Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
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In tempi anteriori alla navigazione a vapore, o allora più sovente di adesso, a chi passeggiasse lungo le banchine di un qualsiasi grosso porto capitava di notare gruppi di marinai bronzei in franchigia a terra, uomini in tenuta da festa, della marina da guerra o mercantile. In certe occasioni li avrebbe visti procedere a fianco o, come guardie del corpo, addirittura circondare qualche individuo eccezionale, marinaio anche lui, che avanzava nel gruppo come Aldebaran tra le stelle meno fulgide della sua costellazione. Era questo straordinario personaggio il «Bel Marinaio» di tempi meno prosaici della marina militare o mercantile. Senza mostrar segno di vanità, anzi con la naturale immediatezza di una regalità innata, sembrava accettare l’omaggio spontaneo dei compagni. Mi sovvengo di un notevole esempio. A Liverpool, ormai mezzo secolo fa, vidi all’ombra del grande muro sporco del Prince’s Dock (un ostacolo da tempo abbattuto) un marinaio semplice, così nero che avrebbe potuto essere un africano autentico, puro sangue di Cam. Una figura armoniosa di statura molto superiore alla media. Le cocche di una vivace sciarpa di seta, sciolta sul collo, danzavano sull’ebano del petto nudo; alle orecchie portava grossi anelli d’oro, un berretto scozzese con una banda pure scozzese dava risalto alla bella forma della testa. Era un caldo pomeriggio di luglio, e il suo bel volto, lucido di sudore, splendeva di gioia barbarica. Con battute gioviali a destra e a sinistra faceva balenare i denti candidi, mentre avanzava festoso in mezzo a un gruppo di compagni, un assembramento di tribù e colori di pelle che ben avrebbero figurato sfilando agli ordini di Anacharsis Cloots davanti alla tribuna della prima Assemblea francese, in rappresentanza della razza umana. A ogni spontaneo tributo reso dai passanti a quel dio nero - il tributo di un indugio, di uno sguardo e, meno di frequente, di un’esclamazione - il variopinto corteo mostrava di avere per colui che ne era la causa quello stesso orgoglio che i sacerdoti assiri avevano senza dubbio per il grande Toro scolpito, quando davanti vi si prosternavano i fedeli. Ma riprendiamo. Se anche in certi casi si esibiva a terra come una specie di Murat dei mari, il Bel Marinaio di quel periodo non aveva nulla dello snobbino Billy-va’-al-diavolo, un personaggio divertente ormai quasi estinto, che a volte si incontra, in versioni ancora più divertenti dell’originale, al timone di battelli sul tempestoso canale Erie o, più probabilmente, a fare lo sbruffone nelle bettole dell’alzaia. Immancabilmente esperto nel suo mestiere, era sempre anche un pugile e un lottatore, più o meno gagliardo. Aveva forza e bellezza. Giravano aneddoti sulle sue prodezze. A terra era il campione; a bordo il portavoce; sempre in prima linea, in ogni circostanza. Eccolo nella burrasca a far terzaruolo alle vele di gabbia, cavalcando l’estremità del pennone battuto dalla bufera, il piede nel cavallo fiammingo come in una staffa, le mani al matafione, quasi a reggere la briglia, nell’atteggiamento del giovane Alessandro che doma il fiero Bucefalo. Una figura superba, lanciata in alto dalle corna del Toro contro il cielo tempestoso, che gioiosamente incita con voce possente la strenua schiera lungo il pennone. La natura morale di rado non era in sintonia con la struttura fisica. Difficilmente infatti, se non fossero state scandite dalla prima, l’avvenenza e la forza, sempre affascinanti quando confluiscono in un corpo maschile, avrebbero suscitato quell’omaggio schietto, che il Bel Marinaio, nelle varie versioni riceveva dai compagni meno dotati. Un astro siffatto, almeno nell’aspetto e anche un po’ nell’indole, seppure con significative varianti che emergeranno con il procedere della storia, era Billy Budd dagli occhi cerulei, o Baby Budd, come finì per essere chiamato, in modo più familiare, in circostanze che saranno a tempo debito indicate - ventun anni, gabbiere di parrocchetto della flotta britannica, sul finire dell’ultimo decennio del diciassettesimo secolo. Era entrato al servizio di Sua Maestà non molto prima che si verificassero i fatti della nostra storia, reclutato d’autorità nel Canale d’Irlanda, su un mercantile inglese diretto in patria e portato sulla Bellipotent - settantaquattro cannoni - di Sua Maestà diretta al largo; una nave questa che, cosa non insolita in quei tempi burrascosi, era stata costretta a mettersi in mare senza essere al completo dell’equipaggio. Diritto su Billy, alla prima occhiata dal barcarizzo, piombò l’ufficiale di reclutamento, tenente Ratcliffe, prima ancora che la ciurma del mercantile si fosse allineata sul cassero per sottoporsi al suo accurato vaglio. E.lui solo fu scelto. Forse perché, una volta schierati, gli altri uomini sfiguravano al confronto con Billy, forse perché ebbe degli scrupoli, fatto sta che l’ufficiale si dichiarò soddisfatto di quella prima scelta d’impulso. Con sorpresa dell’equipaggio, ma con compiacimento del tenente, Billy non fece obiezioni. Ma invero, al pari della protesta del cardellino ficcato in gabbia, ogni obiezione sarebbe stata vana. Notandone l’acquiescenza docile, quasi lieta si avrebbe voglia di dire, il capitano gli scoccò un’occhiata stupita di muto rimprovero. Era costui uno di quei mortali che si incontrano in ogni mestiere, anche il più umile, il tipo di persona che tutti concordano nel definire «un uomo perbene». E - non è poi così strano come può sembrare -, pur essendo un aratore di acque procellose, da una vita intera abituato a lottare contro gli elementi indomiti, non c’era nulla che quell’animo onesto amasse di più della semplice pace e quiete. Per il resto era un uomo di cinquant’anni o giù di lì, con una tendenza alla pinguedine e un volto simpatico, senza basette, di un piacevole colorito, piuttosto pieno, con un’espressione di benevola intelligenza. Nelle giornate belle, con una bella brezza e tutto che filava liscio, una certa risonanza musicale nella voce sembrava esprimere in modo genuino e libero l’uomo autentico che era in lui. Molto prudente, molto coscienzioso, non mancavano le occasioni in cui queste virtù gli causavano soverchio turbamento. Durante la traversata, finché la nave era in prossimità della terra, non c’era sonno per capitano Graveling. Si prendeva a cuore quelle gravi responsabilità che non tutti i capitani assumevano con impegno altrettanto serio. Ora, mentre Billy Budd, giù nel castelletto di prua, era occupato a raccogliere la sua roba, l’ufficiale della Bellipotent, massiccio e rude, per nulla sconcertato dal fatto che il capitano Graveling avesse trascurato i consueti doveri dell’ospitalità in un’occasione così ingrata per lui - un’omissione imputabile soltanto alla preoccupazione - si invitò da sé senza cerimonie nella cabina e si offrì anche una borraccia dall’armadietto dei liquori, un ricettacolo che il suo occhio esperto individuò all’istante. Era infatti uno di quei lupi di mare che non si era mai visto ottundere l’istinto naturale verso il piacere dei sensi dall’asprezza e dalla perigliosità della vita marinara nelle grandi e lunghe guerre del tempo. Il suo dovere lo compiva sempre con scrupolo, ma il dovere è a volte un obbligo arido, ed egli era favorevole - non appena possibile -a irrigare quel deserto con un intruglio fertilizzante di robusta acquavite. Al titolare della cabina non rimase che recitare, con tutto il garbo e la sollecitudine che poteva racimolare, la parte dell’anfitrione coatto. Quali necessarie integrazioni della borraccia pose in silenzio davanti all’inesorabile ospite un boccale e una brocca d’acqua. Ma, scusandosi di non fargli compagnia, rimase a guardare con aria cupa l’ufficiale che, per nulla imbarazzato, con calma diluiva un po’ il suo grog per tracannarlo quindi in tre sorsate, scostare il boccale vuoto, non però così distante da non essere comodamente a portata di mano, sistemarsi sul sedile, schioccando soddisfatto le labbra e fissando diritto negli occhi il suo anfitrione. Conclusa questa procedura, il capitano ruppe il silenzio con voce nella quale indugiava un accorato rimprovero: «Tenente, mi portate via l’uomo migliore, il gioiello dell’equipaggio». «Sì, lo so», replicò l’altro tirando subito vicino il boccale per riempirselo ancora, «sì, me ne rendo conto. Mi dispiace». «Chiedo scusa, ma non vi rendete conto, tenente. Sentite un po’. Prima di imbarcare quel giovanotto, il mio castello era una topaia di litigi. Tempi brutti, ve lo dico io, qui a bordo della Diritti. Ero così preoccupato che neppure la pipa mi dava più conforto. Poi arrivò Billy, e fu come un prete cattolico che metta pace in un trambusto di irlandesi. Non che si sia messo a predicare o abbia detto o fatto niente di particolare, ma promanava da lui una forza che placava l’animosità. Lo presero tutti in simpatia come calabroni con la melassa; tutti tranne il più acido della banda, quel tizio grande e grosso, ispido, con le basette rosso fuoco. Anzi per invidia forse del nuovo venuto, pensando che difficilmente il "bravo simpaticone" - come lo chiamava per scherno con gli altri - avrebbe avuto lo spirito di un gallo da combattimento, ce la mise tutta per tirarlo dentro in una brutta rissa. Paziente, Billy cercava di farlo ragionare con le buone - è un po’ come me, tenente: non c’è cosa che mi sia più odiosa dei litigi - ma non c’era verso. Così un giorno, durante il secondo turno di guardia, Basette Rosse, davanti a tutti, con la scusa di mostrargli dove si tagliava la lombatina - quel tipo una volta faceva il macellaio - con gesto provocatorio gli assestò un colpo sotto le costole. Veloce come il fulmine, Billy fece scattare il braccio. Oso dire che non avesse intenzione di arrivare a tanto; fatto sta che sferrò a quell’omaccione una legnata micidiale. Faccenda di mezzo minuto, direi. E Dio vi benedica, tenente, lo zoticone rimase allibito per tanta velocità. E lo credereste, tenente, Basette Rosse ora vuole un bene dell’anima a Billy Budd - un bene dell’anima, sennò è il più grande ipocrita che mi sia capitato di incontrare. Ma tutti gli vogliono bene. Alcuni gli lavano la roba; altri gli rammendano i pantaloni vecchi; nei momenti liberi il falegname è dietro a costruirgli un cassettoncino molto grazioso. Non c’è uno che non si farebbe in quattro per Billy Budd, e siamo una famiglia felice. Ma adesso, tenente, se quel giovanotto se ne va, so già quel che succederà a bordo della Diritti. Non potrò più, finito il pranzo, appoggiarmi all’argano a fumarmi una pipa in santa pace, no, per molto tempo, penso. Ah, tenente, vi portate via il gioiello dei miei uomini; vi portate via il mio paciere!». E così dicendo quel brav’uomo ebbe un bel daffare a trattenere un singhiozzo. «Beh», disse il tenente che, ascoltato tutto questo con divertito interesse, ora gongolava a forza di bere, «beh, siano benedetti i pacieri, soprattutto i pacieri che sanno battersi. Proprio come le settantaquattro bellezze di quella nave da guerra che mi aspetta - alcune spuntano con il naso fuori dai portelli», indicando la Bellipotent attraverso la finestra della cabina. «Perbacco, vi garantisco fin d’ora l’approvazione reale. State pur sicuro che Sua Maestà sarà lusingato di sapere che in un’epoca in cui i marinai non aspirano alla sua galletta con l’avidità che dovrebbero metterci, un’epoca per giunta in cui i capitani si risentono in cuor loro che gli si porti via un marinaio o due per il servizio, Sua Maestà, dicevo, sarà lusingato di apprendere che almeno un capitano ha ceduto di buon grado al Re il fiore del suo gregge, un marinaio che con pari lealtà non protesta. Ma dov’è questa bellezza? Ah», guardando attraverso la porta della cabina, «eccolo che.arriva e, per Giove!, si porta dietro il suo cassettone - Apollo con il baule! Amico mio», avvicinandoglisi, «non puoi portare questo scatolone a bordo di una nave da guerra. Le scatole lì sono quelle delle munizioni. Metti i tuoi stracci in un sacco, ragazzo. Stivali e sella per il cavalleggero; sacco e amaca per il marinaio di una nave da guerra». Il trasferimento dal cassettone al sacco venne eseguito. E dopo aver accompagnato il suo uomo sulla scialuppa e averlo seguito giù, il tenente si allontanò dalla Diritti dell’uomo. Era questo il nome del mercantile, sebbene il capitano e l’equipaggio, all’uso marinaro, l’abbreviassero in Diritti. Quell’ostinato del suo armatore di Dundee era un sincero entusiasta di Thomas Paine il cui libro in replica alle accuse di Burke alla Rivoluzione francese era stato pubblicato da qualche tempo e aveva avuto vasta diffusione. Nel battezzare la sua nave con il titolo del volume di Paine, l’uomo di Dundee non era dissimile dall’armatore suo contemporaneo, Stephen Girard di Filadelfia, che espresse la simpatia per la terra natia e per i suoi filosofi liberali, dando alle navi i nomi di Voltaire, Diderot e così via. Ma in quel momento, mentre la scialuppa scivolava sotto la poppa del mercantile, e ufficiale e rematori - alcuni con amarezza, altri con un sogghigno - osservavano il nome decorato come in un blasone, proprio allora la nuova recluta, saltando su da prora dove il timoniere l’aveva fatto sedere e sventolando il cappello verso i compagni che, silenziosi e addolorati, si sporgevano oltre il parapetto di poppa per guardarlo, rivolse ai ragazzi un allegro addio. Quindi salutando la nave stessa: «Addio anche a te, vecchia Diritti dell’uomo». «Seduto, signore!», ruggì il tenente assumendo all’istante tutto il rigore del suo grado, pur reprimendo con difficoltà un sorriso. Sicuro, il gesto di Billy era una grave infrazione al decoro marinaro. Ma in quel decoro nessuno lo aveva mai istruito; in considerazione di ciò il tenente non lo avrebbe rimproverato in modo tanto energico, se non fosse stato per quel commiato ultimo dalla nave. Questo lo interpretò alla stregua di un’allusione scherzosa da parte della nuova recluta, un malizioso accenno all’arruolamento forzato in generale e al proprio in particolare. Eppure probabilmente, se satira ci fu, è difficile che sia stata voluta: pur felicemente dotato dell’esuberanza gioiosa di un’ottima salute, della giovinezza e dell’indipendenza del cuore, Billy non era affatto portato alla satira. Gli mancavano la volontà e la sinistra destrezza. I doppi sensi e le insinuazioni di ogni tipo erano estranei alla sua natura. Quanto al forzato arruolamento, sembrava che lo prendesse come era solito prendere le vicissitudini del clima. Pur senza essere un filosofo, era in pratica, come gli animali, inconsapevolmente fatalista. E forse gli piacque la svolta avventurosa della sua vita, che prometteva uno sbocco verso orizzonti ed emozioni marziali. A bordo della Bellipotent il nostro marinaio mercantile, immediatamente riconosciuto per un uomo di mare esperto, fu assegnato alla guardia di dritta della coffa di parrocchetto. Ben presto a proprio agio in quel servizio, era bene accetto per la sua bellezza senza pretese e l’aria di spensierata allegria. Non c’era uomo più gioviale nel suo rancio, in netto contrasto con certi altri individui che, al pari di lui, facevano parte dell’equipaggio reclutato d’autorità, e che, se non erano impegnati attivamente, a volte - soprattutto durante l’ultimo turno di guardia, quando il calare del crepuscolo induce a sognare - erano inclini ad abbandonarsi a una tristezza tendente in alcuni al cupore. Ma non erano giovani come il nostro gabbiere e non pochi di loro avevano avuto un focolare; altri forse avevano moglie e figli dietro a sé, in condizioni precarie con ogni probabilità, e quasi tutti avevano conosciuto amici e parenti, mentre Billy, come vedremo fra poco, era lui stesso tutta la sua famiglia.
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Benché il nostro nuovo gabbiere fosse stato ben accolto sulla coffa e sul ponte dei cannoni, non era qui l’astro che era stato fra gli equipaggi più modesti delle navi della marina mercantile, con i quali era stato fino ad allora. Era giovane e, pur con un fisico quasi pienamente sviluppato, appariva più giovane di quanto non fosse in realtà, per un’espressione adolescente che indugiava sul volto ancora liscio, quasi femmineo nella purezza della carnagione, dove la vita di mare aveva soppresso il giglio, e la rosa faticava a fiorire attraverso l’abbronzatura. Al brusco passaggio dalla precedente sfera più semplice al mondo più ampio e scaltrito della grande nave da guerra - autentico novizio della complessità di una vita innaturale - sarebbe forse rimasto sconcertato, se in lui ci fossero state presunzione o vanità. Nella sua variegata moltitudine la Bellipotent annoverava parecchi individui che, pur inferiori di grado, erano di stampo non comune, marinai particolarmente predisposti ad avere quell’aria che l’irriducibile disciplina marziale e la partecipazione a tante battaglie possono conferire, in qualche misura, perfino all’uomo comune. Come Bel Marinaio, Billy Budd aveva, a bordo della settantaquattro, una posizione analoga a quella di una bellezza rustica trapiantata dalla provincia e messa a competere con le dame di alto lignaggio della corte. Ma di questo mutamento di circostanze se ne accorse appena, e neppure percepì che qualcosa in lui provocava un sorriso ambiguo in uno o due marinai tra i più duri. Né era meno inconsapevole dell’impressione singolarmente favorevole che la sua persona e il suo comportamento avevano sui gentiluomini più perspicaci del cassero. E non avrebbe potuto essere altrimenti. Plasmato in quello stampo, tipico dei migliori esemplari inglesi quando il ceppo sassone non è mescolato a quello normanno né a nessun altro, egli mostrava nel volto quell’espressione umana di serena bontà che lo scultore greco a volte impresse al forte eroe Ercole. Ma anche questa espressione era sottilmente modificata da un’altra penetrante qualità. L’orecchio piccolo e ben modellato, l’arco del piede, la curva della bocca e della narice, perfino la mano dura, di un colore bronzeo dorato come il becco di un tucano, una mano che parlava di drizze e di secchio del catrame, ma soprattutto qualcosa nell’espressione mobile e nella spontaneità dei gesti e degli atteggiamenti, qualcosa.che faceva pensare a una madre singolarmente prediletta dall’Amore e dalle Grazie, tutto questo indicava in modo curioso un lignaggio in netta contraddizione con il destino toccatogli. Il mistero parve meno misterioso a causa di un fatto che emerse allorché Billy, all’argano, venne formalmente assunto in servizio. Quando l’ufficiale - un ometto spiccio - gli chiese tra le altre cose il luogo di nascita, egli rispose: «Con il vostro permesso, signore, non lo so». «Non sai dove sei nato? Chi era tuo padre?» «Lo sa Dio, signore». Colpito dalla schietta semplicità di quelle risposte, l’ufficiale proseguì chiedendo: «Non sai niente delle tue origini?» «No, signore. Ma ho sentito dire che fui trovato, una mattina, in un bel cesto foderato di seta, appeso al battente della casa di un brav’uomo di Bristol». «Trovato, dici? Bene, bene, ecco una bella trovata», e, buttando indietro il capo, squadrò dalla testa ai piedi la nuova recluta. «Speriamo che ne trovino altri come te, ragazzo mio; la flotta ne ha un tremendo bisogno». Sì, Billy Budd era un trovatello, un figlio illegittimo con ogni probabilità e, ovviamente, non di umili origini. La sua ascendenza nobile era evidente come in un purosangue. Per il resto, senza avere né poco né punto l’acume del serpente e nessuna traccia della sua saggezza, senza tuttavia essere una colomba, possedeva quel tipo e quel grado di intelligenza che va a braccetto con la rettitudine non convenzionale di una creatura umana sana, una creatura alla quale non sia stato ancora offerto l’ambiguo pomo della conoscenza. Era analfabeta; non sapeva leggere ma sapeva cantare e, al pari dell’usignolo illetterato, a volte componeva il suo canto. Coscienza di sé pareva ne possedesse poca o nulla, o quanta possiamo ragionevolmente attribuirne a un cane San Bernardo. Abituato a vivere a contatto con gli elementi e avvezzo a conoscere della terra poco più della spiaggia o, meglio, quella porzione dell’orbe terracqueo provvidenzialmente riservata alle balere, alle puttane e agli osti, in breve il paradiso dei marinai, per usare l’espressione in voga tra loro, aveva una natura semplice, non contaminata dall’ambiguità morale, non sempre incompatibile con quel prodotto plasmabile chiamato rispettabilità. Ma i marinai, frequentatori di questi paradisi, sono senza vizi? No, ma meno spesso di quanto non accada con gli uomini di terraferma i loro cosiddetti vizi discendono da tortuosità d’animo, e più che da perfidia sembrano derivare dall’esuberanza di una vitalità a lungo costretta: franche manifestazioni in armonia con le leggi di natura. Per indole innata e per l’influsso coadiuvante del destino capitatogli, sotto molti punti di vista Billy era poco più di un autentico barbaro, forse simile ad Adamo prima che il civile serpente gli si insinuasse al fianco. E qui a convalidare in apparenza la dottrina della Caduta dell’uomo, una dottrina oggi ignorata dalle masse, si può osservare che, quando certe virtù pristine e incorrotte caratterizzano in modo singolare qualcuno ammantato nell’uniforme esterna della civiltà, a un attento esame tali virtù, lungi dal sembrare frutto del costume e della convenzione, parranno incompatibili con essi, quasi derivassero davvero, in modo eccezionale, da un’età anteriore alla città di Caino e all’uomo inurbato. Il carattere contraddistinto da tali virtù possiede, per chi abbia un palato non corrotto, un sapore autentico, simile a quello delle bacche, mentre l’uomo impregnato di civiltà, perfino nei buoni esemplari di questa razza, ha, per quello stesso palato, l’ambiguo aroma del vino adulterato. All’erede di tali qualità primigenie che, al pari di Caspar Hauser, vaghi solitario e stupefatto in una delle tante capitali della Cristianità, ben si addice la celebre invocazione del bonario poeta che, circa duemila anni fa, rivolse al buon rustico spaesato nella Roma dei Cesari: Oh tu, Fabiano, che sei povero, onesto e sincero che cosa ti ha condotto nel cuore dell’impero? Il nostro Bel Marinaio aveva, sì, tutta la virile bellezza che ci si può aspettare, eppure, proprio come alla bellissima donna di un racconto minore di Hawthorne, una sola cosa gli mancava. Nessun difetto visibile, invero, come nella gentildonna; no, ma di tanto in tanto, la possibilità di un difetto vocale. Se nell’ora del pericolo e della furia degli elementi egli era in tutto e per tutto un perfetto marinaio, tuttavia, in preda all’improvviso turbamento di una emozione, la sua voce di solito singolarmente musicale, quasi esprimesse l’armonia interiore, tendeva a manifestare una esitazione organica, un vero e proprio balbettio, se non peggio. Un particolare che clamorosamente esemplificava come il maligno impiccione, l’invidioso guastafeste dell’Eden, abbia ancora quasi sempre a che fare con tutte le partite di uomini consegnate al pianeta Terra. È certo che sempre e comunque egli tirerà fuori il suo biglietto da visita quasi a ricordarci: anch’io ci ho messo lo zampino. L’ammettere tale imperfezione nel Bel Marinaio dovrebbe dimostrare non soltanto che non viene presentato alla stregua di un eroe convenzionale, ma anche che la storia di cui è protagonista non è affatto romantica.
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All’epoca dell’arbitrario arruolamento di Billy Budd sulla Bellipotent, questa nave era in mare per raggiungere la flotta del Mediterraneo. Non trascorse molto tempo prima che avvenisse il ricongiungimento. Quale unità di quella flotta, la settantaquattro partecipava alle manovre, sebbene, grazie alle sue superbe qualità veliche, in mancanza di fregate, a volte fosse assegnata a compiti specifici come vedetta, a volte impiegata in servizi meno temporanei. Ma con.tutto ciò la nostra storia ha poco a che vedere, limitata com’è alla vita interna di una particolare nave e alle vicende di un singolo marinaio. Era l’estate del 1797. Nell’aprile di quell’anno si erano avuti i moti di Spithead, seguiti in maggio da una seconda, ancora più grave, rivolta della flotta al Nore. Quest’ultimo episodio è conosciuto - senza nessuna esagerazione nell’epiteto - come il "grande ammutinamento". Era in verità una minaccia per l’Inghilterra più pericolosa di quanto non lo fossero allora i proclami del Direttorio francese con i suoi eserciti vittoriosi e il suo proselitismo. Per l’Impero britannico l’ammutinamento del Nore fu quello che sarebbe uno sciopero dei vigili del fuoco in una Londra minacciata da un incendio globale. In tale momento di crisi - nel quale il regno avrebbe ben potuto anticipare la famosa parola d’ordine che, pochi anni più tardi, avrebbe annunciato lungo il fronte delle navi da guerra quanto in quella circostanza l’Inghilterra si aspettava dagli inglesi - sui pennoni delle navi a tre ponti e delle settantaquattro all’ancora nella rada - una flotta che costituiva il braccio destro dell’unica potenza allora libera e conservatrice del Vecchio Mondo -, i marinai a migliaia innalzarono con grida di evviva i colori britannici sui quali erano stati cancellati la croce e il simbolo dell’unione: una cancellazione che trasmutava la bandiera del diritto riconosciuto e della libertà sancita nell’avversa rossa meteora della rivolta senza freni né limiti. Il giusto scontento, nato da reali motivi di lagnanza nella flotta, era divampato in un incendio irrazionale, scatenatosi dalle scintille vive che dalla Francia in fiamme erano state portate dai venti al di là della Manica. Per qualche tempo l’avvenimento servì a dare sapore ironico agli inni esaltati di Didbin - come bardo fu di non poco aiuto al governo inglese in quella congiuntura europea -, inni che fra l’altro magnificavano la dedizione patriottica del marinaio britannico: «Quanto alla mia vita, essa appartiene al Re!». È un episodio nella gloriosa storia navale dell’isola, sul quale naturalmente gli storici navali sorvolano: uno di loro (William James) candidamente riconosce che di buon grado tralascerebbe di parlarne, se «l’imparzialità non vietasse di essere schizzinosi». Eppure l’accenno che ne fa è un’allusione più che un’esposizione, privo com’è di particolari. Né questi si possono rintracciare nelle biblioteche. Come altri eventi che si verificano in ogni tempo e in ogni dove (compresa l’America), il grande ammutinamento fu di tale natura che volentieri l’avrebbero sottaciuto l’orgoglio nazionale e le considerazioni politiche, relegandolo sullo sfondo del contesto storico. Sono avvenimenti che non si possono ignorare, ma esiste un modo equo per trattarne. Se l’individuo equilibrato rifugge dall’esibire le tare e la maledizione della propria famiglia, altrettanto discreta può essere una nazione in analoghe circostanze, senza incorrere nel biasimo. Sebbene, dopo vari abboccamenti fra i capi rivoltosi e il governo e dopo alcune concessioni davanti agli abusi palesi, fosse stata sedata, seppure con difficoltà, la prima insurrezione - quella di Spithead - e la situazione per il momento appianata, al Nore tuttavia l’imprevisto riaccendersi della sommossa, che esplose su scala ancora più ampia e trovò una cassa di risonanza negli incontri resi necessari da pretese considerate dalle autorità non soltanto inammissibili, ma aggressivamente insolenti, indicava - se non lo aveva già fatto in misura sufficiente la Bandiera Rossa - quale spirito animasse gli uomini. Repressione definitiva tuttavia ci fu: attuabile forse soltanto grazie alla lealtà della fanteria di marina e al volontario ritorno alla lealtà di larghi e influenti strati degli equipaggi. L’ammutinamento del Nore può, in certa misura, essere paragonato allo scoppio squilibrante di una febbre contagiosa in un organismo costituzionalmente sano, che riesce a sbarazzarsene di lì a poco. In ogni caso, fra le migliaia di ammutinati c’erano alcuni marinai che, non molto tempo dopo - chissà se spinti dal patriottismo, dall’istinto bellicoso o da entrambi - aiutarono Nelson a conquistarsi un blasone sul Nilo e la massima onorificenza a Trafalgar. Per gli ammutinati queste battaglie - Trafalgar soprattutto - furono un’assoluzione plenaria, una gloriosa assoluzione: in tutto ciò che contribuisce al grandioso spettacolo dello spiegamento navale e dell’eroica magnificenza marziale, tali battaglie, in particolare Trafalgar, rimangono insuperate nella storia dell’umanità.
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Intorno al più grande marinaio dall’inizio del mondo
In una faccenda come lo scrivere, per quanto si possa essere risoluti a restare sulla strada maestra, esistono sentieri laterali dotati di un fascino al quale non è facile resistere. E lungo questi viottoli mi propongo di vagare. Se il lettore vorrà tenermi compagnia, ne sarò felice. Possiamo perlomeno riprometterci il piacere che si dice annidarsi nel peccato: peccato letterario, infatti, sarà la divagazione. Molto probabilmente non è un’osservazione nuova affermare che le invenzioni del nostro tempo hanno introdotto nella guerra navale mutamenti di portata pari alla rivoluzione prodotta nella guerra in generale dall’impiego della polvere da sparo, giunta dalla Cina in Europa. Le prime armi da fuoco europee, rozzi congegni, furono - come ben si sa - disdegnate da non pochi cavalieri che le consideravano volgari strumenti, buoni forse per tessitori, gente troppo codarda per opporsi con fierezza al nemico incrociando lealmente le spade in singolar tenzone. Ma come a terra la virtù cavalleresca, seppur tosata del suo blasone, non si esaurì con i cavalieri, così sui mari - oggi, tuttavia, negli scontri che vi avvengono è caduta in disuso una certa ostentazione di ardimento in quanto inapplicabile nelle mutate circostanze - le più nobili qualità di certi grandi uomini, come don Giovanni d’Austria, Doria, Van Tromp, Jean Bart, la lunga schiera di ammiragli britannici e i Decatur americani del 1812, non divennero obsolete insieme alle murate di legno. A chi tuttavia sappia apprezzare il presente al suo giusto valore senza spregiare il passato si può perdonare se ritiene che a Portsmouth il solitario vecchio scafo di Nelson, il Vittoria, vi galleggi non soltanto come il monumento in.disgregazione di una fama incorruttibile, ma anche come un rimprovero poetico, attenuato dal suo carattere pittoresco, ai vari Monitor e agli scafi ancora più potenti delle corazzate europee. E questo non soltanto perché tali navi sono sgraziate a vedersi, irrimediabilmente prive della simmetria e delle nobili linee dei vecchi vascelli da guerra, ma anche per altre ragioni. Ci sono forse alcuni che, pur non del tutto insensibili a quel rimprovero poetico cui si è appena alluso, sono disposti in nome dell’ordine nuovo a schivarlo fino ai limiti dell’iconoclastia, se necessario. Può accadere, ad esempio, che, pungolati dalla vista della stella infissa sul cassero a indicare il punto dove cadde il Grande Marinaio, questi marziali utilitaristi insinuino come Nelson, esibendosi in battaglia di persona, ornato di tutti i suoi galloni, non soltanto abbia compiuto un gesto superfluo, ma anche militarmente inopportuno, un gesto anzi dal sapore temerario e vanitoso. Possono arrivare a dire per giunta che a Trafalgar in realtà si trattò addirittura di una sfida alla morte; e la morte giunse; e che se non fosse stato per le sue bravate, l’ammiraglio vittorioso sarebbe forse sopravvissuto alla battaglia con la conseguenza che i suoi avveduti ordini non sarebbero stati revocati dall’immediato successore, ma egli stesso, ormai deciso l’esito dello scontro, avrebbe potuto portare all’ancora la flotta sbandata, evitando le deplorevoli perdite di vite umane nel naufragio causato dallo scatenarsi degli elementi naturali, dopo che si erano scatenati quelli marziali. Se accantonassimo la questione, oltremodo opinabile, se per varie ragioni sarebbe stato possibile condurre all’ancora la flotta, allora, abbastanza plausibilmente, i benthamiti della guerra potrebbero sostenere il punto di vista esposto. Ma i se e i chissà sono un terreno insidioso per poterci costruire sopra. È un fatto che nel prevedere le possibili conseguenze di uno scontro e nei febbrili preparativi - segnando con boe la rotta pericolosa e dando il tracciato come a Copenhagen - pochi comandanti sono stati coscienziosamente cauti come questo incauto che non esitava a esporsi in battaglia. La prudenza personale, perfino quando è dettata da considerazioni tutt’altro che egoistiche, non è certamente una preclara virtù in un soldato, mentre è la prima virtù la sfrenata ambizione, che accende quello slancio meno travolgente che è l’onesto senso del dovere. Se il nome Wellington non ha la risonanza trionfale del più semplice Nelson, forse se ne può trovare la ragione in quanto detto prima. Nell’ode funebre al vincitore di Waterloo, Alfred non si spinge fino a chiamarlo il più grande soldato di tutti i tempi, mentre nella stessa ode invoca Nelson come «il più grande marinaio dall’inizio del mondo». A Trafalgar, nell’imminenza della battaglia, Nelson si sedette e scrisse le sue ultime brevi volontà e il testamento. Se, presentendo che la sua vittoria più fulgida sarebbe stata coronata dalla sua stessa gloriosa morte, si sia indotto per un qualche motivo rituale a indossare i paramenti scintillanti delle sue luminose gesta; se l’essersi adornato per l’altare e il sacrificio sia stato davvero vanità, allora affettati e ampollosi sono i versi eroici dei grandi poemi epici e dei drammi, poiché in tali versi il poeta si limita a dare forma a quello slancio del sentimento che uno spirito come Nelson, quando ne abbia l’occasione, traduce in gesto.
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Sì, la rivolta del Nore fu sedata. Ma non a tutti i torti si pose rimedio. Se gli appaltatori, per esempio, non ebbero più la possibilità di darsi da fare con certe pratiche tipiche della loro gentaglia a ogni latitudine - quella di fornire vestiario scadente, razioni non buone o scarse nel peso - nondimeno l’arruolamento coatto, per dirne una, continuò. Sanzionato dalla consuetudine e sancito legalmente da un Lord cancelliere recente come Mansfleld, tale sistema di equipaggiare la flotta - sistema ora in pratica caduto in disuso, ma formalmente non abolito - in quegli anni non era eliminabile. La sua abrogazione avrebbe messo in ginocchio l’indispensabile flotta, tutta a vela, senza vapore, con le sue innumerevoli vele e migliaia di cannoni, tutto insomma azionato a forza di braccia, una flotta sempre più insaziabile nel suo bisogno di uomini, perché allora moltiplicava il numero delle sue navi, navi di ogni tipo, a fronte delle congiunture presenti e future del convulso Continente. Lo scontento, che aveva annunciato i due ammutinamenti, sopravviveva covando sotto le ceneri. Non era perciò irragionevole temere che si riaccendessero i disordini, in modo sporadico o generalizzato. Ecco un esempio di tali timori. Nello stesso anno in cui ebbe luogo questa storia, Nelson, allora il contrammiraglio Sir Horatio, mentre con la sua flotta si trovava al largo della costa spagnola, ricevette dall’ammiraglio l’ordine di trasferire le insegne dalla Capitano alla Teseo per questa ragione: si temevano pericoli a causa dell’umore degli uomini su quest’ultima nave, allora appena giunta dalla patria, dove aveva preso parte al grande ammutinamento, e si riteneva che un ufficiale come Nelson fosse adatto non già a soggiogarli con il terrore, ma a conquistarli con la semplice presenza e l’eroica personalità, a una lealtà se non entusiastica come la sua, almeno altrettanto sincera. Accadeva così che su molti ponti di comando serpeggiasse l’ansia. In mare si intensificarono la vigilanza e le precauzioni contro la ripresa delle sommosse. Da un istante all’altro poteva esplodere uno scontro. Quando succedeva, gli ufficiali assegnati alle batterie erano costretti, in certi casi, a stare con le spade sguainate dietro agli uomini addetti ai cannoni.
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Ma a bordo della settantaquattro dove ora Billy aveva appeso la sua amaca, ben poco nei modi degli uomini, e nulla nel comportamento esteriore degli ufficiali, avrebbe indicato al profano che il grande ammutinamento era un fatto recente. Su una grossa nave da guerra gli ufficiali modellano, in generale, la loro condotta e i loro atteggiamenti sul comandante, sempre che questi abbia l’ascendente che dovrebbe avere. Il capitano - l’onorevole Edward Fairfax Vere per chiamarlo con l’intero titolo - era uno scapolo sui quarant’anni, un marinaio che si distingueva perfino in tempi prolifici di famosi uomini di mare. Sebbene imparentato con l’alta nobiltà, la sua carriera non dipendeva del tutto da pressioni legate a tale circostanza. Aveva molti anni di servizio, si era impegnato in molte battaglie, dimostrandosi sempre un ufficiale attento al benessere dei suoi uomini, senza però tollerare nessuna infrazione alla disciplina; molto preparato nella scienza della sua professione, intrepido fino al limite della temerarietà, ma non avventato. Per l’audacia dimostrata nei mari delle Indie Occidentali quale aiutante di bandiera di Rodney nella gloriosa vittoria riportata da questi su De Grasse, era stato nominato capitano. A terra, in panni civili, quasi nessuno lo avrebbe preso per un uomo di mare, tanto più che non adornava mai di termini nautici i suoi discorsi non professionali, e, di modi gravi, dimostrava scarso apprezzamento per l’umorismo in sé. Non era in contrasto con questi tratti del suo carattere il fatto che nelle traversate dove non erano necessari interventi clamorosi si dimostrasse il più schivo degli uomini. Osservando quel signore di statura non imponente e privo di appariscenti insegue, che dalla cabina saliva sul ponte, e notando gli ufficiali che, in silenzio deferente, si ritiravano sottovento, l’uomo della strada lo avrebbe preso per un ospite del Re, un civile a bordo della nave del Re, un inviato discreto ma di grande prestigio in procinto di assumere una carica importante. Quei modi schivi derivavano forse da una certa autentica modestia virile, compagna a volte delle nature risolute, una modestia che trapelava non appena non si imponessero azioni decise e che, in qualunque momento della vita si riveli, indica sempre una virtù di tipo aristocratico. Al pari di altri, impegnati nei vari campi delle più eroiche attività del mondo, capitan Vere, pur essendo abbastanza positivo all’occorrenza, a volte tradiva un certo umore sognante. Ritto da solo sul cassero, sopravvento, con una mano stretta intorno alle sartie, fissava con sguardo assente la distesa uniforme del mare. Se in quel momento gli si sottoponeva una questione futile, che veniva a interrompere il filo dei suoi pensieri, reagiva con maggiore o minore irascibilità che, tuttavia, subito controllava. In marina era conosciuto da tutti con l’appellativo di «stellato Vere». Ecco come tale epiteto venne assegnato a un uomo che, pur possedendo qualità autentiche, non ne aveva di brillanti: Lord Denton, un suo parente prediletto, uomo di gran cuore, era stato il primo ad andargli incontro per congratularsi con lui al suo ritorno in Inghilterra dalla crociera nelle Indie Occidentali, e proprio il giorno prima, sfogliando una copia delle poesie di Andrew Marvell, si era imbattuto, e non per la prima volta, nei versi intitolati Appleton House, nome di una delle residenze di un comune antenato, eroe delle guerre germaniche del Seicento, e precisamente nella strofa: Ecco cosa vuol dire nascere e crescere in un domestico paradiso, sotto la severa disciplina di Fairfax e dello stellato Vere. Così abbracciando il cugino reduce dalla grande vittoria di Rodney dove si era comportato con tanto coraggio, traboccando di legittimo orgoglio per il marinaio della famiglia, aveva esclamato con trasporto: «Evviva a te, Ed; evviva a te, mio stellato Vere!». L’espressione girò di bocca in bocca e rimase permanentemente attaccata al suo cognome, tanto più che serviva a distinguere il capitano della Bellipotent da un altro Vere, più vecchio di lui, lontano parente, ufficiale di pari grado in marina.
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In vista della parte che il comandante della Bellipotent avrà nella storia che segue, forse è opportuno completare il ritratto abbozzato nel capitolo precedente. A parte le sue qualità di ufficiale di marina, il capitano Vere era un uomo eccezionale. A differenza di non pochi famosi marinai inglesi, il lungo e arduo servizio reso con esemplare abnegazione non aveva finito per assorbirlo e salarlo del tutto. Aveva una particolare inclinazione verso ciò che è intellettuale. Amava i libri e non si metteva mai in mare senza aver rinnovato la biblioteca, contenuta ma sceltissima Gli intervalli di ozio e isolamento, talvolta così uggiosi, che di tanto in tanto si abbattono sui comandanti perfino durante le imprese di guerra, non furono mai tediosi per capitan Vere. Privo di quel gusto letterario che si cura meno della sostanza che della forma, prediligeva i libri verso i quali per natura si volgono gli animi seri e superiori, che nel mondo occupano posti attivi e di autorità: libri che trattano di uomini ed eventi reali, non importa di quale epoca - storia, biografie, autori non convenzionali come Montaigne, che, scevri da ipocrisia e conformismo, in modo onesto e con buon senso, riflettono sulla realtà. Attenendosi a questo tipo di letture, trovava conferma ai suoi intimi pensieri - conferma che invano aveva cercato nelle conversazioni sociali, al punto che, su alcuni temi fondamentali, si erano radicate in lui certe salde convinzioni che presentiva non sarebbero mutate, finché fossero rimaste integre le sue facoltà intellettive. Considerando in quali tempi travagliati si trovasse a vivere, questo fu per lui un vantaggio. Le sue ferme convinzioni fungevano da argine contro le acque travolgenti delle nuove idee sociali, politiche e di altro tipo, che in quei giorni devastavano come un torrente non.pochi animi, alcuni per natura non inferiori al suo. Mentre altri membri dell’aristocrazia, alla quale apparteneva per nascita, erano fieramente avversi agli innovatori, soprattutto perché le loro teorie erano ostili alle classi privilegiate, capitan Vere vi si opponeva in modo disinteressato, non soltanto perché gli sembravano incapaci di dare vita a istituzioni durature, ma anche perché erano incompatibili con la pace del mondo e l’autentico benessere dell’umanità. Meno informati di lui e meno seri, certi ufficiali del suo grado, che a volte era costretto a frequentare, lo trovavano poco socievole, un signore, a loro avviso, arido e libresco. E quando per caso lasciava la loro compagnia, non mancava mai qualcuno che dicesse: «Vere è un animo nobile. Lo stellato Vere. Malgrado quello che dicono le cronache, Sir Horatio» (significando colui che divenne Lord Nelson) «non è in fondo un combattente migliore o un miglior uomo di mare. Ma, detto fra noi in questo momento, non vi pare che ci sia in lui una vena bizzarra di pedanteria? Sì, come la filigrana del Re in un rotolo di gomene?». C’erano, in apparenza, motivi per questo tipo di critiche confidenziali, perché non soltanto i discorsi del capitano non scendevano mai verso toni scherzosi e familiari, ma nell’illustrare un qualsiasi punto che non toccasse i protagonisti e i grandi eventi dell’epoca, era capace di citare personaggi ed episodi dell’antichità proprio come citava i moderni. Pareva incurante del fatto che ai suoi cordiali compagni - uomini le cui letture si limitavano per lo più ai diari di bordo - quelle remote allusioni, per quanto appropriate, fossero del tutto estranee. Ma una sensibilità di questo tipo non riesce naturale a caratteri come capitan Vere. L’onestà impone loro la franchezza, talvolta ad ampio raggio, simile a quella di un uccello migratore che in volo non si cura di quando attraversa una frontiera.
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Non è necessario descrivere qui nei particolari i tenenti e gli altri ufficiali intorno a capitan Vere, né occorre accennare a nessuno dei capocarichi. Ma fra i sottufficiali ce n’era uno che, avendo molto a che fare con questa storia, è bene sia presentato subito. Mi cimenterò a farne il ritratto, ma non riuscirò mai a coglierlo in pieno. Era costui John Claggart, maestro d’armi. Tale titolo marinaro forse sembrerà ambiguo a gente di terra. In origine, non c’è dubbio, la funzione di quel sottufficiale era di istruire gli uomini nell’uso delle armi, la spada e la sciabola. Ma molto tempo prima, a seguito dei perfezionamenti delle armi da fuoco che resero meno frequenti gli scontri a corpo a corpo e diedero al nitrato e allo zolfo preminenza sull’acciaio, tale funzione ebbe a cessare, e il maestro d’armi di una grande nave da guerra era diventato una specie di capo di polizia con l’obbligo, fra le altre mansioni, di mantenere l’ordine negli affollati ponti inferiori. Claggart era un uomo di circa trentacinque anni, piuttosto scarno e alto, ma di figura non brutta nel complesso. Le mani erano troppo piccole e aggraziate per aver conosciuto il lavoro duro. Il volto era notevole, con un profilo nitido come nei medaglioni greci, tranne il mento sbarbato come quello di Tecumseh, dalla linea stranamente larga e protuberante, che rammentava le stampe del reverendo dottor Titus Oates, lo storico testimone, dalla parlata pretesca e strascicata, dei tempi di Carlo II e del presunto complotto papista. Era utile a Claggart nel servizio poter volgere intorno uno sguardo autoritario. La sua fronte dal punto di vista frenologico era del tipo che viene associato a un’intelligenza superiore alla media; raccolti sopra di essa, neri riccioli lucidi e serici risaltavano contro il pallore sottostante, un pallore che aveva una lieve sfumatura ambrata, affine alla tonalità che con il tempo acquistano gli antichi marmi. Questa carnagione, in singolare contrasto con i volti rossi o color bronzo intenso dei marinai e in parte il risultato di una vita che per lavoro si svolgeva al riparo dal sole, sebbene non proprio sgradevole, sembrava il sintomo di una qualche carenza o anomalia nella composizione del sangue. Ma in generale il suo aspetto e i suoi modi indicavano un’educazione e una carriera così incongrue con le sue funzioni, che, quando non vi era attivamente impegnato, lo si sarebbe detto un uomo di elevate qualità sociali e morali, il quale, per ragioni sue, mantenesse l’incognito. Nulla si sapeva della sua vita precedente. Forse era inglese, eppure indugiava nel suo modo di parlare un leggero accento che suggeriva come non fosse inglese di nascita, ma fosse stato naturalizzato tale nella prima infanzia. Fra i parrucconi dei ponti di batteria e del cassero di prua circolava la voce che fosse un chevalier arruolatosi volontario nella marina reale per espiare una misteriosa frode, per la quale era stato chiamato in giudizio davanti alla Corte Regia. Il fatto che nessuno potesse corroborare questa voce non impediva naturalmente che circolasse in sordina. Una diceria di tale tipo sul conto di questo o quel sottufficiale, una volta diffusasi dai ponti di batteria, non sarebbe sembrata, all’epoca della nostra storia, carente in credibilità alla ciurma di sapientoni incatramati di una nave da guerra. E invero un uomo con le qualità di Claggart che, senza precedente esperienza navale, entra in marina a un’età matura - come aveva fatto lui - e, necessariamente, viene assegnato all’inizio al grado più basso della gerarchia, un uomo inoltre che non faceva mai la minima allusione alla precedente vita sulla terraferma: ecco le circostanze che, in mancanza di informazioni precise sui suoi veri antecedenti, spalancavano ai malevoli un campo illimitato di congetture ostili. Ma le dicerie che su di lui bisbigliavano i marinai durante i turni di guardia derivavano una vaga plausibilità dal fatto che da un po’ di tempo a quella parte la marina britannica, non potendo permettersi di essere schizzinosa nel rifornire i ruoli, disponeva notoriamente a bordo e a terra di squadre per l’arruolamento forzato. Non basta; non era più un segreto ben custodito neppure un’altra faccenda: la polizia di Londra, cioè, aveva piena facoltà di catturare gli individui sospetti di tempra robusta, i personaggi vagamente equivoci, e di spedirli con procedura sommaria nei cantieri o nella flotta. Senza contare che perfino fra i volontari ce n’erano di quelli che non lo avevano fatto per impulso patriottico o per il vago desiderio di sperimentare la vita di mare e l’avventura marziale. Debitori insolventi di piccolo cabotaggio, insieme a mele marce di tutte le specie, trovavano nella marina un rifugio conveniente e sicuro, sicuro.perché, una volta arruolati a bordo di una nave di Sua Maestà, si trovavano in un santuario al pari del malfattore che nel Medioevo si rifugiava all’ombra dell’altare. Tali irregolarità sancite, che per ovvie ragioni il governo allora si guardava bene dal proclamare e che di conseguenza, riguardando la classe meno influente dell’umanità, sono quasi cadute in oblio, corroborano qualcosa della cui veridicità non mi faccio garante e che quindi ho qualche scrupolo nel riferire; qualcosa che ricordo di aver visto stampato, sebbene il libro non me lo ricordi, ma la stessa cosa mi venne personalmente raccontata più di quarant’anni fa da un vecchio pensionato in cappello a tricorno, un negro di Baltimora, un uomo che era stato a Trafalgar, con il quale ebbi un’interessantissima chiacchierata sulla terrazza di Greenwich. Ecco il senso: se una nave da guerra, costretta a prendere il mare d’urgenza, fosse stata a corto di uomini, la quota di braccia mancante, se non si fosse trovato altro mezzo migliore, si sarebbe ottenuta mediante precettazione direttamente dalle carceri. Per le ragioni già accennate non sarebbe forse facile oggi provare o confutare in modo diretto tale dichiarazione. Ma se le diamo credito di verità, spiegherebbe - e bene - le difficoltà dell’Inghilterra allora di fronte alla minaccia di quelle guerre che, come uno stormo di arpie, si levarono stridule dalla polvere e dal fragore della Bastiglia caduta. È un’epoca che a quanti, come noi, guardano indietro e si limitano a leggerne sembra relativamente chiara. Ma ai nonni di quelli di noi che hanno la barba grigia, ai più riflessivi fra loro, il genio dei tempi aveva un aspetto simile allo Spirito del Capo di Camöens, una minaccia oscura, misteriosa e prodigiosa. Né andava immune dalle apprensioni l’America. All’apice delle ineguagliate conquiste di Napoleone, ci furono americani che, avendo combattuto a Bunker Hill, auspicavano che l’Atlantico non si dimostrasse una barriera invalicabile alle estreme mire di quel portentoso francese scaturito dal caos rivoluzionario e apparentemente in grado di adempiere il giudizio annunciato nell’Apocalisse. Ma meno credito si doveva dare alle chiacchiere su Claggart, sapendo che nessuno con quelle mansioni su una nave da guerra può sperare di essere popolare tra l’equipaggio. Per di più nel denigrare quanti sono loro invisi o non vanno loro a genio per questa o quella o nessuna ragione, i marinai si comportano in modo assai simile agli uomini di terra: sono inclini a esagerare o a romanzare. Della carriera del maestro d’armi antecedente a quel servizio gli uomini della Bellipotent ne sapevano quanto ne sa un astronomo dell’itinerario di una cometa, prima di osservarla per la prima volta in cielo. Si è citato il verdetto di quegli impiccioni di mare soltanto per mostrare quale impressione morale facesse l’uomo su animi rudi e rozzi, che della malvagità umana avevano necessariamente una concezione delle più anguste, limitata alla volgare furfanteria: un ladro fra le amache durante la guardia notturna, oppure i ruffiani e i pescecani nei porti. Non era tuttavia un pettegolezzo, ma un fatto che, entrando in marina, Claggart, pur assegnato in quanto recluta alla sezione meno nobile della ciurma di una nave da guerra e adibito ai lavori più umili, non vi fosse rimasto a lungo. Le superiori capacità subito dimostrate, l’innata sobrietà, una deferenza ingraziante verso i superiori, oltre a un particolare istinto da furetto manifestato in una particolare occasione, tutto questo, coronato da un certo austero patriottismo, lo portò bruscamente al posto di maestro d’armi. Agli ordini di questo capo di polizia marittimo c’erano i cosiddetti caporali di bordo: subordinati diretti e ossequiosi in una misura che, come si può notare in alcune imprese commerciali a terra, è quasi incompatibile con la globalità dell’autodeterminazione morale. La sua posizione gli consentiva di convogliare sotto il proprio controllo varie correnti di influssi sotterranei, in grado, se astutamente incanalate tramite i subalterni, di insinuare un misterioso malessere, se non peggio, in una qualsiasi comunità marinara.
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La vita sulla coffa di trinchetto ben si addiceva a Billy Budd. Lì, quando non attivamente impegnati sui pennoni ancora più in alto, i gabbieri - scelti in quanto tali fra i più giovani e i più attivi - formavano una comunità aerea, e, standosene tranquillamente in ozio appoggiati contro i coltellacci arrotolati in cuscini, dipanavano storie come pigri dei, divertendosi spesso a quanto accadeva nel brulicante mondo dei ponti sottostanti. Non sorprende quindi che un giovane con il carattere di Billy fosse ben contento in tale compagnia. Senza mai offendere nessuno, era sempre pronto a ogni chiamata. Così aveva fatto sui mercantili. Ma ora mostrava nel compiere i suoi doveri un tale zelo che i compagni di coffa a volte ridevano bonariamente di lui. Tale acuita puntigliosità aveva il suo motivo: l’impressione, cioè, suscitata dalla prima punizione formale cui avesse mai assistito, inflitta sul barcarizzo il giorno dopo il suo arruolamento forzato. Vi era incorsa una recluta della guardia di poppa, un giovane piccoletto, che non si era trovato al suo posto nel momento in cui la nave cambiava rotta, una negligenza che aveva creato un serio intoppo nella manovra che richiedeva prontezza istantanea nel mollare e legare le vele. Nel vedere la schiena nuda del colpevole sotto la frusta, solcata da rosse piaghe e, peggio, nel cogliere l’orrenda espressione sul volto dell’uomo lasciato libero, che con la camicia di lana buttatagli addosso dall’aguzzino correva via dal luogo del supplizio per seppellirsi fra la folla, Billy era rimasto inorridito. Aveva deciso che non si sarebbe mai esposto per sua negligenza a una tale punizione e non avrebbe fatto o trascurato nulla che potesse meritargli financo un rimprovero verbale. Quali furono allora il suo stupore e sgomento, quando si avvide che negli ultimi tempi si cacciava di tanto in tanto in piccoli guai per faccende come lo stivaggio della sacca o per qualcosa che mancava nella sua amaca, questioni che, sottoposte al controllo di polizia dei caporali di bordo dei ponti inferiori, attirarono su di lui una vaga minaccia da parte di uno di loro. Vigile com’era in ogni cosa, come era potuto accadere? Non riusciva a capirlo, e ciò tanto più lo turbava. Quando ne parlava con gli altri giovani gabbieri, questi o si mostravano leggermente increduli, oppure trovavano un lato.comico nella sua malcelata ansia. «È la tua sacca, Billy?», chiese uno. «Beh, cuciti dentro; piantagrane, cosi saprai se qualcuno va a rovistarci». Ora c’era a bordo un veterano che, cominciando a essere inadatto per l’età a un servizio più attivo, era stato assegnato di recente alla guardia dell’albero di maestra, a badare al meccanismo assicurato alla griglia intorno a quel grande elemento di alberatura vicino al ponte. Nei momenti liberi il gabbiere aveva fatto un po’ di amicizia con lui, e ora nel suo guaio gli venne in mente che forse sarebbe stata la persona giusta a dargli un saggio consiglio. Era un vecchio danese, da lungo tempo anglicizzato nel servizio, un uomo di poche parole, molte rughe e alcune onorevoli cicatrici. Il volto grinzoso, tinto dal tempo e macchiato dalle intemperie fino a farlo assomigliare a un’antica pergamena, era qua e là chiazzato di blu a causa dello scoppio fortuito di una cartuccia in combattimento. Era uno dell’Agamennone che, circa due anni prima di questa storia, aveva prestato servizio sotto Nelson, al tempo ancora capitano di quella nave immortale nella memoria marinara che, smantellata e in parte ridotta alle nude coste, sembra un gigantesco scheletro nell’acquaforte di Haden. Era stato fra gli uomini dell’Agamennone mandati all’arrembaggio e aveva ricevuto un taglio obliquo, che, solcandogli una tempia e una guancia, lasciava una cicatrice simile a una striscia di luce mattutina attraverso il volto scuro. Per via di quella cicatrice, per l’impresa nella quale si sapeva che l’aveva ricevuta, e per il suo colorito bluastro, il danese era conosciuto fra la ciurma della Bellipotent con il soprannome di Abborda-nel-fumo. Ora la prima volta che i suoi occhietti di donnola per caso si posarono su Billy Budd, una certa cupa allegria interiore fece guizzare tutte le antiche rughe in un gioco grottesco. Era così forse perché la sua annosa saggezza eccentrica e disincantata, primordiale nel suo genere, scorgeva o pensava di scorgere nel Bel Marinaio qualcosa che, in contrasto con l’ambiente della nave da guerra, era bizzarramente incongruo? Ma, dopo averlo studiato di soppiatto più volte, l’ambigua gaiezza del vecchio Merlino mutò, perché quando i due ora si incontravano, balenava sul suo volto un’espressione canzonatoria, fuggevole, a volte sostituita da un’aria di pensosa perplessità su quanto sarebbe potuto capitare alla fine a una natura come quella, cascata in un mondo non privo di tranelli, e contro le cui astute sottigliezze è di scarsa utilità il semplice coraggio privo di esperienza e di destrezza, un mondo dove, nel momento della tentazione, tutta la possibile innocenza non sempre aguzza l’intelletto e illumina la volontà. Comunque fosse, il danese, alla sua maniera ascetica, prese a benvolere Billy. Non era questo soltanto un interesse filosofico per un personaggio del genere. C’era un altro motivo. Mentre i modi eccentrici del vecchio, che a volte rasentavano la scontrosità, respingevano i giovani, Billy impavido si faceva avanti con la riverenza dovuta a un eroe del mare, non trascurando mai, nel passare accanto al vecchio dell’Agamennone, di fargli un saluto con quel rispetto che di rado cade nel nulla con le persone anziane, per quanto bisbetiche, non importa quale sia il loro posto nella vita. C’era una vena di secco umorismo, o chissà che altro, nell’uomo dell’albero maestro; e forse per un vezzo di ironia patriarcale nei confronti della giovinezza di Billy e del suo corpo atletico, forse per qualche altro motivo più recondito, fin dall’inizio nel rivolgerglisi, sostituì Billy con Baby: fu proprio il danese, infatti, a dare origine al soprannome con il quale il gabbiere finì per essere conosciuto a bordo. E così con quel suo piccolo cruccio misterioso Billy andò in cerca del vecchio tutto rughe e lo trovò che, finito il turno di guardia, se ne stava a ruminare fra sé, seduto su una cassa di munizioni sul ponte superiore, lanciando di tanto in tanto occhiate ciniche ad alcuni spacconi che passeggiavano lì. Billy espose il suo guaio, ancora una volta stupito di come fosse potuto accadere. Il profetico lupo di mare ascoltò con attenzione, accompagnando il racconto del gabbiere con bizzarre contrazioni delle rughe e problematici ammiccamenti degli occhi da furetto. Finendo la sua storia, il gabbiere chiese: «E ora, danese, dimmi quello che ne pensi». Il vecchio, tirando su la visiera del berretto impermeabile e con gesto deliberato sfregandosi la lunga cicatrice obliqua nel punto in cui affondava nei capelli sottili, disse in tono laconico: «Baby Budd, Piè-di-porco» (riferendosi al maestro d’armi), «ti sta addosso». «Piè-di-porco!», esclamò Billy, sgranando gli occhi color cielo. «Perché? Ma se mi chiama, così mi dicono, "il simpatico, dolce giovanotto"?». «Davvero?», ghignò il vecchio canuto. «Eh, Baby, ragazzo mio, voce dolce ha Piè-di-porco». «No, non sempre. Ma con me sì. Raramente gli passo vicino senza che mi rivolga una parola gentile». «Proprio perché ti sta addosso, Baby Budd». Quelle parole ribadite e il loro tono, incomprensibili a un pivello, turbarono Billy quasi quanto il mistero che aveva cercato di farsi spiegare. Qualcosa di meno sgradevolmente oracolare tentò di estorcergli, ma il vecchio Chirone marino, pensando forse di avere per il momento istruito abbastanza il suo giovane Achille, serrando le labbra e raggrinzando tutte le rughe, non si lasciò andare ad altre ammissioni. Gli anni e quelle esperienze che toccano a certi uomini accorti, per tutta la vita soggetti al volere altrui, avevano sviluppato nel danese la quintessenza di quel cinismo guardingo che era la sua caratteristica principale.
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Il giorno successivo un incidente contribuì a confermare in Billy Budd l’incredulità per lo strano oracolo del danese sul caso sottopostogli. A mezzogiorno la nave, col vento in poppa, rollava sulla sua rotta; impegnato a chiacchierare scherzosamente con i vicini di tavolata, per un improvviso rollio, Billy finì con il rovesciare l’intero.contenuto della gavetta sul ponte appena pulito. Proprio in quel momento Claggart, il maestro d’armi, con in mano il frustino del suo rango, percorreva la batteria nella nicchia dove si trovava la mensa e il rivolo grasso gli attraversò la strada. Scavalcandolo con un passo, stava per procedere senza commenti, visto che non si trattava di cosa degna di rilievo in quelle circostanze, quando gli capitò di notare chi era stato a rovesciarlo. La sua espressione mutò. Fermandosi, fu lì lì per urlare qualche parola irata al marinaio, ma si controllò e, indicando la minestra versata, gli diede con il frustino un colpetto scherzoso sulla spalla, dicendo con una voce bassa e musicale che a tratti gli era tipica: «Questa sì che è bella, ragazzo mio! I belli ne fanno di belle!». E con queste parole passò oltre. Non notato da Billy, in quanto fuori del suo campo visivo, fu il sorriso involontario, anzi la smorfia, che accompagnò le ambigue parole di Claggart. Aridamente gli piegò in basso gli angoli sottili della bella bocca. Ma cogliendo un intento scherzoso nell’osservazione che, detta da un superiore, doveva far ridere «con finta allegria», tutti si comportarono di conseguenza, e Billy, stuzzicato forse dall’allusione di essere lui il Bel Marinaio, si unì al buon umore. Quindi rivolto ai compagni di mensa, esclamò: «Allora, chi dice che Piè-di-porco mi sta addosso?». «E chi te l’ha detto, bellezza?», chiese un certo Donald un po’ sorpreso. Al che il gabbiere, con aria lievemente sciocca, ricordò che soltanto una persona, Abborda-nel-fumo, gli aveva insinuato la fumosa idea che il maestro d’armi gli fosse a modo suo ostile. E probabile che nel frattempo l’ufficiale, ripreso il cammino, per qualche istante abbia avuto un’espressione meno guardinga di quel sorriso amaro che sottrae il volto al dominio del cuore - un’espressione distorta forse, perché un tamburino che, saltellando in modo sbadato, veniva dalla direzione opposta e finì per dargli un lieve urto, rimise stranamente turbato dal suo aspetto. E la sua impressione non si attenuò, quando l’ufficiale, dandogli d’impeto una violenta sferzata con il frustino, proruppe con veemenza: «Guarda dove vai!».
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Che cosa aveva il maestro d’armi? E qualunque cosa fosse, come poteva avere un rapporto diretto con Billy Budd, con il quale, prima dell’incidente della minestra versata, non aveva mai avuto particolari contatti né ufficiali né di altro tipo? Che cosa poteva aver a che fare quel turbamento con un uomo così poco incline a offendere come il «paciere» del mercantile, colui che, per usare le parole di Claggart, era «un simpatico, dolce giovanotto»? Sì, perché Piè-di-porco, per dirla con il danese, doveva stargli addosso? Ma in fondo al cuore e non per nulla, come può indicare a chi è perspicace il recente incontro, addosso segretamente gli stava davvero. Ora inventare qualcosa sulla vita privata di Claggart, qualcosa che coinvolga Billy Budd, e di cui questi sia all’oscuro, un episodio romantico che mostri come Claggart conoscesse il giovane marinaio prima di incontrarlo sulla settantaquattro - tutto questo, nient’affatto difficile da fare, potrebbe servire in modo più o meno interessante a rendere ragione dell’enigma celato in questo caso. Ma in realtà non c’era nulla del genere. Eppure la causa - l’unica plausibile alla quale ricorrere - è nel suo realismo tanto pregna di mistero - elemento essenziale nella narrativa di Ann Radcliffe - quanto lo è l’invenzione più ingegnosa escogitata dall’autrice dei Misteri di Udolfo. Che cosa infatti è più misterioso dell’avversione spontanea e profonda suscitata in certi mortali eccezionali dal mero aspetto di un altro mortale, magari inoffensivo, se addirittura non è provocata da questa stessa inoffensività? Ora non esiste attrito di personalità difformi più stridente di quello che può nascere a bordo di una grande nave da guerra, con l’equipaggio al completo, in alto mare. Qui ogni giorno, praticamente tutti, a tutti i ranghi, vengono in contatto fra loro. Chi volesse evitare perfino la vista di un oggetto ripugnante dovrebbe fargli fate il salto di Giona o buttarsi in mare. Immaginate quale influenza finisca per avere tutto questo su qualche strano essere umano che non sia un santo! Ma per far comprendere adeguatamente Claggart a una natura normale non bastano questi accenni. Per passare da una natura normale a lui è necessario attraversare «lo spazio mortale che li divide». E questo si può fare meglio per via indiretta. Molto tempo fa un onesto studioso, più vecchio di me, riferendosi a un uomo che, come lui, non è più di questo mondo, un uomo così inappuntabilmente rispettabile che mai nulla gli era stato rimproverato in modo aperto, sebbene fra i pochi corressero certi mormorii, mi disse: «Sì, X non è una noce che si possa rompere con un colpetto di ventaglio. Voi sapete che non appartengo a nessuna religione costituita, e ancora meno a una filosofia eretta a sistema. Beh, nonostante ciò, a mio avviso, cercare di arrivare a X, entrare nel suo labirinto e uscirne con l’unico filo conduttore fornito dalla "conoscenza del mondo", sarebbe quasi impossibile, almeno per me». «Ma», dissi io, «pur essendo per alcuni un singolare oggetto di studio, X è tuttavia umano, e certamente la conoscenza del mondo comporta la conoscenza della natura umana in quasi tutte le sue varietà». «Sì, una conoscenza superficiale, utile ai fini normali. Ma per penetrare in profondità non sono sicuro che la conoscenza del mondo e la conoscenza della natura umana non siano due branche diverse del sapere, che, pur potendo convivere nel cuore di qualcuno, possano esistere l’una indipendentemente, o quasi, dall’altra. Sì, in un uomo normale, il continuo logorio con il mondo ottunde quel sottile intuito spirituale indispensabile alla comprensione dell’essenza di certi caratteri eccezionali, nel bene e nel male. In una questione di una certa importanza ho visto una ragazzina raggirarsi intorno al dito mignolo un vecchio avvocato. E non si trattava del rimbambimento di un’infatuazione senile. Niente del genere. Ma conosceva le leggi meglio di quanto non conoscesse il cuore di quella ragazzina. Coke e Blackstone non hanno gettato luce negli oscuri recessi dello spirito più dei profeti ebrei. E chi erano? Quasi tutti eremiti». A quel tempo la mia inesperienza era tale da non farmi capire il senso di quel discorso. Forse lo capisco oggi. E invero se il lessico che si basa sulla Sacra Scrittura fosse ancora largamente noto, forse con minore difficoltà sarebbe possibile definire e denominare certi uomini fenomenali. Cosi come stanno le cose, è necessario invocare una qualche autorità immune dall’accusa di essere intrisa di elementi biblici. In un elenco di definizioni, compreso nella traduzione autentica di Platone, un elenco attribuito a lui, se ne legge una: «Depravazione naturale: una depravazione secondo natura», definizione questa che, pur avendo il sapore del calvinismo, non dilata il dogma di Calvino fino a comprendere tutta l’umanità. Nelle intenzioni è evidentemente applicabile soltanto agli individui. Non molti sono gli esempi di questa depravazione forniti dalla forca e dal carcere. Per trovare esempi notevoli che non siano fatti della volgare pasta del bruto, ma invariabilmente dominati dall’intellettualità, è sempre necessario cercare altrove. La civiltà, soprattutto se austera, è propizia a questa depravazione, che si ammanta di rispettabilità. Possiede certe virtù negative che fanno da silente ausilio. Non permette al vino di incrinare la vigilanza. Non si esagera dicendo che è senza vizi e peccati veniali. Li vieta il fenomenale orgoglio di questi individui. Non è mai una depravazione mercenaria o avara; in breve non ha nulla di sordido o di sensuale. È seria, ma senza acredine. Pur non lusingando l’umanità, non ne parla mai male. Ma ecco quello che negli esempi eminenti indica una natura eccezionale: sebbene l’umore sereno e il portamento discreto stiano a indicare una mente soggetta in modo particolare alla legge della ragione, nel cuore nondimeno un uomo siffatto sembra insorgere contro questa legge, sottrarsene del tutto, aver ben poco a che fare con essa, se non per usarla come uno strumento ambivalente per realizzare l’irrazionale. Vale a dire: al conseguimento di uno scopo che nella sua sfrenata atrocità sconfina nella follia, egli si accinge con fredda lucidità e solida sagacia. Sono uomini pazzi, del tipo più pericoloso, perché la loro follia non è costante, ma saltuaria, evocata da qualche oggetto speciale; è protettivamente segreta, il che vuol dire che è tenuta sotto controllo, sicché, per giunta, quando è più attiva, non è per la mente comune distinguibile dalla sanità, viste le ragioni indicate sopra: qualunque sia lo scopo - e lo scopo non è mai dichiarato - il metodo e il procedimento esteriore sono sempre perfettamente razionali. Ora qualcosa del genere era Claggart: in lui covava l’ossessione di una natura malvagia, non generata da una educazione pervertita da libri corruttori, da una vita licenziosa, ma insita e innata in lui, insomma «una depravazione secondo natura». Oscure parole sono queste, dirà qualcuno. Ma perché? Forse perché questi individui in qualche modo rammentano vagamente «il mistero dell’iniquità», secondo la frase della Sacra Scrittura? Se è così; è una reminiscenza lungi dall’essere voluta, perché ben poco raccomanderà queste pagine a molti lettori di oggi. Ha imposto questo capitolo il senso di una storia che gravita sulla natura segreta del maestro d’armi. Con l’aggiunta di uno o due accenni a proposito dell’incidente della mensa, la narrazione che verrà ripresa dovrà rivendicare da sé, come può, la propria credibilità.
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Che la figura di Claggart non fosse imperfetta e che il volto, ad eccezione del mento, fosse ben modellato, è già stato detto. Di queste doti non sembrava inconsapevole, perché non solo era vestito con proprietà, ma anche con accuratezza. L’aspetto di Billy Budd, però, era eroico, e se il suo volto non aveva l’aria intellettuale del pallido Claggart, era tuttavia illuminato, al pari di quello, da una luce interiore, che però scaturiva da una diversa fonte. Il fuoco del cuore rendeva luminoso l’incarnato bronzeo delle guance. Visto il netto contrasto tra i due, è assai probabile che, quando il maestro d’armi nell’ultima scena narrata applicò al marinaio il proverbio «I belli ne fanno di belle», si sia lasciato scappare un accenno ironico, non colto dai giovani marinai che l’avevano sentito, sul motivo che fin dall’inizio lo aveva spinto contro Billy, cioè la sua notevole bellezza fisica. Ora invidia e avversione, passioni irriconciliabili secondo ragione, possono tuttavia scaturire congiunte come Chang ed Eng in un’unica nascita. L’invidia è dunque un tale mostro? Sebbene molti uomini sotto accusa si siano dichiarati colpevoli di orribili azioni nella speranza di vedersi mitigare la pena, è mai accaduto che qualcuno confessasse seriamente di essere invidioso? Vi è in essa qualcosa che, a giudizio universale, viene percepito come più vergognoso perfino di un crimine efferato. E non soltanto tutti la sconfessano, ma le persone migliori sono inclini all’incredulità, quando viene imputata sul serio a un uomo intelligente. Ma siccome l’invidia alberga nel cuore, non nel cervello, nessun grado di intelligenza offre garanzia contro di essa. Ma l’invidia di Claggart non era una forma volgare di tale passione. E neppure, investendo Billy Budd, aveva quella vena di gelosia apprensiva che sconvolgeva il volto di Saul intento a rimuginare turbato sul bel giovane David. L’invidia di Claggart colpiva più a fondo. Se con occhio torvo guardava il bell’aspetto, la gioiosa salute, la schietta esuberanza della giovinezza di Billy Budd, era perché tali qualità si accompagnavano a una natura che, come percepiva magneticamente Claggart, nella sua semplicità non aveva mai voluto il male, né sperimentato il morso reattivo di quel serpente. Per lui era lo spirito che albergava in Billy e faceva capolino dagli occhi color cielo come da finestre, era la sua ineffabilità a creare la fossetta nella guancia colorita, a rendere flessibili le giunture, a danzare nei riccioli d’oro facendone il Bel Marinaio per eccellenza. A eccezione soltanto di un’altra persona, il maestro d’armi era forse l’unico uomo a bordo intellettualmente capace di apprezzare in modo adeguato il fenomeno morale rappresentato da Billy Budd. E questa intuizione soltanto intensificava la sua passione che, assumendo multiformi aspetti dentro di lui, a volte prendeva quello del cinico disprezzo, il disprezzo per.l’innocenza - non essere altro che innocente! Eppure da un punto di vista estetico ne vedeva il fascino, il temperamento coraggioso, libero e spontaneo, e volentieri l’avrebbe condiviso, ma ne disperava. Impotente ad annullare dentro di sé la forza primordiale del male, ma abile a nasconderla con prontezza, consapevole del bene ma incapace di attingervi, una natura come quella di Claggart, sovraccarica di energia come quasi sempre sono tali nature, che cosa poteva fare se non ripiegarsi su se stessa e, come lo scorpione del quale soltanto il Creatore è responsabile, porre fino in fondo la parte che gli era stata assegnata?
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La passione, la passione anche più profonda, non ha bisogno di un palcoscenico grandioso per interpretare la sua parte. La si rappresenta in basso fra gli spettatori delle ultime file, fra i mendicanti e i pezzenti. E le circostanze che la scatenano, per quanto squallide e banali, non danno la misura del suo potere. In questo caso il palcoscenico è un ponte di batteria appena ripulito, e la causa esterna scatenante è la zuppa rovesciata da un marinaio su una nave da guerra. Ora quando il maestro d’armi si accorse da dove veniva quel rivolo grasso che gli scorreva davanti ai piedi, senz’altro lo prese - forse con intenzione, in certa misura - non per il semplice incidente che fuor di dubbio era, ma come lo sfogo perfido di un sentimento spontaneo in Billy, che più o meno contraccambiava la sua ostilità. Una sciocca manifestazione, avrà pensato, e assai innocua, simile al vano calcio di una giovenca, che non sarebbe però così innocuo, se la giovenca fosse uno stallone ferrato. E così accadde che nel fiele dell’invidia Claggart instillasse il vetriolo del disprezzo. Ma l’episodio gli confermò certe dicerie riportate al suo orecchio da Squittio, uno dei caporali più scaltri, un ometto brizzolato, così soprannominato dai marinai per la voce squittente e il viso aguzzo che frugava negli angoli bui dei ponti inferiori a caccia di intrusi, e che alla loro vena satirica suggeriva l’idea di un grosso topo in cantina. Poiché il capo lo utilizzava alla stregua di un docile strumento per disporre piccole trappole tese a turbare il gabbiere - era infatti dal maestro d’armi che venivano quelle piccole persecuzioni cui si è accennato - il caporale, avendo concluso abbastanza naturalmente che il suo padrone non poteva avere simpatia per il marinaio, si adoperò, fedele leccapiedi qual era, per rintuzzare il sangue cattivo presentando al suo capo, in cattiva luce, certe innocenti battute del gioviale gabbiere, oltre a inventare vari epiteti ingiuriosi che - dichiarava - quello si era lasciato sfuggire. Il maestro d’armi non dubitò mai della veridicità delle cose riferitegli, soprattutto riguardo agli epiteti, perché sapeva quanto potesse essere segretamente impopolare un maestro d’armi zelante nel dovere, almeno un maestro d’armi a quei tempi, e come in privato i marinai gli si scagliassero addosso con invettive e schemi; il soprannome stesso, che circolava fra gli uomini - Piè-di-porco - indica in forma scherzosa la beffarda irriverenza e l’ostilità. Ma l’odio, avido di nutrire se stesso, non aveva bisogno di essere alimentato per scatenare la passione di Claggart. Nell’insidiosa depravazione che ha tutto da nascondere è consueta una prudenza non comune. E nel caso di un’offesa anche soltanto sospettata, la segretezza volontariamente esclude ogni possibilità di chiarimento o disinganno, e, pur con qualche riluttanza, si agisce spinti dal sospetto quasi fosse una certezza. E accade che la ritorsione sia in sproporzione mostruosa con la presunta offesa: quando infatti la vendetta non si è dimostrata nella sua avidità simile a uno sfrenato usuraio? E la coscienza di Claggart? Le coscienze sono, sì, diverse fra loro come le fronti, eppure tutti, non esclusi i diavoli delle Scritture, che «credono e tremano», ne hanno una. Ma la coscienza di Claggart, semplice avvocato della sua volontà, trasformava inezie in orchi, probabilmente ragionando che il motivo attribuito a Billy nel rovesciare la minestra proprio in quel momento, insieme ai presunti epiteti, tutto questo, in mancanza d’altro, costituiva una grave accusa a suo carico, anzi giustificava l’animosità, facendone una specie di giustizia retributiva. Il fariseo è il Guy Fawkes che si aggira in cerca di preda negli oscuri meandri che sottendono nature come Claggart. Sono uomini che non riescono a concepire una malvagità non reciproca. Probabilmente la persecuzione clandestina di Billy da parte del maestro d’armi aveva avuto inizio per metterne alla prova l’indole, ma senza riuscire a sviluppare in lui alcuna reazione che l’avversione potesse usare in forma ufficiale o pervertire in una plausibile autogiustificazione. Sicché l’incidente della mensa, per quanto insignificante, fu benvenuto a quella particolare coscienza destinata a essere il privato mentore di Claggart; quanto al resto, non è improbabile che l’abbia indotto a fare nuovi esperimenti.
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Non molti giorni dopo l’ultimo incidente narrato accadde a Billy Budd qualcosa che lo mise a disagio come non era mai avvenuto prima. Era una notte tiepida per quella latitudine; il gabbiere che, a dire il vero, in quel momento avrebbe dovuto essere di guardia sottocoperta, sonnecchiava sul ponte superiore dove era salito lasciando l’amaca caldissima, una delle varie centinaia sospese in un ponte inferiore di batteria così vicine e incastrate insieme clic di spazio perché dondolassero ce n’era poco o niente. Se ne stava disteso quasi fosse all’ombra di una collina, allungato al riparo dei boma, un crinale di alberature di ricambio a mezza nave fra l’albero di trinchetto e l’albero di maestra, dove era stivata la lancia, la più grande scialuppa della nave. Insieme a tre altri venuti da sotto per dormire, Billy giaceva presso quell’estremità del boma, che è prossima all’albero di trinchetto. Quando era di servizio come gabbiere, stava proprio.sopra il ponte di coperta degli uomini di prua; aveva quindi il diritto, secondo la consuetudine, di sentirsi più o meno a casa sua in quei paraggi. All’improvviso fu tratto dal torpore da qualcuno che gli toccava la spalla, probabilmente dopo essersi accertato che gli altri dormissero. Quando il gabbiere alzò la testa, costui gli sussurrò nell’orecchio in un rapido bisbiglio: «Vattene alla svelta alle catene di prua sottovento, Billy; c’è qualcosa nell’aria. Non parlare. Presto. Arrivederci là», e scomparve. Ora Billy, come molti uomini essenzialmente buoni, aveva alcune debolezze inseparabili da un’indole essenzialmente buona, e fra queste c’era una riluttanza, quasi un’incapacità, a dire un chiaro e netto no a una proposta improvvisa, non palesemente assurda all’apparenza, né palesemente ostile o iniqua. Ed essendo di sangue caldo, non aveva la flemma di rifiutarla restandosene inerte. La sua percezione del disonesto e innaturale raramente era, al pari del suo senso della paura, una reazione pronta. In quella particolare occasione, inoltre, lo avvolgeva ancora il torpore del sonno. Comunque fosse, alzatosi meccanicamente, chiedendosi assonnato che cosa ci fosse nell’aria, si recò nel luogo stabilito, una stretta piattaforma, una delle sei, all’esterno delle grandi murate, nascosta dalle grandi bigotte e dalle molteplici cime incolonnate delle vele e delle sartie, commisurate all’ampiezza dello scafo in una grande nave da guerra di quei tempi; in breve, un balcone incatramato sospeso sull’acqua e così appartato che un marinaio della Bellipotent, un vecchio di indole grave e di fede Nonconformista, ne faceva perfino di giorno il proprio oratorio privato. In questo angolino discreto lo sconosciuto ben presto raggiunse Billy Budd. Non c’era ancora la luna; la foschia oscurava la luce delle stelle. Non riusciva a distinguere con chiarezza il volto dello sconosciuto. Tuttavia per qualcosa nei suoi tratti e nel suo portamento, Billy lo prese, e a ragione, per uno del ponte di poppa. «Ssst, Billy», disse l’uomo con lo stesso bisbiglio rapido e cauto di prima. «Sei stato arruolato a forza, vero? Beh, anch’io», e tacque quasi a sottolineare l’effetto. Ma Billy, non sapendo con precisione che pensare, rimase in silenzio. E l’altro: «Non siamo i soli a essere stati arruolati a forza, Billy. Ce n’è una banda di noi. Non potresti... aiutarci... in caso di bisogno?». «Che vuoi dire?», chiese Billy scuotendosi infine dalla sonnolenza. «Ssst, ssst!», il rapido sussurro si fece roco. «Guarda qui», e l’uomo tirò su due piccoli oggetti che avevano un fioco bagliore nella luce notturna, «guarda, sono tuoi, Billy, se soltanto tu...». Ma Billy lo interruppe e nella furia indignata di sfogarsi si intromise in qualche modo il suo difetto vocale. «D...d...dannazione, non so che cosa hai in m...m...mente o cosa vuoi, ma t...t...tornatene al tuo posto, è meglio!». Per un attimo l’uomo, confuso, non si mosse, e Billy, saltando in piedi, disse: «Se non te ne v...v...vai, ti b...b...butto oltre il parapetto!». Non c’era da sbagliarsi, e il misterioso emissario sloggiò sparendo in direzione dell’albero maestro all’ombra dei boma. «Ehi! Che succede?», venne il grugnito di un gabbiere sul ponte, svegliato nel sonno dalla voce vibrante di Billy. E quando quest’ultimo comparendo venne riconosciuto: «Ah, bellezza, sei tu? Beh, deve essere successo qualcosa perché tu bal...bal...balbettavi». «Oh», rispose Billy dominando ormai il difetto, «ho trovato nella nostra parte della nave uno della guardia di poppa e gli ho detto di tornarsene al suo posto». «Tutto qui quello che hai fatto, gabbiere?», chiese burbero un altro, un vecchio irascibile dal volto e dalla chioma color mattone, conosciuto ai compagni gabbieri del castello di prua come Pepe Rosso. «Quei serpenti vorrei vederli sposati con la figlia del cannoniere!», intendendo con tale espressione il desiderio di vederlo sottoposto alla punizione disciplinare sopra un cannone. La spiegazione di Billy, tuttavia, rispondeva in modo plausibile a quei curiosi dando ragione del breve scompiglio, perché di tutti i settori di una nave i gabbieri di prua, veterani per la maggior parte e bigotti nei loro pregiudizi di mare, sono i più suscettibili a risentirsi di sconfinamenti territoriali, soprattutto da parte di quelli della guardia di poppa, dei quali hanno una pessima opinione - gente di terra in gran parte, che non sale mai in coffa se non per terzarolare o ammainare la vela di maestra, e - dicono - del tutto incapaci di maneggiare un punteruolo per funi o girare una bigotta.
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L’incidente lasciò Billy dolorosamente perplesso. Era un’esperienza del tutto nuova, la prima volta nella vita che gli capitava di essere avvicinato di persona in una forma torbida e furtiva. Prima di questo incontro non sapeva nulla del marinaio della guardia di poppa, in quanto i due uomini stavano in posti lontani fra loro, uno a prora e in coffa, l’altro a poppa e sul ponte. Che cosa significava? E potevano davvero essere ghinee i due oggetti luccicanti che l’intruso gli aveva messo sotto gli occhi? Dove poteva trovarle le ghinee quel tipo? Diamine, nemmeno di bottoni di ricambio c’è abbondanza in navigazione. Più ci rimuginava, più era perplesso, turbato, sgomento. Nel ritrarsi disgustato davanti a una proposta di oscuro significato, ma che d’istinto percepiva malvagia, Billy Budd era come un cavallo giovane che, fresco di pascolo, respiri l’orribile zaffata di una fabbrica chimica e con sbuffi ripetuti cerchi di ricacciarla dalle narici e dai polmoni. Questo stato d’animo sbarrava la strada a ogni desiderio di altri incontri con quel tipo, nemmeno per avere lumi sul.perché lo avesse avvicinato. Eppure aveva la curiosità naturale di vedere che aspetto avesse in pieno giorno l’uomo che lo aveva accostato nelle tenebre. Lo scorse il pomeriggio successivo, nel primo quarto di guardia, uno degli uomini intenti a fumare su quella parte avanzata del ponte superiore di batteria dove è permessa la pipa. Lo riconobbe per la sagoma e la corporatura più che per la faccia tonda e lentigginosa, gli occhi vitrei di un azzurro chiaro, velati da ciglia quasi bianche. Eppure Billy non era del tutto certo che fosse lui: un tipo della sua età circa, che chiacchierava e rideva spensierato, appoggiato al cannone; un ragazzo abbastanza simpatico a guardarlo, e un po’ scervellato all’aspetto. Troppo paffuto per un marinaio, sia pure della guardia di poppa. In breve l’ultimo uomo al mondo, si sarebbe detto, a essere oppresso da pensieri, soprattutto da quei pensieri pericolosi, che di necessità appartengono ai cospiratori in ogni impresa seria e perfino ai tirapiedi di tali cospiratori. Sebbene Billy non ne fosse consapevole, l’uomo, con una rapida occhiata in tralice, lo aveva scorto per primo e, notando che Billy lo guardava, gli fece un cenno amichevole di riconoscimento come a una vecchia conoscenza, senza interrompere quello che stava dicendo con il gruppo dei fumatori. Uno o due giorni dopo, capitandogli di passare accanto a Billy durante la passeggiata serale sul ponte di batteria, gli lanciò al volo una parola amichevole, per così dire, che, inaspettata e ambigua in quelle circostanze, imbarazzò Billy a tal punto che, non sapendo come reagire, la lasciò cadere. Billy era adesso più smarrito che mai. L’inutile rimuginio cui era stato trascinato gli era così sgradevolmente estraneo che fece del suo meglio per soffocarlo. Non gli passò mai per la mente che si trattasse di una faccenda molto ambigua, e che da leale marinaio gli incombesse il dovere di riportarla nella giusta sede. E, con ogni probabilità, se mai gli fosse stato suggerito di farlo, ne sarebbe stato trattenuto dal pensiero, tipico della magnanimità della recluta, che quel passo avrebbe avuto troppo il sentore di uno sporco lavoro da spia. Tenne la cosa per sé. Una volta, tuttavia, cedendo forse all’influsso di una notte densa di profumi, mentre la nave si cullava nella bonaccia, non poté trattenersi dallo sgravarsi un po’ l’animo parlandone al vecchio danese. I due, in silenzio per lo più, se ne stavano seduti sul ponte, con la testa appoggiata alle murate. Ma il racconto di Billy fu frammentario e anonimo, riluttante a rivelare ogni cosa per gli scrupoli riportati sopra. Nel sentire la versione di Billy, il saggio danese parve indovinare più di quanto gli veniva detto, e dopo una breve riflessione, durante la quale le sue rughe sembrarono raggrinzirsi tutte in un solo punto, cancellando per un attimo quell’espressione canzonatoria che a volte aveva il suo volto, disse: «Non te l’avevo detto, Baby Budd?» «Detto cosa?», chiese Billy. «Caspita, che Piè-di-porco ti sta addosso». «Che c’entra Piè-di-porco con quello strambo della guardia di poppa?», replicò Billy stupito. «Ah, uno della guardia di poppa! Un burattino, un burattino!». E con tale esclamazione - chissà se dettata dalla lieve folata che proprio in quel momento si levò dal mare calmo, o da un più sottile rapporto con l’uomo della guardia di poppa - il vecchio Merlino con i denti anneriti torse e strappò un pezzo di tabacco, senza elargire una risposta all’impetuosa domanda di Billy, sebbene gli venisse ripetuta, perché era sua abitudine ricadere in un cupo silenzio quando veniva interrogato in tono scettico in merito a uno dei suoi sentenziosi oracoli, non sempre chiari, anzi partecipi di quella oscurità che avvolge quasi tutti i responsi delfici, non importa da quale oracolo vengano. La lunga esperienza aveva molto probabilmente portato quel vecchio a un’amara prudenza, che non interferisce mai in nulla e mai dà consiglio.
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Sì, malgrado la succinta insistenza del vecchio danese, convinto che in fondo a quelle strane esperienze di Billy a bordo della Bellipotent ci fosse il maestro d’armi, il giovane marinaio era pronto ad attribuirle a tutti tranne all’uomo che, per dirla con le sue parole, «aveva sempre una parola gentile» per lui. C’è di che rimanere stupiti. Eppure neanche tanto. Ci sono marinai che perfino in età matura rimangono ingenui in certe faccende. Ma un giovane navigatore con l’indole del nostro atletico gabbiere è un bambino sotto molti punti di vista. Ma l’assoluta innocenza del bambino non è altro che totale ignoranza, e l’innocenza più o meno si affievolisce a mano a mano che si sviluppa l’intelligenza. In Billy, invece, l’intelligenza, così com’era, era cresciuta, mentre era rimasta per lo più inalterata la semplicità d’animo. L’esperienza è davvero maestra, ma gli anni di Billy la limitavano. Non possedeva inoltre neanche un granello di quella conoscenza intuitiva del male che nelle nature non buone, o non del tutto tali, anticipa l’esperienza, e pertanto appartiene, come in taluni casi vi appartiene fin troppo chiaramente, anche alla giovinezza. Che poteva sapere Billy dell’uomo, se non dell’uomo come marinaio? E il marinaio di vecchio stampo, l’autentico lupo di mare, il marinaio che ha cominciato da ragazzo, sebbene della stessa specie dell’uomo di terra, per molti versi vi si discosta. L’uomo di mare è schietto, l’uomo di terra è sottile. Per il marinaio la vita non è un gioco che richiede acutezza, non è una complicata partita di scacchi dove poche sono le mosse dirette e allo scopo si arriva per vie traverse, un gioco obliquo, tedioso, arido, che non vale neppure la povera candela consumata per giocarlo. Sì, come tali, i marinai sono per carattere una razza giovane. Perfino la loro aberrazione è contrassegnata dallo spirito giovanile, e questo è ancora più vero per i marinai dell’epoca di Billy. Anche allora alcuni fattori che si applicano a tutti i marinai agivano in modo più evidente sui giovani. Tutti i marinai, inoltre, sono abituati a obbedire agli ordini senza discuterli; la vita a bordo è determinata dal di fuori; non hanno con l’umanità quel commercio promiscuo dove l’agire libero, illimitato, su un piede di uguaglianza - un’uguaglianza almeno in superficie - presto insegna che, se in.certe occasioni non si mostra una diffidenza vigile in proporzione alla franchezza esteriore, può capitarci qualche brutto scherzo. Una diffidenza sistematica e discreta è quindi abituale non tanto con gli uomini d’affari quanto con gli uomini che conoscono la propria razza in rapporti meno superficiali degli affari - cioè certi uomini di mondo, che se ne servono inconsciamente; e alcuni rimarrebbero stupiti al sentirsi accusare, come dato generale del loro carattere, di essere diffidenti.
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Ma dopo il piccolo incidente della mensa Billy Budd non si trovò più invischiato in quegli strani guai che gli erano toccati per l’amaca o la sacca o chissà che altro. Quanto al sorriso che di tanto in tanto lo illuminava, e la parola gentile lanciata passando, furono, se non più frequenti, più pronunciati di prima. C’erano, in cambio, altre manifestazioni adesso. Quando capitava che lo sguardo inosservato di Claggart si posasse su Billy che, stretto nella sua cintura, girava sul ponte superiore di batteria nei momenti di sosta della seconda guardia, scambiando fuggevoli sfilze di battute con altri giovani che passeggiavano tra la folla, quello sguardo seguiva il lieto Iperione marino con un’espressione composta, riflessiva e malinconica, gli occhi stranamente soffusi di incipienti lacrime febbrili. In quei momenti Claggart sembrava l’uomo dei dolori. Sì, e a tratti l’espressione malinconica aveva un tocco di tenero struggimento, come se Claggart avesse potuto perfino amare Billy, se non fosse stato per una fatale impossibilità. Ma era un attimo fuggevole, cui succedeva, quasi se ne fosse subito rammaricato, per così dire, uno sguardo implacabile, che gli contraeva e raggrinziva il volto in un subitaneo aspetto di noce rugosa. Ma a volte scorgendo in anticipo il gabbiere che veniva nella sua direzione, egli, quando erano vicini, si scostava per farlo passare, indugiando su Billy per un attimo con lo scintillio di un sorriso beffardo degno di un Guisa. Ad ogni incontro improvviso e inaspettato balenava nei suoi occhi un lampo rosso simile alla scintilla che scaturisce dall’incudine in un’oscura fucina. Era una luce rapida, selvaggia, strana, dardeggiante da occhi che, quando erano in quiete, avevano un colore prossimo al viola intenso, la più dolce delle sfumature. Sebbene non potessero sfuggire al destinatario, alcuni di questi oscuri capricci andavano tuttavia al di là della sua capacità di interpretazione. E i muscoli di Billy erano assai poco compatibili con quella specie di organizzazione spirituale della percezione, che in alcuni casi istintivamente avverte l’innocenza ignara della prossimità del maligno. Pensava che a volte il maestro d’armi si comportasse in modo piuttosto bizzarro. Ecco tutto. Ma il tratto schietto e la parola gentile venivano presi per quello che erano in apparenza, in quanto il giovane marinaio non aveva mai sentito parlare dell’uomo «con il dolce sulle labbra». Sarebbe stato diverso e il suo sguardo avrebbe visto con maggior chiarezza, seppure non con maggiore acume, se il gabbiere avesse avuto la consapevolezza di aver fatto o detto qualcosa tale da provocare il malanimo dell’ufficiale. Così come stavano le cose, l’innocenza lo accecava. E lo stesso accadde in un’altra situazione. Due ufficiali inferiori, l’armiere e il cambusiere, con i quali Billy non aveva mai scambiato parola, perché la sua posizione nella nave non lo metteva in contatto con costoro, questi uomini cominciarono per la prima volta a gettare su Billy, quando per caso lo incontravano, quello sguardo particolare che mostra come l’osservatore sia stato prevenuto a danno dell’osservato. Non passò mai in mente a Billy di considerare singolare o sospetta tale circostanza, sebbene sapesse benissimo che l’armiere e il cambusiere, insieme al furiere, al farmacista e ad altri di pari grado, erano per consuetudine navale compagni di mensa del maestro d’armi, uomini con orecchi vicini alla sua lingua confidenziale. Ma la generale popolarità che all’occasione promanava dalla virile prontezza e dalla irresistibile bontà del nostro Bel Marinaio - doti che non indicavano una superiorità tesa a suscitare sentimenti di invidia -, la simpatia di quasi tutti i marinai lo inducevano a preoccuparsi ancora meno di quelle espressioni mute, cui si è appena accennato, espressioni che egli non riusciva a scandagliare tanto da intuirne l’intera portata. Quanto alla guardia di poppa, sebbene Billy per le ragioni già indicate lo vedesse poco, pure quando capitava loro di incontrarsi, invariabilmente giungeva il saluto allegro e spontaneo dell’altro, a volte accompagnato da una o due parole amichevoli dette di sfuggita. Qualunque fosse stato il piano originario di quel giovane ambiguo, o il piano che avesse avuto l’incarico di rappresentare, era certo, a giudicare dal suo atteggiamento in queste occasioni, che lo aveva lasciato perdere. Pareva che la sua precoce disonestà (e tutti i furfanti sono precoci) lo avesse una volta tanto ingannato, e che l’uomo, che aveva cercato di intrappolare come un sempliciotto, l’avesse schivato ignominiosamente proprio grazie alla semplicità. Le persone perspicaci forse obietteranno come fosse quasi impossibile per Billy trattenersi dall’andare dalla guardia di poppa e di punto in bianco chiedergli di conoscere lo scopo del primo incontro conclusosi in modo tanto brusco alle catene di prua. Le persone perspicaci forse penseranno anche che sarebbe dovuto essere soltanto naturale per Billy accingersi a sondare alcuni degli arruolati coatti per scoprire quale fosse il fondamento, se ce n’era uno, degli oscuri accenni dell’emissario a un malumore a bordo, foriero di congiura. Sì, le persone perspicaci forse penseranno così. Ma qualcosa di più, o meglio qualcosa di diverso dalla semplice perspicacia, è forse necessario per capire nel modo giusto un carattere come quello di Billy Budd. Quanto a Claggart, la sua ossessione - se davvero era tale - che a tratti si rivelava involontariamente nelle manifestazioni descritte nei particolari, ma per lo più celata sotto un comportamento controllato e razionale, la sua.ossessione, simile a un fuoco sotterraneo, lo divorava dentro sempre più giù, sempre più giù. Qualcosa di decisivo doveva scaturirne.
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Dopo il misterioso incontro alle catene di prua, quello interrotto da Billy in modo tanto brusco, non accadde nulla di particolarmente collegato a questa storia fino agli avvenimenti che saranno narrati. È stato detto altrove che in mancanza di fregate (velieri naturalmente migliori delle navi da linea di battaglia) nella squadra oltre lo Stretto, in quel periodo la Bellipotent 74 veniva a volte impiegata non soltanto come sostituto disponibile di una nave da ricognizione, ma a volte distaccata per missioni di maggiore importanza. Questo avveniva non soltanto per le ottime caratteristiche veliche, non comuni in un vascello di quella stazza, ma probabilmente anche per il temperamento del suo comandante che - si riteneva - lo rendeva particolarmente adatto a tutti quegli incarichi in cui, per impreviste difficoltà, potesse insorgere l’esigenza di pronte iniziative in circostanze dove fossero imprescindibili competenza e capacità, oltre a tutte le altre doti insite nel valente uomo di mare. Fu in una spedizione di quest’ultimo tipo, piuttosto in alto mare, mentre si trovava quasi nel punto di massima distanza dalla flotta, che la Bellipotent, sul finire di una guardia pomeridiana, inaspettatamente avvistò una nave nemica. Era una fregata. Quest’ultima, scorgendo attraverso il cannocchiale che l’impatto degli uomini e degli armamenti le sarebbe stato gravemente svantaggioso, affidandosi alla leggerezza, si diede alla fuga a vele spiegate. Dopo una caccia intrapresa sfidando quasi tutte le speranze e protrattasi fino alla metà circa del turno di guardia notturno, la fregata riuscì a effettuare un’esemplare fuga. Non molto dopo che si era rinunciato all’inseguimento, e prima che ne svanisse l’eccitazione, il maestro d’armi, emergendo dai suoi cavernosi gironi, comparve, berretto in mano, presso l’albero maestro in rispettosa attesa che di lui si accorgesse il capitano Vere, allora intento a passeggiate da solo sul lato sopravvento del ponte di comando, indubbiamente un po’ in collera per il fallito inseguimento. Il punto in cui stava Claggart era destinato a uomini di grado inferiore desiderosi di un colloquio privato con un ufficiale di coperta o con il capitano stesso. Ma a quest’ultimo non accadeva spesso che in quei tempi un marinaio o un ufficiale inferiore chiedesse udienza; l’avrebbero giustificato, secondo una inveterata consuetudine, soltanto circostanze eccezionali. Subito, proprio mentre, assorto nei suoi pensieri, stava per girare e proseguire la sua passeggiata, il comandante percepì la presenza di Claggart e notò il berretto levato in atteggiamento di deferente attesa. Sia qui detto che capitan Vere conosceva di persona questo ufficiale inferiore soltanto da quando la nave era salpata dalla madrepatria: allora; infatti, Claggart, trasferito da una nave trattenuta per riparazioni, aveva preso il posto a bordo della Bellipotent del precedente maestro d’armi, invalido e rimasto a terra. Non appena il comandante ebbe posato lo sguardo sull’uomo, che, deferente, aspettava di essere notato, gli si disegnò sul volto una particolare espressione. Non era dissimile da quella che guizza incontrollata sul volto di chi inaspettatamente incontra una persona che, pur nota, non si frequenta da abbastanza tempo per conoscerla a fondo, ma nel cui aspetto qualcosa, ora per la prima volta, suscita un vago senso di disgusto e di ripulsione. Ma fermandosi e riprendendo l’abituale maniera ufficiale, tranne che per una specie di impazienza indugiante nel tono della parola di esordio, disse: «Allora? Che c’è, maestro d’armi?». Con l’aria del subalterno avvilito dalla necessità di essere messaggero di cattive notizie, tuttavia coscienziosamente deciso a essere franco e altrettanto risoluto a evitare ogni esagerazione, Claggart, a questo invito, o piuttosto comando, a sgravarsi del fardello, parlò. Quello che disse, espresso in un linguaggio da uomo non incolto, stava a significare, se non proprio detto con queste parole, che durante l’inseguimento e i preparativi per un eventuale scontro, aveva visto abbastanza per convincersi come almeno un marinaio a bordo fosse una persona pericolosa su una nave dove si raccoglievano uomini, che non solo avevano avuto una parte colpevole nei recenti gravi disordini, ma anche altri, come l’individuo in questione, entrati nel servizio di Sua Maestà in forme diverse dall’arruolamento. A questo punto il capitano Vere lo interruppe con una certa impazienza: «Siate esplicito; dite arruolati a forza». Con un gesto di ossequio Claggart proseguì. Ultimamente egli (Claggart) aveva cominciato a sospettare che sui ponti di batteria circolasse sotto sotto qualche fremito fomentato dal marinaio in questione, ma pensava di non essere giustificato a riportare il sospetto, finché fosse rimasto vago. Ma, da quanto aveva notato quel pomeriggio, il sospetto che covasse qualcosa di clandestino aveva raggiunto un punto meno lontano dalla certezza. Sentiva profondamente, aggiunse, la grave responsabilità assuntasi nel fare un rapporto, che, oltre ad avere conseguenze così gravi soprattutto per l’individuo in questione, tendeva ad aumentare le preoccupazioni, naturali in ogni comandante dopo le eccezionali rivolte esplose di recente, che, disse accorato, non era necessario nominare. Ora, al primo accenno all’argomento, capitan Vere, preso di sorpresa, non riuscì del tutto a dissimulare la propria inquietudine. Ma, mentre Claggart procedeva, qualcosa nei modi di quella testimonianza trasformò la prima reazione in riluttanza. Si trattenne, comunque, dall’interromperlo, e Claggart, continuando, così concluse: «Dio non voglia, vostro onore, che la Bellipotent debba fare l’esperienza della...». «Non preoccupatevi!», intervenne qui il superiore in tono perentorio, il volto alterato dall’ira, intuendo istintivamente quale nave l’altro stesse per nominare, una sulla quale l’ammutinamento del Nore aveva assunto un carattere particolarmente tragico tanto che per un certo tempo era stata in pericolo la stessa vita del comandante. Date le.circostanze, l’intento di quell’allusione lo indignava. Quando gli stessi ufficiali superiori andavano sempre cautissimi nello scegliere le parole per riferirsi ai recenti avvenimenti della flotta, l’allusione superflua fatta da un ufficiale inferiore alla presenza del suo capitano lo colpì come un gesto di impudente presunzione. Inoltre, con il suo vigile senso della fierezza, gli parve, in quelle circostanze, quasi un tentativo per allarmarlo. E sulle prime non lo lasciò poco sorpreso che un uomo in grado di comportarsi con molto tatto nelle sue funzioni, come aveva potuto notare fino a quel momento, se ne rivelasse così carente in quella particolare occasione. Ma a questi e altri pensieri altrettanto dubbiosi che gli balenavano in mente subentrò all’improvviso un intuitivo sospetto che, pur ancora oscuro nella forma, servì in pratica a influenzare il suo atteggiamento davanti alle cattive notizie. Certo è che, con la sua lunga esperienza di tutti gli aspetti della complessa vita del ponte di batteria, che, come ogni altra forma di vita, ha i suoi versi segreti e i suoi lati ambigui, seppur non ammessi dai più, capitan Vere non si lasciò turbare indebitamente dal tono generale del rapporto del suo subordinato. Inoltre, se alla luce dei recenti avvenimenti si doveva intervenire con tempestività al primo segno tangibile di una ripresa della rivolta, tuttavia non sarebbe stato saggio - pensò - tenere viva l’idea di uno scontento tuttora serpeggiante, dimostrando eccessiva prontezza nel dare credito a un informatore, fosse pure questi un suo subordinato con l’incarico, fra le altre cose, della sorveglianza di polizia sull’equipaggio. Tale modo di sentire non avrebbe avuto quell’impatto su di lui, se, in una precedente occasione, non lo avesse irritato lo zelo patriottico esibito da Claggart, che gli era parso eccessivo e forzato. Qualcosa inoltre nei modi composti e in qualche modo ostentati dell’ufficiale nel fornire i particolari gli rammentava stranamente un bandista, testimone spergiuro in un processo per un crimine da pena capitale davanti a una corte marziale a terra, di cui egli (capitano Vere) era stato membro. Ora alla perentoria strigliata a Claggart, che servì a interromperne le allusioni, seguirono subito queste parole: «Mi dite che c’è almeno un uomo pericoloso a bordo. Fate il suo nome». «William Budd, un gabbiere, vostro onore». «William Budd!», ripeté capitan Vere con genuino stupore. «Volete dire l’uomo che il tenente Ratcliffe prese dal mercantile non molto tempo fa, il giovanotto che pare così benvoluto da tutti - Billy, il Bel Marinaio, come lo chiamano?» «Proprio lui, vostro onore, ma, giovane e bello com’è, un individuo che la sa lunga. Non per nulla si intrufola per farsi benvolere dai compagni perché, all’occorrenza, non potranno che dire - lo faranno tutti - una buona parola sul suo conto, in ogni circostanza. Il tenente Ratcliffe ha riferito a vostro onore di quell’abile impennata di Budd, saltato a prua della lancia sotto la poppa del mercantile, mentre veniva portato via? L’aspetto allegro maschera il risentimento che nutre in cuore per l’arruolamento forzato. Voi avete notato soltanto le belle guance. Ma sotto i petali rosati delle margherite si nasconde, chissà, una trappola». Ora il Bel Marinaio, una figura che si distingueva nell’equipaggio, aveva naturalmente attratto l’attenzione del capitano fin dall’inizio. Sebbene non fosse in generale un uomo espansivo con i suoi ufficiali, si era congratulato con il tenente Ratcliffe per la fortuna di avere scovato un esemplare così bello del genus homo, che nudo avrebbe potuto posare per una statua del giovane Adamo prima della Caduta. Quanto al commiato di Billy dalla Diritti dell’uomo, che il tenente gli aveva si riferito, ma presentandogliela, con tutta la deferenza, più come una storiella divertente che altro, il capitano Vere, pur considerandolo erroneamente un gesto satirico, si era limitato a pensare ancora meglio dell’uomo arruolato a forza, in quanto da buon ufficiale ammirava chi aveva lo spirito di prendere con tanta allegria e buon senso una coscrizione arbitraria. La condotta del gabbiere, inoltre, per quanto il capitano aveva avuto modo di notare, aveva confermato il primo lieto auspicio, mentre le qualità marinare della nuova recluta gli erano apparse tali da pensare di raccomandarlo all’ufficiale in seconda per promuoverlo in un posto che lo avrebbe portato più spesso alla sua attenzione, vale a dire al comando della coffa di mezzana, a sostituire nella guardia di dritta un uomo non più giovane, che, in parte per quella ragione, gli sembrava meno adatto al posto. Sia detto qui tra parentesi che, siccome i gabbieri di mezzana non hanno da maneggiare masse di tela pesante come le vele inferiori dell’albero maestro e di trinchetto, un giovane, se ha la stoffa, non soltanto sembra più adatto al compito, ma di fatto viene in generale scelto al comando di questa coffa, e quelli che ha sotto di sé sono uomini svelti e spesso sbarbatelli. Insomma il capitano Vere fin dall’inizio aveva ritenuto che Billy Budd fosse «un affare da Re» per usare il gergo marinaro del tempo: cioè, un investimento con i fiocchi per la marina di Sua Maestà britannica, ottenuto con poco o nessun esborso. Dopo una breve pausa, durante la quale questi ricordi gli balenarono vividi nella mente ed egli valutò il peso dell’ultima insinuazione di Claggart, implicita nell’espressione «una trappola sotto le margherite», e più la ponderava, meno sentiva di doversi fidare della buona fede dell’informatore, si volse all’improvviso verso di lui e a bassa voce gli chiese: «Voi venite da me, maestro d’armi, con un racconto tanto fumoso? Quanto a Budd, indicatemi un gesto o citatemi una parola che confermino in generale le vostre accuse. Fate attenzione», e gli si avvicinò, «a quello che dite. Proprio ora, in casi del genere, c’è un braccio di pennone per il testimone spergiuro». «Ah, vostro onore!», sospirò Claggart, scuotendo leggermente la bella testa quasi a esprimere mesta deprecazione per quella immeritata severità di tono. Quindi, mostrandosi offeso ed ergendosi con virtuosa perentorietà, riferì in modo circostanziato certe parole e certi gesti che, nell’insieme, se accettati per veri, portavano a una presunzione di colpa gravissima a carico di Budd. E per alcune di queste asserzioni, aggiunse, erano a portata di mano prove concrete. Con occhi grigi impazienti e diffidenti che cercavano di scandagliare il fondo dei calmi occhi viola di Claggart, il capitano Vere lo ascoltò di nuovo da cima a fondo. Poi rimase per un attimo fermo a rimuginare. Claggart - sottratto.per il momento all’esame scrutatore dell’altro - studiava attento l’espressione del capitano con uno sguardo difficile da definire: uno sguardo curioso delle reazioni provocate dalla sua tattica, uno sguardo simile a quello del portavoce dei figli invidiosi di Giacobbe, che ingannevolmente mostravano allo sconvolto patriarca la veste macchiata di sangue del giovane Giuseppe. Sebbene ci fosse nella statura morale del capitano Vere qualcosa di eccezionale che, in un rapporto serio con un suo simile, lo rendeva un’autentica pietra di paragone della vera natura di quest’uomo, tuttavia nei confronti di Claggart e di quanto si svolgeva dentro di lui, i suoi sentimenti scaturivano più da forti sospetti attanagliati da strani dubbi che da una convinzione intuitiva. La perplessità da lui dimostrata non discendeva da qualcosa concernente l’accusato - come di sicuro pensava Claggart - ma da considerazioni sul miglior atteggiamento da adottare nei confronti dell’accusatore. In un primo momento, invero, fu tentato naturalmente di chiedere le prove concrete delle accuse che Claggart aveva detto essere a portata di mano. Ma una tale procedura avrebbe finito col diffondere la faccenda, che nella situazione attuale, a suo parere, avrebbe potuto influire negativamente sull’equipaggio. Se Claggart era un testimone falso, l’affare era chiuso. Perciò, prima di verificare l’accusa, avrebbe in pratica messo alla prova l’accusatore, e questo - era convinto - si poteva fare senza chiasso, con discrezione. Le misure che decise di prendere comportavano un mutamento di scena, uno spostamento in un luogo meno in vista di quanto non fosse l’ampio ponte di poppa. Sebbene infatti i pochi ufficiali di batteria presenti si fossero ritirati sottovento in debito ossequio alle norme dell’etichetta marinara, nel momento in cui il capitano Vere aveva iniziato la sua passeggiata sul lato sopravvento, e sebbene durante il colloquio con Claggart non si fossero naturalmente avventurati a diminuire la distanza, e nel corso dell’incontro la voce del capitano Vere non fosse stata affatto alta e quella di Claggart fosse rimasta bassa e argentina, e il vento fra le sartie e lo sciabordio del mare avessero contribuito a metterli fuori portata d’orecchio, tuttavia il perdurare del colloquio aveva già attirato l’attenzione di alcuni gabbieri in coffa e di altri marinai che si trovavano nella parte centrale della nave o più oltre. Decise le misure da prendere, capitan Vere le mise subito in atto. Rivolto bruscamente a Claggart, chiese: «Maestro d’armi, Budd è di guardia in coffa?». «No, vostro onore». Al che «Signor Wilkes!», chiamò convocando il guardiamarina più prossimo. «Dite ad Albert di venire da me». Albert era l’attendente del capitano, una specie di valletto nella cui discrezione e fedeltà il suo padrone aveva grande fiducia. Il ragazzo comparve. «Conosci Budd, il gabbiere?» «Sì, signore». «Va’ a cercarlo. È fuori servizio. Vedi di dirgli, senza farti sentire, che è atteso a poppa. Attento a che non parli con nessuno. Fallo chiacchierare con te. E finché non arriva qui a poppa, fino ad allora non dirgli che lo voglio nella mia cabina Hai capito? Va’. Maestro d’armi, mostratevi sui ponti inferiori e, quando ritenete che Albert stia ritornando con il suo uomo, tenetevi pronto, senza darlo a vedere, a seguire il marinaio da me».
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Ora quando si trovò nella cabina, rinchiuso, per così dire, con il capitano e Claggart, il gabbiere fu non poco sorpreso. Ma non era una sorpresa accompagnata da apprensione o diffidenza. A un’indole immatura, essenzialmente onesta e umana, il presentimento di un insidioso pericolo da parte di un proprio simile giunge tardivamente, se mai vi giunge. L’unico pensiero che prese forma nella mente del giovane marinaio fu questo: sì, il capitano, come ho sempre ritenuto, mi guarda con occhio benevolo. Chissà che non voglia farmi suo timoniere. Mi piacerebbe. E forse ora chiederà di me al maestro d’armi. «Chiudi la porta, sentinella», disse il comandante. «Rimani fuori e non lasciar entrare nessuno. Adesso, maestro d’armi, dite in faccia a quest’uomo quello che mi avete riferito», e si preparò a scrutare i due volti in reciproco confronto. Con il passo misurato e l’aria calma e composta di uno psichiatra che nella sala comune si avvicini a un paziente che mostra i sintomi di una prossima crisi parossistica, Claggart, dopo essere avanzato deliberatamente fino a trovarsi a breve distanza da Billy e guardandolo ipnoticamente negli occhi, riassunse in breve l’accusa. Non di primo acchito Billy capì. Quando comprese, il rosa abbronzato delle sue guance parve colpito come da una lebbra bianca. Rimase immobile, quasi fosse impalato e imbavagliato. Nel frattempo gli occhi dell’accusatore, che non avevano ancora abbandonato quelli blu dilatati di Billy, ebbero uno straordinario mutamento: il consueto viola intenso si intorbidò in un porpora fosco. Queste luci dell’intelligenza umana, persa ogni espressione umana, sporgevano gelidamente come gli occhi alieni di certe creature sconosciute degli abissi. La prima occhiata magnetica fu quella incantatrice del serpente; l’ultima fu lo scarto paralizzante del pesce torpedine. «Parla, ragazzo!», disse il capitano Vere all’uomo che pare va trafitto, colpito dal suo aspetto ancora più che da quello di Claggart. «Parla! Difenditi!». Ma l’appello provocò in Billy soltanto uno strano gesto muto e un gorgoglio; lo stupore davanti a quella accusa che balzava all’improvviso sulla sua giovinezza inesperta; questo e forse l’orrore degli occhi dell’accusatore servirono a far emergere il suo difetto latente, intensificandolo in questa circostanza fino a trasformarlo in un blocco spasmodico, mentre la testa e l’intero corpo tesi nell’agonia dell’inutile sforzo di obbedire.all’ordine di parlare e difendersi, davano al volto un’espressione simile a quella di una vestale condannata, nel supremo momento di essere sepolta viva e nella prima lotta contro il soffocamento. Sebbene allora fosse all’oscuro del difetto vocale di Billy, il capitano Vere lo capì all’istante, perché con grande vivezza l’aspetto di Billy richiamò alla memoria quello di un brillante compagno di scuola, che aveva visto colpito dallo stesso sgomento impotente nell’atto di alzarsi con zelo in classe per essere il primo a rispondere a una domanda posta dall’insegnante. Avvicinandosi al giovane marinaio e appoggiando una mano rassicurante sulla spalla, disse: «Non c’è fretta, ragazzo mio. Fa’ con calma, fa’ con calma». Contrariamente all’effetto voluto, quelle parole dal tono tanto paterno, che di certo toccarono il cuore di Billy nel profondo, lo indussero a sforzi ancora più violenti per parlare, sforzi che finirono presto per confermare la paralisi, dando al suo volto l’espressione di un uomo crocefisso. Un attimo dopo, rapido come la fiammata di un cannone che esplode nella notte, il braccio destro scattò e Claggart crollò a terra. Forse intenzionalmente, forse perché il giovane atleta era più alto, il colpo aveva colto il maestro d’armi sulla fronte così bella e dall’aria tanto intellettuale, sicché il corpo cadde lungo disteso, come una trave pesante che, eretta, venga inclinata. Un rantolo o due, e giacque immobile. «Fatale ragazzo!», ansimò il capitano Vere così a bassa voce che parve un sussurro. «Che cosa hai fatto! Su, aiutami!». I due sollevarono il caduto per i fianchi, mettendolo in posizione seduta. Il corpo scarno assecondò con flessibilità, ma con inerzia. Era come maneggiare un serpente morto. Lo riadagiarono. Rimettendosi eretto, capitan Vere, coprendosi il volto con una mano, rimase all’apparenza impassibile come l’oggetto ai suoi piedi. Era assorto a valutare le conseguenze di quell’evento e quanto si dovesse fare non soltanto lì sul momento, ma anche in seguito. Lentamente si scoprì il viso, e l’effetto fu come se la luna, emergendo da un’eclisse, riapparisse con un volto del tutto diverso da quello che si era nascosto. Il padre che fino in quel momento era stato verso Billy fu sostituito dal militare inflessibile. In tono ufficiale ordinò al gabbiere di ritirarsi in una cabina di poppa (che gli indicò) e di rimanere lì fino a quando non fosse stato convocato. Billy eseguì meccanicamente quell’ordine, in silenzio. Poi andando alla porta della cabina che si apriva sul ponte di comando, capitan Vere disse alla sentinella di fuori: «Di’ a qualcuno di mandare qui Albert». Quando il ragazzo apparve, il padrone si adoperò per non fargli scorgere l’uomo a terra. «Albert», gli disse, «avverti il medico che desidero vederlo. Non occorre che tu ritorni fino a quando non sarai chiamato». Quando entrò il medico - un uomo posato, così grave ed esperto, da non poter quasi mai essere colto di sorpresa - capitan Vere si fece avanti per andargli incontro, impedendogli così inconsapevolmente di scorgere Claggart e, interrompendo il consueto cerimonioso saluto dell’altro, disse: «No. Ditemi come sta l’uomo laggiù», richiamando la sua attenzione sul corpo a terra. Il chirurgo guardò e, pur con tutto il suo autocontrollo, ebbe un lieve sobbalzo alla brusca rivelazione. Sul volto sempre pallido di Claggart, colava ora dalla narice e dall’orecchio un denso sangue nero. All’occhio professionale dell’osservatore era inequivocabilmente un uomo morto quello che vedeva. «Allora è così?», disse il Capitano Vere osservandolo intento. «Lo immaginavo. Ma accertatevene». Subito le consuete prove confermarono la prima impressione del chirurgo che, ora levando lo sguardo con palese ansia, gettò al suo superiore un’occhiata pregna di interrogativi. Ma capitan Vere, con una mano sulla fronte, se ne stava immobile. All’improvviso afferrando il braccio del chirurgo con gesto convulso, esclamò indicando il corpo a terra: «E il divino giudizio di Anania! Guardate!». Turbato dai modi concitati che non aveva mai prima notato nel capitano della Bellipotent e ancora ignaro della vicenda, il prudente chirurgo mantenne tuttavia la calma, limitandosi a chiedere con lo sguardo che cosa avesse potuto provocare la tragedia. Ma il capitano Vere era di nuovo immobile, assorto nei suoi pensieri. Con un altro sussulto esclamò con veemenza: «Colpito a morte da un angelo di Dio! Eppure l’angelo deve essere impiccato!». Davanti a quelle esclamazioni appassionate, del tutto incongrue per l’ascoltatore ancora all’oscuro degli antecedenti, il chirurgo fu profondamente turbato. Ma in quel momento, quasi ricomponendosi, il capitano, in tono meno appassionato, espose in breve le circostanze che avevano portato a quell’evento. «Ma venite; dobbiamo sbrigarci», aggiunse. «Aiutatemi a portarlo via» (riferendosi al corpo), «in quella cabina», indicandone una di fronte a quella in cui era confinato il gabbiere. Di nuovo turbato da una richiesta che, implicando un desiderio di segretezza, gli sembrava inspiegabilmente strana, al subalterno non rimase che eseguire. «Andate adesso», disse capitan Vere con modi che erano quasi ritornati a essere quelli abituali. «Andate adesso. Convocherò subito una corte marziale. Informate gli ufficiali su quanto è accaduto, informate il signor Mordant» (riferendosi al capitano della fanteria marina), «e raccomandate loro di tenere la cosa per sé».
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Pieno di inquietudine e di presentimenti, il chirurgo lasciò la cabina. Il capitano Vere era impazzito all’improvviso, oppure si trattava di una concitazione passeggera, provocata da una tragedia così strana e straordinaria? Quanto alla corte marziale, gli parve una decisione poco politica, se non peggio. A suo parere, la cosa da fare era tenere in isolamento Billy Budd, come imponevano le consuetudini, e in un caso tanto singolare differire ogni decisione a quando avrebbero raggiunto la flotta e quindi riferirne all’ammiraglio. Ricordò l’inconsueta agitazione di capitan Vere e le sue concitate esclamazioni, così in contrasto con i modi abituali. Era fuori di senno? Ma, anche ammettendo che lo fosse, non sarebbe stato, poi, tanto facile provarlo. Che cosa può allora fare un chirurgo? Non è concepibile situazione più ardua di quella di un ufficiale subordinato a un capitano che egli sospetta non già di essere pazzo, ma non proprio equilibrato mentalmente. Discutere l’ordine sarebbe insolenza. Opporvisi sarebbe ammutinamento. Obbedendo al capitano Vere, comunicò agli ufficiali e al comandante della fanteria di marina quanto era accaduto, senza accennare allo stato del capitano. Tutti condivisero la sua sorpresa e ansia. Al pari di lui, ritenevano che una faccenda del genere dovesse essere sottoposta all’ammiraglio.
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Chi può tracciare nell’arcobaleno la linea dove finisce il viola e incomincia l’arancione? Noi vediamo distintamente la diversità cromatica, ma dove con precisione uno trascolora nell’altro? Così è per l’equilibrio e lo squilibrio mentale. Nei casi estremi non ci sono dubbi. Ma in alcuni casi presunti, in vari gradi dove la presunzione è meno pronunciata, di segnare una precisa linea di demarcazione pochi si assumerebbero l’onere, sebbene per una degna parcella lo facciano alcuni professionisti esperti. Non esiste cosa che per danaro alcuni uomini non farebbero o intraprenderebbero di fare. Se il capitano Vere, come riteneva il chirurgo nella sua veste professionale e personale, fosse davvero la vittima di un’improvvisa aberrazione, ciascuno lo decida da sé, alla luce di quanto offerto da questa narrazione. Che l’infelice avvenimento narrato non potesse accadere in circostanze peggiori è fin troppo vero. Si era verificato infatti all’indomani della repressione delle rivolte, un momento molto critico per l’autorità della marina, che esigeva da ogni comandante inglese due qualità non facilmente compatibili: prudenza e rigore. In questo caso, per di più, c’era qualcosa di cruciale. Nella ridda delle circostanze antecedenti e successive all’avvenimento a bordo della Bellipotent, e alla luce di quel codice marziale in base al quale l’episodio doveva essere formalmente giudicato, l’innocenza e la colpa, personificate da Claggart e da Budd, in effetti si scambiavano le parti. Da un punto di vista legale, la vittima apparente della tragedia era colui che aveva cercato di colpire un uomo irreprensibile; da un punto di vista navale, l’inconfutabile gesto di quest’ultimo costituiva il più atroce dei crimini militari. E non basta. Quanto più erano chiari nella sostanza il tono e la ragione chiamati in causa nella vicenda, tanto più era grave la responsabilità di un leale comandante, non autorizzato a decidere in merito sulla base di questa distinzione elementare. Non sorprende dunque che il capitano della Bellipotent sebbene fosse in generale uomo dalle decisioni rapide, ritenesse la circospezione non meno necessaria della prontezza. Finché non fu in grado di decidere in tutti i particolari una linea di azione, non solo, ma finché non fu il momento di dare esecuzione al verdetto finale, ritenne opportuno, alla luce di tutte le circostanze, guardarsi al massimo dalla pubblicità. Su questo forse aveva ragione, forse torto. Certo è, tuttavia, che successivamente nelle chiacchiere confidenziali in più di un quadrato e di una cabina non fu poco criticato da vari ufficiali, fatto questo attribuito dai suoi amici, e con grande calore da suo cugino Jack Denton, a una gelosia professionale nei confronti dello stellato Vere. C’era di che alimentare commenti invidiosi, dando la stura alla fantasia. La segretezza intorno alla faccenda, il restringerne la conoscenza, per qualche tempo, al posto dove era avvenuto l’omicidio, cioè la cabina del cassero: in questi particolari era insita una certa somiglianza con la politica adottata nelle tragedie di palazzo verificatesi più di una volta nella capitale fondata dal barbarico Pietro. Il caso invero era tale che volentieri il capitano della Bellipotent avrebbe rimandato ogni iniziativa che non fosse quella di tenere il gabbiere prigioniero in rigoroso isolamento, finché la nave non avesse raggiunto la flotta, per rimetterlo quindi al giudizio dell’ammiraglio. Ma l’autentico ufficiale di marina è in un particolare simile all’autentico monaco. Con quell’abnegazione con cui quest’ultimo si attiene ai voti dell’obbedienza monastica, il primo osserva i voti della fedeltà al dovere militare. Nel capitano Vere, consapevole che, se non si fosse agito con tempestività, il gesto del gabbiere, non appena fosse trapelato sui ponti di batteria, avrebbe potuto rinfocolare la fiamma del Nore che ancora covava fra la ciurma, un senso di urgenza travolse ogni altra considerazione. Ma, per quanto fosse un coscienzioso tutore della disciplina, non amava l’autorità per l’autorità. Lungi da lui il cogliere occasioni per monopolizzare nelle proprie mani i pericoli della responsabilità morale, almeno non quelli che a buon diritto poteva deferire a un ufficiale superiore o condividere con gli ufficiali di pari grado e finanche di grado inferiore. Così pensando, fu lieto di non contraddire la consuetudine rimettendo la questione a una corte sommaria formata dai suoi stessi ufficiali, riservando a sé, visto che su di sé ricadeva la responsabilità formale, il diritto di sovrintenderla e, all’occorrenza, di intervenire ufficialmente o non ufficialmente. Fu dunque convocata con procedura sommaria una corte marziale con membri eletti da lui stesso: il primo tenente, il capitano della fanteria di marina, l’ufficiale di rotta. Nell’associare un capitano della fanteria di marina con il tenente di vascello e l’ufficiale di rotta nel caso relativo a un marinaio, forse il comandante si discostò dalla consuetudine. Glielo suggerì la circostanza che, a suo parere, quel soldato era una persona giudiziosa, riflessiva, non del tutto sprovveduta nel tirarsi d’impaccio in una situazione difficile, priva di precedenti nella sua passata esperienza. Eppure anche nei suoi confronti il capitano nutriva un’apprensione latente: si trattava infatti di un uomo bonario, amante della buona tavola, capace di abbandonarsi a un sonno profondo, incline all’obesità, un uomo che, sempre coraggioso in battaglia, chissà se si sarebbe dimostrato altrettanto fermo davanti a un dilemma morale dai risvolti tragici. Quanto al primo tenente e all’ufficiale di rotta, il.capitano Vere era ben consapevole che, fossero pure individui onesti e di provato coraggio quando lo richiedevano le circostanze, avevano delle cose una comprensione limitata per lo più ai problemi concreti della vita a bordo e alle esigenze belliche della professione. La corte si riunì nella stessa cabina in cui era accaduto lo sfortunato episodio. Questa cabina, che era del comandante, occupava l’intera zona sotto il casseretto. A poppa, su entrambi i lati c’erano due cabine, una adibita temporaneamente a prigione, l’altra a obitorio, e un vano ancora più piccolo, che lasciava in mezzo uno spazio che si estendeva a prora e in oblungo coincideva con il baglio della nave. In alto c’era un lucernaio di modiche dimensioni, e alle estremità dello spazio oblungo c’erano due portelli con telai a ghigliottina, facilmente convertibili in feritoie per carronate brevi. Tutto fu pronto in breve tempo, e Billy Budd fu messo in stato di accusa. Il capitano Vere, unico testimone del caso, in quanto tale lasciò temporaneamente il suo grado, pur conservandolo in un particolare futile all’apparenza: testimoniava, cioè, a sopravvento della nave, costringendo la corte a sedere sottovento. In modo conciso riferì tutto quanto aveva condotto alla catastrofe, non trascurando nulla dell’accusa di Claggart e rilasciando una deposizione su come il prigioniero l’avesse accolta. A questa testimonianza i tre ufficiali gettarono occhiate, con non poca sorpresa, a Billy Budd, l’ultimo uomo che avrebbero sospettato sia del presunto piano di ammutinamento addotto da Claggart, sia dell’inconfutabile fatto commesso. Il primo ufficiale, presiedendo il processo e volgendosi verso il prigioniero, disse: «Il capitano Vere ha esposto i fatti. Sono o non sono come afferma il capitano Vere?». In risposta giunsero sillabe non intralciate dal balbettio, come si sarebbe potuto prevedere. Eccole: «Il capitano Vere dice la verità. È come dice il capitano Vere, ma non è come diceva il maestro d’armi. Ho mangiato il pane del Re e sono fedele al Re». «Ti credo, ragazzo mio», disse il testimone, mentre la voce esprimeva un’emozione repressa da null’altro tradita. «Dio vi benedica per questo, vostro onore!», disse Billy quasi sopraffatto, non senza balbettare. Ma subito fu richiamato all’autocontrollo da un’altra domanda, alla quale rispose con la stessa difficoltà emotiva: «No, non c’era ostilità fra noi. Non ho mai provato ostilità verso il maestro d’armi. Mi dispiace che sia morto. Non intendevo ucciderlo. Se fossi riuscito a usare la lingua, non lo avrei colpito. Ma spudoratamente mi ha spiattellato in faccia vili menzogne alla presenza del mio capitano; dovevo dire qualcosa e potevo dirlo soltanto con un pugno. Dio mi aiuti!». Nella maniera leale, impulsiva di quell’uomo schietto i giudici videro confermato quanto era implicito nelle parole che poco prima li avevano lasciati perplessi, visto che venivano dal testimone della tragedia e prontamente seguivano la smentita appassionata di intenzioni rivoltose da parte di Billy - le parole del capitano Vere: «Ti credo, ragazzo mio». Gli fu quindi chiesto se sapesse o sospettasse qualcosa che avesse il sentore di un’incipiente irrequietezza (riferendosi all’ammutinamento, sebbene venisse evitato il termine esplicito) serpeggiante in qualche settore dell’equipaggio. Ci fu un indugio nella risposta. La corte naturalmente l’attribuì alla stessa difficoltà vocale, che aveva ritardato od ostacolato le precedenti risposte. Ma le cose erano sostanzialmente diverse, in quanto la domanda aveva richiamato all’improvviso il ricordo dell’incontro alle catene di prua con l’uomo della guardia di poppa. Ma l’innata ripugnanza a svolgere un ruolo anche lontanamente simile a quello dell’informatore ai danni di un compagno - lo stesso senso errato di un onore rustico che gli aveva impedito di riferire la cosa a suo tempo, sebbene fosse tenuto a farlo in quanto leale marinaio di una nave da guerra, e l’omissione, qualora ne fosse stato accusato e fosse stata dimostrata, lo esponesse all’estrema condanna, tutto questo, insieme alla cieca sensazione che non si fosse complottato niente, prevalse in lui. Quando venne, la risposta fu negativa «Ancora una domanda», disse il capitano della fanteria di marina, che prendeva per la prima volta la parola con fervore sconcertato. «Tu affermi che quanto il maestro d’armi ha detto contro di te era una menzogna. Perché avrebbe mentito - mentito con tanta perfidia - se fra voi non c’era ostilità?». A questa domanda, che senza volere toccava una sfera spirituale del tutto oscura ai suoi pensieri, Billy, sgomento, rivelò una confusione che, come è facile immaginare, alcuni osservatori avrebbero interpretato alla stregua dell’involontaria ammissione di una colpa segreta. Fece tuttavia lo sforzo per rispondere, ma all’improvviso abbandonò il vano tentativo, rivolgendo nello stesso tempo un’occhiata implorante al capitano Vere, quasi lo considerasse il suo migliore amico e sostenitore. Capitan Vere, rimasto seduto per un po’, si alzò in piedi, rivolgendosi all’interrogatore. «La domanda che rivolgete è abbastanza naturale. Ma come può rispondervi in modo soddisfacente? Chi potrebbe darvela se non l’uomo che giace lì dentro?», e indicò la cabina dove si trovava il cadavere. «Ma l’uomo che giace lì dentro non si presenterà al nostro appello. In realtà il punto che sollevate non mi sembra determinante. A prescindere dai motivi, qualsiasi essi siano, che hanno ispirato il maestro d’armi, e senza prendere in considerazione la provocazione che ha fatto scattare il pugno, una corte marziale deve necessariamente, in questo caso, limitarsi alla conseguenza dell’aggressione, la quale conseguenza va giustamente ed esclusivamente considerata come l’atto dell’aggressore». Queste parole, la cui portata molto probabilmente sfuggì a Billy, lo indussero tuttavia a volgere sull’oratore uno sguardo trepidante e interrogativo, uno sguardo simile, nella sua muta espressività, a quello che volge al padrone un cane di gran razza alla ricerca, in quel volto, della delucidazione di un precedente gesto ambiguo alla propria intelligenza canina. Le parole non furono prive di intenso effetto sui tre ufficiali, soprattutto sul soldato. Parve loro che, nascosto in quel discorso, ci fosse un significato inatteso, che implicava un pregiudizio in chi parlava. Contribuì ad accentuare un turbamento già abbastanza tangibile. Il soldato riprese la parola con perplessità allusiva, rivolgendosi nello stesso tempo ai suoi colleghi e al capitano Vere: «Non c’è nessuno, nessuno dell’equipaggio, voglio dire, in grado di gettare un po’ di luce, se possibile, sugli aspetti misteriosi di questa faccenda?» «È espresso in modo meditato», disse il capitano Vere. «Vedo dove volete andare a parare. Sì, c’è un mistero, ma, per usare una frase della Scrittura, è il «mistero dell’iniquità», un argomento da sottoporre ai teologi psicologi. Ma che c’entra una corte marziale? Senza aggiungere che nessuna indagine è possibile per il silenzio eterno di... quello... laggiù», e indicò di nuovo l’obitorio. «Il gesto del prigioniero... di questo soltanto dobbiamo occuparci». A queste parole, soprattutto a quelle ribadite alla fine, il soldato, non sapendo rispondere in modo adeguato, si astenne tristemente dal dire altro. Il primo ufficiale, che all’inizio si era posto - cosa naturale - a presiedere il processo, ora istruito da un’occhiata del capitano Vere, un’occhiata irrefutabile e più efficace delle parole, riprese la sua funzione regolamentatrice. Rivolto al prigioniero, «Budd», disse in tono incerto, «Budd, se hai altro da dire in tua difesa, parla ora». A queste parole il marinaio gettò un’altra rapida occhiata al capitano Vere, quindi, quasi cogliesse un suggerimento sul suo volto, un suggerimento di conferma del proprio istinto che in quel momento il silenzio era la cosa migliore, rispose all’ufficiale: «Ho detto tutto, signore». Il soldato di marina - lo stesso rimasto di sentinella fuori della porta della cabina, quando vi era entrato il gabbiere seguito dal maestro d’armi - che durante il procedimento giudiziario era stato accanto al marinaio, ricevette ora l’ordine di riportarlo nella cabina di poppa, assegnata in origine al prigioniero e alla sua guardia. Come i due sparirono alla vista, i tre ufficiali, quasi si sentissero in parte liberati da un’intima costrizione legata alla semplice presenza di Billy, fremettero tutti insieme sulla sedia. Si scambiarono occhiate dubbiose e sconcertate, rendendosi conto che decidere dovevano e senza troppo indugio. Quanto al capitano Vere, rimase per qualche tempo - inconsapevolmente voltando loro la schiena, all’apparenza in uno dei suoi momenti di assorta lontananza - con lo sguardo fisso fuori del portello a ghigliottina a sopravvento, sulla distesa uniforme del mare al crepuscolo. Ma il prolungato silenzio della corte, rotto a momenti soltanto da brevi scambi a voce bassa e fervida, servì a scuoterlo e a rinvigorirlo. Volgendosi, prese a percorrere avanti e indietro, per traverso, la cabina e, al ritorno, saliva sopravvento il ponte, obliquo per il rollio della nave, simboleggiando così inconsapevolmente un animo risoluto a sormontare difficoltà anche contro i primitivi istinti forti come il vento e il mare. Ben presto si fermò davanti ai tre. Dopo aver scrutato i loro volti, rimase immobile simile non tanto a chi raccoglie i propri pensieri per dar loro voce, quanto a chi riflette su come presentarli a uomini bene intenzionati, ma non maturi intellettualmente, uomini ai quali era necessario dimostrare certi principi che per lui erano dogmi. Tale insofferenza a parlare è forse una delle ragioni che sgomentano certi animi dal rivolgersi a un’assemblea popolare. Quando prese la parola, qualcosa, nella sostanza di quanto disse e nel modo in cui lo disse, rivelò l’influenza di studi solitari che avevano modificato e temprato la preparazione pratica di una carriera attiva. Questo, insieme alla sua fraseologia, qua e là lasciava trapelare su quali basi si fondasse l’accusa di pedanteria rivoltagli pubblicamente da certi uomini di mare di indole squisitamente pratica, capitani pronti tuttavia ad ammettere con franchezza che la marina di Sua Maestà non poteva contare su ufficiali di pari grado più efficienti dello stellato Vere. Quello che disse suonava press’a poco così: «Fino a questo momento sono stato un testimone, poco più; e non penserei ora di assumere un tono diverso, quello del vostro coadiutore per il momento, se non percepissi in voi - e per giunta nel punto critico - un’esitazione sgomenta che deriva, non ne dubito, dal conflitto fra il dovere militare e lo scrupolo morale, scrupolo ravvivato dalla pietà. Quanto alla pietà come non posso condividerla? Ma, memore dei doveri supremi, io lotto contro gli scrupoli che tendono a svigorire il verdetto. Non mi nascondo, signori, che si tratta di un caso eccezionale. Dal punto di vista speculativo meriterebbe di essere deferito a una giuria di casisti. Ma per noi che siamo qui non come casisti o moralisti, è un caso pratico che va trattato in modo pratico in conformità alla legge marziale. «Ma i vostri scrupoli: brancolano quasi fossero immersi nell’ombra? Sfidateli. Fateli venire alla ribalta a mostrarsi. Su! Ecco forse il loro significato implicito: se, dimentichi delle circostanze attenuanti, noi siamo tenuti a considerare la morte del maestro d’armi come atto del prigioniero, allora tale atto costituisce un delitto capitale per il quale la condanna è la morte. Ma, in base alla giustizia naturale, non c’è altro da considerare se non l’atto esecutivo del prigioniero? Come possiamo condannare a una morte vergognosa e sommaria una creatura innocente davanti a Dio e che noi tale sentiamo? È esposto in modo corretto? Assentite con tristezza. Sì, anch’io lo sento, ne sento tutta la forza. È la natura. Ma queste stellette che portiamo attestano la nostra lealtà alla natura? No, al Re. Sebbene sia l’oceano l’inviolata natura primigenia, l’elemento nel quale ci muoviamo e viviamo in quanto marinai, tuttavia, in quanto ufficiali del Re, il nostro dovere si attesta in una sfera altrettanto naturale? È così poco vero che, nel ricevere i gradi, noi non siamo più stati, per molti versi fondamentali, liberi agenti naturali. Quando si dichiara guerra, noi, delegati a combatterla, veniamo forse consultati prima? Combattiamo quando ce lo ordinano. Ed è una pura coincidenza se il nostro giudizio approva la guerra. Lo stesso vale in altri campi. Lo stesso vale adesso. Supponiamo che una condanna concluda il presente procedimento. Saremmo noi a condannare, oppure la legge marziale che opera per vostro tramite? Della legge e del suo rigore non siamo noi i responsabili. Il nostro giuramento di responsabilità è questo: per quanto la legge possa operare con inesorabilità in certi casi, noi l’osserviamo e l’applichiamo. «Ma la natura eccezionale di questo caso vi stringe il cuore in petto. Anche il mio è così stretto. Ma non lasciamo che il cuore caldo tradisca la mente che deve restare fredda. A terra, in un processo penale, il giudice onesto si lascerà abbordare da una tenera parente dell’imputato, che cerchi di commuoverlo con suppliche lacrimevoli? Ebbene, il.cuore, talvolta il lato femmineo dell’uomo, è qui come quella donna pietosa e, per quanto sia arduo, è necessario escluderlo». Tacque studiandoli intensamente per un momento, quindi riprese. «Ma qualcosa sul vostro volto sembra ribattere che non soltanto il cuore è turbato dentro di voi, ma anche la coscienza, la coscienza individuale di ciascuno. Ma ditemi se, nella nostra posizione, la coscienza individuale non debba cedere a quella imperiale formulata nel codice, in conformità al quale soltanto noi procediamo». A questo punto i tre uomini si mossero sulla sedia, non tanto convinti quanto agitati dal filo di una argomentazione che accentuava lo spontaneo conflitto interiore. Percependolo, l’oratore fece una breve pausa, quindi, mutando bruscamente di tono, proseguì. «Per rimetterci un po’ in rotta, ricorriamo ai fatti. In tempo di guerra, allargo, un marinaio di una nave da guerra colpisce il suo superiore di grado, e il colpo lo uccide. A prescindere dalle conseguenze, il colpo è di per se stesso, in base agli Articoli di Guerra, un delitto che comporta la condanna capitale. Inoltre...». «Sì, signore», proruppe turbato l’ufficiale della fanteria di marina, «in un certo senso lo è stato. Ma certamente Budd non si proponeva né l’ammutinamento né l’omicidio». «No, di sicuro, mio buon amico. E davanti a una corte meno arbitraria e più misericordiosa di una corte marziale, tale attenuante avrebbe grande rilevanza. Alle Assise Supreme porterà all’assoluzione. Ma qui? Noi procediamo in base alla Legge sull’Ammutinamento. Nessun bambino assomiglia nei lineamenti al genitore più di quanto questa legge assomigli nello spirito a ciò che l’ha originata: la guerra. Al servizio di Sua Maestà - su questa stessa nave - ci sono inglesi costretti contro la loro volontà a combattere per il Re. Contro la loro coscienza, per quanto ne sappiamo. Se come esseri umani alcuni di noi forse rispettano il loro atteggiamento, tuttavia, come ufficiali di marina, la cosa ci riguarda? Ancora meno riguarda il nemico. Volentieri abbatterebbe con lo stesso colpo di falce gli arruolati coatti e quelli volontari. E lo stesso facciamo noi con i coscritti sulle navi nemiche, alcuni dei quali condividono il nostro orrore per il Direttorio francese regicida. La guerra guarda soltanto la facciata, l’apparenza. E la Legge sull’Ammutinamento, figlia della guerra, ha preso dalla madre. L’intenzione o la mancanza di intenzione di Budd è irrilevante. «Ma mentre non faccio che ripetermi, spinto da queste vostre ansie che non posso non rispettare, mentre prolunghiamo in modo così inconsueto un procedimento che dovrebbe essere sommario, il nemico potrebbe essere avvistato e seguirne uno scontro. Dobbiamo agire, e agire entro questa alternativa: condannare o assolvere». «Non possiamo dichiararlo colpevole ma mitigare la pena?», chiese l’ufficiale di rotta, prendendo esitante la parola per la prima volta. «Signori, se anche ciò fosse chiaramente legittimo da parte nostra, date le circostanze, considerate le conseguenze di tale clemenza. Gli uomini» (riferendosi all’equipaggio della nave), «hanno un istinto innato; quasi tutti conoscono bene le nostre consuetudini marinare e tradizioni: come la prenderebbero? Se anche poteste fornire loro delle spiegazioni - e ce lo vieta la nostra posizione ufficiale - questi, a lungo plasmati da una disciplina arbitraria, non hanno quella rispondenza intelligente che potrebbe portarli a comprendere e distinguere. No, agli uomini il gesto del gabbiere, a prescindere dal termine usato nel comunicato, rimarrà un puro e semplice omicidio commesso in un flagrante atto di ammutinamento. Quale condanna debba seguirne, questo lo sanno. Però non è così. Perché? rimugineranno. Sapete come sono i marinai. Non penseranno alla recente rivolta del Nore? Sì. Sanno che l’allarme è fondato... conoscono il panico che si diffuse in tutta l’Inghilterra. La vostra sentenza clemente la considererebbero pusillanime. Penserebbero che indietreggiamo, che abbiamo paura di loro - paura di mettere in atto un legittimo rigore particolarmente richiesto in questa circostanza, per tema che scateni nuovi disordini. Che vergogna per noi questa loro congettura e quanto funesta per la disciplina! Vedete dunque dove, indotto dal dovere e dalla legge, io punti con decisione. Ma vi supplico, amici, non abbiatene a male. Per questo sfortunato ragazzo provo i vostri stessi sentimenti. Ma se egli conoscesse i nostri cuori, avrebbe addirittura uno slancio solidale per noi costretti dal dovere militare a un dovere così gravoso: lo ritengo uomo di natura tanto generosa». Detto questo, attraversato il ponte, riprese il suo posto vicino al portello a ghigliottina, lasciando tacitamente che i tre giungessero a una conclusione. Sul lato opposto della cabina sedevano i giudici sgomenti. Subalterni fedeli, semplici e pratici, sebbene in fondo dissentissero in alcuni punti prospettati dal capitano, non avevano la capacità, neppure quasi la disposizione, di contraddire un uomo che sentivano serio, un uomo superiore a loro per intelletto più ancora che per grado. Ma non è improbabile che perfino quelle parole, pur non lasciandoli indifferenti, li avessero colpiti meno del suo appello finale al loro istinto di ufficiali, un richiamo che delineava le possibili conseguenze pratiche sulla disciplina - vista l’irrequietezza della flotta a quei tempi - se si fosse permesso che l’uccisione violenta in navigazione di un superiore in grado di una nave da guerra passasse per qualcosa di diverso da un delitto capitale da punire con l’immediata esecuzione della pena. Non è improbabile che si trovassero più o meno in uno stato di turbamento affine a quello che nell’anno 1842 spinse il comandante del brigantino degli Stati Uniti Somers a decidere, in base ai cosiddetti Articoli di Guerra, ispirati alla Legge sull’Ammutinamento dell’Inghilterra, la condanna a morte, mentre erano al largo, di un guardiamarina e due marinai, in quanto ammutinati che progettavano di impossessarsi del brigantino. Una sentenza eseguita, sebbene si fosse in tempo di pace e a pochi giorni di navigazione dalla patria. Un atto convalidato da una commissione d’inchiesta successivamente convocata a terra. È storia qui citata senza commenti. Vero, le circostanze a bordo del Somers erano diverse da quelle a bordo della Bellipotent. Ma l’urgenza sentita, fondata o meno, era quasi la stessa. Dice uno scrittore che pochi conoscono: «Quarant’anni dopo una battaglia è facile per chi non vi ha partecipato ragionare su come si sarebbe dovuto combatterla. È tutt’altra cosa dover dirigere il combattimento di persona e sotto il fuoco, mentre si è avvolti nel fumo scuro. Lo stesso vale, quando è imperativo agire con prontezza, per altre situazioni di emergenza che comportano considerazioni pratiche e morali. Più la nebbia è fitta, maggiore è il pericolo per il piroscafo, e solo a rischio di investire qualcuno si raggiunge la velocità. Poco sanno delle responsabilità dell’uomo insonne sulla plancia i tranquilli giocatori di carte nella cabina». In breve Billy Budd, formalmente riconosciuto colpevole, fu condannato a essere impiccato al pennone durante il primo turno di guardia del mattino. Era notte, altrimenti, come è consuetudine in tali casi, la sentenza sarebbe stata eseguita immediatamente. In tempo di guerra, sul campo di battaglia o sul ponte di una nave, la condanna a morte pronunciata da una corte marziale - sul campo di battaglia la pronuncia è a volte soltanto un cenno di assenso del generale - segue la dichiarazione di colpevolezza senza indugi, senza appello.
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Fu il capitano Vere che di propria iniziativa comunicò al prigioniero il verdetto della corte, recandosi a tale scopo nella cabina dove era rinchiuso e chiedendo alla guardia di ritirarsi per il momento. Al di là della comunicazione della sentenza non si seppe mai quanto era avvenuto durante il colloquio. Ma, tenuto conto del carattere dei due uomini che per un breve periodo rimasero chiusi in quella cabina - entrambi intimamente partecipi di rare qualità della nostra natura, così rare invero da essere inconcepibili per una mente mediocre, pur istruita - si possono azzardare alcune congetture. Sarebbe stato in armonia con l’indole del capitano Vere, se in quell’occasione non avesse nascosto nulla al condannato - se invero gli avesse con franchezza rivelato la parte da lui stesso avuta nel determinare quella decisione, mettendo in luce nello stesso tempo i motivi che lo avevano spinto. Da parte di Billy non è improbabile che la confessione sia stata accolta, più o meno, con lo stesso spirito di quello che l’aveva suggerita. Non senza una sorta di gioia, invero, forse si compiacque dell’alta opinione che il capitano doveva avere di lui, implicita nel fatto che gli si era confidato. E quanto alla sentenza in sé, non sarebbe potuto restare insensibile al fatto che gli veniva comunicata come a chi non teme di morire. Forse ci fu di più. Forse alla fine il capitano Vere espresse la passione a volte nascosta sotto un aspetto stoico o indifferente. Aveva abbastanza anni per essere il padre di Billy. L’austero militare rigoroso nell’osservanza del dovere militare, abbandonandosi a quanto resta di primordiale nella nostra umanità costretta dalle forme, forse alla fine strinse Billy al petto, come forse Abramo strinse il giovane Isacco sul punto di sacrificarlo senza esitazione, in ottemperanza al duro comando. Ma non è possibile dire quale sacramento venga celebrato - di rado, forse mai, rivelato al mondo fatuo - quando, in circostanze simili a quelle che qui si è cercato di esporre, si abbracciano due animi del più nobile ordine della natura. C’è un’esigenza di discrezione in quel momento che chi sopravvive non può violare; e il sacro oblio, che segue sempre alla divina magnanimità, alla fine si stende su tutto. Il primo a incontrare il capitano Vere nell’atto di uscire dalla cabina fu il primo tenente. Il volto, che in quel momento esprimeva l’angoscia del forte, fu una rivelazione sconvolgente per quell’ufficiale, che pure era un uomo di cinquant’anni. Che il condannato soffrisse meno di colui che era stato il principale artefice di quella condanna apparve chiaramente dimostrato dall’esclamazione del primo nella scena che tra poco sarà necessario descrivere.
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La narrazione adeguata di una serie di eventi che si susseguono incalzanti in un breve lasso di tempo rischia di prendere un tempo meno breve, soprattutto se una spiegazione e un commento qui e lì sembrano essere i requisiti necessari a una migliore comprensione degli eventi stessi. Fra l’entrata nella cabina di colui che non vi uscì più vivo e di colui che vi uscì, sì, ma condannato a morire, tra questo e il colloquio segreto era trascorsa meno di un’ora e mezzo. Era tuttavia un intervallo abbastanza lungo da suscitare congetture fra non pochi uomini dell’equipaggio della nave su quanto trattenere il maestro d’armi e il marinaio, perché la voce che entrambi erano stati visti entrare e nessuno dei due uscire, questa voce si era diffusa sul ponte di batteria e sulle coffe. Gli uomini di una grande nave da guerra sono, da questo punto di vista, non diversi dagli abitanti di un villaggio, che prendono nota minuziosa di ogni movimento o mancato movimento. Quando, perciò, con un cielo per nulla tempestoso, tutti gli uomini vennero raccolti in coperta durante il secondo turno di guardia, un appello insolito a quell’ora e in quelle circostanze, l’equipaggio non era del tutto impreparato a un annuncio straordinario, un annuncio che fosse inoltre collegato con la protratta assenza dei due uomini dai loro posti abituali. Il mare era piuttosto tranquillo in quel momento; la luna, sorta da poco e quasi piena, inargentava il biancore del ponte di coperta là dove il chiarore non era macchiato dalle nitide ombre orizzontali gettate dalle attrezzature e dagli uomini in movimento. Sui due lati del ponte di comando venne schierata la guardia armata della fanteria di marina, e il capitano Vere, dritto al suo posto, circondato da tutti gli ufficiali del quadrato, si rivolse ai suoi uomini. Nel fare ciò, si condusse né più né meno come si addiceva alla sua suprema posizione a bordo della nave. Con parole chiare e concise espose loro quanto era accaduto nella cabina: che il maestro d’armi era morto, che colui che lo aveva ucciso era già stato giudicato da una corte sommaria e condannato a morte, che l’esecuzione avrebbe avuto luogo durante il primo turno di.guardia mattutino. Nel discorso non fu mai pronunciata la parola ammutinamento. Si astenne anche dal cogliere l’occasione per esortare all’osservanza della disciplina, pensando forse che, nella situazione attuale della marina, la conseguenza dell’averla violata sarebbe stata di per sé eloquente. L’annuncio del capitano giunse a un assembramento di marinai in piedi, muti, simili a una congregazione di credenti nell’inferno, che ascolta, seduta, l’annuncio del pastore su un testo calvinista. Alla fine tuttavia si levò un confuso mormorio. Prese a crescere. Quasi immediatamente, allora, a un segnale, gli acuti fischi del nostromo e dei suoi secondi lo perforarono e lo zittirono. Venne dato l’ordine di virare di bordo. Il corpo di Claggart fu consegnato ad alcuni sottufficiali della sua mensa perché lo preparassero alla sepoltura. E qui per non intasare il seguito con elementi marginali, si può aggiungere che a un’ora opportuna il maestro d’armi fu affidato al mare con tutte le onoranze funebri che si addicevano al suo grado. In questa procedura, come in tutti gli atti pubblici derivanti dalla tragedia, ci si attenne rigorosamente alle usanze. E non sarebbe stato possibile deviarne in nessun punto né per Claggart né per Billy Budd, senza suscitare riflessioni non desiderabili nell’equipaggio, poiché i marinai e in particolare quelli di una nave da guerra sono, fra tutti gli uomini, i sostenitori più accaniti della consuetudine. Per analogo motivo, con il colloquio segreto già citato, ebbero fine i contatti fra il capitano Vere e il condannato, che veniva ora affidato alle solite formalità preliminari alla fine. Il trasferimento sotto scorta dagli alloggi del capitano fu effettuato senza insolite precauzioni - perlomeno non erano evidenti. È tacita regola su una nave da guerra non far sospettare agli uomini - se possibile - che gli ufficiali temono qualche gesto inconsulto. E quanto più si teme qualche guaio, tanto più gli ufficiali tengono per sé queste apprensioni, sebbene, senza ostentazione, si possa accentuare la vigilanza. In questo caso la sentinella a guardia del prigioniero ricevette ordini rigorosi di non lasciare che nessuno, tranne il cappellano, gli parlasse. E per assicurare che così fosse in modo assoluto, vennero prese certe misure discrete.
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In una settantaquattro del vecchio tipo il cosiddetto ponte superiore di batteria era quello sotto il ponte di coperta il quale, pur non privo di armamenti, era in gran parte esposto alle intemperie. Era, in generale, sgombro di amache a tutte le ore della giornata; gli uomini dell’equipaggio, infatti, dondolavano nel ponte inferiore e nel ponte delle cuccette. Quest’ultimo non era soltanto un dormitorio, ma anche il posto dove erano stivati i sacchi dei marinai ed era fiancheggiato sui due lati da grossi bauli e dispense mobili per le numerose mense degli uomini. A dritta del ponte superiore di batteria della Bellipotent ecco Billy Budd, piantonato dalla sentinella, prono, in ceppi, in una delle nicchie formate dai cannoni regolarmente spaziati fra loro, che compongono le batterie sui due lati. Erano tutti pezzi del più grosso calibro all’epoca. Montati su pesanti affusti di legno, erano fissati da ingombranti finimenti di funi e robusti paranchi laterali per farli scorrere fuori. Cannoni e affusti, insieme con i lunghi calcatoi e le più corte aste per gli inneschi agganciate in alto con funi erano - come è consuetudine - dipinti di nero, e le pesanti imbracature di canapa, incatramata nello stesso colore, indossavano la stessa livrea dei becchini. In contrasto con la tonalità funerea dell’ambiente l’aspetto esteriore del marinaio prono, con la casacca e i pantaloni di tela bianca, entrambi più o meno sporchi, era un vago barlume nel fioco chiarore della nicchia, simile a una chiazza di neve scolorita, che all’inizio di aprile indugi sulla nera imboccatura di una caverna montana. In realtà indossa già il sudario, ovvero le vesti che avranno quella funzione. Sulla sua testa, rischiarandolo appena, due lanterne da battaglia oscillano appese a due massicci bagli del ponte sovrastante. Alimentate con l’olio provvisto dai fornitori militari (i cui guadagni, onesti o no, sono in tutti i paesi un acconto sul raccolto della morte), con le loro tremule chiazze di luce giallognola imbrattano il pallido chiarore lunare, che quasi invano cerca di entrare attraverso i portelli spalancati dai quali spuntano i cannoni coperti. Altre lanterne, a intervalli, servono soltanto a rivelare un po’ le nicchie più oscure che, simili ai piccoli confessionali e alle cappelle laterali di una cattedrale, si diramano dall’ampia fuga della fioca navata fra le due batterie di quell’andana coperta. Tale era il ponte dove giaceva ora il Bel Marinaio. Attraverso il colorito roseo della sua carnagione non poteva trapelare il pallore. Ci sarebbero voluti giorni di isolamento dai venti e dal sole per cancellare quel colore. Ma sulla punta degli zigomi, lo scheletro cominciava ad affiorare delicatamente sotto il colorito caldo della pelle. In un cuore fervido e schivo certe brevi esperienze divorano il tessuto umano, come in una stiva un fuoco segreto consuma una balla di cotone. Ma ora, mentre giaceva fra due cannoni come stretto nella morsa del destino, l’agonia di Billy, causata in gran parte dalla nuova esperienza del male - che si incarna e opera in certi uomini - vissuta da un cuore giovane e generoso, la tensione di quell’agonia si era placata. Non era sopravvissuta al contatto salutare del colloquio segreto con il capitano Vere. Giaceva immobile quasi fosse in stato di trance, con quell’aria adolescente già notata, che gli conferiva un’espressione simile al volto di un bimbo che dorme nella culla, quando di notte il caldo bagliore dei tizzoni nella quiete della stanza scherza sulle fossette, che a tratti si formano misteriosamente sulle guance, guizzando e svanendo in silenzio. Di tanto in tanto, infatti, nel quieto torpore dell’uomo in ceppi, una tranquilla luce serena, evocata da qualche vago ricordo e sogno, si diffondeva sul suo volto e dileguava soltanto per riaffiorare ancora. Venne il cappellano e lo trovò così. Non cogliendo segno che egli si fosse accorto della sua presenza, rimase a osservarlo attento per un po’, quindi scivolando di lato, si ritrasse per il momento, consapevole che forse neppure lui, ministro di Cristo ma stipendiato da Marte, aveva da elargire una consolazione che avrebbe potuto tradursi in una pace.superiore a quella sotto i suoi occhi. Ma ritornò durante le ore piccole. E il prigioniero, ora vigile a quanto lo circondava, lo vide avvicinarsi e con garbo, quasi con animo lieto, gli diede il benvenuto. Con scarso risultato tuttavia, nel colloquio che seguì, il buon uomo cercò di far capire a Billy Budd la sacralità di dover morire e morire all’alba. Vero, Billy stesso parlava della propria morte come di un fatto imminente, ma lo faceva un po’ come fanno i bambini che parlano della morte in modo generale, e fra gli altri passatempi giocano al funerale con catafalco e persone in lutto. Non che, al pari dei bambini, Billy fosse incapace di concepire che cosa sia la morte. No, ma era del tutto scevro dalla paura irrazionale della morte, una paura prevalente nelle comunità altamente civili rispetto a quelle cosiddette barbare che, sotto tutti i punti di vista, sono più prossime alla natura intatta. E, come detto altrove, Billy era un barbaro sostanzialmente - non meno, nonostante gli abiti, dei suoi connazionali britannici prigionieri fatti marciare a Roma - trofei viventi - nel trionfo di Germanico. Allo stesso modo, in epoca successiva, riferendosi ad altri barbari, giovani probabilmente, scelti fra i primi convertiti britannici al Cristianesimo, cosiddetti tali almeno, portati a Roma (come oggi potrebbero essere condotti a Londra i convertiti di isole minori sperdute nei mari), il papa del tempo, ammirandone la strana bellezza della figura, così diversa dallo stampo italiano - la carnagione chiara e rosata, i riccioli biondi - esclamò: «Angli» (intendendo inglesi, che è il termine moderno), «Angli li chiamate? Forse perché somigliano tanto agli angeli?». Se ciò fosse accaduto in età più tarda, si sarebbe pensato che il papa avesse in mente i serafini di fra’ Angelico, alcuni dei quali, intenti a cogliere mele nel giardino delle Esperidi, hanno la carnagione delicatamente rosata delle più belle ragazze inglesi. Se inutilmente il buon cappellano cercò di infondere nel giovane barbaro idee di morte affini a quelle evocate dal teschio, dalla meridiana e dalle ossa in croce incise sulle vecchie lapidi, altrettanto vani furono in apparenza i suoi sforzi per trasmettergli l’idea della salvezza e di un Salvatore. Billy ascoltava, non tanto per timore panico o riverenza, quanto forse per una certa cortesia naturale, considerando dentro di sé, senza dubbio, tutti quei discorsi alla stessa stregua in cui molti uomini di mare simili a lui prendono i discorsi astratti e insoliti rispetto a quelli normali del loro mondo prosaico. E questa maniera marinara di accogliere le dissertazioni clericali non è del tutto dissimile da come, tanto tempo fa, furono accolte le prime nozioni del Cristianesimo nelle isole tropicali dai cosiddetti selvaggi superiori - un tahitiano, diciamo, dell’epoca del capitano Cook o di poco posteriore. Per cortesia naturale accettava, ma non se ne appropriava. Sembrava un dono posato sul palmo di una mano tesa intorno al quale non si stringono le dita. Ma il cappellano della Bellipotent era un uomo discreto che aveva il buon senso del cuore buono. Così non insistette nella sua vocazione. Per volere del capitano Vere, un tenente lo aveva informato di quasi tutto ciò che riguardava Billy, e poiché sentiva che per presentarsi al Giudizio l’innocenza andava meglio della religione, con riluttanza si ritirò, non senza prima compiere, spinto dall’emozione, un gesto abbastanza strano in un inglese, e ancora più strano, nelle attuali circostanze, in un prete regolare. Chinandosi su di lui, baciò sulla bella guancia il suo simile, un criminale secondo la legge marziale, un uomo che, giunto al limitare della morte, egli si sentiva impotente a convertire a un dogma, pur non temendo, nonostante ciò, per il suo futuro. Nessuna meraviglia che, pur conoscendo la sostanziale innocenza del giovane marinaio, il degno uomo non abbia alzato un dito per allontanare la condanna di quel martire della disciplina marziale. Farlo non soltanto sarebbe stato vano quanto invocare il deserto, ma sarebbe anche stata un’audace trasgressione dei limiti della sua funzione, definita dalle leggi militari con la stessa precisione delle funzioni del nostromo o di qualsiasi altro ufficiale. Per dirla schietta, il cappellano è il ministro del principe della pace che serve nell’esercito del dio della guerra: Marte. In quanto tale, è incongruo, come lo sarebbe un moschetto sull’altare il giorno di Natale. Perché allora è lì? Perché indirettamente serve lo scopo attestato dal cannone; perché inoltre sancisce con la religione dei mansueti quanto in pratica abroga tutto ciò che non sia forza bruta.
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La notte così luminosa sul ponte di coperta, ma ben diversa nei cavernosi ponti inferiori, tanto simili ai cunicoli sovrapposti di una miniera di carbone - la luminosa notte si dileguò. Ma come il profeta che, scomparendo in cielo sul suo carro, gettò il mantello a Eliseo, la notte nel ritirarsi cedette al giorno nascente la sua pallida veste. Un chiarore mite e timido apparve a oriente ove si stendeva un diafano vello di bianchi vapori striati. La luce a poco a poco si intensificò. All’improvviso risuonarono gli otto rintocchi; cui rispose da prua un solo colpo forte e metallico. Erano le quattro del mattino. All’istante si sentirono i fischietti d’argento che convocavano tutti gli uomini per assistere alla punizione. Su, attraverso i grandi boccaporti bordati di rastrelliere di pesanti proiettili, sciamarono gli uomini di guardia nei ponti inferiori, disperdendosi con quelli già sul ponte nello spazio fra l’albero di maestra e l’albero di trinchetto, compreso quello occupato dalla capace lancia e dai neri boma accatastati su entrambi i lati, facendo così, barca e boma, un punto di osservazione per i ragazzi della santabarbara e i marinai più giovani. Un diverso gruppo comprendente una guardia di gabbieri si sporgeva dal parapetto di quel balcone sul mare, non piccolo in una nave da settantaquattro, guardando giù sulla folla sottostante. Uomo o ragazzo, nessuno parlava se non sussurrando, e ben pochi aprivano bocca. Il capitano Vere - la figura centrale fra gli ufficiali raccolti intorno a lui - stava ritto al margine del cassero di poppa con lo sguardo davanti a sé. Proprio sotto di lui sul ponte di comando era schierata la fanteria di marina, in modo analogo a quando era stata pronunciata la sentenza. Nei tempi andati, in mare, l’esecuzione per capestro di un marinaio militare avveniva generalmente al pennone di trinchetto. In questo caso, per motivi speciali, fu scelto il pennone di maestra. Sotto il braccio di questo pennone.venne subito condotto il prigioniero, assistito dal cappellano. Si notò allora, e in seguito fu fatto osservare, che in questa scena finale il brav’uomo diede mostra di non svolgere affatto, o quasi, il suo compito per abitudine. Ci fu uno scambio, ma l’autentico Vangelo non era tanto sulle sue labbra quanto nel suo aspetto e nel modo in cui si rivolgeva al condannato. Gli estremi preparativi nei confronti di quest’ultimo vennero rapidamente conclusi da due aiutanti del nostromo: incombeva l’esecuzione. Billy era in piedi con il volto rivolto a poppa. Nell’estremo momento le sue parole, le sue uniche parole, parole pronunciate in modo assolutamente fluido, furono queste: «Dio benedica il capitano Vere!». Queste sillabe inattese che venivano da un uomo con l’infame cappio intorno al collo - la benedizione di un uomo giudicato criminale, diretta a poppa verso i palchi d’onore; queste sillabe pronunciate per giunta con il tono limpido e melodioso di un uccello canterino nell’atto di spiccare il volo da un ramoscello - ebbero un effetto straordinario, accentuato dalla rara bellezza fisica del marinaio, spiritualizzata ora dalle recenti esperienze così amaramente profonde. Senza volere, per così dire, come se davvero l’equipaggio della nave non fosse che il veicolo di una corrente elettrica vocale, a una sola voce dal basso e dall’alto risuonò l’eco partecipe: «Dio benedica il capitano Vere!». Eppure in quell’istante soltanto Billy doveva essere nei loro cuori, come lo era nei loro occhi. A quelle parole e all’eco spontanea che le rimandò in un rimbombo, il capitano Vere - chissà se per stoico autocontrollo o per una momentanea paralisi prodotta dalla tensione emotiva - rimase rigidamente eretto come un moschetto nella rastrelliera dell’armaiolo. La chiglia, risalendo piano dal regolare rollio sottovento, si stava riequilibrando, quando venne dato l’ultimo, tacito segnale concordato in precedenza. Nello stesso istante accadde che il vello di vapori che indugiava basso a oriente fosse trafitto da una luce morbida e gloriosa come il vello dell’Agnello di Dio contemplato in una visione mistica, e in quell’attimo, fissato dalla massa fitta dei visi rivolti in alto Billy ascese e, ascendendo, colse tutta la luce rosea dell’alba. Nella figura legata, giunta all’estremità del pennone, con sorpresa di tutti non si vide un solo movimento, nessuno tranne quello creato dal rollio della chiglia, lento quando il tempo è sereno e così solenne in una grande nave poderosamente armata.
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Quando, alcuni giorni dopo, in relazione alla singolarità appena ricordata, il commissario di bordo - un uomo piuttosto rubizzo e rotondo, più preciso come contabile che profondo come filosofo, seduto a mensa disse al chirurgo: «Quale testimonianza del potere riposto nella forza di volontà!», quest’ultimo, un personaggio saturnino, sparuto e alto, in cui una discreta causticità si accompagnava a maniere più cortesi che cordiali, rispose: «Con vostra licenza, signor commissario. In un’impiccagione scientificamente condotta - e per ordine speciale io stesso ho indicato come effettuare quella di Billy - ogni movimento del corpo, successivo alla sospensione completa, sta a indicare uno spasmo meccanico nel sistema muscolare. Perciò l’assenza di tali movimenti non è attribuibile alla forza di volontà, come la chiamate voi, più di quanto non lo sia alla forza dei cavalli a vapore, se mi consentite». «Ma questo spasmo muscolare di cui parlate non è più o meno invariabile in questi casi?» «Certamente, signor commissario». «Come allora, mio caro signore, spiegate quest’assenza nel caso in questione?» «Signor commissario, è chiaro che la vostra percezione della singolarità del caso non è pari alla mia. Voi ne date una spiegazione in termini di forza di volontà, come la chiamate - un termine che non è ancora entrato a far parte del linguaggio della scienza. Quanto a me, in base alle mie attuali conoscenze, non pretendo di spiegarla affatto. Se anche partissimo dall’ipotesi che al primo contatto con la drizza il cuore di Budd, teso per la straordinaria emozione giunta al culmine, si sia fermato di colpo, proprio come un orologio quando caricandolo sbadatamente lo forzate alla fine, spezzandone così la molla, anche in tale ipotesi, come si spiega il fenomeno che è seguito?» «Ammettete allora che l’assenza del movimento spasmodico sia stata eccezionale?» «È stata eccezionale, signor commissario, nel senso che si è trattato di un fenomeno di cui non è possibile individuare subito la causa». «Ma ditemi, caro signore», continuò l’altro con ostinazione, «la morte dell’uomo fu causata dal capestro, oppure si trattò di una specie di eutanasia?» «Eutanasia, signor commissario, è un po’ come la sua forza di volontà: dubito della sua autenticità come termine scientifico, se mi scusate di nuovo. È insieme fantasioso e metafisico... greco, in una parola. Ma», continuò cambiando improvvisamente tono, «c’è in infermeria un caso che non voglio lasciare ai miei assistenti. Vogliate scusarmi, vi prego». E alzandosi dal tavolo si ritirò con tutte le formalità di rito.
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Il silenzio che cadde nel momento dell’esecuzione e che si prolungò per qualche attimo, un silenzio acuito dal regolare sciabordio del mare contro la chiglia o dal fremito di una vela - gli occhi del timoniere erano infatti distratti - questo silenzio così acuito fu a poco a poco disturbato da un suono che non è facile rendere a parole. Chiunque abbia sentito l’ondata di piena di un torrente gonfiato dagli acquazzoni scroscianti sulle montagne tropicali, acquazzoni che non toccano la pianura, chiunque abbia sentito il primo mormorio sommesso del suo precipitare attraverso boschi.scoscesi, può farsi un’idea del suono che ora si percepiva. Il mormorio indistinto faceva pensare che giungesse da una forza remota, mentre veniva da vicino, dagli uomini ammassati in coperta. Era un brontolio inarticolato, ambiguo, che sembrava indicare un qualche mutamento capriccioso dei pensieri e dei sentimenti, simile a quello delle folle a terra, e nel caso presente forse sottintendeva un’astiosa revoca da parte degli uomini dell’eco alla benedizione di Billy, involontariamente scaturita da loro. Ma prima che avesse il tempo di ingrossarsi diventando un clamore, il brontolio si scontrò con un ordine strategico, tanto più efficace quanto più fu brusco e inaspettato: «Chiamate giù la guardia di dritta, nostromo; badate a che se ne vadano». Striduli come il grido del gabbiano, i fischietti d’argento del nostromo e dei suoi aiutanti perforarono quel brontolio basso e sinistro, dissipandolo, e, cedendo al meccanismo della disciplina, la calca si assottigliò alla metà. Quanto agli altri, la maggior parte venne assegnata a occupazioni temporanee come l’orientamento dei pennoni e così via, compiti facili da trovare per ogni ufficiale di coperta, quando serve. Ora ogni atto che segue una sentenza capitale pronunciata in mare da una corte marziale è caratterizzato da una prontezza che non diventa percettibilmente concitazione, pur rasentandola. L’amaca - il letto di Billy da vivo - era già stata zavorrata con proiettili e preparata per fare da bara di tela; vennero portati a termine in fretta gli ultimi compiti dei becchini, gli aiutanti del velaio. Quando tutto fu pronto, risuonò una seconda chiamata per gli uomini, resa necessaria dal movimento strategico sopra ricordato, per assistere ora alle esequie. Non occorre dare i particolari di questa formalità conclusiva. Ma quando la tavola inclinata fece scivolare in mare il suo carico, si sentì un secondo strano mormorio umano, mescolato ora a un altro suono, quello inarticolato emesso dai grandi uccelli marini che; attratti dall’inusitato turbinio delle acque prodotto dal pesante tuffo obliquo dell’amaca gettata in mare, volarono stridendo verso quel punto. Giunsero così prossimi alla chiglia che erano percepibili lo stridio o lo scricchiolio ossuto delle ali scarne a doppia giuntura. Quando la nave spinta da venti leggeri passò oltre, lasciandosi a poppa il luogo delle esequie, continuarono a roteare bassi con l’ombra mobile delle ali spiegate e il gracchiante requiem delle loro strida. Per marinai superstiziosi come erano quelli dell’epoca precedente la nostra, marinai, per giunta, di una nave da guerra che avevano appena visto il prodigio dell’immobilità nella figura sospesa nell’aria, ora sprofondante negli abissi, per tali uomini il comportamento degli uccelli marini, sebbene dettato esclusivamente dall’avidità animale per la preda, era greve di significati nient’affatto prosaici. Serpeggiò fra loro un movimento incerto e non mancarono gli abusi. Furono tollerati soltanto per un istante. All’improvviso infatti il tamburo rimbombò richiamandoli ai loro posti, e il suono familiare, che si sentiva almeno due volte al giorno, conteneva in quella occasione un che di perentorio. L’autentica disciplina marziale protratta a lungo induce nell’uomo comune una specie di impulso che, alla parola ufficiale del comando, agisce con una prontezza simile a una reazione istintuale. Il rombo del tamburo dissolse la moltitudine, distribuendo quasi tutti gli uomini lungo le batterie dei due ponti coperti. Lì, come di consuetudine, i cannonieri, eretti e in silenzio, si posero accanto ai rispettivi cannoni. A tempo debito il primo ufficiale, ritto, con la spada sotto il braccio, al suo posto sul cassero, ricevette formalmente uno dopo l’altro i rapporti dei tenenti pure armati di spada, che comandavano le sezioni delle batterie sottostanti, e, ricevuto l’ultimo rapporto, consegnò il rapporto riassuntivo al comandante con il saluto di rito. Per tutto questo ci voleva tempo, e questo era, nell’attuale circostanza, lo scopo di chiamare gli uomini ai loro posti un’ora prima del solito. Che tale deviazione dalla consuetudine venisse autorizzata da un ufficiale come il capitano Vere, un pugno di ferro quanto a disciplina come lo consideravano tutti, dimostrava la necessità di un intervento insolito, imposto dall’umore che in quel momento a suo avviso avevano i marinai. «Con gli uomini», era solito dire, «le forme, le forme ritmate sono tutto. E questo il significato implicito della leggenda di Orfeo, che con la sua lira incanta i selvaggi abitatori della foresta». Un paragone che una volta aveva applicato al sovvertimento delle forme in corso al di là della Manica e alle conseguenze che ne erano scaturite. Dopo l’insolito richiamo ai propri posti, tutto procedette come nell’orario regolare. Sul cassero la banda suonò, un’aria sacra, dopo di che il cappellano ufficiò il consueto servizio mattutino. Ciò fatto, il tamburo diede il segnale della ritirata, e al ritmo della musica e dei riti religiosi funzionali alla disciplina e agli scopi della guerra, gli uomini nella consueta maniera ordinata si dispersero verso i luoghi loro assegnati, quando non erano ai cannoni. Era pieno giorno ormai. Il vello di vapori bassi si era dileguato, assorbito dal sole che prima lo aveva illuminato in tutta la sua gloria. E l’aria circostante, nitida nella sua limpidezza, era come un liscio marmo candido nel blocco levigato, non ancora rimosso dal cortile del marmista.
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Non è facile ottenere in una narrazione, nella sua essenza collegata meno alla fantasia che ai fatti, la simmetria formale raggiungibile nella finzione pura. La verità raccontata senza ammiccamenti ha sempre certe asprezze di contorno; ne consegue che la conclusione di una storia del genere non sarà rifinita come potrebbe esserlo un pinnacolo architettonico. È stato fedelmente narrato quello che accadde al Bel Marinaio nell’anno del grande ammutinamento. Ma sebbene la storia finisca propriamente con la sua vita, non sarà fuori luogo una specie di epilogo. Basteranno tre capitoletti.. Sotto il Direttorio, quando si ribattezzarono tutte le navi che in origine formavano la flotta della monarchia francese, la nave da battaglia St. Louis fu denominata Athée (l’Atea). Questo nome, al pari di altri sostituiti nella flotta rivoluzionaria, mentre proclamava la profana audacia degli uomini al potere, era tuttavia, pur senza averne l’intenzione, il nome più adatto, a ben considerare, mai dato a una nave da guerra; molto più adatto, anzi, di Devastation, Erebus (Inferno) e altri analoghi. Nel viaggio di ritorno per raggiungere la flotta inglese, dopo la crociera distaccata durante la quale si erano verificati gli avvenimenti narrati, la Bellipotent si imbatté nell’Athée. Ne seguì un combattimento, nel corso del quale il capitano Vere, nella manovra di accostare la sua nave a quella nemica per mandare i suoi uomini all’abbordaggio oltre le murate, fu colpito da una palla di moschetto proveniente da un portello della cabina principale della nave nemica. Ferito gravemente, cadde sul ponte e venne portato di sotto nella stessa infermeria ove giacevano già altri uomini. A prendere il comando fu l’ufficiale più anziano. Sotto la sua guida la nave nemica venne alla fine catturata e, pur molto danneggiata, si riuscì a portarla, con rara fortuna, a Gibilterra, un porto inglese non molto distante dal teatro della battaglia. Lì, insieme agli altri feriti, venne sbarcato il capitano Vere. Per qualche giorno si trascinò, ma giunse la fine. Purtroppo fu falciato troppo presto per il Nilo e Trafalgar. Lo spirito che, malgrado la sua filosofica austerità, forse si era abbandonato alla più segreta di tutte le passioni, l’ambizione, non attinse mai la pienezza della fama. Non molto prima della morte, mentre giaceva sotto l’influenza di quella droga magica che, lenitrice del fisico, opera in modo misterioso sull’elemento più sottile dell’uomo, lo si sentì mormorare parole incomprensibili per il suo attendente: «Billy Budd, Billy Budd». Che non fossero queste le parole del rimorso parve chiaro, da quanto disse l’attendente, all’ufficiale anziano della fanteria di marina sulla Bellipotent, lui che, il più riluttante alla condanna fra gli uomini della corte marziale, sapeva fin troppo bene, sebbene lo tenesse per sé, chi fosse stato Billy Budd.
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Alcune settimane dopo l’esecuzione, fra i vari temi trattati sotto il titolo Notizie dal Mediterraneo, apparve in una cronaca navale del tempo, una pubblicazione settimanale ufficiale, un resoconto della vicenda. Non c’è dubbio che fosse in gran parte scritto in buona fede, sebbene il veicolo tramite il quale i fatti devono aver raggiunto il cronista fosse costituito in parte da dicerie, atte a distorcerli e in parte a falsificarli. Ecco il resoconto: «Il 10 del mese scorso, a bordo della nave di Sua Maestà Bellipotent, si verificò un deplorevole episodio. John Claggart, il maestro d’armi, scoprendo che in una sezione inferiore dell’equipaggio covava un complotto e che il caporione era un certo William Budd, egli - Claggart - nell’atto di accusare l’uomo al cospetto del capitano, fu per vendetta pugnalato al cuore dal coltello di Budd, estratto all’improvviso. «Il fatto e l’arma usata sono prove bastanti che, sebbene arruolato sotto un nome inglese, l’assassino non era inglese, bensì uno di quegli stranieri che adottano cognomi inglesi e che, per le attuali esigenze eccezionali di servizio, sono stati immessi in numero considerevole nella marina. «L’enormità del delitto e l’estrema malvagità del criminale appaiono ancora più grandi, se si considera il carattere della vittima, un uomo di mezza età, rispettabile e discreto, appartenente a quella classe di ufficiali minori, i sottufficiali, dai quali - e nessuno lo sa meglio dei signori ufficiali - dipende in così larga misura l’efficienza della flotta di Sua Maestà. Il suo era un compito di responsabilità, oneroso e insieme ingrato; la sua dedizione ancora più grande perché dettata da un forte slancio patriottico. In questo caso, come in molti altri al giorno d’oggi, il carattere di quest’uomo sfortunato confuta in modo esemplare, se mai fosse necessario confutarlo, quell’impertinente detto attribuito al defunto dottor Johnson, che il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie. «Il criminale ebbe la giusta punizione per il delitto. La prontezza della sanzione si è rivelata salutare. Non si temono disordini a bordo della Bellipotent». Quanto sopra, apparso in una pubblicazione ora da lungo tempo sorpassata e dimenticata, è tutto ciò che rimane nelle cronache umane a testimoniare che uomini fossero rispettivamente John Claggart e Billy Budd.
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Ogni cosa è venerata per un certo tempo in marina. Tutti gli oggetti tangibili collegati con qualche clamoroso episodio della sua storia diventano monumenti. Per alcuni anni i marinai non persero di vista il pennone al quale era stato impiccato il gabbiere. Continuarono a seguirne le tracce dalla nave all’arsenale e di nuovo dall’arsenale alla nave, senza perderlo di vista neppure quando alla fine fu ridotto a un semplice asse di cantiere. Per loro un frammento di quel pennone equivaleva a un pezzetto della Croce. All’oscuro come erano delle circostanze segrete della tragedia, pur convinti che, da un punto di vista militare, la pena inflitta fosse inevitabile, sentivano istintivamente che Billy era il tipo d’uomo incapace di ammutinamento e di omicidio premeditato. Ricordavano l’immagine giovane e fresca del Bel Marinaio, quel volto mai sfigurato dal sogghigno o da perfidi e vili ghiribizzi del cuore. Un’impressione, questa, indubbiamente intensificata dal fatto che se ne era andato, e in certo modo andato misteriosamente. Sui ponti di batteria della Bellipotent la considerazione generale per la sua natura e per la sua inconsapevole semplicità trovò alla fine rude espressione per mezzo di un altro gabbiere, un uomo del suo stesso turno di guardia, dotato, come lo sono a volte i.marinai, di un istintivo temperamento poetico. Quella mano impeciata compose dei versi che, dopo essere circolati per qualche tempo fra le ciurme, alla fine vennero rozzamente stampati a Portsmouth in forma di ballata. Il titolo fu quello dato dal marinaio.
BILLY IN CEPPI Bravo il cappellano nella cella solitaria entrò E giù sulle ginocchia cadde e pregò Per quelli come me, Billy Budd. Ma guarda: Attraverso il portello, sghimbescio viene il chiar di luna terso! Sfiora la sciabola della guardia e inargenta questo angolino; Ma Billy morirà nell’ultimo giorno, al mattino. A Molly di Bristol diedi un orecchino: Domani così un gioiello sarò alla corda tesa, Perla al pennone appesa. Oh, sospenderanno me, non il verdetto. Ahi, ahi, tutto è a posto, anch’io devo essere a posto, Di mattina presto, da qui in basso sarò eretto. A stomaco vuoto non son disposto. Mi daranno un boccone prima che vada, un pezzo di biscotto. Sicuro, un compagno mi darà la tazza di addio; Ma alla ghinda e alla caviglia volgendo la testa da sotto, Chi mi tirerà su, non lo so io! Niente fischietto alle drizze. Ma non è tutta una finta? Un velo nei miei occhi; sto sognando. Un’accetta al mio gherlino? Andrò alla deriva? Il tamburo rullerà per il grog e Billy non arriva? Ma Donald ha promesso di stare accanto alla bordatura; Così gli stringerò la mano prima della sepoltura. Ma, no! Mi vien da pensare: la mia morte sarà sicura. Ricordo quando andò a fondo Taff il gallese, E come fiori in boccio erano le guance accese. Me mi legheranno alla cuccetta, in fondo finirò, Giù, giù, dormendo sodo, come sognerò! Sento che si fa avanti. Sentinella, sei lì? Allentami i ceppi al polso qui, rivoltami bene! Ho sonno e le viscide alghe mi si attorcigliano intorno.
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