati più al fresco (ma non sarebbero gelati) e prima che potesse
togliersi il giaccone di pelle, la porta si aprì di nuovo e la vecchia signora,
tutta marrone nella sua pelliccia di daino, scivolò dentro non meno
scorrevolmente che se fosse stata senza gambe. E come al solito
― con la vecchia faccia bruna e raggrinzita priva di espressione,
tranne che per quell’aria decrepita che sembrava dire: “Com’è pesante
il cielo, da sorreggere!” ―
andò difilato al suo posto sulla panca e si sedette.
Si
sarebbe detto che non sapesse che i bambini, qualche ora prima,
avevano dato una sbirciatina nel profondo del suo occhio.
Le
giornate divennero più fredde e più brevi a mano a mano che l’inverno calava
su di loro dalla cima della tenebrosa mole del Monte Cascom. Il freddo gemeva
nelle travi della casetta, nei telai delle finestre, nei cardini della porta bianchi di
brina. Ed era così terribile, quel freddo, che per cento miglia
all’intorno il verde delle conifere ne diventava quasi grigio, e gli alberi
che in inverno perdono le foglie facevano scricchiolare i nudi rami contro il
cielo gelido.
Venne
la neve, e poi di nuovo, finché i sentieri per la stalla e i suoi annessi e per
la grotta nella collina somigliarono a delle gallerie. Tim Hemlock ―
quando andava a caccia per procurarsi un po’ di carne, di cui cominciavano ad
aver bisogno più disperatamente che in qualsiasi altro inverno che avessero mai
visto ― s’incamminava sulla neve alta calzando le racchette da neve più
ampie e lunghe che possedeva. Tornava nel tardo pomeriggio, poco prima che
calasse la notte, spossato ― le sopracciglia bianche di brina che a poco a poco
si liquefaceva nel tepore della casetta ― attaccava al piolo il fucile che non
aveva usato e si toglieva il giaccone di
pelle e i gambali di cuoio induriti dal gelo per appenderli alla porta. I bambini si rendevano conto di quanto
l’avevano sfinito il freddo, la neve profonda e l’interminabile marcia che
aveva sopportato. Il suo volto appariva smagrito, emaciato, e un punto su una
guancia, che una volta gli si era congelato, diventava di un rosso brillante non
appena egli si accasciava su una sedia davanti al fuoco. Spaventava i bambini
vedere il padre così stanco, benché egli si sforzasse, quando si sedevano
tutti insieme per la cena, di mostrarsi di buon umore anche se le porzioni si
facevano ogni giorno più piccole.
Un
giorno, con il cielo quasi nero già nel primo pomeriggio e una tormenta che si
librava sul Monte Cascom in attesa di piombare giù ululando, il babbo rientrò
esausto dopo aver zoppicato fino a casa dal luogo in cui era caduto sbattendo il
ginocchio sulla racchetta da neve. Eugenia gli portò una scodella di minestra
di patate ben calda ed egli vi soffiò stancamente, accogliendone il tepore fra
le dita intirizzite. Sembrava troppo stanco perfino per parlare, ma poi: “Non
ci resta che macellare il maiale,” disse a Eugenia.
Era
una prospettiva terribile, per gli Hemlock. Avevano dato al Mercante molti
mocassini e alcuni coltelli in cambio del porcellino che gli aveva portato
l’anno prima, nella speranza che per l’autunno si sarebbe ingrassato a forza
di ghiande e di granone. Ma quello mangiava e mangiava e non diventava né
grande né grosso. Era un maiale vagabondo, dal muso allungato, più selvatico
che domestico.
“Potrebbe
non esserci abbastanza cibo per Oky e Brin, e
senza di loro non possiamo sopravvivere. Proprio non ci possiamo permettere di continuare a nutrire il
maiale,” disse Tim Hemlock. “Non credo che la tormenta si scatenerà prima
di domani notte, quindi dobbiamo farlo domattina come prima cosa.”
“Non
ci sarà un granché di grasso o di carne, in quel maiale,” commentò Eugenia.
La
vecchia signora guardava dall’uno all’altro, mentre parlavano, e solo i suoi
occhi si muovevano, nelle buie e decrepite orbite.
Il
mattino dopo, così, poco prima dell’alba, ci fu del sangue sulla neve, di un
rosso vivo che a mano a mano sfumava colando fra i cristalli di ghiaccio. Il
maiale morì alla svelta, senza accorgersene, tramortito con una mazza da fabbro
e dissanguato mentre era appeso per le zampe a un cavalletto di saplings.
Arn aiutò a scuoiarlo e a tagliarne le magre carni. Eugenia e Jen ne misero da
parte le viscere e tutto il sangue che poterono. Serbarono quasi tutto
― perfino i quattro puntuti zoccoli fessi ― in modo che tutto
ciò che non si sarebbe potuto salare e seccare fosse mangiato fresco, e tutto
ciò che non si poteva mangiare fresco fosse sistemato nel punto più alto del
tetto, in un nascondiglio a prova di lupo e di orso, affinché lo congelasse
l’inverno. Ma nel pomeriggio, quando tutto fu fatto e si cominciarono a
sentire i primi morsi della tormenta, era ben poca la carne che gli Hemlock
avevano ricavato, e ancora meno era il prezioso grasso che avrebbe
dovuto dargli forza contro il freddo.
Arn
e Jen pensavano al maiale. Non avevano avuto il tempo di conoscerlo a fondo come
Oky e Brin ― specialmente Oky, la prediletta di Jen. E adesso non c’era
più, si era trasformato in braciole e magre bistecche, in fette di pancetta non
salate, in costolette, nell’occorrente per la soppressata, in budelli per
salsicce, in una pelle da conciare, in qualche ossobuco. Jen si domandava se gli
altri animali fossero consapevoli dell’accaduto, e se sentissero la mancanza
della sua compagnia, in quella stalla fredda e buia. Se lo domandava
specialmente delle capre, i cui vividi occhi dalle misteriose iridi oblunghe
sembravano saperne più di quel che dicevano. Il recinto del maiale era vuoto:
non potevano non essersene accorti, tutti quanti.
L’inverno
non finiva mai. Agli Hemlock sembrava che durasse da anni. La carne di cervo
essiccata, affumicata e conservata in salamoia, il salmone affumicato
proveniente dal fiume e il maiale congelato se n’erano andati alla svelta.
Tutto il midollo era stato estratto da tutti gli ossibuchi. Avevano della farina
di granturco, un po’ di farina di grano, della verdura secca e qualche patata
che aveva germogliato ed era ormai raggrinzita e ammuffita. Il latte di Oky e
della capra era adesso terribilmente importante, per loro. Tim Hemlock doveva
trascorrere la maggior parte della giornata fuori, in cerca di selvaggina, perché
non poteva neanche pensare di macellare Oky, o Brin, o le capre. Ma tutti loro
sapevano che l’avrebbe fatto, però, se avesse dovuto.
“Non
capisco dove siano andati a finire i cervi,” disse una notte a Eugenia mentre
i bambini dormivano. “Quest’anno non hanno svernato in nessuno dei soliti
posti. Se ne sono andati e basta. Sembra che non ci sia nessuno, in giro,
quest’inverno ― non un’alce, una volpe, una lepre, uno scoiattolo
rosso, un topo zampe-bianche, una pernice. Si direbbe che gli animali abbiano
abbandonato in massa la foresta.”
Parlava,
e lo sguardo della vecchia signora non si staccava dalla sua faccia stanca. Era
ormai da molto tempo che Tim Hemlock non provava a discorrere con lei a gesti, e
anche questa volta si limitò a crollare le spalle sconsolatamente, come se non
avesse più parole. Ed Eugenia vide quanto era esausto.
La
riserva di legna da ardere accatastata sotto il cornicione si stava
assottigliando, oltre tutto, tanto che gli Hemlock vi attingevano con
parsimonia, e la casetta non era allegra e calda come gli altri inverni. Nella
fornace vicino alla stalla il fuoco non era mai acceso. Sembrava che la foresta
che essi conoscevano così bene li avesse abbandonati. Era la loro casa e con
loro era sempre stata generosa, benché severa, ma adesso era diventata avara,
nient’altro che fredda neve e muti alberi congelati.
A
dicembre il sentiero fra la stalla e la grotta divenne una galleria, illuminata
a mala pena dalla fredda luce azzurrognola che filtrava dal soffitto di neve.
Sebbene ciò riparasse il sentiero dal vento gelido, all’interno c’era un
freddo da mozzare il fiato, come dentro un blocco di ghiaccio.
Non
fu tra i più felici, il Natale di quell’anno, benché tutti facessero del
proprio meglio. Tim Hemlock tagliò la cima di un abete del balsamo che spuntava
appena dalla neve e la portò nella casetta, ma non poterono decorarla con le
candele perché non avevano più sego. Jen e Arn presero nel solaio i personaggi
del presepe ― il bambino e i genitori scolpiti nel legno, e con loro il
bue e l’asinello ― e li sistemarono a sinistra dell’albero. I
pupazzetti sembravano a loro agio e al calduccio, intorno alla mangiatoia colma
di fieno. A destra dell’albero ― in un piccolo cerchio intorno al cervo
e all’alberello, che era un ramo dell’abete del balsamo ― misero
invece gli animali selvatici. Ma non avevano sella di cervo, che era il loro
pranzo di Natale tradizionale, e tutto ciò che riuscirono a mettere in tavola,
oltre a qualche focaccia d’avena, fu una zuppa di patate e d’avena con
dentro un po’ d’erba cipollina essiccata.
Dopo
mangiato, mentre cantavano Silent Night, Holy Night, Eugenia non poté
trattenere le lacrime. Tim Hemlock, come faceva sempre la Vigilia di Natale, andò
nella stanza da letto sul retro, si mise la mantella di pelle di cervo e la
maschera da cervo con le corna e tornò camminando lentamente, con la flemmatica
solennità dei cervi. Si guardò intorno silenziosamente, poi si sedette a
tavola. Eugenia prese il pupazzetto di zucchero d’acero che aveva fatto quella
mattina e tenendolo con attenzione sul piatto del coltello lo porse al cervo,
che lo assaggiò, si tolse il costume e divise il pupazzetto di zucchero fra
tutti i presenti. La vecchia signora osservò tutto questo con i suoi vecchi
occhi raggianti, e accettò la sua porzione di dolce con un cenno del capo.
Poi,
quando si riunirono intorno al fuoco e venne il momento di una buona storia, Tim
Hemlock raccontò quella che aveva udito da suo nonno su Tsuga, un grande
cacciatore dell’Antica Gente conosciuto anche come Va-troppo-lontano.
Jen e Arn la sapevano a memoria, ma erano sempre felici di ascoltarla di nuovo,
perché il padre, raccontandola, cambiava: i suoi occhi diventavano più
luminosi, e la voce e i gesti si riempivano di un’eccitazione che lo
rendeva più simile a loro.
“Si
dice,” cominciò Tim Hemlock, “che l’Antica Gente non vide mai i suoi Dei,
poté solo udirne le voci nell’acqua, nel vento, nel tuono...” E andò
avanti con la vecchia storia narrando loro di quando Tsuga, mentre cacciava in
terre remote e selvagge, capitò su una montagna sconosciuta e ne risalì le
anguste valli finché non giunse dinanzi a una porta di pietra nera. Le impronte
del cervo che stava inseguendo terminavano lì, davanti a quella pietra. Qualche
versione della storia che il nonno di Tim Hemlock gli aveva raccontato diceva
che la pietra era sostenuta da enormi cardini, altre sostenevano che si trattava
invece di una pietra in bilico, che oscillava sul suo fulcro. Tsuga allungò una
mano per toccarla, ma in quel momento udì la voce del tuono e la ritirò
spaventato, perché il tuono era ovunque, intorno a lui, benché il cielo fosse
azzurro.
A
dispetto della paura Tsuga era comunque curioso, da uomo che non si era mai
trattenuto dall’andare a vedere che cosa ci fosse dall’altra parte di una
collina, aveva sempre guadato anche i fiumi più larghi e aveva braccato tutte
le prede finché non le aveva raggiunte. Rimase lì a tremare dinanzi alla
pietra, poi allungò di nuovo una mano per toccarla. Attonito, la vide ruotare
lentamente aprendosi a poco a poco su una fitta tenebra, dalla quale scaturì
una voce profonda: “Dove sono i tuoi bambini?” domandò la voce, triste come
il vento. “Dove sono i tuoi bambini?”
“Sono
al sicuro a casa,” riuscì a dire Tsuga, benché la sua voce tremasse.
“Nessun
posto è sicuro,” rispose quella voce che sembrava fatta di vento.
“Perché
non posso vederti?” domandò Tsuga, la cui curiosità era più forte della
paura.
“I
tuoi occhi non vedono altro che ciò che devi uccidere. Dove sono i tuoi bambini?”
Era
più vento che voce, adesso, e si dissolse,
mentre la roccia nera lentamente si
richiudeva, nel suono che in
autunno fa il vento tra gli alberi.
Tsuga
ritornò a casa, viaggiando per parecchi giorni dall’alba al tramonto e dal
tramonto all’alba. Era il sole a indicargli la strada, e di notte le stelle, e
non si fermava che per mangiare un po’ di carne fredda o di focaccia d’avena
quando cominciava a sentirsi debole per la fame. Orsi, cervi, lupi e ogni altro
animale di quelle terre selvagge gli si mostravano senza timore, comprendendo
che non avrebbe interrotto la corsa per dar loro la caccia. Non tese mai
l’arco né sguainò il coltello, durante quel lungo viaggio, e quando infine
arrivò a casa scoprì che tutte le sue provviste erano bruciate e la sua
famiglia era sul punto di morire di fame. Allora, benché fosse così debole che
a malapena poteva tendere l’arco, vide che doveva al più presto procurare
loro del cibo. E mentre si voltava sulla soglia della casetta, un vento riarso
venne a lui attraverso gli alberi con un lungo sospiro, e un leggiadro cerbiatto
dalla coda bianca, una femmina, uscì dalla foresta guardandolo tristemente, in
attesa della sua freccia.
“Per
tutta la vita,” disse Tim Hemlock, “Tsuga cercò di ritrovare la Porta Nera,
perché era l’unica soglia che non aveva varcato, ma non la trovò mai. Quando
i figli dei suoi figli furono adulti, ed egli era ormai un vecchio dai
capelli bianchi e dalla pelle rugosa, partì per una lunga stagione di caccia
dalla quale non fece ritorno. E la gente disse che alla fine doveva averla
ritrovata, la Porta Nera.”
Il
vento gemette contro le finestrelle della casupola, e uno sbuffo sceso giù per
il camino dissuase per un istante il fuoco dall’alzarvisi. Tim Hemlock taceva,
ora, e i suoi occhi fissavano pensierosi qualcosa che non era in quella tiepida
stanza. Arn si domandò dove fossero finiti, i pensieri del babbo, e per un
attimo si sentì solo.
Quando
furono a letto, dove andavano tutti presto (tranne la vecchia signora) per non
consumare troppa legna e stare al caldo, Eugenia disse a Tim Hemlock: “Ma
perché è ancora qui, quella vecchia? Non fa che star lì seduta senza dire una
parola, e si mangia quel po’ di cibo che ci è rimasto. Perché è dovuta
venire proprio quest’inverno?”
“Mangia
pochissimo,” disse Tim Hemlock. “Non possiamo mica buttarla fuori al freddo
a morire.”
“Certo
che no. Non volevo dir questo! Ma se soltanto se ne fosse andata in autunno!
Perché mai è dovuta arrivare proprio in questo terribile inverno?”
“Non
lo so. Non ha voluto rispondermi, quando ho provato a domandarle chi sia e da
dove venga. Si direbbe che le domande non le capisca. Eppure si trattava di semplici
domande in quella sua lingua. Forse è solo una vecchia vagabonda che è
sopravvissuta a tutta la sua famiglia. Se supera l’inverno, se ne andrà da
qualche altra parte. Lo sai, lei crede d’aver pagato il suo sostentamento con
quelle scatoline e quei funghi.”
Eugenia
sospirò. “Sì, lo so... Ma a che cosa serviranno tutte quelle polveri?” “A caval donato...” disse Tim Hemlock. “Verdure selvatiche, funghi, tuberi, erbe... Sono tante le cose che non sappiamo...”
“Ma
di che cosa parlate con le mani? Non potresti chiederglielo?”
“Parla
per enigmi. Non vuol rispondere alle mie domande. Dovrò scoprire le risposte in
qualche altro modo.”
“Quali
risposte?”
“So
a malapena le domande, e tu vorresti già conoscere le risposte,” disse Tim
Hemlock. E sembrava così affaticato e triste, che Eugenia cercò di non
lasciargli intravedere quanto la sua risposta l’avesse ferita.
Ma
i bambini, dal soppalco, udirono il padre e la madre discutere, e anche se non
compresero quel che dicevano, percepirono tuttavia il senso d’infelicità e di
pericolo che trapelava dalle loro voci. Il babbo e la mamma erano tristi, e non
solo perché il Mercante non era venuto e perché l’inverno sarebbe stato
lungo e terribile. Tutti e due i bambini si erano più volte domandati come mai
non avessero raccontato ai genitori ciò che avevano visto nell’occhio della
vecchia signora. Ma la ragione, lo sapevano entrambi, era che non volevano
turbare il padre e la madre in alcun modo.
“Arn,”
sussurrò Jen, “sei sveglio?”
“Sì,”
sussurrò Arn di rimando.
“Non
è stato un Natale molto allegro, vero?”
“No.”
“Chissà
com’erano, i bambini di Tsuga...” disse Jen.
Arn
ci penso sù un momento. “Come noi, forse... Ma non credo. Perché erano
dell’Antica Gente, loro... E forse la storia è inventata, comunque.”
“Forse,
anche la vecchia signora è dell’Antica Gente,” disse Jen.
“Hai
mai visto le sue impronte nella neve?” disse Arn. “Sono strane, a vedersi.
Sono impronte di mocassini, ma sono rivolte in dentro, in un certo modo, e
sembrano storte.”
Jen
non disse nulla per un po’, e poi: “Noi siamo i soli bambini che abbiamo mai
conosciuto,” osservò. “Magari gli altri bambini non sono come noi.”
“Ma
quando tu eri piccola ci fu uno straniero che passò di qui. Avevo cinque anni,
e me lo ricordo. Disse che aveva un ragazzino proprio come me.”
“Non
me lo ricordo,” disse Jen.
“Era
tutto marrone, vestito di pelle di cervo da capo a piedi, aveva i capelli castani ed era marrone dappertutto, e questo è tutto ciò che posso ricordare
oltre a quello che disse di me.”
“E
di me non disse niente?”
“Non
che io ricordi. E tu eri solo una pupetta, comunque.”
“Non
riesco a immaginare che aspetto abbia un bambino appena nato. Tranne Gesù
bambino, forse, ma lui è solo un pupazzetto di legno.”
Tacquero
entrambi per un po’. “Mi domando se Tsuga avesse una bambina della mia età,” disse Jen.
*
*
Il Mese di Ghiaccio di Ferro
Il
primo di febbraio, il mese più gelido, la catastrofe si abbatté sugli Hemlock,
e per due volte nello stesso, amaro giorno. Il latte di Oky cominciò a
esaurirsi. Ne diede meno di un quarto di litro, quella mattina. E dopo la
mungitura Tim Hemlock fu colpito da una malattia debilitante, con febbre alta. A
un tratto si sentì così stremato da poter a malapena ripercorrere barcollando
la galleria dalla stalla fino a casa e accasciarsi sudando e tremando davanti al
focherello che ardeva nel camino.
“C’è
qualcosa di strano, nell’aria,” disse. “È in arrivo un cambiamento.”
“Che
genere di cambiamento?” domandò Arn.
“Non
lo so. Sembra tutto più pesante...” disse il babbo.
Ma
Eugenia, Jen e Arn non percepivano nulla di strano, e si preoccuparono per lui
ancora di più pensando che quella sensazione fosse dovuta alla malattia. Lo
avvolsero in una grande pelliccia d’orso, scaldarono dell’acqua perché
potesse metterci i piedi ogni volta che rabbrividiva, gli misero delle pezzuole
fresche e umide sulla fronte quando la febbre saliva. Nessuno prestò attenzione
alla vecchietta, che ancora sedeva al suo posto come una scultura in legno e
continuava ad osservare ogni cosa.
Più
tardi, però, verso mezzogiorno, anch’essi cominciarono a notare qualcosa di
strano. Dapprima fu un flebile rumore che sembrava venire da ogni direzione,
quel tipo di suono quasi impercettibile che si ha l’impressione di avere nella
testa, e che poi s’insinua a poco a poco nelle orecchie mentre non ci si pensa
e a un tratto si impone di nuovo all’attenzione. A mano a mano che diventava
più forte, ognuno iniziava a domandarsi se anche gli altri lo udissero... una
sorta di lievissimo rumore d’acqua, una specie di sgocciolio come non
l’avevano più udito da quando la morsa del gelo si era chiusa su di loro alla
fine dell’autunno. Diventava sempre più forte, sempre più forte, e
all’improvviso si ritrovarono a domandarsi l’un l’altro: “Che cos’è?
Che cos’è questo rumore?” Sembrava venire da ogni parte.
Arn
andò alla porta e l’aprì. Fu accolto da un’ondata di tepore. Tiepida aria
balsamica entrò nella casetta intrufolandosi al di sopra di lui nel vano della
porta aperta, tiepida come in un caldo giorno d’estate. La volta della
galleria di neve era crollata, e il cielo azzurro, luminoso, e lo scintillio del
sole sulla neve ― una luce intensa, quale egli non vedeva da settimane
― ferirono i suoi occhi e lo abbagliarono. E i ruscelli d’acqua della
neve che si scioglieva facevano quasi un ruggito, scrosciando come piccole
cascate dalle grondaie della casetta e dai tetti della fornace e della stalla.
“Sembra
estate!” esclamò. L’aria calda, entrando a fiotti nella casupola, copriva
il tavolo e le sedie di un velo sottile quando ne toccava le superfici più
fredde.
“È
la falsa primavera!” disse Eugenia. Ma non si era mai vista una falsa
primavera così calda. Avevano già cominciato a sudare, nei loro pesanti abiti
invernali.
“Non
durerà a lungo,” disse Tim Hemlock. Ad Arn parve di sentire del timore, nella
fioca, lenta voce del babbo privo di forze, e per un attimo rabbrividì
nonostante il caldo.
Ma
l’inatteso tepore estivo fu meraviglioso per i bambini, che per tutto quel
tempo avevano avuto sempre più freddo a mano a mano che la fame cresceva in
loro. Per alcuni giorni Jen non era andata a trovare Oky nella stalla, così si
mise i suoi stivaletti impermeabili ― quelli con le cuciture spalmate di
resina d’abete ― avanzò faticosamente tra le muraglie di neve nella
melmosa fanghiglia del sentiero e andò ad aprire la porta all’aria fredda
della stalla, contenta di star portando il caldo agli animali.
“Oky?”
chiamò, mentre i suoi occhi cominciavano ad abituarsi alla penombra odorosa di
fieno. Si fece avanti, tenendosi alla ringhiera di legno, finché non ci vide di
nuovo: “Oky?”
Arrivò
al recinto di Oky e Brin. Udì i lenti movimenti dei grossi animali.
L’impiantito scricchiolò e tiepidi olezzi la avvolsero, più intensi
dell’atmosfera estiva che si era riversata nella stalla. Vide l’ampio e
umido naso di Oky, la sua larga faccia da mucca, le orecchie piegate in cima, i
bruni occhi dall’aria così gentile. E Oky diede in un profondo sospiro,
accompagnato da un suono di gola basso e mormorante, per far sapere a Jen che
era la benvenuta nella fumante e polverosa dimora invernale degli animali.
Mentre Brin, più calmo e riflessivo di Oky, emise un placido muggito, per metà
suono e per metà respiro, e rimase indietro, nel recinto quadrato, a giacere
sul fieno con le grosse zampe anteriori piegate davanti all’ampio petto
spazioso.
Talvolta
Jen era assolutamente certa di parlare con Oky, ma in altri momenti
arrivava a domandarsi se fosse proprio vero che loro due si capivano a vicenda.
Forse era lei che nella sua mente s’inventava le parole di Oky, e Oky in realtà
non le aveva affatto pronunciate. Quanto a Brin, non aveva mai l’aria di dire
un granché. Né Jen udiva mai quel che pensavano le capre. Sembravano così
sveglie, abili, astute, ma non era mai riuscita a capirle.
Oky
invece le diceva molte cose, e rispondeva alle sue domande in modi che
sembravano davvero troppo singolari per credere che Jen se li fosse immaginati
da sé. Erano pensieri da mucca, lente risposte profonde da ruminante, e non
meno ponderate di quanto erano pesanti il gran corpo e le ossa di Oky. “Oky
sa come cresce il burro”, faceva la canzone, e si sarebbe detto che
fossero parole di Oky anche quelle.
“Il
babbo sta male, Oky,” disse Jen. “E tu non ci hai dato molto latte,
stamattina. Sei malata anche tu? Spero di no.”
Oky
mosse la testa lentamente, sospirando, le grandi fauci che biascicavano piano da
una parte all’altra, e a Jen parve di udire gravi ed echeggianti parole.
Parole che raccontavano di un vitellino, un vitellino bianco e marrone dalle
lunghe zampe ancora insicure e la bella testolina ossuta, e di quanto il latte
di Oky fosse ricco di panna, al tempo in cui ella poteva ancora trasformare
l’aria tiepida e la dolce erba di trifoglio in abbondanza e nutrimento,
donatori di vita. Mentre adesso Oky era triste, triste e depressa fin nel più
profondo dei concavi abissi quadripartiti del suo essere mucca, schiacciata dal
peso della nostalgia per un luogo ove era stata una volta tanto tempo prima, per
una vasta prateria e un esile vitellino, una dolce acqua e il verde tepore
dell’erba.
Jen
fu presa dalla malinconia nel percepire l’intenso struggimento dell’amica.
Le era sempre stata così riconoscente per il latte e il burro e il formaggio
che dava loro! Era Oky che donava loro la vita, e la sua pena ― per la
perdita di quella bella e ricca prateria e del vitellino dalle lunghe zampe
ossute ― non poteva non addolorare anche la bambina come se anche lei
fosse stata felice e serena in quel luogo tanto tempo prima.
Ancor
prima che Jen tornasse a casa dalla stalla, un nuovo mutamento di clima calò
inesorabilmente su di loro dal Monte Cascom. L’aria calda fluì attraverso le
piccole radure della fattoria, corse umida fra la casupola e le sue dépendances
e fu seguita da un freddo così intenso che più che un vento fu qualcosa di
tangibile, come una muraglia in movimento. Mentre Jen camminava verso casa, le
suole degli stivaletti minacciarono di congelarsi saldandosi alla fanghiglia,
che si stava trasformando in ghiaccio trasparente. Per poco non dovette
abbandonarne uno sulla soglia. Fu sul punto di restare lì, come un albero dalle
radici ben confitte in quel ghiaccio repentino.
Nella
casupola, anche gli altri se n’erano accorti. Il tetto scricchiolava come
sotto un pugno gigantesco mentre la neve umida si tramutava in ghiaccio. Tim
Hemlock, rabbrividendo davanti al fuoco nella pelliccia d’orso, commentò:
“Adesso ogni cosa diventerà di ghiaccio massiccio. Ogni cosa diventerà dura
come il ferro.”
“Ferro...”
ripeté Arn. Ricordava vagamente qualcosa, riguardo al ferro e al ghiaccio duro
come il ferro.
“Dovremo
staccare la legna dalla catasta con le scuri,” mormorò Tim Hemlock. “E
anche le porte. Tutte le porte saranno serrate dal gelo.”
Ghiaccio
di ferro, pensava Arn. Quand’era che l’aveva già sentito?
Il
freddo non diminuì col passare dei giorni. Andava in cerca di ogni fessura, di
ogni interstizio della casupola, e vi si insinuava come un brivido. E ogni
giorno Tim Hemlock stava un po’ peggio, come se il freddo avesse trovato il
modo di penetrare in lui e lo stesse congelando giù per la gola e nel petto.
Poteva appena bere quel po’ di minestra calda che Eugenia gli preparava, e finì
col giacere su un pagliericcio davanti al fuoco tremando e boccheggiando. Arn,
coprendosi con tutti gli abiti che poteva mettersi addosso senza che gli
impedissero di muoversi, aveva scalpellato meglio che poteva le porte della
casetta e della stalla, e con l’aiuto di Eugenia e di Jen si prendeva cura
degli animali e faceva a pezzi i ciocchi che distaccava dalla catasta congelata
per trascinarli sul ghiaccio livido. Dovevano portare dei ramponi di ferro
fissati agli stivali, ma i chiodi facevano ben poca presa su quel ghiaccio, più
duro di qualsiasi altro mai visto prima.
Oky
dava loro ogni giorno meno latte. La capra ne dava la solita modesta quantità,
ma naturalmente le sue mammelle erano più piccole di quelle di Oky. Le capre
non parevano badare granché al freddo e al ghiaccio, come se dicessero: “Noi
possiamo arrampicarci ovunque, e vivere di qualsiasi cosa.” Jen, che passava
ore e ore nella stalla con Oky, aveva l’impressione di udire affermazioni del
genere, dalle capre, ma le sembrava anche che i loro pensieri fossero freddi,
altezzosi, e non la riguardassero affatto.
Finché
― un giorno che non avevano da mangiare che un pezzo di pane, delle bacche
secche e un po’ di latte annacquato ― Tim Hemlock non poté più udirli
né rispondere loro e giacque immobile con gli occhi chiusi, traendo brevi
ansiti precipitosi come i respiri di un topolino. La sua pelle era sempre più
fredda e secca. Eugenia tentò di trasmettergli un po’ di calore per dare a sé
stessa un po’ di speranza, ma in cuor suo era alla disperazione. Non avrebbe
potuto sopportare di continuare a vivere, se Tim Hemlock se ne fosse andato. E
che cosa ne sarebbe stato dei suoi poveri figlioli tanto amati? Quel gelo
spietato si sarebbe insinuato nella casetta e nei loro corpi e li avrebbe
consegnati per l’eternità al mondo remoto dei morti.
Arn
e Jen capivano quanto fosse grave la malattia del babbo, anche se Eugenia tentava
di nasconderglielo. E tuttavia non potevano credere che Tim Hemlock, che era
sempre stato così forte, li aveva sempre protetti e sempre aveva provveduto
loro, potesse ora essere così debole e malato. Gli sembrava impossibile. Se ne
sarebbero resi conto all’improvviso e come ridestandosi da un sogno, che
quell’uomo forte e silenzioso non avrebbe più parlato con loro, né udito le
loro voci, né veduto le loro lacrime.
Quella
sera, a cena, Arn non poté mangiare. La sua crosta di pane non si ammorbidiva
nella sua bocca. Restava dura come il ferro... Ferro, pensò. E fu allora
che ricordò. Era stata la vecchia signora. Erano tutti così preoccupati e
spaventati per il babbo, che non avevano più pensato alla vecchia signora. Come
se fosse un pezzo di legno posato lì sulla panca per tutto il giorno. Ma una
volta, parlando con le mani, ella aveva detto a Tim Hemlock: “Il mese di
ghiaccio di ferro sarà il peggiore.” E adesso erano proprio nel mese del
ghiaccio di ferro. Febbraio. E con questi pensieri egli fu di nuovo consapevole
del mistero della vecchia signora, che ella aveva portato con sé come un dono
quando per la prima volta era apparsa sulla soglia della casetta. E sì, erano
ancora là, sullo scaffale, tutte le sue scatoline di corteccia di betulla piene
di polverine, ciascuna con la sua piccola figura intagliata sul coperchio. Ne
rammentava qualcuno, di quei disegni di piante: pie’ d’oca, sagittaria,
radice di rosa, kinnikinic, salicornia, portulaca, acetosella. Le altre
non le aveva riconosciute... A un tratto sentì che era giunto il momento di
aprirle, quelle scatole. Se non altro perché tutte le piante che aveva
identificato erano buone da mangiare, e loro erano affamati. Cosicché prese uno
sgabello e vi salì per arrivare allo scaffale.
“Che
cosa stai facendo?” domandò Eugenia.
“Abbiamo
trovato da mangiare,” rispose Arn. “Tieni, Jen, prendile a mano a mano che
te le passo.”
“Ma
non sappiamo che cosa c’è dentro!” esclamò Eugenia.
“Lo
so io. Di qualcuna, almeno.” Chissà come, sapeva di aver ragione e che non
era ancora troppo tardi, anche se ci mancava poco. E allora gli accadde di
cogliere un movimento con la coda dell’occhio, qualcosa di bruno che si
spostava. Guardò, e con grande stupore scoprì che la vecchia signora lo stava
fissando con occhi sgranati.
Stava
parlando con lui! Aveva proteso un braccio, la mano mollemente ciondolante dal
polso. E quella mano gli rammentava qualcosa... Forse il disegno di una mano? Ma
certo! Ricordava, infatti, che sul coperchio di una delle scatole c’era la
figura di una mano come quella, graziosamente pendula... Subito la prese e la
porse alla donna.
Ella
annuì col capo, e la sua lucida vecchia faccia coperta di rughe rimase
impassibile, ma gli occhi brillarono. Protese le braccia, e le mani presero a
muoversi rapidamente ― sù e giù, avanti e indietro ― mentre le
vecchie dita deformate si muovevano anch’esse. Arn, però, non capiva nulla di
ciò che ella stava cercando di dirgli, e perse di nuovo la speranza. Ma uno
strano fenomeno cominciò piano piano a verificarsi. Mai, in seguito, avrebbe
saputo spiegarsi come successe, ma a poco a poco iniziò a comprendere ogni
cosa: e i gesti della donna, che un minuto prima non erano che gli scatti e i
guizzi privi di significato delle braccia e delle mani di una vecchia signora, a
un tratto presero a trasformarsi in acqua, in una scatola, in una polverina, in
una tazza. Altri movimenti all’improvviso significarono aprire, versare,
riscaldare, mescolare, e alla fine tutti i diversi tipi di parole
― le parole per le cose e le parole per le azioni ― divennero chiari
quasi come quelle che aveva ascoltato e pronunciato per tutta la vita.
La
vecchia signora annuì per tre volte, quando ebbe finito di parlare, ed egli
annuì per tre volte a mo’ di risposta e diede inizio ai preparativi. Jen ed
Eugenia lo osservarono stupite mentre metteva in una grande tazza la giusta
quantità di polverina marrone tratta dalla scatola con la figura della mano, ci
versava sopra un po’ d’acqua calda dalla pentola sul fuoco, aggiungeva un
pizzico di kinnikinic e un pizzico di salicornia, e infine mescolava il
tutto con un cucchiaio di legno. Quindi prese dallo scaffale le due varietà di
funghi che non avevano ancora osato assaggiare ― quelli gialli e quelli
rossi. Erano secchi, ormai, ed egli li mise nel mortaio e col pestello li
ridusse in polvere.
“Ma
che cosa pensi di fare con quella roba, Arn?” domandò Eugenia. “Potrebbe
essere pericolosa!”
“Sto
preparando una medicina per il babbo,” rispose Arn, versando i funghi macinati
nella tazza fumante.
“No!”
gridò Eugenia. “Potrebbe essere velenosa! Non sappiamo che roba sia!”
“Sei
sicuro, Arn?” disse Jen.
“No,
non sono proprio sicuro,” ribatté Arn, “ma sento che devo farlo.”
Ed
Eugenia, che sapeva che il marito stava sempre peggio e poteva morire, infine si
rese conto che per quanto fosse disperato voler tentare qualcosa che era loro
del tutto sconosciuto, tuttavia non potevano non farlo.
Quando
ebbe preparato la mistura secondo le direttive della vecchia signora, Arn
sostenne con un braccio la testa del babbo e accostò quella misteriosa
brodaglia fumante alle sue labbra. Il vapore era giallo-arancione, quasi
altrettanto denso del liquido, e Arn lo vedeva entrare nelle narici del babbo
ogni volta che egli traeva i suoi brevi respiri affannosi. Ma presto quei
respiri divennero più lunghi, tanto più lunghi quanto più vapore penetrava
nel corpo del malato, più lunghi e più leggeri, e Arn sentì il collo del
babbo abbandonarsi e rilassarsi sul suo braccio e vide che un po’ di colorito
cominciava a poco a poco a riapparire sul suo viso.
Finalmente
Tim Hemlock socchiuse gli occhi. Arn accostò la tazza alle sue labbra ed egli
bevve il brodo marroncino. Poi, quando l’ebbe bevuto tutto, richiuse gli occhi
e si addormentò profondamente ― di gran lunga troppo profondamente perché
le loro voci potessero raggiungerlo. Ma per lo meno fu un sonno dal respiro più
tranquillo.
I
suoi si volsero allora a ringraziare la vecchia signora meglio che potevano. Per
tutto l’inverno ella era stata lì, al solito posto, sulla panca di legno
vicino al camino. Ogni giorno la sua bruna e silenziosa presenza era stata lì...
Ma
adesso se n’era andata.
Non
potevano crederci. Guardarono ancora, strabuzzando gli occhi. Ma se n’era
proprio andata, tutta quanta eccetto un paio di eleganti mocassini di pelle di
cervo ordinatamente disposti l’uno accanto all’altro là dove fino a poco
prima c’erano i suoi piedi.
“Ma
non poteva uscire con questo freddo senza i suoi mocassini!” gridò Jen. Corse
alla porta, ma fuori non vide che livido ghiaccio dappertutto, e sentì l’aria
così gelida che, quando tentò di inspirare, le narici le si chiusero. Il
ghiaccio era un po’ più basso sul sentiero per la stalla, ma a perdita
d’occhio non si scorgeva che ghiaccio bluastro in ogni direzione, ondulato e
scivoloso, e nessuna traccia della vecchia signora.
Fu
allora che Jen si accorse che la porta della stalla era socchiusa. Forse era lì
che era andata! In un lampo si mise il giaccone di pelle, gli stivali e i guanti
e s’inoltrò nel gelo esterno per andare a vedere che cosa era successo.
Quando
tornò, Jen piangeva. “Anche Oky se n’è andata!” gridò. “Oh, povera
Oky! Morirà di freddo! Non troverà nulla da mangiare!”
Arn
ed Eugenia corsero nella stalla con lei, ed era proprio così. Brin e le capre
erano ancora lì, appena visibili nella semi-oscurità, ma Oky non c’era più.
E non si poteva dire quale direzione avesse preso, perché sul ghiaccio le
impronte degli zoccoli non si vedono. Era stata la vecchia signora ad aprirle il
recinto e la porta della stalla? Aveva forse portato Oky via con sé?
“Arn,
quando hai dato da mangiare agli animali hai lasciato aperta la porta della
stalla?” domandò Eugenia.
“No,
certo che no!” disse Arn.
La
più sconvolta era Jen. Amava Oky, e le era grata per il latte e il burro e il
formaggio che essa dava loro. Per Arn, invece, una mucca era fatta per dare
latte e questo era tutto, e non riusciva a capire, benché sapesse anche lui che
non potevano permettersi di perdere Oky, come mai Jen si disperasse a quel modo.
“Oky
sarà affamata!” gridò Jen. “Dove andrà a finire, sul ghiaccio, senza un
posto per dormire e senza nulla da mangiare?”
Cercarono
di rassicurarla, ma Jen non voleva essere consolata. Si misero allora i loro
abiti più caldi e aiutandosi con i ramponi fecero un ampio giro sulla pianura
di ghiaccio levigato che ricopriva i campi e la foresta, ma non trovarono alcuna
traccia di Oky, né impronte né segni di alcun genere. E quando tornarono nella
casetta, dove Tim Hemlock continuava a dormire sul pagliericcio davanti al
fuoco, Eugenia preparò una zuppa con quel po’ di cibo che avevano e vi
aggiunse qualcuna delle polverine che Arn aveva identificato grazie alle figure
incise sulle scatole di corteccia di betulla.
Jen
si calmò, a poco a poco, e mangiò un po’ di zuppa. Ma quella notte, quando
salì sulla scala a pioli del soppalco e s’infilò tra le calde trapunte, non
poté pensare che a Oky sperduta in quella landa selvaggia e misteriosa,
affamata e sola. Oky, che era stata così generosa con loro, tutta sola e senza
nessuno che l’aiutasse in quella terra crudele, così diversa dai tiepidi
campi verdeggianti per i quali si struggeva di nostalgia. Proprio in quel
momento il gelo assassino la stava forse abbattendo su un fianco, impacciata
come doveva essere su quel ghiaccio duro e scivoloso!... Jen non poteva pensare
ad altro. Non riusciva a dormire, nel suo caldo lettuccio, mentre Oky era fuori
al freddo. E così, quando tutti si furono addormentati, si alzò più
silenziosamente che poté, si mise il giaccone di pelle, i guanti dal dorso di
pelle, gli stivali con l’interno di pelle e con affilati ramponi da
ghiaccio sulle suole, si tirò sù il cappuccio con le frange e s’incamminò
nel chiaro di luna, così limpido e luminoso che sembrava di camminare nel
freddo glaciale della luna stessa.
Non
sapeva dove andare a cercarla, la povera Oky, ma doveva andare. Per prima cosa,
però, sarebbe tornata nella stalla per vedere se c’era qualcosa da scoprire,
là. Brin, forse, uscendo dalla sua calda e flemmatica magnificenza, avrebbe
potuto dirle qualcosa. O magari quelle furbone delle capre, che avevan l’aria
di saperla così lunga. Dovevano aver visto ogni cosa, quelle, attraverso le
nere fessure degli occhietti gialli.
Ristette
nell’alito della stalla, nel chiarore lunare che vi s’insinuava e
nell’odore salato del fieno e del letame, chiamando: “Brin? Brin?”
Il
bue mosse lievemente una gigantesca parte di sé ― il petto, o forse un
fianco, ma Jen non poté vederlo bene, all’inizio ― e un profondo
brontolio fuoriuscì da uno dei quattro scompartimenti del suo stomaco: “Sono
solo una bestia, io, e non capisco un granché. Oky era bella calda, e mi
aiutava a udire i rumori. E poi sapeva fiutare i lupi, e gli orsi affamati. Ma
se n’è andata, e io sono solo un bue ― forte, ma con poche idee.”
“Ma
dove è andata, Brin? Dov’è andata?”
“Seguirà
la luna, perché altrimenti come potrebbe vederci?”
“Ma
la luna va verso il Monte Cascom!”
“Perché
fai domande a un bue? Se io fossi un toro, potrei parlare con te con i
miei occhi e le mie corna.”
Alle
spalle della bambina, le capre tentennarono il capo l’una verso l’altra e
pestarono i piedi, ma i loro pensieri erano al di là della sua comprensione.
Jen
non sapeva se davvero avesse udito qualcosa, a parte i movimenti degli animali
nel recinto e gli scricchiolii delle assi congelate, ma non poté non dirigersi
là dove la luna tramontava ed era proibito andare: verso il Monte Cascom, la
tenebrosa montagna sacra dell’Antica Gente, dove solo l’Antica Gente aveva
il diritto di recarsi, se mai di essa era ancora vivo qualcuno. Del resto, non
si diceva forse che gli Dei dell’Antica Gente non sarebbero mai morti, e che
privati del loro popolo erano diventati gretti e malvagi?
Ma
Oky non sapeva niente di tutto ciò. Se solo avesse potuto raggiungerla prima
che s’avventurasse nei luoghi proibiti, Jen l’avrebbe ricondotta a casa, nel
bel calduccio della stalla. In fondo, con i suoi ramponi, lei poteva procedere
sul ghiaccio molto meglio di Oky sui suoi zoccoli sdrucciolevoli.
“Zoccoli,”
dissero le capre dietro di lei. La bambina si voltò, incerta se avesse udito
qualcosa o no. “Abbiamo tutte gli zoccoli, qui. Abbiamo zoccoli fessi.
Perfino quello che è stato ucciso. Perfino quella che se n’è andata...”
dissero le capre scrollando i velli lanosi e pestando con gli zoccoli
sull’impiantito. “Ma dov’è andata Oky?” domandò Jen, pur senza aspettarsi che le rispondessero. E a un tratto la capra belò ― un alto e insensato gracchiare nell’oscurità della stalla ― e il caprone s’inginocchiò e si rialzò di scatto con tutt’e quattro le zampe. Sembravano entrambi divertiti. Jen non poté capirli, e del resto non era sicura di aver udito davvero qualcosa, ma avvertì la loro inimicizia, sentì la freddezza e la distanza che separavano i pensieri di quegli animali dai suoi.
*
*
La Montagna e la Cascata
Jen
prese le briglie di corda di Oky e se le mise a tracolla. Uscì dalla stalla,
chiudendo con cura la porta sul suo tepore, e subito l’aria esterna, gelida e
senza vento, le entrò nelle narici e nel petto. Ed ella seppe che non sarebbe
dovuta andare da sola nella foresta su quel ghiaccio scricchiolante, liscio come
le onde di un laghetto congelato.
I
ramponi cigolarono, lamentandosi della durezza del suolo, quando ella si inoltrò
fra i muti alberi ghiacciati.
E
non appena lasciò la stalla, la casetta e i suoi annessi, fu come se stesse
andando via, via, come se si tuffasse in acque profonde, lontano dalla luce che
conosceva e dall’aria che poteva respirare liberamente. La casa si allontanò,
diventando sempre più piccola, e solo gli alberi, d’argento su un lato e neri
dall’altro, parvero continuare a muoversi intorno a lei mentre li
oltrepassava. Il rumore dei suoi ramponi d’acciaio sul ghiaccio era l’unico
suono della foresta, e perfino quei flebili cigolii sembravano essere diventati
più cupi e più desolati nel gelo circostante. I soli colori erano l’argento
e il blu scuro, e lo spazio intorno a lei non era mosso che dal suo muoversi
attraverso di esso. Si fermò per chiamare: “Oky? Oky?”, ma la sua voce suonò
troppo debole e inerme e solitaria, ed ella ne fu spaventata.
Gli
alberi, immobili nel gelo, non le risposero. Per la maggior parte abeti,
formavano su di lei un tenebroso intrico, il cui silenzio, nella calma di vento
assoluta, aveva qualcosa di innaturale. Eppure, in quegli stessi luoghi, essi
avevano sempre mormorato l’uno verso l’altro, anche se talvolta quasi
impercettibilmente. Ma ora anche il vento era morto. E lo sguardo di Jen si
perdeva in un’interminabile navata di tronchi d’albero, in fondo alla quale
non c’era che il chiarore della luna: un corridoio così lungo e uniforme che
non poteva non essere una strada o un sentiero, ella pensava, e lo pensava anche
quando arrivava alla fine e vedeva che non c’era alcuna fine, solo distese
irregolari di ghiaccio e alberi muti che di nuovo formavano altre navate in
tutte le direzioni.
La
bambina seguì la luna nel suo cammino attraverso il cielo alla volta del Monte
Cascom, e anche se la nera mole della montagna le appariva solo di quando in
quando fra i rami, lei la sentiva lo stesso, continuamente, come un peso
tremendo che gravava sul mondo. Stava andando dove né il babbo né la mamma né
suo fratello erano mai andati. L’aria morta che non poteva non respirare le
rapiva il calore interno e lo disperdeva fuori di lei in piccole nubi di vapore.
I suoi piedi diventavano a ogni passo più freddi. Era stanca, indebolita dalla
fame che per troppo tempo aveva sofferto. E le briglie di Oky, che all’inizio
le erano parse leggere, adesso si facevano di momento in momento più pesanti e
più dure, affaticando sempre di più le sue esili spalle.
“Oky!
Oky! Dove sei?” gridava, ma la sua voce si perdeva. Non c’era niente, là, a
parte lei stessa, che avesse orecchie per le sue flebili grida, e gridare quel
nome non serviva che a farla ripensare ai begli occhi castani di Oky e al loro
affettuoso calore ― sempre che il gelo non glielo avesse portato via
tutto. Poiché a quest’ora Oky poteva esser morta stecchita come il maiale che
avevano macellato, i cui rosei fianchi erano diventati così immobili e freddi
che non aveva avuto alcuna importanza che i coltelli ne facessero dei pezzi di
qualcos’altro ― pezzi che avevano nomi diversi e che non facevano più
parte di qualcosa di vivo, come prosciutto, pancetta, braciole.
Il maiale non era meno tranquillo di quei dossi di ghiaccio, dopo, ma dov’era
andata a finire la sua vita? E Oky poteva morire altrettanto facilmente, e lo
stesso poteva accadere a ogni altro essere vivente. Quel mondo di ghiaccio non
se ne sarebbe curato affatto.
“Oky?
Oky?” gridò, e rimase in ascolto. Ma non ci fu risposta, nessuna risposta.
Era come se la sua vocina non potesse andare più lontano delle sue labbra
gelate, ma Jen continuò a mettere un piede davanti all’altro, badando
attentamente a non cadere, e ad andare sempre più avanti, sempre più avanti,
sola nella foresta misteriosa.
Per
tutta la notte seguì il cammino della luna. Talvolta, mentre risaliva un lungo
pendio dove gli alberi erano più radi, il riverbero della luna sul ghiaccio
quasi ne raddoppiava la luce. Poi gli alberi si avvicinavano di nuovo,
affollandosi cupi intorno a lei, e i rami bassi, secchi come dita di scheletri,
la toccavano mentre passava.
A
poco a poco, avvicinandosi alla cima ghiacciata del Monte Cascom, la luna si
offuscò. A est, alle spalle della bambina, apparve la prima luce del nuovo
giorno, e a quel misterioso chiarore, all’inizio più tenue ma più esteso di
quello lunare, Jen cominciò a udire un lungo e ininterrotto sospiro, come se
gli Dei dell’Antica Gente piangessero la scomparsa del loro popolo. Era un
sospiro quasi impercettibile, all’inizio, ma crebbe d’intensità, a mano a
mano che la bambina si avvicinava alla montagna risalendone le prime pendici,
fino a diventare un suono furibondo, fino a tramutarsi in un urlo di uragano e
poi, alla fine, in un profondo boato: il cupo rimbombo del potere.
Jen
ne ebbe timore; non aveva mai sentito niente del genere in vita sua. Sembrava
venire da una bocca gigantesca, come se la montagna in persona espellesse
ruggendo il proprio dolore attraverso una spaccatura o un canyon. Finché,
mentre si arrampicava sempre più lentamente per la stanchezza e la paura, la
bambina sbucò su una prominenza ghiacciata, dove gli alberi si diradavano, e si
ritrovò a guardare ― giù, dentro un abisso senza fondo ― il tuono
che fino a quel momento aveva solo udito: un immenso precipizio d’acqua
spumeggiante che roteando e avvolgendosi su se stessa scorreva lentamente sulla
roccia, lassù, e da una cengia spaccata, troppo lentamente per
quell’ininterrotto ruggito, cadeva giù nell’abisso che la inghiottiva. Al
di sopra della cascata un alto abete fremeva al vento stagliandosi contro il
cielo nero, e il vento scaturiva dalla cascata stessa, dalla pressione
rimbombante e ululante dell’acqua che scendeva nel baratro con un ruggito che
valicava le nubi di vapore e di spruzzi che lo risalivano ribollendo e coprivano
le rocce di ghiaccio scintillante.
Era
lo stesso precipizio d’acqua bianca, la stessa montagna, gli stessi alberi
contorti dal vento sullo sfondo di un cielo sinistro che Jen aveva già visto
― ma silenziosi, quella volta ― nell’occhio
addormentato della vecchia signora.
La
vista di quell’immensa cascata le fece venire le vertigini, ed ella si aggrappò
con tutte le forze a un piccolo abete cercando di scacciare dalla mente
l’immagine di sé stessa che vi precipitava ― giù, sempre più giù,
fin in fondo all’abisso... Dopo un po’ si rese conto che la temperatura era
leggermente più alta, lì dove si trovava. Era forse l’attrito dell’acqua
che rendeva quel luogo più caldo?... Poi scorse quello che sembrava un
sentiero, una stretta sporgenza ― una cengia ― che correva lungo il
precipizio in direzione del centro della cascata, ed ebbe l’impressione di
scorgervi delle impronte... Sì, là, nel ghiaccio semifuso, c’era un’orma
di cervo dalle aggraziate piccole cavità, e vicino a essa delle impronte di
zoccoli più grandi che sarebbero potute essere di Oky, poiché erano molto più
larghe di quanto potesse esserlo qualsiasi impronta di cervo.
“Oky!”
chiamò, ma niente poteva sovrastare lo scroscio e il rimbombo dell’acqua.
Doveva per forza andare avanti, benché il sentiero ― se davvero era un
sentiero ― fosse così angusto e così vicino al ciglio dell’abisso che
la bambina si sentiva come se una mano la spingesse verso quell’aguzza
sporgenza per farla precipitare fin in fondo al baratro. Era stretta come una
mensola, quella pista, e dove conducesse lo si poteva solo immaginare. A stento
la si vedeva continuare lungo il bordo del precipizio, apparendo e scomparendo
nella foschia che saliva turbinando dalla cascata per poi sparirvi del tutto.
Oky doveva averla percorsa insieme a un cervo ― se le impronte erano
davvero di Oky ― ma non era tornata indietro. E Jen doveva seguirla.
Mai,
prima di allora, la bambina era stata così lontano da casa, nemmeno con il
babbo, e neanche lui era mai arrivato così vicino al Monte Cascom. Aveva paura,
e tuttavia nel cuore della sua paura c’era qualcos’altro, qualcosa di duro
come la pietra che le diceva che mai e poi mai avrebbe rinunciato all’impresa,
per quanto terribile fosse. Il babbo era malato, tutti loro stavano lentamente
morendo di fame, Oky si era perduta... Non poteva che proseguire, dunque, e
l’avrebbe fatto anche se il mondo intero si fosse rivoltato contro di lei per
distruggerla. “Andrò avanti a tutti i costi,” disse, ma il cupo ruggito
dell’acqua non le permise di udire la propria voce. Poteva sentirla dentro,
la sua vocina di bimba, ma non udirla. “Andrò avanti a tutti i costi.”
Forse
Oky era ormai soltanto una carcassa di mucca, fradicia d’acqua e tutta pesta,
che le rapide facevano ruzzolare tra gli scogli laggiù. In certi punti la cengia
era larga sì e no un piede, fra le rocce a picco e il precipizio. Ma poco dopo
la bambina scorgeva di nuovo, dinanzi a sé, la larga impronta di uno zoccolo.
“Andrò avanti a tutti i costi,” diceva allora, e la sua piccola
voce, annientata dal frastuono dell’acqua, era tutto ciò che poteva opporre
alla paura.
Jen
si trascinò lungo la stretta mensola di roccia, l’acqua che precipitava
nell’abisso rimbombò sempre più forte a mano a mano che ella si avvicinava
alla cascata, la massa d’acqua divenne così gigantesca che per un orribile
momento fu più reale e concreta d’ogni altra cosa al mondo e la bambina e il
precipizio sfrecciarono verso il cielo mentre la cascata sembrava fermarsi. Jen
si aggrappò con tutte e due le mani a una roccia coperta di muschio e chiuse
gli occhi stretti stretti, aspettando ansiosamente che quel moto spaventoso si
arrestasse. Quando aprì gli occhi, dopo un po’, sperando che il dirupo fosse
di nuovo stabile, vide di nuovo solo il livido grigiore dell’acqua che
precipitava. E proprio davanti a lei, nel muschio, c’era l’ampia impronta di
uno zoccolo di Oky. Oky era passata di là, anche se la cengia in quel punto era
così stretta che Jen non riusciva neppure a immaginare come Oky potesse aver
mantenuto l’equilibrio. I suoi larghi fianchi dovevano aver strusciato contro
la roccia.
Rabbrividì
di freddo e di paura. Per quanto facesse meno freddo, lì, rispetto alla foresta
ghiacciata, la foschia umida le si insinuava nei vestiti. E le briglie di Oky,
pesanti per l’acqua che le impregnava, gravavano sempre più sulle sue spalle.
Il
cuore della cascata era livido, e pesante come un fiotto di schegge di
cristallo, ma la bambina proseguì finché la cengia, dietro le colonne
d’acqua che precipitavano urlando e sibilando nell’immane ruggito
dell’abisso, non la condusse dinanzi a una stretta e buia fessura nella roccia
umida proprio alle spalle della cascata. Davanti ai suoi occhi, la nebbia si
precipitava turbinando in quello squarcio. Jen esitò, cercando di farsi
coraggio. Oky non poteva essere andata da nessun’altra parte che in quel buco
nero, se non era precipitata sulle rocce tra i vortici delle rapide.
La
vista di quella tenebra fu lì lì per sopraffarla; l’idea di penetrare in
quel buco, in quella caverna senza luce, andava contro tutto ciò che le era
stato insegnato in vita sua. Ma in quel momento Jen analizzò la propria paura
come se in lei, bambina di sette anni, vi fosse al tempo stesso un’altra
Jen, forse più vecchia, che conosceva gli animali e i loro linguaggi o comunque
aveva delle ben radicate teorie su di essi; una Jen che aveva guardato
nell’occhio della vecchia signora e in esso aveva scorto proprio questo luogo;
una Jen che era ormai troppo consapevole per le semplici paure dell’infanzia.
E tuttavia no, non è che fosse già troppo saggia e adulta per tali paure
― poiché esse son forse le paure più profonde che ci siano ― ma
nonostante ciò vi era qualcosa, in lei, che la spingeva a varcare quella soglia
e ad avventurarsi nell’ignoto. Si slacciò i ramponi, li legò alle briglie di
Oky e avanzò nell’oscurità. Il suolo era liscio, nel passaggio, come se
fosse stato levigato dall’acqua o dai piedi, e andava a poco a poco
digradando. La bambina avanzava a tentoni, sfiorando con una mano la parete,
liscia e bagnata, e con l’altra saggiando l’aria umida dinanzi a sé. E dopo
che ebbe brancolato a lungo, il rimbombo e il ruggito della cascata cominciarono
a diminuire, e affievolendosi risuonarono dietro di lei come un interminabile
lamento che diventava sempre più triste, sempre più cupo.
“Oky?”
chiamò, ma la sua voce riecheggiò misteriosa verso di lei, compressa dalle
rocce incombenti in un suono acuto e penetrante che sembrava venire da tutte le
parti.
Perciò
non chiamò più e risparmiò le forze, cercando la strada a tentoni. Il
passaggio di quando in quando svoltava, e a volte saliva per poi scendere di
nuovo. La bambina, gli occhi sbarrati nel buio, cercava di percepire qualche
barlume di luce sforzandosi come se la sua vista respirasse attraverso di essi e
il buio li stesse soffocando. Le sembrava di aver già percorso delle miglia in
quelle tenebre più nere della notte, più oscure di qualsiasi altro vuoto in
cui avesse mai sbarrato gli occhi fino allora.
Avanzò
a tentoni per così tanto tempo, che cominciò a pensare che non sarebbe mai più
uscita da quella nera galleria e che essa non sarebbe mai finita, sarebbe
continuata sempre più giù, diventando sempre più buia e puzzando sempre più
di caverna e di umidità a mano a mano che sprofondava nei recessi della
montagna. Ma poi, a poco a poco e impercettibilmente, l’odore cambiò. Le
sembrò sbagliato, all’inizio, e poi malinconico e colmo di nostalgia, poiché
quello che stava annusando, benché ancora fioco in quell’aria stagnante, era
senz’altro il ricco profumo delle foglie e della terra, il caldo e vivido
sentore dell’autunno. Ma lei sapeva bene che fuori era febbraio, il mese del
gelo, e che era entrata nel corridoio di pietra da un mondo di ghiaccio.
Nel
mondo che aveva lasciato c’erano la sua famiglia e la sua casa; ciascuno dei
suoi piccoli passi l’aveva portata un po’ più lontano da loro. Se adesso
quell’odore caldo e il crescente tepore dell’aria cominciavano a essere così
gentili con lei, be’, questo era semplicemente troppo indecifrabile, troppo
distante da tutto ciò che aveva lasciato dietro di sé. Pensò che doveva
tornare indietro, sentì che ogni attimo poteva essere l’ultimo in cui le
sarebbe stato ancora possibile ritrovare la sua famiglia.
Poi,
in lontananza, scorse un fioco bagliore. Iniziava già a domandarsi se i suoi
occhi avrebbero funzionato ancora, dopo che si erano così duramente affaticati
nella più completa oscurità senza poter vedere alcunché, quando li raggiunse
quel flebile barlume di luce ― una specie di aurora, con ogni probabilità
― ed ella poté procedere un po’ più rapidamente. Cominciò anche a
udire degli strani rumori, dei lievi squittii e una specie di morbidi battiti
che crescevano d’intensità a mano a mano che avanzava a tentoni verso la
luce. Era quasi come se li sentisse fisicamente, quei suoni, piuttosto che
udirli. E stava accadendo anche qualcos’altro: la fredda parete di pietra, che
per tutto il tempo aveva tastato con una mano mentre brancolava nel buio, adesso
si stava allontanando da lei e dalla piccola luce verso la quale voleva andare,
e mentre quei milioni di acuti squittii diventavano sempre più forti, ella
comprese ― dall’eco dei suoi passi e dai morbidi battiti vellutati che
si addensavano in una sorta d’invisibile nube tutt’intorno a lei ― di
essere entrata in una grande sala.
Non
vedeva nulla, poteva solo sentire quello schiamazzo e quella specie di vento
ansimante che veniva dall’alto. Proseguì, tremante, mettendo avanti prima un
piede e poi l’altro. La luce si faceva più intensa, cominciava ad avere una
forma. Doveva essere un buco nella roccia, un’altra galleria, una via verso la
luce del giorno... C’era qualcosa di molle sotto i suoi piedi, ora, più o
meno un pollice di cedevole fanghiglia, e un odore fruttato che le ricordò le
galline che avevano l’anno precedente, prima che la volpe rossa penetrasse nel
pollaio e se le portasse via tutte.
Poi
lo spiraglio di luce in lontananza ammiccò come un grande occhio, ammiccò e
luccicò, si aprì di nuovo e si chiuse finché non fu nero come tutto il resto
e la bambina rimase al buio a vacillare senza più nulla a cui aggrapparsi. Si
sentì mancare, fu lì lì per cadere in quella roba molliccia che aveva sotto i
piedi, e quando recuperò l’equilibrio, in quell’immensa e assoluta oscurità,
non aveva più la minima idea di dove fosse stata la luce. Era come quel gioco
che facevano sempre lei e Arn, in cui uno doveva chiudere gli occhi e ruotare su
sé stesso fino a non saper più dove fossero le cose nella stanza... Ma questo
la fece pensare ad Arn e alla mamma e al papà, che erano insieme nella loro
calda casetta davanti al fuoco che ardeva arancione e silenzioso, e a lei che
invece era laggiù, sola nelle viscere della montagna a cui le era stato detto
di non avvicinarsi mai, circondata dal buio e da quel rumore schiamazzante. Se
fosse inciampata e avesse fatto un capitombolo, o se si fosse data per vinta,
sarebbe caduta in quella sostanza morbida e appiccicosa che aveva l’odore che
ha la terra sotto il posatoio dei polli. Non poteva restar lì a barcollare
sull’orlo dell’ignoto. Sarebbe stata la sua fine.
La
luce riapparve, a poco a poco, non dove Jen pensava che fosse ― ma poi la
ragione le disse che no, la luce non poteva che essere dov’era stata ― e
tutto quel mondo buio ruotò su sé stesso con estrema lentezza, spietatamente,
facendole girare la testa. Squittii e battiti erano meno intensi, ora, e si rese
conto che quei suoni si erano dissolti nelle tenebre per tutto il tempo che lo
spiraglio di luce era stato chiuso, come se fossero colati via attraverso il
buco stesso. E la cosa continuava anche ora, mentre la bambina camminava verso
la luce il più rapidamente che osava permettersi: quei suoni ― i battiti
e gli squittii e gli sbuffi di vento ― fluivano intorno a lei. Poteva
anche vederli, adesso: erano delle macchioline nere sullo sfondo del chiarore e
scorrevano via a centinaia attraverso il buco, offuscandolo e facendolo
ammiccare ― quando la fluente moltitudine si assottigliava ― fino a
spegnere di nuovo la luce. Si fece più vicina a dove la corrente si trasformava
in un’impetuosa fiumana, e il frastuono divenne un’ininterrotta marea di
vibrazioni dentro la sua testa. Le macchioline nere erano più nitide, ora. Ali
coriacee che battevano, piccoli corpi scuri: era finita in una grotta di
pipistrelli, ma aveva trovato l’uscita e non ne era lontana.
Non
appena fu in grado di scorgere le rocce, cominciò ad arrampicarsi più
velocemente verso la luce. I pipistrelli continuavano a fluire intorno a lei
senza toccarla se non col vento delle loro ali. La luce diventava sempre più
intensa, tanto che all’inizio le fece male agli occhi. Intravide un cielo
azzurro, verdi cime di alberi, e il sollievo di rivedere la luce del giorno la
fece incespicare e piangere. Arrivò all’uscita, infine, e corse fuori insieme
a un nugolo di pipistrelli. Fu accolta da un piacevole tepore carico di odori
autunnali, e ai suoi piedi vide un’ampia vallata, un lago blu disseminato di
isole, vaste praterie, alberi centenari, e intorno a tutto ciò una muraglia di
colossali montagne che si perdevano in lontananza in un luccicante biancore.
La
nube di pipistrelli aleggiava sull’ingresso della caverna roteando
vorticosamente nel fulgore del giorno. Due enormi falchi volteggiavano su quel
nero turbine e a ogni istante piombavano dall’alto e dai fianchi su di esso,
che li accoglieva dentro di sé e li lasciava precipitare in linea retta al
proprio interno, mentre ciascun pipistrello ― delle migliaia che formavano
la nube ― solo all’ultimo momento si sottraeva con uno scarto ai loro
artigli inarcati. Ma poi ci fu uno scontro, nell’aria. Jen poté quasi
sentirlo. In tutto quel fluire e cadere ci fu come un colpo, in qualche punto
del vortice ci fu un intasamento, poi un altro, e un altro ancora, e
all’improvviso i due falchi ricomparvero al di sotto della nube decelerando,
le ali spalancate, le code inarcate come dei ventagli: ciascuno stringendo fra
gli artigli un pipistrello massacrato.
Un
altro pipistrello svolazzò giù e cadde a terra ai piedi della bambina, una
delle ali delicate piegata verso l’alto e lo scuro corpicino peloso
insanguinato. Tentò di volare di nuovo, ma l’ala era rotta, il fragile polso
che la sosteneva era spezzato. Jen ne fu dispiaciuta, e chinandosi sulla
bestiola la vide battere i piccoli denti e ne scorse il nasino rosa, nudo e
piatto come il muso di un maialino. Larghe orecchie appuntite sporgevano dalla
testolina piene di peluzzi bianchi. Era brutto, a vedersi, ma la bambina sapeva
che lo era solo per lei, non per sé stesso. Voleva aiutarlo. I pipistrelli
nella caverna erano stati un incubo per lei, l’avevano spaventata crudelmente,
ma in verità era stata Jen a impaurire loro e a indurli a volar fuori in pieno
giorno, quando i rapaci godono di un vantaggio che non hanno al crepuscolo o
all’alba. In qualche modo era stata lei, dunque, a provocare la sofferenza
dell’animaletto. Ma quando provò ad avvicinarglisi di più, quello sentì la
sua presenza, o la vide con i suoi occhietti come capocchie di spillo, o la udì
nell’eco dei suoi pigolii, e aprì la bocca tossendo, pieno d’odio e di
terrore, per mostrarle i dentini bianchi. Non poteva più volare, era condannato
a morte, ma non se ne rendeva conto. Era Jen a saperlo, e a capire che non
poteva aiutarlo.
Intanto
il nugolo di pipistrelli era tornato a roteare sull’ingresso della caverna e
vi rifluiva come una nube di fumo risucchiata dalla cappa di un camino. Jen si
affrettò ad allontanarsi, e da dietro un ginepro vide la grotta accoglierli di
nuovo a migliaia nel riparo delle sue tenebre. L’aria fu presto sgombra,
tiepida negli ultimi raggi del sole che calava sulle candide cime dei monti. I
falchi erano due puntini lassù, risalivano il precipizio alle sue spalle. Il
pipistrello ferito se n’era andato? No, eccolo là, immobile vicino a quel
masso e ormai abbandonato a quello speciale silenzio che indica che una creatura
ha subito ben altri danni, oltre a quelli visibili, e che per essi è morta.
Quando
il sole si dileguò dietro il bianco orizzonte lontano, l’aria si fece più
fredda e la luce mutò, divenne dorata come se la riflettessero sulla vallata
gli alti nevai che ne segnavano il confine orientale. Ma dove lei si trovava non
era inverno, e il dolce profumo del ginepro si fondeva con i vividi odori
dell’autunno. Se Oky era arrivata fin lì, era probabile che fosse ancora
viva, magari in quella verde prateria laggiù, al di là della cupa foresta. Per
un momento, l’idea che Oky potesse essere vicina le fece risentire un po’
del suo calmo tepore, poi tutto cambiò, e di nuovo le parve impossibile che si
potesse essere più spaventati e soli di quanto lo era lei. Ignorava se
quell’improvvisa debolezza scaturisse dalla paura o dalla fame. Ma tra lei e
la sua casa c’era la grotta dei pipistrelli. Non voleva neanche pensare di
rientrare in quella tenebra urlante, e anche se ci fosse tornata sapeva che
sotto l’immensa volta della caverna non sarebbe mai riuscita a trovare lo
stretto passaggio che l’avrebbe ricondotta verso casa.
“Oky?”
chiamò, ma la sua voce volò via, si perse chissà dove in quella valle
misteriosa. Aveva ancora sulle spalle le briglie della mucca e i ramponi di
ferro, e le pesavano, perciò slegò i ramponi dalle briglie, che tenne con sé,
e li lasciò su una roccia vicino all’ingresso della grotta. Voleva
allontanarsi di là e cercare di raggiungere la prateria più in basso prima
dell’imbrunire, quando i pipistrelli sarebbero rifluiti come un uragano nero
nella vallata sempre più buia. E comunque aveva paura, perché anche nella
prateria, seppure avesse trovato la strada per arrivarvi, ella sarebbe stata
sola; non sarebbe mica stato il campicello del babbo, quello, dove da ogni punto
si poteva scorgere il fumo che usciva dal comignolo della casetta.
Non
poté trovare nessuna impronta di zoccoli sulle ghiaia fuori dalla grotta, né
tanto meno aveva potuto scorgerne qualcuna alla fioca luce evanescente della
grotta, dove non osava tornare a guardare. Doveva cercare di indovinare quale
direzione Oky avesse preso e sperare di ritrovarne le tracce nei boschi, dove il
terreno è più soffice.
Il
suo giaccone di pelle era troppo caldo per camminare, adesso, ma non lo lasciò
perché sapeva che ne avrebbe avuto bisogno di notte, quando il gelo sarebbe
calato nella valle dai fianchi innevati dei monti. Si rammaricava di non aver
portato con sé il suo zainetto e un po’ di cuoio greggio per legare il
giaccone in un fagotto. Arn ci avrebbe pensato. A lui piaceva moltissimo il suo
equipaggiamento. Se soltanto fosse stato lì con lei, Jen non avrebbe avuto così
tanta paura. Lei era troppo giovane e non ne sapeva ancora abbastanza per andare
così lontano da casa, ma ormai era troppo tardi. Si mise il giaccone sotto
braccio, le briglie di Oky su una spalla, e si avviò per la discesa rocciosa. A
mano a mano che andava più giù, cominciavano ad apparire alberi e cespugli. E
il buio scendeva con lei: come il freddo, sembrava colare giù a poco a poco per
depositarsi nella valle. Jen si sentiva sempre più debole per la fame; ogni
volta che faceva un passo falso, si sentiva le ginocchia come se fossero
d’acqua calda.
In
una luce morente giunse a un acquitrino che doveva attraversare. Quando vi si
addentrò, qualcosa si mosse vicinissimo a lei, qualcosa grosso come un tronco.
Per un attimo sentì il terreno molliccio abbassarsi davanti a quel qualcosa
come se il fondo della palude prendesse la forma di un’amaca, poi la cosa si
levò dinanzi a lei sempre più alta, sempre più alta, e la bambina vide che
era un orso: un orso dalle spalle strette e massicce e dalla testa enorme.
Guardava in giù, verso di lei, avvolto nella penombra del crepuscolo,
improvvisamente immobile, valutandola. E a Jen, come le capitava talvolta con
Oky, parve di udire i profondi e rimbombanti pensieri della belva
che si facevano linguaggio. Lì per lì voleva mettersi a gridare, tentare di
scappare, ma poi quei lenti e profondi pensieri penetrarono nella sua mente con
tutta la potenza della calma e della contemplazione da cui scaturivano, e la
costrinsero al silenzio.
Che
cos’è questo animaletto?
È
abbastanza piccolo perché io lo ignori.
Ammenoché
non sia buono da mangiare...
Jen
sentì quello sguardo severo chinarsi su di lei, e nello stesso momento si vide
già abbrancata e schiacciata fra la sterpaglia dell’acquitrino. Non si vedeva
com’era, ma come un viluppo di pelo e di vestiti e di pelle, con odori che si
levavano dal suo corpo nella forma di un fioco bagliore bluastro che fluttuava e
mutava come un’aurora boreale. E i pensieri profondi dell’orso mutarono, si
fecero più incerti ed esitanti.
Questo
animaletto mi rammenta un antico pericolo.
Non
ho fame...
Non
sono arrabbiato...
Credo
che me ne andrò.
L’orso
si voltò silenziosamente, la nera mole del suo corpo ricadde prona, e il
terreno acquitrinoso riprese a muoversi a mano a mano che la belva si
allontanava con tutta calma e pesantemente attraverso la sterpaglia.
Tremando,
la bambina trasse i più profondi respiri che osò permettersi. Ogni volta che
sbatteva le palpebre, il buio sembrava diventare due volte più profondo e i
giovani abeti ai lati della palude si dissolvevano in orribili e misteriosi
abissi. Nella foresta, un uccello notturno gridava come se si fosse
improvvisamente allarmato. Jen non sapeva dove andare. Guadò faticosamente la palude fino a un punto in cui il terreno, fra gli abeti, divenne più solido. Non riusciva a vedere nulla, lì. Andare avanti in quelle condizioni poteva essere pericoloso, o addirittura impossibile. Perciò fece la sola cosa che poteva fare. Tastò fra le radici e gli aghi secchi finché non trovo uno spazio fra due radici, una cavità in cui nascondersi e raggomitolarsi. Poi, con la testa sotto il giaccone, pianse in silenzio per un po’, badando a non far rumore.
*
*
Il
Paese Nascosto
Nella
casetta di tronchi degli Hemlock, lontana da Jen parecchie miglia di ghiaccio
duro come il ferro, la gelida luce dell’alba si fece strada attraverso gli
alberi congelati, fra i quali non volavano uccelli né spirava un alito di
vento.
Sebbene
Eugenia si fosse alzata spesso, durante la notte, per mettere dell’altra legna
sul fuoco ― in modo che Tim Hemlock, addormentato su un pagliericcio
dinanzi al camino, potesse stare al caldo ― sul far del giorno la brace
era quasi spenta e la cenere era ormai fredda. La pallida luce dell’alba
passava attraverso i ghiaccioli che pendevano dalle grondaie, uniti l’uno
all’altro come dita palmate a formare degli spessi schermi fuori dalle
finestrelle della casupola. Eugenia si alzò rabbrividendo ― ma con più
speranza, perché Tim Hemlock dormiva meglio ― e ravvivò il fuoco: non
così tanto quanto le sarebbe piaciuto, perché la scorta di legna si era molto
assottigliata, ma abbastanza perché il suo giallo tepore si diffondesse in un
attimo tutt’intorno al focolare.
Arn
chiamò dal solaio: “Jen?... È lì, Jen?”
Capirono
subito che Jen se n’era andata. Non fuori, o nella stalla, ma proprio via.
E Arn poco dopo rientrò, sfregandosi i guanti sul naso gelato, per dire a
Eugenia che aveva visto le impronte dei suoi ramponi, simili ai piccoli squarci
prodotti nel ghiaccio da una piccozza, disposte in linea retta in direzione del
Monte Cascom.
“È
andata dietro a Oky,” disse Eugenia. “Oh, Jen!” Si volse verso il marito
che dormiva, guardò il suo viso bruno, scarno, sofferente, ma rasserenato dal
sonno: “Tim! Tim!” gridò. Ma egli non poteva udirla.
Arn
vide il terrore della mamma, e non ci pensò sù: “La troverò io!” esclamò.
“No,”
disse Eugenia. “Tu devi restare qui e prenderti cura del babbo. Nutrilo con
quel brodo che sai preparare tu, e bada che il fuoco non si spenga.”
“Ma
io la troverei!” replicò Arn. “Son sicuro che la troverei! Si scivola, là
fuori, potresti cadere! Mentre a me non mi succede niente, se cado. A volte lo
faccio apposta!”
“Devo
trovare Jen,” disse Eugenia.
Arn
capì che continuare a discutere con lei sarebbe stato inutile, ma prima che si
avviasse riuscì a farle bere un po’ di brodo caldo. Poi Eugenia mise un po’
di focaccia d’avena in una delle capaci tasche del suo giaccone di pelle di
cervo, per darla a Jen se l’avesse trovata, e Arn l’aiutò a fissare i
ramponi agli stivali più saldamente che poté. Quando fu pronta, baciò Arn e
Tim Hemlock e si avventurò nel gelo.
Eugenia
conosceva fin troppo bene le vecchie dicerie sul Monte Cascom e sulle sue
potenti divinità orbate del loro popolo. Ma il sentiero tracciato sul ghiaccio
dai graffi dei ramponi di Jen portava a nord-ovest, proprio verso la nera e
torreggiante montagna.
Per
tutto il giorno camminò tra gli alberi silenziosi, arrampicandosi faticosamente
sul ghiaccio con le mani e coi piedi, finché udì anche lei il lungo sospiro
che a poco a poco si trasformava in un rombo spaventoso e giunse su
quell’ultimo spuntone ghiacciato sul quale Jen si era fermata a guardare la
cascata, che l’aveva sbigottita col suo ruggito. Quando Eugenia vide lo
stretto sentiero sull’orlo del precipizio, e capì dalle impronte che Jen lo
aveva percorso e non era tornata indietro per la stessa via, ebbe paura di non
riuscire a costringersi ad andare avanti. I luoghi elevati la terrorizzavano.
Aveva sempre temuto che vi fosse in lei quasi la volontà di cadere. Ma
con gli occhi della mente le parve di scorgere il visetto dolce e determinato di
Jen, e andò avanti. Più volte, su quel sentiero viscido, pensò di essere sul
punto di arrendersi e precipitare, o di morire di paura. La cascata sembrava
voler attirarla verso il basso, sembrava voler discutere con lei con il suo
severo boato, dirle che tutto era perduto, che doveva abbandonarsi e metter fine
una volta per sempre alla paura su quelle rocce e nell’acqua laggiù.
Ma
il sentiero divenne ancora più stretto, e a un certo punto Eugenia dovette
fermarsi, aggrappata alla nera muraglia che incombeva su di lei, e pregare i
suoi nervi e la sua forza che non l’abbandonassero. Poi ― dopo ore, o
giorni, o un’intera eternità ― arrivò dietro la turbinante foschia
della cascata, là dove le altissime colonne d’acqua piombavano nel vuoto
accanto a lei e sembrava che tutto il mondo precipitasse intorno alla stretta
sporgenza di roccia a cui ella si aggrappava. Là il sentiero cessava, non
andava oltre. Finiva. Davanti a lei non c’era che roccia nera che grondava
acqua. Sotto di lei, quell’acqua che sembrava attirarla piombava giù verso la
tonante nube di vapore a centinaia di piedi più in basso. Non c’era una sola
fessura, un solo punto su cui poggiare un piede o un dito. Eugenia capì, dalle
impronte, che Jen non era tornata indietro lungo il sentiero. E dovette
convincersi che Jen e Oky erano cadute ― che altro poteva pensare? ―
e che ormai erano morte entrambe.
Per
il dolore avrebbe voluto buttarsi anche lei, cedere alla disperazione, lasciarsi
cadere. Ma non poté dimenticare che a casa c’erano suo figlio e suo marito,
che erano ancora vivi e avevano bisogno di lei. Si tenne stretta alla parete,
mantenendo l’equilibrio nonostante la gelida voce che dal fondo del precipizio
la chiamava dalle rocce e dall’acqua: Perché soffrire? Vieni, vieni giù
insieme all’acqua e falla finita con tutto. Vieni, vieni quaggiù insieme a
noi, vieni dove tutto è freddo e finito per sempre. Eugenia sentiva il
potere di quella voce, ne percepiva la forza d’attrazione come braccia
invisibili che la trascinavano verso il baratro. Ma non le si arrese, e l’atto
più coraggioso di tutta la sua vita fu proprio questa resistenza, questo suo
voltarsi, pensando alla famiglia che l’aspettava, e tornare indietro piano
piano, avanzando con infinita prudenza sull’angusta sporgenza di roccia
malgrado la terribile debolezza e la disperazione che la facevano piangere e
gridare. Poi, lontano dalla cascata, quando fu di nuovo in balia del gelo, il
vapore che le aveva impregnato gli abiti li solidificò, e dovette rompere il
ghiaccio che aveva addosso per non essere costretta a fermarsi del tutto.
Era
buio da un pezzo quando arrivò a casa, ma quella stessa luna quasi piena che
drenava il calore del mondo come un infernale magnete di ghiaccio sospeso nel
cielo le fece vedere dove metteva i piedi. Arn la stava aspettando. Tim Hemlock
dormiva ancora.
“Jen
è morta!” gridò. “È caduta nella cascata. So che è morta!”
Aveva
la febbre, era molto debole. Arn la aiutò a sfilarsi il giaccone congelato e i
gambali e la fece sedere vicino al fuoco. Non riusciva a credere che la
sorellina se ne fosse andata per sempre. Non voleva crederlo, e non
l’avrebbe creduto: sarebbe andato e l’avrebbe trovata lui stesso. Ma sapeva
che la madre non l’avrebbe lasciato andare, perciò non glielo chiese. Era
esausta, si vedeva, e tra poco si sarebbe addormentata; aspettò, dunque,
pensando a Jen sperduta sulla montagna proibita e al fatto che ora ci sarebbe
dovuto andare anche lui. Pensò anche di non farlo, di restarsene lì, vicino a
quel bel fuoco caldo ― solo lui e la mamma ed il babbo, adesso ― al
sicuro nella casetta. Ma sapeva che sarebbe andato, dal momento che non poteva
andare il babbo. Era suo dovere. La mamma era stata coraggiosa, ma non conosceva
quella terra selvaggia come lui. Il babbo gli aveva insegnato a seguire una
traccia evanescente come un respiro, a vedere un animale che non c’era, a
capire com’era fatto dai suoi escrementi o dal semplice graffio di un artiglio
sulla corteccia di un albero. Era arrivato il momento di metterle a frutto, le
conoscenze che il babbo gli aveva impartito.
E
così, quando la luna era ancora alta e i genitori entrambi addormentati, Arn si
preparò. Prese una delle piccole scatole di corteccia di betulla e vi mise un
po’ della polvere marroncina contenuta nella scatoletta con il disegno della
manina ciondolante, un po’ di portulaca in polvere e di acetosella, e un po’
di funghi secchi. Prese il pezzo di focaccia rafferma rimasto nel giaccone della
mamma, una pietra focaia e qualche esca nel borsone del babbo, quaranta piedi di
spago di canapa dallo scaffale accanto alla porta di casa, il piccolo ma
tagliente coltello con relativo fodero che il babbo aveva forgiato per lui un
anno prima, e un pentolino di ferro per il caso che avesse avuto bisogno di
cucinare. La scatoletta di corteccia d’avena, la focaccia, la corda, la pietra
focaia, le esche e il pentolino li sistemò nel suo zainetto. Il coltello se lo
mise alla cintura, assicurandone il fodero ― per non perderlo ― con
una cinghia di cuoio greggio. Lanciò un’occhiata al fucile a pietra del
babbo, ma si rese conto che per lui sarebbe stato troppo lungo e pesante perfino
se avesse sparato appoggiandolo su un sostegno. Se il Mercante fosse venuto,
quell’anno, il babbo gli avrebbe fatto un piccolo fucile, di piccolo calibro;
l’avevano progettato insieme... Ma non gli era di alcuna utilità star lì a
rimpiangere quel che non aveva. Sulla porta si mise i ramponi, si mise lo zaino
sulle spalle sopra il giaccone di pelle e tranquillamente lasciò la calda
casetta illuminata dal fuoco per avventurarsi nella foresta gelata alla luce
della luna.
Era
l’alba quando arrivò alla cengia coperta di ghiaccio su cui Jen e poi la
mamma avevano affrontato il tremendo frastuono della cascata. Si accorse subito
di trovarsi dinanzi alla stessa acqua, alla stessa roccia nera e agli stessi
precipizi incoronati di abeti che lui e Jen avevano intravisto nell’occhio
della vecchia signora. E la cosa gli parve malvagia, ma al contempo si disse che
la vecchia signora non poteva essere del tutto cattiva. Non gli aveva forse
insegnato, nel misterioso linguaggio che ora conosceva anche lui, a preparare la
medicina che aveva fatto bene al babbo?... Pur tuttavia egli sapeva che la più
grande malvagità non è mai facile da riconoscere proprio perché sovente
concede qualcosa per poi togliere di più. È paziente, sa aspettare, sa parlare
in modo persuasivo. Arn aveva appreso queste cose dalle vecchie storie in cui la
morte è raccontata come qualcosa di realmente esistente, che si accanisce
contro i buoni non meno che contro i cattivi. Si era fatto male, in passato,
qualche volta, e talvolta era stato in pena; sapeva bene che cosa accade a tutto
ciò che vive ― agli alberi, agli animali, al maialino che avevano
macellato e mangiato, all’erba alta che tagliavano in estate e in autunno. Ma
nonostante ciò trovò le impronte sulla stretta sporgenza di roccia, ne
comprese il senso così come suo padre gli aveva insegnato a fare, e andò
avanti.
In
nessun momento pensò che il suo corpo potesse tradirlo e farlo precipitare; se
la sporgenza reggeva, anche lui avrebbe retto. Era stanco e affamato, ma in
fondo era quasi un uomo, il solo uomo della famiglia che non fosse malato, e
sarebbe andato avanti finché non avesse visto da sé che cosa ne era stato
della sua sorellina ― o finché non fosse accaduto anche a lui ciò che
era accaduto a lei.
Arrivò
sullo stretto ripiano di roccia e trovò, dietro le sfreccianti colonne
d’acqua, il medesimo pertugio nero che anche Jen aveva trovato. Con l’acqua
che sibilava dietro di lui e ruggiva dal basso, si tenne aggrappato alla parete
e cercò. Sì, sulla cengia c’erano dei piccoli graffi: dovevano averli
prodotti i ramponi di Jen. Anche la mamma, a giudicare dalle impronte e da
quanto aveva detto, doveva essere arrivata fin là, ed era strano che non avesse
visto l’ingresso della grotta, o quanto meno che non gliene avesse parlato.
Per un attimo pensò di trovarsi nel posto sbagliato; ma poi si rammentò di
quel che diceva suo padre, che una traccia è un’indicazione non meno affidabile
della cosa che l’ha fatta, anche se tende a non imprimersi nella memoria con
la forza con cui la cosa si imprime nella realtà. Doveva credere a quel che gli
occhi gli mostravano, e non dubitarne mai. Jen, Oky e un cervo erano passati di
là, così come aveva fatto la mamma, ma solo le impronte della mamma tornavano
indietro. Si rese conto di essere una persona logica, pratica, a differenza di
Jen che invece tendeva a udire strane voci e a fare le cose senza pensarci bene
prima. Come la notte che a tutti i costi era voluta andare a sbirciare
nell’occhio della vecchia signora. Aveva la tendenza a fare cose di quel
genere, e per motivi che non spiegava mai.
Che
cosa mai poteva averla indotta ― si stupì ― a entrare da sola in
quell’umida caverna in cerca di una mucca? Perché mai si era data così tanta
pena per una mucca? Dato che Jen le aveva, le sue ragioni, per quel che faceva:
le sue irragionevoli ragioni. Pensò che ora sarebbe andato là dentro
anche lui, perché doveva trovare sua sorella e riportarla a casa. Per un
momento, a dispetto della paura, fu orgoglioso di sé stesso. Ma poi una vocina
gli disse che in parte erano proprio le sconosciute ragioni di Jen e la loro
autorità su di lui, ciò che gli stava dando il coraggio di penetrare là
dentro. Lei ci era entrata per prima, da sola; lui per secondo, e sapendo che
dopo tutto aveva pur sempre qualche possibilità di ritrovarsi in sua compagnia,
in quelle tenebre.
Si
tolse i ramponi e li legò allo zaino, poi fissò tutte le cinghie in modo che
lo zaino non calasse e non gli pesasse sulle spalle. Alla cintura aveva il
coltello dalla lama luccicante e lievemente ricurva che il babbo aveva forgiato
per lui e che egli aveva arrotato e lucidato. Aveva scelto con cura una parte di
un corno di cervo che fosse dello spessore giusto e la cui curvatura si
adattasse alla sua mano, e con dei rivetti aveva fissato il codolo del coltello
all’interno di esso. Aveva ricavato un fodero da due sottili pezzi di abete cured,
due pezzi che aveva unito l’uno all’altro e legati con della pelle di daino,
cucita quand’era umida in modo che seccandosi si restringesse intorno al
fodero e diventasse dura e tesa.
Slegò
la cinghia ed estrasse la lucida lama dal fodero. Era molto tagliente, era stata
affilata e resa tagliente sulla coramella come un rasoio, e l’orgoglio di aver
contribuito a farla suscitò in lui la sensazione di essere pronto a tutto, e
che quell’eccellente strumento lo avrebbe aiutato in qualsiasi cosa si fosse
trovato a dover fare. Si volse, come per dire addio alla luce. (Aveva una pietra
focaia e delle esche, nello zaino, in caso di bisogno. Ma sapeva che Jen non le
aveva avute, e voleva serbare il fuoco per le necessità più gravi). Poi entrò
nella grotta.
Il
rumore della cascata si affievolì a mano a mano che egli si addentrava nella
montagna, finché non fu che un debole sospiro sempre più lontano dietro di
lui. L’eco dei suoi passi prudenti, malsicuri, gli diceva che il passaggio era
così stretto che almeno non doveva preoccuparsi di perdere la pista. Spesso lo
allarmavano le brusche svolte e le discese del cunicolo, e una volta la sua
stessa tosse e l’eco aspra e bizzarra che le rispose. La sua mano non faceva
che stringersi sull’elsa del coltello. I suoi occhi erano sempre spalancati,
sgranati, alla ricerca di un barlume di luce. Qualche volta li chiudeva con
forza e vedeva miriadi di minuscole stelle, ma quelle ― lo sapeva ―
erano solo nella sua testa. Doveva assolutamente smetterla di immaginare mostri,
cose morte-ma-ancora-vive, pallide creature che protendevano tentacoli verso i
suoi occhi senza luce. Si costrinse a pensare al motivo per cui era lì, che non
aveva niente a che fare con i mostri o con antiche leggende: doveva trovare Jen,
possibilmente anche Oky, e ricondurle a casa. Riguardo a Oky non si faceva molte
illusioni, poiché gli sembrava proprio una cosa da pazzi che avesse lasciato la
stalla, relativamente calda, per avventurarsi in mezzo al ghiaccio. La mucca
doveva aver perduto la ragione, oppure qualcuno l’aveva fatta uscire e se
l’era portata via ― probabilmente la vecchia signora. In ogni caso,
nella faccenda dovevano essere implicate anche altre forze, oltre alla bovina
stupidità di Oky, ma Arn non aveva la minima idea di come avrebbe potuto
lottare contro di esse. Jen, invece, poteva almeno essere rimproverata ―
se fosse riuscito a trovarla.
Continuò
ad andare avanti, e dopo un lungo cammino percepì i vividi odori autunnali che
anche Jen aveva sentito. Giunse, infine, nella grande caverna, e subito
riconobbe il tanfo di pipistrelli, perché una volta gli era capitato di
fiutarlo esplorando una grotta più piccola ― una profonda rientranza
sotto una cengia, non lontano dal più occidentale dei campi del babbo. Se là
dentro c’erano dei pipistrelli, da qualche parte doveva esserci anche
un’uscita, altrimenti al crepuscolo non sarebbero potuti volar fuori in cerca
di cibo. Non ne avvertiva la presenza e non scorgeva alcuna luce, dunque doveva
essere ancora buio. Ma la prova tangibile che i pipistrelli frequentavano la
grotta era sotto i suoi piedi: un soffice strato del loro sterco. Sarebbe stato
il momento di usare la pietra focaia e le esche ― ma poi, benché morisse
dalla voglia di luce, di qualsiasi tipo di luce, pensò che se più avanti
c’era un’apertura, un po’ di luce la si sarebbe dovuta scorgere anche di
notte perfino se il cielo là fuori era molto nuvoloso, e che, se avesse
guardato il fuoco, i suoi occhi non sarebbero più stati abbastanza sensibili
per percepirla.
Iniziò
ad attraversare la grotta, dunque, saggiando il terreno davanti a sé per timore
d’imbattersi in qualche ostacolo o addirittura in un crepaccio. Finalmente,
dopo che ebbe attraversato la grotta in varie direzioni senza sapere se stesse
girando in tondo o andando a zigzag, scorse una debole foschia bluastra e andò
verso di essa, arrampicandosi su una massa di pietrisco in leggera pendenza e
sperando con tutte le forze che quella fioca caligine non fosse solo un inganno
dell’immaginazione. E a un tratto vide una stella. Vacillava, ammiccava, ma
era senza dubbio una stella, e fu come se potesse di nuovo respirare dopo che
era stato lì lì per morire soffocato. Uscì a precipizio e si fermò. L’aria era calma, là fuori, ma dopo l’atmosfera viziata della grotta gli sembrò ventosa, piena di vita. Sapeva di sconfinate distanze e d’immensi spazi aperti. Alte nubi si muovevano sul suo capo. Di tanto in tanto, qualche stella faceva capolino tra di esse. Non poteva seguire Jen al buio, perciò si allontanò un po’ dall’ingresso della caverna e trovò degli arbusti di ginepro, fra i cui rami spinosi poteva riposare fino al mattino. Lì per lì pensò di chiamarla, ma poi preferì non turbare la quiete della notte, non rivelare la propria presenza in un luogo che non poteva vedere. Era affamato. Il pensiero della focaccia nello zaino gli fece venire l’acquolina in bocca, ma l’aveva portata per Jen. Perciò, invece di pensare al cibo, decise che avrebbe tentato di concedersi un po’ di riposo, e magari di dormire.
*
Quando
Eugenia si svegliò, giù nella casetta, il fuoco era quasi spento. Ancora una
volta la grigia luce dell’alba filtrava, esangue, dalle finestre incrostate di
ghiaccio. La casa era fredda ― troppo fredda, quasi gelata. Immediatamente
si rese conto di quanto era vuota. Jen se n’era andata, era perduta per
sempre. E Arn doveva essere affamato. Aveva potuto mangiare ben poco,
ultimamente. Eugenia non aveva potuto prendersi cura dei suoi bambini... Suo
marito continuava a dormire sul pagliericcio, i suoi respiri si dileguavano in
sbuffi di vapore al di sopra delle sue scarne narici.
“Arn,”
chiamò dolcemente volgendosi verso il soppalco. “Vieni giù, Arn, ché ti
preparo un po’ di colazione...” Non ci fu risposta.
*
Arn
si destò con la sensazione che fosse passato del tempo. Aveva fatto uno strano
sogno. Ma in fondo quasi tutti i sogni sono strani... Aveva sognato di vedere
centinaia di persone che se ne stavano a conversare, o a cucinare su piccoli
fuochi, mentre alcune entravano e uscivano da casette di tronchi o da tende. Arn
non aveva mai visto più di cinque o sei persone insieme in vita sua: la sua
famiglia, il Mercante, la vecchia signora e uno straniero che rammentava appena
e di cui Jen non aveva alcun ricordo. Era successo, gli avevano raccontato,
quando aveva solo tre anni, e tutto ciò che poteva ricordare di quell’evento
era che l’ospite era un tipo robusto, dagli abiti marroni e con la barba
castana. Eppure nel sogno c’erano tutte quelle persone insieme, in quello che
non poteva essere che un villaggio, e nessuna di esse sembrava trovarlo strano.
Una
luce si levò nel cielo a oriente, delineando lentamente le cime di alte
montagne e raggiungendo di lì a poco gli innevati precipizi che delimitavano a
ovest una profonda vallata. Più la luce si faceva più intensa, più il suo
sogno si dileguava, e Arn si mise a osservare la valle e l’anfiteatro di
montagne che la racchiudeva. Sebbene il pallido sole invernale fosse lo stesso
dei giorni precedenti, il clima di quel luogo era diverso. Il sole sorgeva lungo
un angolo molto basso, e si capiva che non si sarebbe innalzato di molto, su
quei picchi, prima di cominciare a calare. Eppure nella valle non faceva affatto
freddo, come se fosse settembre o tutt’al più ottobre, anziché febbraio. Le
foglie delle giovani betulle erano gialle, proprio come se stessero per cadere,
e laggiù, sugli alti cespugli di mirtilli lungo il pendio sassoso, le piccole
bacche mature erano di un bel rosso acceso. Più in basso, al di là della
foresta d’abeti e di abeti del balsamo, c’erano un lago blu che non era
affatto ghiacciato e una verde prateria, e ancora più in là, dopo un’altra
buia foresta di sempreverdi, una nube di vapore si levava in lente volute da
quella che doveva essere una palude o uno stagno. Ovunque, tutt’intorno alla
valle, acque spumeggianti sprizzavano dal limitare delle nevi e cadevano a
fiotti sulle rocce grigie, scomparendo tra gli alberi sottostanti. La vallata
era piena di vita, mica ibernata come la gelida landa selvaggia dalla quale era
venuto!
Tornò
all’ingresso della caverna per cercare un segno del passaggio di Jen, e là,
su una roccia, vide i suoi ramponi di ferro, i piccoli ramponi che il babbo
aveva forgiato per lei. Jen non si vedeva da nessuna parte, ma su quella roccia
c’era la prova indiscutibile che era stata lì. La chiamò, allora, ma non
ebbe risposta: la gran distanza rese flebile il grido. Una leggera brezza mosse
le cime degli alberi in fondo al pendio, e la nebbia salì silenziosamente
attraverso la vallata. Arn slegò i suoi ramponi dallo zaino e li mise accanto a
quelli di Jen, in modo che se fosse tornata alla caverna da un’altra parte
vedesse che anche lui era passato di lì. Rammentando ciò che il babbo gli
aveva insegnato, cercò qualche altra traccia prima di formulare un’ipotesi
sulla direzione che la sorellina poteva aver preso. Trovò lievi tracce di
sterco di pipistrello che potevano esser state lasciate dai suoi scarponcini;
trovò una macchiolina di sangue secco, che lo atterrì finché non s’imbatté
nel pipistrello morto, ripiegato su sé stesso come un guantino grigio, e
comprese che il sangue era uscito dalle sue ferite. E poi c’erano due falchi,
lassù, che giravano lenti, planavano e osservavano ogni cosa.
Alla
fine si convinse che Jen doveva essere andata verso quei prati più in basso,
vicino al lago. Con ogni probabilità stava seguendo Oky o sperava di
ritrovarla, e a una mucca quella prateria doveva sembrare proprio un bel
posticino. Magari Arn avrebbe ritrovato le sue tracce fra quegli alberi, dove il
terreno era più soffice. E laggiù avrebbe trovato anche delle bacche
commestibili e dell’acqua, perché aveva fame e sete e sapeva che avrebbe
avuto bisogno di energia, per andare avanti.
Quando
il sole si alzò sopra la muraglia di monti, l’aria divenne più calda. Prima
di avviarsi giù per il ghiaione, il bambino si tolse la giacca, l’arrotolò
più strettamente che poté e l’assicurò allo zaino. I mirtilli erano aspri,
tuttavia ne mangiò qualcuno e se ne riempì le tasche.
Ancora
una volta, quando nelle fresche dimore verdeggianti della foresta gli alberi si
ersero su di lui come oscure torri e la luce si attenuò, gli venne fatto di
pensare alle antiche divinità di cui si diceva che risiedessero sul Monte
Cascom. Anche quella valle doveva far parte della montagna o addirittura esserne
racchiusa, se il suo senso dell’orientamento non lo ingannava. Di sicuro il
babbo non si era mai spinto fin lì. Ma la valle era splendida, dopo tutto, con
quel singolare tepore e i dolci colori autunnali. Era così facile procedere
sugli aghi d’abete invece che sul ghiaccio, come se si fosse ancora verso la
fine dell’autunno!
Dopo
un po’ arrivò allo stesso acquitrino in cui si era imbattuta Jen. Non gli
sfuggì il punto in cui un grosso animale, forse un orso, aveva spezzato e
schiacciato le piante di mirtillo. Ma lì, come d’altronde
nel bosco, il terreno si rivelò così molle e fibroso da non trattenere alcuna
impronta. Presso la palude, però, poté rivedere le ombre gettate dal sole
ormai basso, e questo gli permise di ricalcolare la propria posizione. La
prateria e il lago dovevano essere a sud, dov’è il sole a mezzogiorno.
Prima
d’inoltrarsi nei cupi corridoi di abeti, Arn ripensò a casa. Poteva fare
dietro-front, raggiungere la grotta dei pipistrelli, con l’aiuto del fuoco
ripercorrere il cunicolo fino alla cascata e di là tornare nel suo mondo. Che
era molto freddo, è vero, ma era anche il solo luogo in cui poteva ritrovare il
babbo, e la mamma, e la casetta dov’era nato. Avrebbe preferito mille volte
esser lì a tremare davanti a un misero focherello, piuttosto che qui in questo
tepore autunnale. Sì, poteva fare dietro-front e tornare a casa. Ma poi, con
gli occhi della mente, rivide i ramponi di Jen appoggiati su una roccia. Nella
sua paura e solitudine aveva cominciato a dimenticarli, ma quei ramponi erano
pur sempre là ed erano di Jen, e Jen era la sua sorellina, e anche lei ―
a dispetto del suo folle attaccamento per quella mucca ― doveva aver fame
ed esser sola.
Certo
che poteva fare dietro-front e tornare a casa. Poteva indurre il suo corpo a
farlo, ma in qualche misteriosa e oscura maniera la parte più importante di lui
― cioè l’immagine che aveva di sé ― voleva invece rimanere lì,
esser lasciata per l’eternità in quella valle aliena. Gli parve ―
quando pervenne a questa conclusione e la fuga gli fu definitivamente preclusa
― che qualcosa di libero ed egoista e innocente lo abbandonasse per
sempre, e ne ritrasse un senso di perdita e di sconforto. E tuttavia ― pur
mentre soffriva per la perdita ― al tempo stesso si sentì un po’ meno
impaurito. Fra qualche mese (se fosse sopravvissuto così a lungo, gli
disse una nuova voce dentro di lui) avrebbe avuto dieci anni e si sarebbe
avviato verso la virilità. E dieci anni sono tanti, sono un’età in cui i
ferri del mestiere cominciano a non esser più i giocattoli. Il coltello che
portava alla cintura, per esempio, per quanto piccolo, non era certo un
giocattolo, né tanto meno lo erano il suo zaino e le cose che conteneva. Ed è meglio che non lo siano, disse la nuova voce. Poiché tuo padre non è qui.
*
*
Verso la Prateria
Un
filo grigio usciva dal comignolo della casetta degli Hemlock, attanagliata dal
ghiaccio come da una gigantesca mano che tentasse di stritolarla flettendo le
gelide dita stecchite intorno al tetto e alle pareti di tronchi.
Anche
all’interno l’aria era mortalmente fredda, fatta eccezione per un piccolo
spazio dinanzi al fuoco. Tim Hemlock giaceva addormentato sul suo pagliericcio,
coperto da una pelle d’orso, e la sua bruna faccia scarnita era serena, ma del
tutto inconsapevole. Eugenia, infagottata nel giaccone, attizzava il fuoco con
cautela e di quando in quando lo alimentava con quel che rimaneva della
provvista di legna. Poteva fare ben poco altro. Si era di nuovo avventurata sul
ghiaccio sulle tracce di Arn, ma aveva finito col ritrovarsi dinanzi
all’impenetrabile muraglia dietro la terrificante cascata.
Era
rientrata così indebolita dalla fame e dalla disperazione, che a malapena era
stata in grado di slegare, tagliare e trascinare in casa quella poca legna e di
riaccendere il fuoco. Non c’era più niente da mangiare tranne le sementi che
si erano riproposti di piantare a primavera, accuratamente conservate dentro i
sacchi di canapa che pendevano dalle travi del tetto. C’era un sacco per il
granturco, e altri per i semi di pomodoro, di rapa, di cocomero, di zucca, di
fagiolo e di molti altri vegetali, inclusi il frumento e l’erba coda-di-topo.
In un buio deposito scavato sotto il pavimento della casetta c’erano le
preziose patate da semina. E per tutto quel tempo Eugenia aveva cercato di non
pensarci nemmeno, alla possibilità di servirsene come cibo... Ma dovevano pur
mangiare, se volevano sopravvivere, e così alla fine si decise a prendere un
po’ di granturco, trovò delle patate da semina che erano germogliate in un
paio di punti o più, le tagliò a metà, e con lo scarso latte che le accordò
la capra fece un po’ di zuppa, che diede al marito goccia dopo goccia
spremendola da una spugnetta. Tim Hemlock non era abbastanza cosciente per
vederla o parlare con lei, ma riuscì a mandar giù il brodino. Quando la moglie
gli sollevò la testa e le spalle per darglielo, le parve leggero come una
forcata di fieno. Benché dormisse serenamente e prendesse la zuppa, si vedeva
che era ogni giorno più magro, e il suo naso era sottile e affilato come una
lama.
Per
la prima volta dacché Eugenia ne aveva memoria, la sorgente sulla collina si
era congelata. Quando era dovuta uscire per fare a pezzi con un piccone quel
ghiaccio bluastro, si era sentita come se l’aria gelida le rubasse via il
calore stesso della vita. Se i due che erano rimasti dovevano sopravvivere, che
avessero fuoco e cibo, si era detta... Ma subito dopo non aveva potuto non
pensare ai suoi bambini, che erano precipitati nell’abisso della cascata ed
erano annegati, e si domandò come facesse a stare ancora lì a preoccuparsi se
sarebbe morta o vissuta.
Sapeva
che Tim Hemlock aveva bisogno di un cibo più sostanzioso, e così, quando venne
il mattino e si svegliò infreddolita e dolorante nella casetta senza più
fuoco, Eugenia si vestì e andò nella stalla. Aveva deciso di tirar fuori il
caprone dalla stalla e di macellarlo. La cosa le avrebbe tolto tutta la forza
che le restava, ma suo marito doveva avere tutto il nutrimento che solo la carne
poteva dargli.
C’era
silenzio, nella penombra della stalla, quando vi entrò. Brin trasse dei lunghi
sospiri, ma non emise altro suono. Quando gli occhi della donna si abituarono
alla semi-oscurità, ella vide che le capre erano ritte l’una a fianco
all’altra, il maschio nel proprio recinto e la femmina nel suo, e che entrambi
rimanevano immobili e sgranavano su di lei i loro strani occhi giallastri. Non
muovevano la testa, non colpivano il terreno con gli stretti zoccoli com’erano
soliti fare: si limitavano a fissarla con gli occhi sbarrati come se sapessero
che cos’era
venuta a fare. Del resto, aveva in mano un cappio di corda. E in una delle sue
tasche, inguainato in un fodero di cuoio, c’era il tagliente coltello da
macellaio a lama corta.
Le
capre la fissarono. La femmina mosse le fauci una volta, ruminando, poi si fermò.
Noi sappiamo qualcosa, parevano voler dire con quell’immota tensione.
Eugenia poteva quasi udirle, le loro secche voci caprine.
Distolse
lo sguardo, uscì, chiuse la porta della stalla, fece scorrere il paletto e tornò
nella casetta, dove mise il cappio e il coltello sul tavolo e rimase a
guardarli, sbalordita dalla propria incapacità di portare a termine quel che
sapeva di dover fare. Tim Hemlock continuava a dormire. Non ce la faceva a
svegliarlo. Si sarebbe sdraiata accanto a lui sul pagliericcio, si sarebbe
coperta con la pelle d’orso e avrebbe atteso la fine. La loro piccola fattoria
sperduta in quella landa selvaggia sarebbe perita, la foresta se la sarebbe
ripresa. Gli animali però doveva liberarli ― benché sapesse che
sarebbero morti lo stesso anche loro... Tutti questi pensieri attraversarono la
sua mente mentre se ne stava lì a contemplare il marito, stranamente calma...
Ma no, non poteva abbandonarlo. Avrebbe bruciato le tavole, le panche, le
cassette e le sedie, avrebbe continuato a trasformare in cibo il grano, i
fagioli e le patate da semina finché ne sarebbero rimasti. Forse, quando anche
l’ultimo di essi se ne fosse andato, con la forza della disperazione sarebbe
riuscita ad ammazzare le capre. Era capace di caricare il fucile a pietra. Ma il
pensiero di ritornare nell’animalesco silenzio della stalla impugnando
quell’arma la sgomentò. Le capre avrebbero capito, e lei avrebbe capito loro.
Attizzò
il fuoco con forza, si sedette accanto a esso in quel che restava del calore del
suo focolare, prese una mano del marito e la tenne stretta. Benché ancora dura
e piena di calli sul palmo e sulle dita, quella mano era ridotta a pelle e ossa.
Se
davvero fosse finito tutto ― la sua vita, la sua famiglia ― ella
avrebbe almeno potuto ricordare i tempi della loro felicità, e le altre
avversità che avevano superato, gli altri brutti inverni. Lei e Tim Hemlock si
erano sposati giovanissimi, là dove vivevano i genitori di lui. Suo padre e sua
madre erano morti quando lei era ancora una bambina, ed era stato convenuto che
ella fosse affidata agli Hemlock. Se li ricordava a malapena, suo padre e sua
madre. Aveva sposato Tim Hemlock quando lei aveva sedici anni e lui diciotto.
Sapeva già, a quell’epoca, che egli aveva intenzione di addentrarsi ancor più
in profondità in quelle terre selvagge, ma non se n’era preoccupata più di
tanto. Erano entrambi giovani, forti. Lui non era mai riuscito a spiegarle per
quale motivo dovesse proprio vivere in quella landa remota, dove l’unico filo
di fumo era quello che usciva dal comignolo della loro casupola. Le era parso
che più che voler lasciarsi alle spalle il resto della gente, egli fosse in
cerca di qualcosa. Era considerato un tipo un po’ strano, chiuso in sé
stesso. Proprio come il nonno, diceva la gente, che era stato un uomo cupo e
taciturno che se ne andava per la sua strada, e a ogni stagione di caccia
spariva nella foresta per settimane, o addirittura per mesi.
Molte
volte Eugenia aveva studiato l’espressione del marito mentre scrutava il Monte
Cascom, specie la mattina presto, all’alba, quando il sole, levandosi su
quegli interminabili pendii e su quei picchi di granito, rendeva ogni albero e
ogni roccia così nitidi e vicini che la grande montagna sembrava ancor più
prossima e imponente di quanto fosse, e incombente su di loro come una muraglia.
In quei momenti Tim aveva un’aria perplessa e al contempo testarda, di
curiosità inappagata. La sera, spesso, i bambini lo inducevano a raccontare
loro qualche leggenda dell’Antica Gente e dei suoi Dei; dopo di che,
sorridendo di quelle portentose vicende, lui diceva sempre che le antiche storie
erano solo delle fiabe, e che essi non avrebbero dovuto scambiarle per fatti
realmente accaduti. Lui, però, al Monte Cascom non si era mai voluto
avvicinare.
Aiutava
la moglie a insegnare ai bambini a leggere e a far di conto, affinché
imparassero tutto ciò che una persona non può ignorare. Ma ciò che sapeva far
meglio era insegnare loro quel che bisognava sapere della foresta.
Per
un attimo le sembrò di essere arrabbiata, con lui, per averli portati così
lontano da quelli che adesso avrebbero potuto aiutarli. Ma poi si disse che Tim
era fatto così, e che lei a sedici anni lo sapeva bene come ora. Proprio per
questo aveva provato quel fremito di risentimento, prima che la preoccupazione
lo spegnesse.
Ricordò
le lunghe sere accanto al focolare, quando i bambini ascoltavano le antiche
leggende, e le parve di sentire di nuovo il tepore dei loro corpicini quando
l’abbracciavano prima di andare a dormire; ricordò che ogni notte aveva avuto
la certezza che essi dormivano nel soppalco tranquillamente, protetti contro
l’assalto dell’inverno dal calore che saliva dal focolare. Mentre ora il
soppalco era vuoto, invece, e anche lei era vuota, perfino di lacrime.
Dov’erano i suoi bambini? Il figlio e la figlia di Tim Hemlock se n’erano
andati, li avevano lasciati per sempre, erano stati portati via da un mondo
gelido che non aveva pietà per i deboli, né per i piccoli, né per nessuno.
Per
tutta risposta il vento si scagliò contro la casetta, e il ghiaccio
all’intorno risuonò come il ferro quando viene battuto. *
Jen
si destò al primo pallore argenteo del cielo, il momento più freddo della
notte. I suoi piedi avevano fatto capolino da sotto il giaccone ed erano tutti
intirizziti, così tirò sù le gambe più che poté e si appallottolò, ma
tremava ancora. Il freddo la faceva sentire ancora più sola, in quella valle
misteriosa. Un topo dalle zampine bianche si appollaiò su una radice davanti
alla sua faccia e la guardò, ma scappò via terrorizzato quando lei strabuzzò
gli occhi. Lo udì rovistare a lungo tra gli aghi d’abete coperti di brina, e
temette che non riuscisse a ricordare dov’era la sua tana. Sapeva che cosa
l’animaletto stava pensando, percepiva il terrore e l’agitazione scatenati
in lui dall’aver trovato quell’enorme animale nel bel mezzo del suo solito
percorso mattutino.
Ricordava,
confusamente, le vocine o i pensieri di altri animali che si erano imbattuti nel
suo corpo durante la notte, e le incuriosite o timorose domande che si erano
posti prima di allontanarsi da lei.
Si
alzò molto prima che il sole facesse la sua comparsa da dietro le montagne, e
di nuovo camminò tra quei lugubri abeti nella direzione in cui sperava che
fosse la prateria. C’era una livida oscurità sotto quegli abeti, un’umida e
fredda tenebra. Camminò per molto tempo sui cumuli di aghi d’abete, senza far
rumore, prima del sorger del sole. Non vide neanche un’impronta, né tracce di
alcun genere, e si domandò con ansia se in quell’ andare di qua e di là e
abbassarsi di continuo per evitare i tronchi degli alberi e i rami morti più
bassi non rischiasse di tornare indietro senza accorgersene. Aveva ancora freddo
e tremava, dopo la lunga notte all’addiaccio, e si struggeva dal desiderio di
sbucare in qualche luogo aperto, dove finalmente avrebbe potuto sentire su di sé
i raggi del sole, per quanto invernali e pallidi fossero. C’erano dei grossi
sassi e dei grovigli di rami caduti e di piante rampicanti, appena visibili
sotto la livida volta degli abeti. A un certo punto, quando si trovò a guadare
un ruscelletto, un piede le scivolò da un masso traballante dentro la nera
corrente, e gelide lame d’acqua s’infilarono dentro i suoi scarponcini.
Doveva assolutamente trovare un po’ di sole per farli asciugare insieme alle
calze prima che calasse di nuovo la notte, o i suoi piedi si sarebbero congelati
mentre dormiva. Sapeva bene quanto facilmente il calore interno poteva sfuggirle
attraverso l’umidità.
Le
sue forze stavano per esaurirsi, tanto che per la fame si fermò a estrarre una
pallina di resina da un abete e si mise a masticarla. Ne avrebbe ricavato ben
poca sostanza, ma ruminare un po’ quell’appiccicume amaro dal sentore di
abete la fece star meglio come se fosse del vero cibo. Più avanti le sembrò di vedere il chiarore di una radura, e si diresse a quella volta più svelta che poté. Si rivelò una palude di ontani, una distesa di nera acqua stagnante che serpeggiava fra i tronchi contorti. Avrebbe dovuto girarle attorno, allontanandosi dalla sua strada. Fra gli alberi che la attorniavano c’erano molti pioppi, betulle gialle e frassini rosicchiati dai castori. Corti ceppi, incisi e resi aguzzi dai loro denti, spuntavano qua e là. La palude di ontani era probabilmente l’ultima propaggine di un laghetto di castori che doveva essere molto grande. Avrebbe dovuto indovinare quale fosse la via più breve per aggirarlo. Il babbo o Arn sarebbero stati in grado di dirglielo, forse dopo aver dato una sola occhiata alle tracce lasciate dai castori, che partivano dagli alberi, correvano dentro una bassa depressione fangosa e cessavano dove l’acqua si faceva profonda. Ma lei non ne era capace, perciò decise di girare verso destra, disperandosi per non poter continuare dritta a sud, verso il sole, là dove supponeva che si trovasse la prateria ― sempre che fosse vero quel che lei pensava, che il sole di mezzogiorno indichi il sud. Era confusa, probabilmente si era smarrita, e poiché si trovava in quella valle perduta era doppiamente smarrita. Dov’era Oky, la sua amica? Si asciugò le lacrime, dicendosi che di sicuro non le sarebbero servite a nulla. I suoi piedi bagnati sciaguattavano negli scarponcini, e le pesavano a ogni passo che faceva.
*
Arn
era arrivato sulla riva di un acquitrino dove i salici crescevano in folti
cespugli. “Con i salici si fanno i fischietti,” disse ad alta voce. Aveva
chiamato Jen molte volte, durante il mattino, ma gli abeti avevano assorbito la
sua voce ed egli si era reso conto che essa non poteva essere andata molto
lontano. Ma un buon fischio, Jen avrebbe potuto udirlo. Estrasse il coltello e
recise una bacchetta di salice dello spessore del suo pollice, ne tagliò un
pezzo di circa otto centimetri e vi fece una tacca a mo’ di foro. Come il
babbo gli aveva mostrato, lo incise accuratamente tutt’intorno, a livello
della corteccia, e cominciò a picchiettare su quest’ultima col dorso della
lama per distaccarla dal legno, in modo che si sfilasse ed egli potesse aprire
un varco per l’aria in cima alla bacchetta. Dopo di che, con qualche ulteriore
aggiustamento, ottenne il suono penetrante che desiderava. Lo strumento non
sarebbe durato che qualche giorno, finché la corteccia non si fosse seccata e
rotta, ma nel frattempo egli avrebbe potuto trarne un fischio che sarebbe
arrivato due volte più lontano di qualunque grido. Quando lo ebbe finito lo
provò, sperando che Jen, se l’avesse udito, lo riconoscesse per quel che era.
Il babbo ne aveva fatto uno anche per lei, durante l’estate, e lei ci aveva
soffiato dentro finché anche le orecchie di Arn avevano cominciato a fischiare. A mano a mano che procedeva verso sud, schivando i rami bassi e avanzando con prudenza nei tratti acquitrinosi, di quando in quando si fermava per un po’ e soffiava nel fischietto. Aveva fame. Era praticamente sicuro che sarebbe stato in grado di procurarsi del cibo, in un modo o nell’altro, ma sentiva che aveva il dovere di ritrovare Jen, prima. Lei non era esperta quanto lui, riguardo ai boschi, e per quel che ne sapeva non aveva con sé un coltello né una corda, né alcunché di utile. Mentre lui aveva il pezzo di focaccia stantia che aveva serbato per lei, il pentolino di ferro e alcune delle polverine della vecchia signora. Se solo fosse riuscito a trovare Jen, avrebbe potuto darle qualcosa da mangiare, almeno.
*
A
Jen sembrava di non essersi mai mossa, da quando aveva cominciato ad aggirare lo
stagno dei castori. Andava, andava, ma ogni punto sembrava identico al
precedente. I canali d’acqua torbida potevano esser diventati un po’ meno
profondi, ma di sicuro erano più alti dei suoi scarponcini e troppo larghi per
superarli con un balzo. E poi il fondo sembrava fangoso: rischiava di
sprofondarvi fino alla cintola, se avesse tentato di guadarli, e perfino di
restare impantanata. Quindi seguitò a cercare di aggirare la palude,
inciampando sempre più spesso a causa della debolezza. Cadde molte volte,
mentre cercava di scavalcare dei rami bassi che sapeva che avrebbe potuto
spostare, se fosse stata più forte. Provava il desiderio di lasciar perdere
tutto, sdraiarsi sul terreno umido e piangere, ma sapeva che la palude doveva
pur finire da qualche parte, e che lei doveva a ogni costo tornare al sole e
asciugarsi prima che cadesse la notte. Non l’aiutava sapere che la palude, per
i castori, era la casa che essi stessi avevano reso confortevole. A loro
piacevano i suoi ammassi di rami commestibili e di corteccia, i suoi canali
d’acqua torbida. E Jen sentiva nell’aria ammuffita il loro orgoglio per il
proprio lavoro, fonte di vita e di benessere. Ma per lei quel luogo era solo una
sorta di trappola.
E
dinanzi a lei c’era sempre l’immagine di Oky, grossa e gentile, che forse
era laggiù nella prateria in attesa di darle il benvenuto con un dolce muuu
di riconoscimento. Allora si sarebbe sdraiata accanto a Oky, e sarebbe stata al
calduccio.
Finalmente
il terreno cominciò a risalire e le depressioni acquitrinose si fecero più
distanti l’una dall’altra. Le erbacce e il sottobosco cambiarono, gli alberi
divennero più alti. A mano a mano che aggirava il laghetto dei castori, pini e
ginepri prendevano il sopravvento. Grandi roveti di more dagli steli ormai nudi,
spogli di frutti, crescevano qua e là fra i ginepri, così che ella si trovò a
dover scegliere fra i rami di ginepro che le guizzavano addosso come elastici e
i barbigli uncinati dei roveti che le si abbarbicavano alle maniche e ai
calzoni, quando non le si ficcavano senz’altro nella pelle. Era quasi
impossibile scavalcare i ginepri, che la costringevano ad abbassarsi e rialzarsi
in continuazione e le facevano perdere l’equilibrio. Tentò di avanzare
carponi sotto i rami dei pini, ma quei varchi terminavano spesso contro un
ginepro o dei grovigli di more, che erano come dei bracci dentati che cercavano
di stritolarla.
Stava
tentando di scavalcare una macchia di ginepri, ciascuno dei quali aveva il
diametro della sua testa, quando a un tratto cadde dritta fra i tronchetti
rugosi, le piccole bacche di ginepro le girarono intorno come minuscole stelline
blu e si ritrovò carponi al di sotto dei rami, in una specie di cunicolo. Il
terreno era tutto calpestato da zoccoli appuntiti, e c’era odore di maiale, il
dolce-amaro, pungente odor di maiale, proprio come quello del porcile nella
stalla di casa, solo che qui era più acre, più vivace e selvatico.
Ebbe
la sensazione mai provata, ma che aveva udito descrivere, di aver violato un
confine. Non l’aveva fatto apposta; era caduta nel cunicolo per caso. Ma
sapeva che questo non importava. Tentò di arrampicarsi di nuovo fuori di là,
ma i rami che l’avevano fatta cadere erano ora rivolti dalla parte sbagliata e
non la lasciavano uscire. Piegandosi, riuscì ad avanzare giù per il cunicolo. Cinghiali,
pensò, questo posto deve appartenere a dei cinghiali. Lungo i lati, i tronchi
di ginepro erano feriti fino al midollo come da falci. Non appena si mosse, però,
udì o forse sentì sotto i piedi un rumoreggiare sordo, come di tuoni ancora
lontani in avvicinamento al di là di una montagna. Cercò una via d’uscita,
verso l’alto o di fianco, ma rami e tronchi erano troppo spessi; allora si
mise a correre, curva, benché non fosse affatto sicura della direzione dalla
quale provenivano quei tonfi. Era possibile che stesse correndo proprio verso di
loro, o che il rumore dopo tutto non fosse provocato da ciò che lei pensava
― cioè da zoccoli di cinghiali in corsa che fan tremare la terra.
L’odore
di maiale era molto forte, intorno a lei, e nello scappare non le fu certo
d’aiuto il ripensare al maialino che aveva mangiato, ai suoi lunghi fianchi
rosei, alle sue rade setole gialle e all’espressione ottusa dei suoi
occhietti. Sui quali era poi calata la mazza che lo aveva trasformato in altre
cose, e lui non c’era stato più.
Il
rimbombo era sempre più vicino. Per la debolezza e la stanchezza dovette
fermarsi; non le sarebbe servito a nulla continuare a correre. E in quel
momento, nitida e dolce al di sopra del rimbombo,
le giunse la sfacciata canzoncina di uno chickadee.
Guardò in sù e vide l’uccellino appollaiato sopra la sua testa su un ramo di
pino. Erano stati i lunghi rami bassi dell’albero a togliere il sole al
ginepro, che all’ombra del pino non era potuto crescere. Lo chickadee
si volse verso di lei e la guardò, annuendo con il nero capino e con la
pettorina. “Chicka dee dee dee,” cantò, e balzò su un ramo più
alto. La bambina vide che poteva arrampicarsi fuori dal cunicolo aggrappandosi a
quegli stessi rami. Il rimbombo era sempre più violento, e con la poca forza
che le restava ― e quel po’ di più che le diede la paura ― Jen si
tirò sù fino al primo ramo e poi si arrampicò ancora più sù, lungo il nero
tronco del pino, finché non ebbe messo tra sé e il percorso dei cinghiali una
distanza pari a quella del soppalco dal pavimento di casa sua.
Il
rombo crebbe ancora, ma adesso la bambina non era più sul suo percorso.
L’albero oscillava, ma era robusto; e a lei erano sempre piaciuti i pini
bianchi, con le loro flessuose e verdeggianti bacchette piene d’aghi
e la loro calma così risoluta. Lo chickadee saltava e danzava da un ramo
all’altro come se non avesse peso, per nulla preoccupato né da lei né dal
tuono che si avvicinava.
Sotto
di lei, il primo cinghiale arrivò al trotto battendo pesantemente il terreno.
Era marrone scuro, coperto di folti peli ruvidi ― proprio niente a che
vedere col maialino che aveva conosciuto. Era almeno quattro volte più grosso,
questo. Le sue spalle erano enormi, e dal muso allungato spuntavano quattro
grosse zanne di un giallo splendente, due sopra e due sotto, come se avesse
nella bocca lunghe lame ricurve che sbucavano da entrambi i lati. Altri
cinghiali lo seguivano, le spalle alte e i quarti posteriori inclinati
all’indietro. Si sentiva venir sù il loro odore, si vedevano le loro orecchie
pelose dimenarsi mentre trottavano. E nel loro ansimare e grugnire parve a Jen
di udire un canto o una litania che era per metà senza parole ― benché
le parole fossero probabilmente sue: “A radici, a radici, a radici,”
dicevano i loro pensieri, “A radici, a cibo, a ghiande, a ciccia, e andremo
tutti a far bisboccia!”
Le
parole, o il significato delle parole, sgorgavano dal loro ansimante andare come
se il rimbombo degli zoccoli, l’odore e le parole stesse fossero una cosa
sola. Ma lei si teneva stretta all’albero e non si muoveva.
L’ultimo
cinghiale si fermò bruscamente, tanto che gli zoccoli si conficcarono nel
terreno, e tirò sù a destra e a sinistra col rotondo naso piatto da maiale;
poi, lentamente, come se già sapesse che cosa stava per trovare, alzò la
grossa testa verso di lei. Nei suoi occhi si accese un bagliore rosso-sangue e
le zanne luccicarono di saliva, brillante avorio giallo-marrone che colava lungo
i bordi affilati. Lei non poteva più udire i suoi pensieri, adesso che quello
la fissava, ma in quegli occhi rossastri le sembrava che si specchiasse il
sangue che sentiva pulsare nelle proprie vene. Si sentì piccola, indifesa;
perfino l’albero parve diventare più esile, sotto quello sguardo. Chiuse gli
occhi per non ricambiarlo e si tenne più stretta che poteva, e quando li riaprì,
il cinghiale se n’era andato. Senza fare il più piccolo rumore.
Si
domandò se la bestia si fosse resa conto che lei aveva aiutato a macellare un
maiale e ne aveva mangiato la carne. Ma qualunque cosa il cinghiale avesse
pensato, era stata troppo oscura e profonda perché lei potesse arrivare a
comprenderla.
Il
sole si stava abbassando, ormai, e i suoi raggi erano deboli, pallidi, perché
le arrivavano attraverso i rami sopra di lei. Lo chickadee se n’era
andato, solo una ghiandaia azzurra passava in volo, alta nel cielo al di sopra
degli alberi, lanciandosi in picchiata e gridando come se fosse vicina alla
meta. Da più lontano, un’altra ghiandaia le rispose. L’aria era più
fredda, adesso. Quando Jen pesò di nuovo sui piedi umidi, si accorse che si
erano come intorpiditi ai calcagni. Era ora che si muovesse. I cinghiali si
dirigevano anche loro verso sud; non poteva che seguirli. Era preoccupata per
Oky. Che cosa le avrebbero fatto, se l’avessero trovata? I maiali mangiano
tutto ciò che trovano, ma sarebbero capaci di uccidere una mucca?
Forse
il cunicolo si sarebbe rivelato un sentiero. I cinghiali, probabilmente, lo
usavano solo per superare la macchia di ginepri e di cespugli di more. Se voleva
muoversi di là, una buona volta, doveva infilarsi di nuovo in quel budello; non
aveva scelta.
Proprio
nel momento in cui si staccò dall’albero e si lasciò cadere nel cunicolo, udì
in lontananza un lungo fischio acutissimo. Era inimmaginabile che un uccello o
un altro animale potesse lanciare un richiamo così lungo e acuto. Avrebbe
voluto pensarci sù ancora un po’, ma doveva arrivare alla fine del cunicolo
più in fretta che poteva, e trovare la verde prateria che sapeva essere laggiù,
da qualche parte verso sud...
Se
solo fosse riuscita a raggiungerla!... I boschi, i roveti, i rami contorti, le
paludi e i colpi di vento erano tutti contro di lei. I cinghiali potevano
ripresentarsi, e lei non sapeva che cosa potessero farle. Aveva violato la loro
proprietà. Ma forse la prateria non esisteva nemmeno, e dalla grotta dei
pipistrelli non aveva intravisto che un miraggio. O una distesa di muschio
fluttuante su uno smisurato abisso d’acqua.
Finalmente
il cunicolo dei cinghiali ebbe fine e si trovò in un bosco più aperto, dove
non doveva più temere che qualcosa sbucasse fuori all’improvviso alle sue
spalle. Passato il bosco, arrivò a un ampio torrente disseminato di rapide, di
rocce e di pozze profonde. Prim’ancora
di vederlo, ne udì il freddo sciaguattare e sospirare davanti a lei. E quando
vi giunse, ecco che propriò là, sull’altra sponda, c’era la prateria che
saliva a poco a poco verso sud, obliqua distesa di autentica erba. Piccoli
drappelli di alberi erano sparsi sulla sua liscia superficie ondulata, ancora
tutta verde tranne nei punti in cui il gelo le aveva aggiunto qualche tocco di
bruno. Alcuni animali, forse dei cervi, pascolavano in lontananza ai piedi di un
alto sempreverde che se ne stava da solo. Una di quelle bestie era più grossa e
tozza delle altre. Aveva una macchia bianca sul collo. A quella distanza Jen
poteva appena scorgerla, la macchia bianca. Ma era Oky.
“Oky!”
gridò, e naturalmente lo sciaguattante ruscello coprì il suono della sua voce.
Doveva attraversarlo, per andare da Oky, ma era troppo largo e profondo. E sui
massi il vapore acqueo si era condensato in glasse di ghiaccio. Un po’ più a
valle, però, un albero era caduto attraverso il torrente. Non doveva essere
troppo difficile raggiungere l’altra riva camminandoci sopra. Era un grosso
acero, marcito al centro e spaccato fino alle radici rivolte verso il cielo, ma
di sicuro avrebbe retto il suo peso, se fosse riuscita a reggersi in equilibrio
su di esso. In alcuni punti il tronco era coperto di ghiaccio, ma la bambina vi
salì lo stesso e con cautela cominciò ad avanzare piano piano al di sopra del
torrente, tenendosi in equilibrio con le braccia e le gambe. Era quasi arrivata
dall’altra parte, quando la corteccia marcia, il legno putrido e la segatura
prodotta dagli insetti del legno cedettero sotto i suoi piedi e la
scaraventarono in acqua.
Grazie
ai vestiti il colpo non fu immediato, ma nel tempo che impiegò a dibattersi
fino a una secca e a rimettersi in piedi, i suoi abiti divennero così gelidi da
paralizzarla e così pesanti che sembravano di pietra. Lame di ghiaccio la
trafissero dappertutto. Provò a camminare, ma dovette mettersi carponi e
gattonare fino a riva, dove finalmente poté rialzarsi. “Oky! Oky!” gridò,
addentrandosi nella prateria. Ma gli animali che aveva visto poco prima erano
scomparsi, portandosi via anche quello più tarchiato che lei aveva pensato
fosse Oky. Niente si muoveva, a perdita d’occhio, tranne alcuni corvi che in
lontananza vogavano sulle loro corte ali nere, ma così lontano che non poteva
udirli gracchiare. Erano ancora al sole, che invece aveva abbandonato lei e la
prateria. Una luce dorata sfiorava ancora la cima dell’alto sempreverde vicino
al quale le era parso di scorgere Oky, ma proprio in quel momento anch’essa si
tramutò in un verde cupo e tenebroso. Eppure doveva a tutti i costi cercare di
muovere le gambe fino a quell’albero. Se si fosse fermata adesso, di sicuro
sarebbe morta assiderata. Sarebbe piombata in quel sonno spaventoso contro il
quale l’avevano messa in guardia una volta, che traveste il gelo da tepore e
in men che non si dica ti toglie la vita.
Senza
più il sole, la vacua immobilità dell’aria le diede un senso di oppressione.
Le maniche si coprirono di brina e i pantaloni cominciarono a congelarsi, tanto
che quando fece i primi passi crepitarono. Camminò con quegli abiti gelati come
se fosse chiusa dentro un’armatura, lottando contro di essi a ogni passo. Le
briglie di corda, che portava ancora sotto braccio avvolte intorno alla spalla,
sembravano fatte di legno. I suoi piedi si erano intorpiditi, e il torpore
strisciava sù per le gambe, si comunicava alle palme delle mani e ai polsi
partendo dalle punte delle dita. Avanzava barcollando verso l’albero, più in
fretta che poteva, e tuttavia le sembrava sempre lontano. Come in un sogno che
aveva fatto una volta, nel quale qualcosa che ella desiderava si allontanava da
lei mentre le sue gambe e le sue braccia si muovevano così lentamente, ma così
lentamente, che sembravano fatte di melassa. Solo che da quel sogno a un certo
punto si era svegliata; mentre questa era la realtà. Da molto lontano, verso ovest, le giunse il lungo, sibilante richiamo, sùbito seguito da un altro, di qualche uccello o di chissà quale altro petulante animale che Jen era troppo stanca per poter anche solo pensare di identificare. Si era sdraiata per terra, le spighette di fieno le pungevano le guance senza farle male. Non riusciva a ricordare di essere caduta, né il momento in cui aveva toccato il suolo. Dentro era ancora calda, c’era ancora una piccola zona tiepida al centro del suo corpo, ma quel calore stava diventando sempre più debole: voleva solo riposarsi, dormire. Premuto contro le stoppie ispide e i fili d’erba schiacciati, il suo orecchio sinistro percepì un debole mormorio che sembrava scaturire dal sottosuolo, da tutte le minuscole cose vive all’interno di esso, tutte le piantine e gli animaletti che dormono i loro sonni invernali dentro la terra che giace al di sotto dei campi. Loro, in effetti, stavano semplicemente dormendo, ma il sonno in cui Jen stava pian piano cadendo non era quel genere di sonno dal quale immancabilmente ci si risveglia. Attenta! Attenta!, gridava una vocina dentro di lei contro il finto tepore che la pervadeva. Il mormorio dal sottosuolo era come un lamento, e tuttavia in qualche modo suonava indifferente al suo destino, come se, pur mentre piangeva la sua morte, non potesse al tempo stesso dimenticare che la vita altrui sarebbe continuata. Ma la bambina udì il flebile grido d’allarme che le veniva da dentro, e con le ultime forze si sollevò sulle ginocchia e gridò ancora: “Oky! Oky! Oky!” prima di essere nuovamente ghermita dal tepore del falso sonno.
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