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Indice degli Autori e dei Libri (e link ai medesimi su questa stessa pagina)
A
1. Adams, Douglas: “Guida galattica per gli Autostoppisti”
2. Aldecoa, Josefina: “Storia di una Maestra”
3. Albee, Edward: “Chi ha Paura di Virginia Woolf?”
4. Aleramo, Sibilla: “Una Donna”
5. Algren, Nelson: “L’Uomo dal Braccio d’oro”
6. Amado, Jorge: “Teresa Batista stanca di Guerra”
8. Ariosto, Ludovico: “Orlando furioso”
8 bis. Vladimir Klavdievič Arsen’ev: “Dersu Uzala”
9. Asimov, Isaac: “Trilogia galattica”
10. Austen, Jane: “L’Abbazia di Northanger”
B
11. Ballard, James: “Regno a venire”
12. Balzac, Honoré de: “Storia dei Tredici”
13. Banks, Russell: “Il dolce Domani”
14. Barrie, James: “Peter Pan”
15. Bellow, Saul: “Il Re della Pioggia”
16. Berto, Giuseppe: “Il Male oscuro”
17. Blixen, Karen: “La mia Africa”
19. Boccaccio, Giovanni: “Decameron”
20. Bogdanov, Alexandr: “Stella rossa”
21. Boileau, Pierre, e Narcejac, Thomas : “La Donna che visse due Volte”
22. Borges, Jorge Luis: “Tutte le Opere”
23. Bradbury, Ray: “Fahrenheit 451”
24. Brancati, Vitaliano: “Don Giovanni in Sicilia”
25. Brontë, Charlotte: “Jane Eyre”
26. Brontë, Emily: “Cime tempestose”
27. Buck, Pearl: “Stirpe di Drago”
28. Bulgakov, Michail: “Il Maestro e Margherita”
29. Burgess, Anthony: “Un’Arancia a Orologeria”
30. Buzzati, Dino: “Il Deserto dei Tartari”
C
31. Cain, James: “Il Postino suona sempre due Volte”
32. Camus, Albert: “Lo Straniero”
33. Canetti, Elias: “Auto da Fé”
34. Capote, Truman: “Colazione da Tiffany”
35. Carroll, Lewis: “Alice nel Paese delle Meraviglie”
36. Čechov, Anton: “La Steppa”
37. Černyševskij, Nikolaj: “Che fare?”
38. Cervantes, Miguel de: “Don Chisciotte della Mancia”
39. Chandler, Raymond: “Tutto Marlowe Investigatore”
40. Christie, Agatha: “Dieci piccoli Indiani”
41. Collodi, Carlo: “Le Avventure di Pinocchio”
42. Collodi, nipote: “Sussi e Biribissi”
43. Conrad, Joseph: “Lord Jim”
44. Cooper, James Fenimore: “L’Ultimo dei Mohicani”
45. Cormier, Robert: “La Guerra dei Cioccolatini”
46. Crichton, Michael: “Andromeda”
D
48. D’Annunzio, Gabriele: “Trionfo della Morte”
49. D’Arrigo, Stefano: “Horcynus Orca”
50. De Amicis, Edmondo: “Cuore”
51. De Céspedes, Alba: “Quaderno proibito”
52. Defoe, Daniel: “La Peste di Londra”
53. Deotyma: “La Fanciulla della Finestrella”
54. De Roberto, Federico: “I Viceré”
55. Dick, Philip K.: “Tutti i Racconti”
56. Dickens, Charles: “Il Circolo Pickwick”
57. Dickens, Charles: “Dombey e Figlio”
58. Dickens, Charles: “Lo Spiritato e il Patto del Fantasma”
59. Dostoevskij, Fëdor: “La Mite”
60. Dostoevskij, Fëdor: “I Demoni”
61. Dostoevskij, Fëdor: “L’Idiota”
62. Dumas, Alexandre: “La Sanfelice”
63. Durova, Nadežda: “Memorie del Cavalier-Pulzella”
E
64. Ende, Michael: “La Storia Infinita”
66. Esiodo: “Le Opere e i Giorni”
F
68. Farmer, Philip J.: “Venere sulla Conchiglia”
69. Faulkner, William: “Luce d’Agosto”
70. Fenoglio, Beppe: “Una Questione privata”
71. Fielding, Henry: “Tom Jones”
72. Finney, Jack: “Indietro nel Tempo”
73. Fitzgerald, Francis Scott: “Assoluzione”
74. Fitzgerald, Francis Scott: “Babilonia Rivisitata”
75. Flaubert, Gustave: “La Signora Bovary”
76. Fleming, Ian: “A 007 dalla Russia con Amore”
77. Foer, Jonathan Safran: “Estremamente forte, incredibilmente vicino”
78. Fogazzaro, Antonio: “Malombra”
79. Follett, Ken: “I Pilastri della Terra”
80. Forster, Edward Morgan: “Passaggio in India”
81. Foscolo, Ugo: “Ultime Lettere di Jacopo Ortis”
82. Fournier-Alain: “Il grande Amico”
G
84. Gadda, Carlo Emilio: “Quer Pasticciaccio brutto de Via Merulana”
85. Gary, Romain: “Le Radici del Cielo”
86. George, Peter: “Il Dottor Stranamore”
87. Ginzburg, Natalia: “Lessico Famigliare”
88. Goethe, Johann Wolfgang: “Le Affinità elettive”
89. Gogol, Nikolaj: “Le Anime morte”
90. Golding, William: “Il Signore delle Mosche”
91. Goldoni, Carlo: “La Locandiera”
92. Gončarov, Ivan Aleksandrovič: “Oblomov”
93. Grahame, Kenneth: “Il Vento nei Salici”
94. Greene, Graham: “Fine di una Storia”
95. Grimmelshausen, Hans J. C.: “L’avventuroso Simplicissimus”
96. Grubb, Davis: “La Morte corre sul Fiume”
97. Gutteridge, Lindsay: “Guerra fredda in un Giardino”
H
98. Handke, Peter: “L’Ora del vero Sentire”
99. Hardy, Thomas: “Tess dei d’Urberville”
100. Hašek, Jaroslav: “Il buon Soldato Sc’veik”
101. Hawthorne, Nathaniel: “La Lettera scarlatta”
102. Hemingway, Ernest: “Che ti dice la Patria” e “Il gran Fiume dai due Cuori”
103. Hemingway, Ernest: “Il Vecchio e il Mare”
105. Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus: “L’Orco Insabbia” e “Schiaccianoci e il Re dei Topi”
106. Hofmannsthal, Hugo von: “Andrea o i Ricongiunti”
107. Hughes, Richard: “Un Ciclone sulla Giamaica”
108. Hugo, Victor: “I Miserabili”
109. Hunter, Evan: “Il Seme della Violenza”
110. Huxley, Aldous: “Il Mondo Nuovo”
J
111. Jackson, Shirley: “Abbiamo sempre vissuto nel Castello”
112. James, Henry: “Giro di vite”
113. James, Henry: “Lo Scolaro”
114. Jerome, Jerome Klapka: “Cura e Manutenzione della Donna”
115. Jones, James: “Da Qui all’Eternità”
116. Jovine, Francesco: “Le Terre del Sacramento”
K
118. Kafka, Franz: “La Metamorfosi”
119. Kawabata, Yasunari: “La Casa delle Belle Addormentate”
120. Kazan, Elia: “Il Compromesso”
121. King, Stephen: “Stand by Me”
122. Krakauer, Jon: “Nelle Terre Estreme” e “Aria Sottile”
L
123. Lawrence, David Herbert: “Romanzi e Racconti”
124. Ledda, Gavino: “Padre padrone”
125. Lee, Harper: “Il Buio oltre la Siepe”
126. Leiber, Fritz: “Ombre del Male”
127. Lem, Stanislaw: “Solaris”
129. Lermontov, Michail: “Un Eroe del Nostro Tempo”
130. Lessing, Doris: “Mara e Dann”
131. Levi, Carlo: “Cristo si è fermato a Eboli”
133. Levin, Ira: “La Fabbrica delle Mogli”
134. Lewis, C. S. (Clive Staples): “Lontano dal Pianeta silenzioso”
135. Lewis, Matthew: “Il Monaco”
136. Lewis, Roy: “Il più grande Uomo Scimmia del Pleistocene”
137. Lindgren, Astrid: “Pippi Calzelunghe”
138. Lindsay, Joan: “Picnic a Hanging Rock”
139. London, Jack: “Il Vagabondo delle Stelle”
140. London, Jack: “Martin Eden”
141. Longo Sofista: “Dafni e Cloe”
142. Lovecraft, Howard Phillips: “Opere complete”
143. Lowry, Malcolm: “Sotto il Vulcano”
144. Lucrezio, Tito Caro: “La Natura delle Cose”
M
145. Malaparte, Curzio: “La Pelle”
146. Malot, Hector: “Senza Famiglia”
147. Mansfield, Katherine: “Tutti i Racconti”
148. Manzoni, Alessandro: “I Promessi Sposi”
149. Márquez, Gabriel Garcìa: “Cent’Anni di Solitudine”
150. Martel, Yann: “Vita di Pi”
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1. Adams, Douglas: “Guida galattica per gli Autostoppisti”
Da oggi ogni mattina, appena sveglio, a mo’ di rassicurazione e incoraggiamento, posterò in ordine alfabetico i miei autori preferiti e non. Comincio, poiché l’alfabeto è alfabeto e la scaramanzia è scaramanzia, con Douglas Adams, immenso umorista inglese ― è sua la “Guida galattica per gli autostoppisti” ― mio quasi coetaneo però defunto vent’anni fa, improvvisamente, a soli quarantanove. Se vi piace ridere ― e anche se non vi piace, poiché di questi tempi è vitale riuscirci ― vi consiglio di leggere tutte le sue opere. Vi daranno un solo dispiacere: le finirete in men che non si dica, e una volta finite lo saranno per sempre. Ma non è così un po’ per tutti e tutto?
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2. Aldecoa, Josefina: “Storia di una Maestra”
«Anche i maschi volevano imparare, e io non ebbi alcun problema a insegnare anche a loro. Ma dopo poche lezioni, Gennaro mi disse: “In osteria dicono che lei vuole trasformare i bambini in bambine perché perdano le forze e non si dedichino ai lavori da uomini...»”
*
3. Albee, Edward: “Chi ha Paura di Virginia Woolf?”
È il dramma di Edward Albee ― e il film di Mike Nichols del 1966 (in Italia nel gennaio del ‘67), con Elizabeth Taylor e Richard Burton mostruosamente bravi ― in cui scoprii che le tremende liti di coppia, in linguaggio tecnico “il rapporto sadomasochistico”, non colpivano solo i miei genitori. E che non escludono l’amore ― un amore condannato, e tuttavia profondo ― ma anzi ne contengono assai di più di quanto ne provino le morte coppie “serene” che non riescono neanche a darsi sui nervi. «Martha: “Non ti vedo nemmeno... Sono anni che non ti vedo... Sei una nullità, ecco, uno zero... un vuoto assoluto...” [...] George: “Chi ha paura di Virginia Woolf, Virginia Woolf, Virginia Woolf...” Martha: “Io, George...” George: “Chi ha paura di Virginia Woolf...” Martha: “Io, George, io...”». (Se vi va, guardate e ascoltate qui i titoli di testa del film, con la musica struggente di Alex North... Ho ancora la pagina di diario del giorno in cui lo vidi, al cinema Esperia di piazza Sonnino, nella primavera del ‘67, con la più amata di tutta la vita, e ogni volta mi dà i brividi...)
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4. Aleramo, Sibilla: “Una Donna”
Era il 1906, ancora non imperversavano i mostri del fascismo e del nazismo, di due guerre mondiali, del fanatismo religioso e del finanzcapitalismo che da più di un secolo tentano di distruggere l’Umanità, e Sibilla Aleramo scriveva così: “Chi osa ammettere una verità e conformarvi la vita? Povera vita, meschina e buia! [...] Tutti si accontentano: mio marito, il dottore, mio padre, i socialisti come i preti, le vergini come le meretrici: ognuno porta la sua menzogna, rassegnato. Le rivolte individuali sterili o dannose, e quelle collettive troppo deboli di fronte alla paurosa grandezza del mostro da atterrare!”
* 5. Algren, Nelson: “L’Uomo dal Braccio d’oro”
No, il film non è indimenticabile. Ma il romanzo sì. Leggere, a tredici anni, di alcolisti che sgranocchiano scarafaggi perché qualcuno paghi loro un bicchiere “per sciacquarsi la bocca”, di tossicomani che non riescono a “togliersi la scimmia dalla schiena”, e di ragazze che si legano a loro nell’autodistruzione fino a esserne uccise, per me volle dire affacciarmi su un mondo che quasi non credevo possibile, protetto com’ero. Mia madre controllava le mie letture, ma io, a quell’età, iniziai a leggere di nascosto tutto ciò che per qualche motivo mi colpiva fin dal titolo, traendone a volte impressioni così forti che son rimaste vive finora. Fu diverso dallo scoprire orrori nel Web come succede ai ragazzi di oggi: i romanzi letti nell’adolescenza hanno sulla mente un potere che è superato solo da quello delle esperienze reali. E la frase di Kuprin che Nelson Algren premise a “L’uomo dal braccio d’oro” sembra dirmi che non sbagliavo, o non avrei capito che “tutto l’orrore viene proprio da questo, dall’incapacità di provare orrore”.
*
6. Amado, Jorge: “Teresa Batista stanca di Guerra”
“Statua di pietra sul molo di vecchie assi rose dal tempo, Teresa Batista resta piantata lì, col suo dolore confitto nel petto. La notte la avvolge, la penetra di tenebre e di vuoto, di ‘saudade’ e di assenza, ah! amor mio, fiume e mare, mar e rio”... Che mistero è per me Jorge Amado! Alla fine degli anni ‘70 e nei primi anni ‘80, l’ho amato (di nome e di fatto) tantissimo, e ho letto tutte le sue opere. Ma poi, diverso da ogni altro che per me è stato importante, mai sono riuscito a rileggerlo. E “Teresa Batista stanca di guerra” è il simbolo di questo rifiuto forse insuperabile, poiché ricordo che già allora... inorridii, leggendo le violenze da lei subite ancora bambina. Sì, lo so, a quei tempi c’era chi esaltava il suo “magico potere” di “guarire” da ogni stupro, da ogni mostruosità, e anch’io per qualche anno andai ripetendo questa che oggi mi pare una corbelleria. Poi, ben presto, il rifiuto che avevo represso scattò. Forse dovrei riprovarci?
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7. Apuleio: “L’Asino d’oro”
“Sappi che ti trovi in Tessaglia, e che qui le streghe usano strappare senza riguardo qualche pezzo di carne dai volti dei morti. E i custodi, se al mattino non li restituiscono integri, sono tenuti a risarcire con lembi di carne dei loro volti tutti i pezzi che manchino ai cadaveri...” Le avventure magiche dell’asino d’oro fanno davvero paura, così come sono davvero eccitanti quelle amorose: strane, tutte, come se il mondo pagano in cui furono immaginate sia su un altro pianeta. E poi, a un tratto, uscendo da quella buia foresta in una luminosa radura, ecco aprirsi davanti a noi una delle più belle favole di tutti i tempi: “Psiche, curiosa com’è, non è mai sazia di osservare e maneggiare questi oggetti. E mentre ammira le armi dello sposo, toglie dalla faretra una freccia e col pollice va provando la punta; senonché, col premere troppo il dito che ancora tremava, si punse profondamente e ne stillarono alcune goccioline del suo roseo sangue. Così Psiche, ignara, spontaneamente cadde nell’amorosa rete di Amore...” L’intera fiaba cliccando o toccando qui.
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8. Ariosto, Ludovico: “Orlando furioso”
Fra i poeti e gli scrittori d’Italia, quello che più amò le donne. “Tutti gli altri animai che sono in terra, o che vivon quïeti e stanno in pace, o se vengono a rissa e si fan guerra, alla femina il maschio non la face: l’orsa con l’orso al bosco sicura erra, la leonessa appresso il leon giace, col lupo vive la lupa sicura, né la iuvenca ha del torel paura. Ch’abominevol peste, che Megera è venuta a turbar gli umani petti? ché si sente il marito e la mogliera sempre garrir d’ingiurïosi detti, stracciar la faccia e far livida e nera, bagnar di pianto i genïali letti; e non di pianto sol, ma alcuna volta di sangue gli ha bagnati l’ira stolta. Parmi non sol gran mal, ma che l’uom faccia contra natura e sia di Dio ribello, che s’induce a percuotere la faccia di bella donna, o romperle un capello: ma chi le dà veneno, o chi le caccia l’alma del corpo con laccio o coltello, ch’uomo sia quel non crederò in eterno, ma in vista umana un spirto de l’inferno”.
8 bis. Vladimir Klavdievič Arsen’ev: “Dersu Uzala”
Vi parlo di Vladimir Arsen’ev attraverso la scheda che scrissi nel 2000 ― quando ancora nessuno aveva detto “restiamo umani” ― per degli alunni di seconda media. Per questo, poiché si rivolgeva a delle ragazze e dei ragazzi di quell’età, il linguaggio del post è molto semplice. Ma non certo semplicistico.
“Dersu Uzala”, un libro che è un saggio etnologico, un romanzo e un diario di vicende davvero accadute, si basa sui viaggi di esplorazione che l’etnologo Vladimir Arsen’ev compì agli inizi del ’900, per incarico del governo russo, in regioni remote e sconosciute della Siberia. Dove a quel tempo la Natura era intatta, e piccole popolazioni indigene composte per la maggior parte da cacciatori-raccoglitori erano in perfetta armonia con essa.
Dersu Uzala, infatti, vive di quel che la Natura offre: è lei che lo nutre, lo veste, gli elargisce tutto ciò che la sua abilità ed esperienza sanno rendere utile. Ma è solo, senza parenti né amici, sempre in cammino attraverso pianure, foreste e montagne, e perciò non è in grado di ricavare dalla Natura quel che ne può trarre chi coopera con molti altri esseri umani o addirittura con tutti. I prodotti della civiltà, insomma, dei quali anch’egli ha bisogno, Dersu deve acquistarli, barattandoli con le pellicce che ogni tanto va a vendere ai mercanti cittadini. Eppure, benché più solitario di un Polifemo e costretto a uccidere gli animali per cibarsene e per le loro pelli, egli rispetta la Natura: non la sfrutta eccessivamente, non la ferisce senza motivo, non altera il suo delicato equilibrio, non dimentica mai che le sue risorse appartengono anche agli altri esseri, umani e non umani, che come lui vivono in essa e per essa. E tutto questo, per Dersu, si riassume nel più alto degli imperativi: non si uccide la Tigre.
Egli ci viene presentato così:
“«Forse è un orso» disse Olent’ev, e caricò il fucile. «No sparare! Io, uomo!...» disse una voce dall’oscurità; e dopo alcuni istanti scorgemmo un uomo dirigersi verso di noi”.
In queste parole c’è la risposta a una domanda importante, che i lettori non possono non porsi: perché uno come Arsen’ev, abituato a descrivere la geografia, la natura e i popoli di vaste regioni del pianeta, ha dedicato un intero libro a un solo essere umano?
È semplice: lo ha fatto perché al mondo ci sono gli Olent’ev, che nell’oscurità (delle loro menti) scambiano altri esseri umani per orsi (o comunque per animali). E perché spesso a costoro non basta gridare: “No sparare! Io, uomo!” È anche necessario che qualche “Capitano” si domandi cos’è, davvero, un essere umano (il quale, benché sia un animale, è diverso dagli altri animali). È necessario, poi, che il “Capitano” trovi la risposta a questa domanda. E infine è necessario che egli non la tenga per sé, quella risposta, ma la spieghi e la dimostri anche a Olent’ev e ai suoi compagni.
L’autore vuol dunque farci conoscere questo Dersu Uzala, nel quale ha intuìto un uomo meraviglioso; mentre noi, i lettori, siamo come i suoi soldati, che non sono in grado di sentire da soli l’eccezionalità di Dersu, ma necessitano di un buon “Capitano” che gliela faccia sentire attraverso il suo rispetto per lui. E Dersu? Be’, lui rappresenta tutti gli esseri umani che rischiamo talvolta di scambiare... per orsi.
Come un orso, infatti, Dersu vive in armonia con la Natura, senza mai chiederle né troppo né troppo poco. Come un orso non commette errori, perché la sua mente non entra mai in conflitto con la realtà interna ed esterna. Come un orso è sempre buono, perché nessuna sua azione peggiora il mondo sia pur minimamente. E come un orso, infine, Dersu è perfetto e può star bene solo nel suo ambiente. Per tutti questi motivi, i soldati di Arsen’ev faticano a riconoscerlo come un loro simile, lo disprezzano a lungo, e ancor più tempo ci vuole perché comprendano che Dersu, nel suo ambiente, per molti aspetti è addirittura superiore a loro: proprio come un pesce è più bravo di un uomo nell’acqua, un uccello lo è nell’aria, e... un orso lo è nella foresta.
Eppure Dersu è un essere umano: non solo perché è umano il suo aspetto (ce ne sono tanti, infatti, che pur sembrando umani non pensano e non agiscono come tali), ma soprattutto perché è dotato di immaginazione, e con essa sente che in ogni cosa, nell’Universo ― negli oggetti inanimati, negli animali, negli altri esseri umani e in lui stesso ― si celano immensi e profondi significati, che dobbiamo sempre tentare di scoprire e comprendere o almeno di intuire, se vogliamo rimanere umani: sentimento che Dersu esprime perfettamente, a modo suo, riconoscendo a tutti (dalle stelle al vento, dalla tigre al più umile degli animali) il diritto all’appellativo di uomo: “Quello,” dice, per esempio, parlando del Sole, “è uomo più potente di tutti!”
Prima il Capitano e poi a poco a poco i soldati intuiscono tutto ciò: lo rispettano, lo capiscono, gli vogliono bene, imparano da lui. E Dersu, per la prima volta, trova nel Capitano qualcuno che può fare anche di più: qualcuno, cioè, che non ha soltanto da imparare, ma anche da insegnare.
Ma un giorno Dersu Uzala, mentre si trova con il Capitano e i soldati, commette per la prima volta un errore, il più grave di tutti: uccide Amba, la Tigre. Dopo di che, comincia a perdere la “vista”. A perdere, cioè, quel perfetto rapporto con la realtà che lo rendeva capace di essere, al tempo stesso, “orso” e umano. Come se, da quegli uomini civili, fra tante cose buone fosse penetrato in lui anche un “veleno” invisibile che essi stessi non hanno ancora individuato.
Vladimir Arsen’ev (1872-1930) fu esploratore, etnologo e scrittore. Tra il 1902 e il 1910 effettuò una serie di spedizioni di studio nelle più lontane regioni della Siberia. Nel 1912 pubblicò il “Breve saggio geografico e statistico sulla regione dell’Ussuri”, prima raccolta completa dei dati relativi alla natura e alle genti di quel territorio. Altri viaggi (nel 1918, nel 1923 e nel 1927) gli permisero di studiare la vita, i costumi, le religioni e il folklore di popoli assai poco conosciuti dell’Asia. Scrisse “Dersu Uzala”, grande esempio di opera letteraria e scientifica, nel 1923. Akira Kurosawa (1910-1998) diresse il film “Dersu Uzala” nel 1975.
Le ragazze e i ragazzi videro il film, e poi ― come unico “compito” ― ognuno di essi mi rivolse una o più domande (mi “interrogò”, insomma, anziché essere interrogato) delle quali io, per l’esplicito patto su cui si basava il nostro Cineforum triennale di 100 film, ero tenuto a conoscere le risposte. Eccone due:
Igor: “Come può la fantasia creare pensieri che portano alla propria distruzione?” Beatrice: “Dersu è paragonato a un bambino, che però è ormai indispensabile al Capitano... Questo significa che è sempre necessaria la fantasia della mente “bambina” per risolvere o uscire da un problema? O solo perché questa mente bambina è semplice e naturale?”
(Altri film, e altre domande delle ragazze e dei ragazzi, cliccando qui).
*
9. Asimov, Isaac: “Trilogia galattica”
Isaac Asimov è stato uno dei più grandi scrittori di fantascienza di tutti i tempi, e la sua “Trilogia galattica” (1951-1953, diventata “quadrilogia” nel 1983, quando le diede un seguito che a mio giudizio la sciupò) è stata il suo capolavoro. O almeno così credevo da ragazzino, prima di scoprire che Asimov non si elevò mai al di sopra di un onesto artigianato. Però, senza la “Trilogia” e il suo immenso affresco di avventure e personaggi disseminati fra le stelle e attraverso i secoli, non avremmo avuto nemmeno il cinema di fantascienza che alla “Trilogia” si è ispirato (esempio più alto: “Star Trek”) o che spudoratamente l’ha saccheggiata (esempio più alto: “Guerre stellari”): la “Trilogia galattica”, insomma, ha creato un universo fantastico che da settant’anni continua a diventare sempre più vasto. E almeno una delle sue invenzioni è indimenticabile: la “psicostoriografia”, la scienza con cui il geniale Hari Seldon, “unica scintilla creativa in un’epoca intellettualmente inaridita”, fondendo la psicologia, la sociologia e la storiografia, studiando le masse e prevedendone le reazioni, delinea in anticipo la storia futura della Galassia in modo così preciso da poter lasciare nella Volta del Tempo una serie di video nei quali, dopo la sua morte, riappare durante le crisi più gravi a offrire indicazioni per superarle.
*
10. Austen, Jane: “L’Abbazia di Northanger”
Jane Austen, che da quand’ero ragazzo è una delle gioie della mia vita ― l’immortale autrice di capolavori come “Orgoglio e pregiudizio”, “Ragione e sentimento”, “Persuasione”, “Emma”, “Mansfield Park” ― a ventotto anni, nel 1803, inviò questo suo primo, divertentissimo romanzo a un editore che lo tenne in un cassetto finché lei morì. Catherine, la giovane protagonista di “Northanger Abbey” (1803), è una grande lettrice di romanzi, ma Jane Austen la difende: non è vero, dice, come sostengono i critici, che siano solo “ciarpame” che danneggia la fantasia dei giovani e soprattutto delle ragazze. Però Catherine esagera: tutta presa da “Il mistero di Udolpho”, famoso horror di Ann Radcliffe, arriva a sospettare un uomo di essere un mostro che ha ucciso la moglie o, quanto meno, che l’ha rinchiusa in una torre! E il figlio di quell’uomo ― un ragazzo che a Catherine piace ― sentite cosa le dice: “Se capisco bene, lei ha pensato una cosa di un tale orrore che quasi non ho parole per definirla. Cara signorina, consideri la spaventosa natura dei sospetti che ha nutrito. Come ha potuto formularli? Ricordi in che paese e in che epoca viviamo. Ricordi che siamo inglesi e cristiani. La nostra educazione ci prepara forse a tali atrocità? Le nostre leggi le consentono, forse? Cose simili potrebbero essere perpetrate, senza che nessuno lo sappia, in un paese come questo, dove gli scambi sociali e culturali sono a un tale livello? Carissima signorina, quale idea si è mai fatta?” In queste parole è racchiuso il segreto del fascino di Jane Austen: certo non ignorava che anche fra gli inglesi e i cristiani c’erano mostri, ma con la sua splendida immaginazione (e la sua arte straordinaria) creò un mondo appassionato e drammatico, nel quale gli affetti e le idee dei personaggi sono esplorati in profondità con immensa finezza psicologica ― l’opposto assoluto di ogni fasulla “letteratura” di evasione ― MA DEL TUTTO PRIVO DI ORRORE: un mondo in cui il lettore e la lettrice incontrano sentimento e intelligenza vivissimi di quel che vi è di bello in certi esseri umani e di brutto in altri, ma non sono mai sospinti ad avere incubi che rendano brutti loro.
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11. Ballard, James: “Regno a venire”
Se avete visto “L’impero del sole”, film di Steven Spielberg del 1987, certamente ricordate Jim, il ragazzino che nel 1941, quando i giapponesi invadono Shangai, si ritrova separato dai genitori e viene rinchiuso in un campo di concentramento. E forse sapete che era una storia vera, e che quel Jim era James Ballard (1930 ― 2009), lo scrittore che più e meglio di ogni altro è riuscito a vedere e a descrivere, nel nostro presente, i conati di uno spaventoso futuro. Ecco, per esempio, qualche riga di “Regno a venire” (“Kingdom come”, del 2006)... “Ormai la finzione era parte integrante della vita della classe media, tanto che l’onestà e la franchezza sembravano subdoli stratagemmi. La bugia più sfacciata era quella che più si avvicinava alla verità” (Cap. 11, “L’aria pesante della notte”, pag. 87). “Stiamo parlando di un tipo di politica virtuale che non ha alcun legame con la realtà. Anzi: questa politica RIDEFINISCE il concetto di realtà. Il pubblico partecipa volentieri a questo genere di presa per i fondelli” (Cap. 14, “Verso una follia volontaria”, pag. 109). “Le religioni esempi di pazzia volontaria?” “Enormi sistemi di delirio collettivo che hanno portato all’uccisione di milioni di persone, lanciato crociate e fondato imperi. Una grande religione è sempre sinonimo di pericolo. Oggi la gente vuol credere a tutti i costi, ma riesce a trovare Dio soltanto attraverso la psicopatologia. Basta guardare le aree più devote del mondo: il Medio Oriente e gli Stati Uniti. Stiamo parlando di società malate che possono solo peggiorare. La gente è pericolosissima quando non le rimane nient’altro in cui credere oltre a Dio... Il futuro sarà una lotta tra vasti sistemi di psicopatologie, tutte volontarie e intenzionali” (Cap. 14, pag. 113). “Quella era la particolarissima geometria della folla, che sceglieva di volta in volta il suo leader. Apparentemente passivi, si raggruppavano e cambiavano rotta senza nessuna logica ovvia, formazioni variabili guidate da vari gradi di noia e mancanza di obiettivi” (Cap. 17, “La geometria della folla”, pag. 129). “Il consumismo è lo strumento migliore mai inventato per controllare le persone” (Cap. 21, “Una politica nuova”, pag. 156). Ah, dimenticavo: “Regno a venire” è anche qui:
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12. Balzac, Honoré de: “Storia dei Tredici”
“Il secolo scorso”, per me, è stato per più di cinquant’anni l’800. Nel quale, del resto, erano nati i miei nonni. Ci ho messo un po’ ad abituarmi a considerare “scorso” il ‘900. Anche perché amavo e amo l’800 come il secolo dei maggiori progressi umani: il secolo in cui nacque, pur fra terribili difficoltà, il rispetto per i bambini, per le donne, per i lavoratori, per i cosiddetti “primitivi”, per i prigionieri, per i malati; in cui Darwin ci liberò del Creatore scoprendo l’evoluzione delle specie, Marx immaginò una filosofia che ci liberi dalla prepotenza di chi si rende disumano, e la scienza compì progressi giganteschi come l’invenzione dei vaccini; il secolo in cui più si lottò per liberarsi della religione, e l’Italia concluse il Risorgimento confiscando alla Chiesa cattolica tutti i suoi beni; il secolo, insomma, le cui aspirazioni e le cui conquiste il ‘900 ha fatto di tutto per distruggere. Anche per questo amo gli scrittori dell’800, con i quali, da quand’ero bambino, ho viaggiato in quel tempo fino a conoscerlo così tanto da poter averne nostalgia benché non lo abbia vissuto. Honoré de Balzac (1799 ― 1850) non è il più grande, ma una cosa è certa: per chi vuole immergersi nell’800 europeo con l’intensità con cui con gli autori russi ci si immerge nell’800 loro, nessuno è più evocativo di lui. E poi è splendida l’idea che ebbe ― tipicamente ottocentesca ― di chiamare le sue 137 (!) opere “La Comédie humaine”, “La Commedia umana”. Che tiro grandioso ― tipicamente ottocentesco ― a chi si ostina a volerla invece “divina”! (Soprattutto, fra quelle 137, consiglierei naturalmente ― in ordine cronologico ― “Eugenia Grandet” ― tradotta, se possibile, da Grazia Deledda ― “Papà Goriot”, “Le illusioni perdute” e “Splendori e miserie delle cortigiane”. Per poi avventurarsi a scoprirne altre).
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13. Banks, Russell: “Il dolce Domani”
“The Sweet Hereafter” significa “Il dolce avvenire” ― o “Il dolce domani” ― o anche “Il dolce aldilà”. È questo il senso del romanzo (1991) di Russell Banks (nato nel 1940) da cui Atom Egoyan trasse l’omonimo film premiato a Cannes nel 1997: il “dolce avvenire” non esisterebbe più, sarebbe ormai un “dolce aldilà”, perché i bambini non esisterebbero più. “La gente di Sam Dent non è unica. Tutti abbiamo perduto i nostri bambini” dice Mitchell Stephens, l’avvocato che vuol convincere le famiglie del villaggio di Sam Dent a intentare causa per l’incidente dello scuolabus in cui sono morti i loro. “È come se tutti i bambini d’America siano morti, per noi. [...] Nel corso della mia vita è successo qualcosa di terribile che ci ha strappato via i bambini. [...] Non so cosa diavolo è stato; non so quali sono le cause e quali gli effetti; ma i bambini non ci sono più, questo è chiaro. Tanto che cercare di proteggerli è poco più di un elaborato esercizio per negare l’evidenza”. “Il dolce domani” (romanzo disperato e tremendo, tradotto per Einaudi da Massimo Birattari) è lucidamente costruito dalla prima all’ultima riga per convincere i lettori che sia del tutto inutile intentare cause a favore dell’umanità e che nessun avvocato possa riuscire a vincerle, da un lato perché non ci son più avvocati che non abbiano anche loro perduto bambini, e dall’altro perché i bambini stessi ― in una sorta di gigantesco inveramento globale del mostruoso delirio dell’istitutrice di “Giro di vite” ― sono ormai dalla parte di chi li disumanizza o, nella “migliore” delle ipotesi, solo decisi a vendicarsi con gelido odio contro chi li ha distrutti, chi li ha traditi, chi non li ha difesi, e persino chi tenta di difenderli. Nessuno che sia sano di mente, io penso, può amare o anche solo apprezzare romanzi come questo. (Eppure, quanti se ne scrivono! Con minore sincerità ― poiché Banks, almeno in questo romanzo, è invece profondamente sincero ― in modo subdolo, nascosto, quanta “letteratura” del XX e del XXI secolo ha voluto e vuole indurci a disperare degli esseri umani!) Ma benché non lo si possa amare né apprezzare, “Il dolce domani” ― il libro come il film ― purtroppo non si dimentica.
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14. Barrie, James: “Peter Pan”
Molti credono che Peter Pan, “il bambino che non voleva crescere”, sia una meravigliosa immagine di bambino. Io no. L’immagine di bambino creata da James Matthew Barrie è una bruttissima immagine, disumana e mortifera. E il non averlo compreso (o almeno sentito come un ineffabile e incomprensibile disagio dinanzi a essa) ha avuto conseguenze gravi sull’immaginario del ‘900. Nel 2008 ho esaminato con attenzione i “sacri” testi di Barrie. Gli esiti di quell’analisi, se a qualcuno interessano, sono qui. Ecco alcuni estratti:
“Come può, questo neonato, far tranquillamente a meno degli adulti e perfino della mamma? La risposta è semplice: quella di Peter Pan è l’immagine di un bambino umano... che non è umano affatto. [...] E pertanto è un’immagine che continua da oltre un secolo a ingannarci ― e quel ch’è peggio in maniera molto suggestiva ― sulla verità dei bambini e del nostro rapporto con loro”.
“L’odio feroce di Peter nei confronti degli adulti poco si concilia con l’idea idilliaca che molti hanno di lui: «Buttò fuori con intenzione rapidi e corti sospiri alla velocità di circa cinque al minuto secondo. Fece questo perché nell’Isolachenoncè, ogni volta che uno sospira, un adulto muore. E Peter, per vendicarsene, li voleva uccidere più in fretta che poteva» (pp 124 ― 125). La ‘leggiadra’ figura di Peter Pan nasconde una volontà di sterminio”.
“L’Isolachenoncè è una mente infantile collettiva aliena, il cui contenuto Peter soltanto ha il potere di determinare. Lo dimostra ― tra l’altro ― il fatto che i bambini, finché non cominciano a diventare grandi o non muoiono, la sentono all’interno della propria come un qualcosa di estraneo e perfino di mostruoso: «Cominciava sempre a sembrare un po’ buia e a incutere paura al momento di andare a letto. Allora sorgevano e ingrandivano in un attimo spaventosamente strane macchie inesplorate. Nere ombre... belve feroci... e il buio diventava sempre più buio di momento in momento... Ora sorvolavano l’isola spaventevole... Così, brutalmente, i tre piccoli Darling impauriti capirono quale differenza ci sia tra un’isola nata dalla fantasia e la stessa isola divenuta realtà» (pp 50 ― 51 e 55). Una raffinata operazione di manomissione dell’inconscio infantile che da più di un secolo continua a venir spensieratamente esaltata e riproposta da miriadi di genitori e di educatori. Neanche Lewis Carroll aveva fatto di peggio”.
“Non è superfluo ricordare, soprattutto a chi eventualmente abbia creduto al Barrie-Johnny Depp di “Neverland”, che nessuno dei bambini che ebbero la sfortuna di imbattersi in James Matthew Barrie raggiunse l’età adulta. Morirono prima. In compenso, lo scrittore che li seppellì tutti non ebbe il dolore di vederli crescere”.
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15. Bellow, Saul: “Il Re della Pioggia”
“C’era in me questa lieta agitazione, che mi faceva serrare i denti. Certi affetti, appunto, mi fanno stringere i denti. Soprattutto la commozione estetica. Sì, quando ammiro la bellezza provo quel dolore ai denti, quella pressione alle gengive. [...] E insieme tutta la mia arroganza, così difficile, contorta, minacciosa, pareva svanire da me, e anche la durezza del ventre si allentava, spariva. Dissi al principe Itelo: «Senti, altezza, puoi farmi avere un vero colloquio con la regina? [...] Sulla saggezza della vita. So che lei la possiede e non vorrei andarmene senza prima averne avuto esempio. Sarei uno sciocco. [...] Ti prego di dire alla regina, per me, amico mio, che mi fa tanto bene anche solo vederla. Non so se ciò dipenda dal suo aspetto nell’insieme, o dalla pelle di leone, o da qualcosa che emana da lei: sia come sia, la mia anima trova riposo»“. “Il Re della Pioggia” (1959), di Saul Bellow (1915 ― 2005) narra le mirabolanti e poetiche avventure di un quasi cinquantenne che dagli Stati Uniti fa un biglietto di sola andata per l’Africa in cerca di libertà non dagli altri, non dagli affetti, non da sé stesso ― anzi, è sé stesso che vuole accontentare, il misterioso “Voglio! Voglio! Voglio!” che non smette mai di risuonare nella sua mente ― ma dalla “maledizione” del suo Paese, dal “qualcosa” che nel suo Paese “non funziona” e “va storto”. “Camminavo a grandi passi ― galoppavo, quasi ― intorno al corpo lucido e corazzato dell’aereo, dietro le autocisterne. Da dentro mi fissavano visi corrucciati. Le grandi, belle eliche stavano ferme, tutte e quattro. Forse sentivo che era venuto il momento mio, di muovermi, e per questo correvo, saltavo, saltavo, pestavo tremante sul bianco puro lenzuolo del grigio silenzio artico”. Chi non ha letto Saul Bellow, se legge “Il Re della Pioggia” sarà poi deluso dagli altri suoi romanzi. Ma chi è stato deluso dagli altri, poi li dimentica, se legge questo.
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16. Berto, Giuseppe: “Il Male oscuro”
“Il mio libro ha dei precedenti illustri nella nostra narrativa: prima di tutto ‘La coscienza di Zeno” di Svevo e poi ‘La cognizione del dolore’ di Gadda, aborto di romanzo ma mirabile descrizione d’un nevrotico. Io seguo le loro strade, però con un’assoluta indipendenza di modi narrativi e con una preparazione del tutto svincolata dalla letteratura, poiché racconto un’esperienza personale. Inoltre credo che nessuno prima di me si sia spinto così a fondo, senza preconcetti né divieti, nell’analisi di un uomo. Se la malattia del protagonista era annidata nell’odio per il padre, nelle funzioni sessuali, nell’ansia di trovare Dio, nei meccanismi intestinali, negli abissi della masturbazione, nell’avvilimento di fronte ai radicali, nell’esaltazione del primo bacio, nel terrore dell’omosessualità, nell’ossessione del cancro, nella smodata ambizione, nei torbidi stimoli segreti, ebbene lì bisognava che io l’andassi a cercare col coraggio di arrivare il più possibile in fondo” (Giuseppe Berto [1914 ― 1978], “Appendice” a “Il male oscuro”, 1964). “Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore” (Eschilo, “Prometeo incatenato”, citato da Berto insieme a Gadda e a Freud in apertura de “Il male oscuro”). È pur vero che se “il silenzio è dolore” per lo scrittore, non lo è necessariamente anche per il lettore. Al quale, se il racconto lo delude, dispiace che lo scrittore non sia rimasto in silenzio. Con ciò non voglio dire che “Il male oscuro” sia un brutto romanzo: si legge d’un fiato, sempre cercando quel che s’immagina prima o poi di trovarvi, per scoprire trovandolo cosa si cerchi, e invece fino all’ultima pagina non lo si trova, ma avvince come se si entri nella mente di un amico... Solo che è troppo la storia della mente sua, per poter essere anche del lettore come lo sono sempre le storie che davvero non deludono.
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17. Blixen, Karen: “La mia Africa”
“Chi di notte, dormendo, sogna, conosce un tipo di gioia ignota nel mondo della veglia: una placida estasi e un riposo del cuore che sono come il miele sulla lingua. Sa anche che la vera bellezza dei sogni è la loro atmosfera di libertà infinita: non la libertà del dittatore che vuole imporre la sua volontà nel mondo, ma la libertà dell’artista privo di volontà, libero dal volere. Il piacere del vero sognatore non dipende dalla sostanza del sogno, ma da questo: tutto quello che accade nel sogno non solo accade senza il suo intervento, ma anche fuori dal suo controllo. [...] Solo se si comincia a perdere il sentimento della libertà, se mette piede nel sogno la coscienza della necessità, se c’è, come che sia, fretta o sforzo, [...], se ci si costringe a spronare i cavalli del sogno, [...], allora esso decade e si trasforma nell’incubo, che appartiene alla categoria di sogni meno ricca e più rozza”. “Un bianco, per dire una cosa affettuosa, scrive: «Non ti posso scordare». Un africano scrive: «Non credo che tu possa scordarti di me»“. “Se vanno al ballo, molti portano con sé il proprio tamburo: se ne distingue l’eco anche a grande distanza, come il battito sottile di una vena nel dito della notte”. “Le danze sono antiche di mille anni. Alcune, approvate pienamente dalle madri e dalle nonne dei ballerini, sono considerate immorali dai coloni bianchi; secondo loro, si dovrebbero proibire per legge. [...]. In una, le ragazze si appoggiano pudicamente sui piedi dei giovani guerrieri, cingendoli alla vita, mentre essi, le braccia protese sopra le loro teste, brandiscono con tutt’e due le mani le lance puntandole verso l’alto e sbattendole con forza sul terreno. Pare, nella bella figurazione, che le ragazze cerchino rifugio da qualche grave pericolo sul petto dei ragazzi che, per proteggerle, le tengono addirittura sui piedi, difendendole dai serpenti e da tutte le minacce del cielo e della terra”. Karen Blixen (Rungstedlund, Danimarca, 1885 ― 1962).
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18. Bloch, Robert: “Psycho”
“Psycho” di Robert Bloch (1959) e “Psycho” di Alfred Htchcock (1960), ovvero l’identico e l’opposto: la vicenda è la stessa, ma il romanzo è su Norman Bates che uccide Marion Crane, mentre il film è su Marion Crane che si fa uccidere da Norman Bates. Hitchcock vuol far vedere la sparizione. Mostrarla ― dapprima lenta, poi sempre più rapida, infine vorticosa ― come un movimento di Marion verso il nulla: dal punto di vista cinematografico un’impresa ambiziosa realizzata con grande maestria, ma dal punto di vista psicologico ― cioè umano ― un tentativo moralistico di definire la morte di Marion un suicidio più o meno inconsapevole del quale Norman è lo strumento. Bloch, invece, vuole raccontare la follia. Raccontare, attraverso il “soliloquio a due” di Norman, la sua follia nel mostruoso rapporto con la madre. È la follia la protagonista del romanzo: Norman e sua madre sono gli psicopatici, Marion è la vittima, ma quel che tutto muove e travolge è la follia che la madre e Norman creano in sé stessi l’una con l’altro. Come “Psycho” il film, neppure “Psycho” il romanzo si commuove per Marion. Ma il romanzo come chi fa un’autopsia, mentre il film come chi dice: “Se l’è andata a cercare”. Robert Bloch (1917 ― 1994).
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19. Boccaccio, Giovanni: “Decameron”
Di Boccaccio, altro non vi dico se non che leggerlo insegna a leggere con la lentezza che alla lettura necessita, possibilmente seguendo col dito indice ogni parola come se stia sparendo per sempre. Il quale esercizio, se praticato abbastanza a lungo, vaccina per tutta la vita dai libercoli che non si fanno leggere con gli occhi e col cuore, ma ingurgitare come se ci si versassero in gola con l’imbuto. Del che, se volete, potete fare la prova con le seguenti righe della prima novella della terza giornata: «Or pure avvenne che costui un dì avendo lavorato molto e riposandosi, due giovanette monache che per lo giardino andavano, s’appressarono là dove egli era, e lui che sembiante facea di dormire cominciarono a riguardare. Per che l’una, che alquanto era più baldanzosa, disse all’altra: “Se io credessi che tu mi tenessi credenza, io ti direi un pensiero che io ho avuto più volte, il quale forse anche a te potrebbe giovare”. L’altra rispose: “Di’ sicuramente, ché pel certo io nol dirò mai a persona”. Allora la baldanzosa incominciò: “Io non so se tu t’hai posto mente come noi siamo tenute strette, né che mai qua entro uomo alcuno osa entrare, se non il castaldo che è vecchio e questo mutolo; ed io ho più volte a più donne che a noi son venute udito dire che tutte l’altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di quella quando la femina usa con l’uomo. Per che io m’ho più volte messo in animo, poi che con altrui non posso, di volere con questo mutolo provare se così è; ed egli è il miglior del mondo da ciò costui, ché, perché egli pur volesse, egli nol potrebbe né saprebbe ridire; tu vedi che egli è un cotal giovanaccio sciocco, cresciuto innanzi al senno. Volentieri udirei quello che a te ne pare”. “Oimè!” disse l’altra. “Che è quel che tu di’? Non sai che noi abbiamo promessa la virginità nostra a Dio?” “Oh!” disse colei. “Quante cose gli si promettono tutto il dì, che non se ne gli attiene niuna! Se noi gliele abbiam promessa, truovisi un’altra o dell’altre che gliele attengano”». Giovanni Boccaccio (1313 ― 1375).
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20. Bogdanov, Alexandr: “Stella rossa”
“Non siamo un agglomerato casuale ed eterogeneo di individui indifferenti l’uno all’altro. Se il singolo si togliesse dal grande collettivo formato da milioni di persone e dalla catena delle generazioni, si trasformerebbe immediatamente in una nullità” scrisse Aleksandr Bogdanov, narrando la storia del Socialismo su Marte e del suo rapporto col futuro della Terra. Alexandr Bogdanov (pseudonimo di Alexandr Aleksandrovič Malinovskij, 1873 ― 1928) scrisse due romanzi (entrambi pubblicati in Italia da Alcatraz), “Stella Rossa” (1907) e “Ingegner Menni” (1913), che attraverso appassionanti avventure fantascientifiche e umane sulla Terra e su Marte tratteggiano l’idea di Socialismo per la quale Bogdanov fu detestato e aspramente avversato da Lenin. Lenin non lo poteva vedere, lo accusava di “idealismo” perché Bogdanov, seguendo il giovane Marx, immaginava che il Socialismo sarebbe stato anche un nuovo Umanesimo, o non sarebbe stato affatto. Guardate com’è significativa la famosa fotografia dell’aprile 1908 che ritrae Bogdanov mentre gioca a scacchi contro Lenin sotto lo sguardo dello scrittore Maksim Gor’kij, che li ospitava nella sua villa di Capri! «“Il’ič [Lenin] sbuffa come un samovar in ebollizione” aveva scritto Gor’kij a Bogdanov verso la fine di marzo, “soffia in tutte le direzioni il suo vapore polemico, e temo che finisca con l’ustionare qualcuno. Io gli voglio bene, profondamente, sinceramente, ma non capisco perché si sia imbestialito, quali eresie abbia scorto. Per quel che mi riguarda, più mi immergo nei vostri libri, più vedo con chiarezza, profondità e ampiezza il vostro pensiero davvero rivoluzionario e ― non prendetelo come adulazione ― mi pare che nella persona di Bogdanov il proletariato russo, e non solo, riconoscerà e apprezzerà il proprio filosofo» (dalla prefazione di Wu Ming a “Ingegner Menni”). “La lotta delle classi, dei gruppi, degli individui, spoglia voi Terrestri dell’idea del Tutto e insieme a essa della gioia e delle sofferenze che ne derivano. Ho visto il vostro mondo e non potrei sopportare un decimo della pazzia in mezzo alla quale vivono i vostri fratelli” (da “Stella rossa”).
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21. Boileau, Pierre, e Narcejac, Thomas : “La Donna che visse due Volte”
La scomparsa della donna (la sua esclusione non “solo” dal mondo, ma perfino dagli affetti e dalla memoria) inizia a essere intuita dagli scrittori, con le sue tremende conseguenze di annientamento dell’umanità e della civiltà, dalla fine del ‘700. È allora che la donna comincia a riapparire come spettro disperato o bramoso di vendetta. Poi, dalla fine dell’800, l’intuizione diventa più profonda, più umana, più vera. Chi vuol capirne la storia deve partire almeno da “Bruges la morta” (1892), di Georges Rodenbach (1855-1898); continuare con questo “D’entre les morts” (1954), di Pierre Boileau (1906-1989) e Thomas Narcejac (1908-1998), a cui Alfred Hitchcock (1899-1980) impose l’assurdo titolo di “Vertigo” (1958, giustamente sostituito in Italia da “La donna che visse due volte”); con lo splendido film “La Jetée” (1962), capolavoro assoluto di Chris Marker (1921-2012); col romanzo “Indietro nel tempo” (“Time and Again”, 1970), di Jack Finney (1911-1995, l’autore de “L’invasione degli ultracorpi”); con l’avvincente pasticcio cinematografico de “L’esercito delle dodici scimme” (1995), di Terry Gilliam (nato nel 1940); col film “Eyes wide shut” (1999), di Stanley Kubrick (1928-1999), che rimanda (davvero indietro nel tempo) all’altro capolavoro, insieme a “La Jetée”, di questa straordinaria vicenda, il racconto “Doppio sogno (“Traumnovelle”, 1926), di Arthur Schnitzler (1862-1931). Nel quale, la “globalizzazione” essendo appena agli inizi, è ancòra possibile una civiltà che si estingua da sé, ma nello stesso modo: con l’annientamento delle donne nelle menti degli uomini, al quale i protagonisti scampano perché non riescono, nei loro sogni, a prendervi parte fino in fondo. E concludendo ― si parva licet ― col mio romanzo “Joy e Ombra”, meravigliosa storia della riapparizione di una donna in ogni tempo e luogo della sua vita. (Vedi anche qui)
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22. Borges, Jorge Luis: “Tutte le Opere”
So che Jorge Luis Borges (1899 ― 1986) è un “mostro sacro”, ma riuscì un po’ ad attrarmi soltanto quand’ero ragazzo, e anche allora solo come mi intrigavano i “trompe l’oeil” di Escher: cioè, senza provare alcuna emozione. Il fatto, probabilmente, è che son troppo poco colto per apprezzare le infinite sfumature di sapienza delle sue opere. Me lo dico da me: se fossi più istruito, stravedrei per Borges! Penso, tuttavia, che la Letteratura non sia Arte se non ci coinvolge affettivamente. E se questo è vero, come si fa a sentire qualcosa per dei mondi senza vita? Dice: e allora Marte? È vero o non è vero che Marte, o Titano, suscitano in te sentimenti forti? Sì, è vero, ma su Marte o su Titano la vita si può trovare o portare, mentre i mondi di Borges sono immutabili, non puoi “terraformare” neanche una parola. È vita disporre solo di un “cubicolo” per “dormire in piedi” e di un “cubicolo” per le “funzioni escretorie”? E se non ti va bene, poter soltanto scavalcare la balaustra, buttarti nel vuoto e precipitare per sempre tra gli infiniti piani esagonali della Biblioteca di Babele (che poi, visto che stiamo parlando di una dimensione infinita, la pioggia di cadaveri o di scheletri dovrebbe essere massiccia e ininterrotta anche se si suicidasse solo un bibliotecario ogni diecimila)? E che dire de “Il giardino dei sentieri che si biforcano”? “Prevedo che l’uomo si rassegnerà a imprese ogni giorno più atroci; presto non vi saranno più che guerrieri e banditi; do loro questo consiglio: l’esecutore di un’impresa atroce immagini di averla già compiuta, s’imponga un futuro che sia irrevocabile come il passato”. I sentieri di Borges si biforcheranno pure, ma ogni biforcazione è ugualmente disumana: “Fang ― diciamo ― ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente, vi sono vari scioglimenti possibili: Fang può uccidere l’intruso, l’intruso può uccidere Fang, tutt’e due possono salvarsi; tutt’e due possono restare uccisi”. “Così combattono gli eroi, tranquillo e ammirevole il cuore, violenta la spada, rassegnati a uccidere o a morire”.
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23. Bradbury, Ray: “Fahrenheit 451”
“Le foglie autunnali sfioravano il selciato nel chiaro di luna facendo sembrare la ragazza che lì camminava come se fosse immobile, come se lasciasse che il vento e le foglie la spingessero innanzi. La sua testa era un po’ china a guardare le scarpe che agitavano le foglie intorno, la faccia era sottile e bianca come latte, ed era una specie di fame gentile quella che chinava su ogni cosa con instancabile curiosità. Un’espressione, quasi, di pallida sorpresa; i neri occhi erano così intenti al mondo, che non sfuggiva loro alcuna mossa”. Lei è Clarisse, una delle poche ragazze al mondo che ancora leggono. Lui è Guy, “vigile del fuoco”, cioè incendiario di libri ovunque riesca, insieme ai suoi commilitoni, a trovarne di ancora nascosti. E chi li ha creati è Ray Bradburý (1920 ― 2012), autore di bellissimi romanzi ― “Cronache marziane”, “Il popolo dell’autunno”, “Paese d’ottobre”, “L’uomo illustrato” ― ma soprattutto di questo capolavoro: “Fahrenheit 451” (1951). Che sarebbe perfino più bello del film di François Truffaut (1966) ― e ve lo dice uno che ama Truffaut ed è stato innamorato di Julie Christie per tutta la vita ― se non vi s’insinuasse a poco a poco una strisciante religiosità che, purtroppo, alla fine ne fa scempio.
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24. Brancati, Vitaliano: “Don Giovanni in Sicilia”
Stavo quasi per depennarlo, vergognandomi di un autore che ormai (ho pensato) può piacere solo a quei vecchi maschi che per tutta la vita hanno detestato i maschi “all’italiana”, ma non sempre sono riusciti a rimanerne del tutto diversi... E poi, mentre del “Bell’Antonio” c’è un ottimo film di Mauro Bolognini, con un gigantesco Marcello Mastroianni, mentre de “La governante” c’è la splendida interpretazione di Anna Proclemer, che sposò Vitaliano Brancati (1907 ― 1954) e fu sua moglie quasi finché lui non morì a soli 47 anni durante un’operazione chirurgica di routine ― tutt’e due i video sono su YouTube ― di “Don Giovanni in Sicilia” (1941) c’è solo una sgangherata contraffazione di Alberto Lattuada e Lando Buzzanca messa sù alla brutt’e peggio dopo la morte di Brancati, una roba che se qualcuno di voi l’ha vista si sarà scrollato via di qui non appena ha letto il nome dell’autore... Insomma, quasi stavo per passare sùbito alla somma autrice di domani, sorella dell’altra somma autrice di dopodomani, ma non ho resistito al desiderio di proporvi questo brano: (Giovannino, da ragazzo) “il massimo della felicità lo raggiungeva la notte, se al di sopra di un cumulo di tetti, terrazze e campanili neri, quasi in mezzo alle nuvole, si accendeva una finestrina rossa, nella quale passava e ripassava una figura di donna che, per l’ora tarda, si poteva pensare si sarebbe fra poco spogliata ― cosa che mai avveniva, almeno con la finestra aperta e accesa. Ma bastava una sottana di seta, arrotolata come una serpe sul pavimento, e l’ombra di qualcuno, che probabilmente si muoveva sopra un letto, posto a destra o a sinistra dal punto visibile della stanza, perché la fronte di Giovanni s’imperlasse di sudore. Queste emozioni precedettero di qualche anno una brutta abitudine, comune a tutti i ragazzi della sua età, ma che egli, per alcuni mesi, portò agli estremi”. Non è un’immagine del tutto all’altezza del tragicomico (ma temo eterno) mito del “vero” Don Giovanni, quello di Mozart?
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25. Brontë, Charlotte: “Jane Eyre”
“«Questa bambina non ha né il carattere né le tendenze che avrei desiderato trovare in lei. Se sarà ammessa alla scuola di Lowood, intendo che il direttore e le maestre non la perdano d’occhio e soprattutto che siano messi in guardia contro il suo peggior difetto, cioè la sua tendenza alla menzogna. Dico questo in tua presenza, Jane, perché tu non tenti di trarre in inganno il signor Brocklehurst». Ero naturalmente incline a odiare e a temere la signora Reed, che pareva non potesse fare a meno di ferirmi crudelmente”.
“Oh, non avevo mai veduto un viso come quello! Selvaggio, allucinato, con gli occhi striati di sangue che roteavano nelle orbite! Come vorrei dimenticare quei lineamenti!”
“«E davvero non vuoi sposarmi? Persisti nella tua decisione?» Non puoi immaginare, lettore, quale senso di terrore questi individui freddi sappiano immettere nel gelo delle loro domande! La loro collera è simile al precipitare di una valanga e il loro disappunto all’improvviso frangersi di un oceano ghiacciato. [...] «Se ti sposassi mi uccideresti» dissi. «Mi stai già uccidendo»“. È “Jane Eyre” (1847), di Charlotte Brontë (1816 ― 1855). Fu con lei, mi sembra, che il romanzo varcò per la prima volta le porte del sogno. E l’immagine di copertina è un suo ritratto eseguito dal pittore J. H. Thompson.
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26. Brontë, Emily: “Cime tempestose”
“Sentivo distintamente le folate del vento e il turbinare della neve; sentii pure il ramo di abete ripetere quell’uggioso rumore e decisi di trovare un mezzo per farlo smettere; credo che mi alzai e cercai di aprire la finestra, ma non ci riuscii. Il gancio era stato saldato, cosa da me notata quando ero sveglio, ma poi dimenticata. «Eppure lo devo far smettere» mormorai, e picchiai le nocche contro il vetro, che si frantumò; stesi fuori il braccio, per afferrare il ramo importuno, ma la mia mano strinse invece le dita di una piccola mano diaccia. L’intenso orrore dell’incubo m’invase; cercai di ritrarre il braccio, ma la piccola mano vi si aggrappava, e una voce addolorata ripeteva singhiozzando: «Lasciami entrare! Lasciami entrare!» «Chi sei?» chiesi, facendo sforzi per liberarmi. «Caterina Linton» rispose, tremando. «Sono ritornata a casa, mi ero smarrita nella palude»”...
Le “Cime Tempestose” (1847) di Emily Brontë (1818 ― 1848), sorella minore di Charlotte, sono quelle che le parole “Wuthering Heights” annunciano: donne e uomini, devastati da mostruose tempeste umane, e però anche “cime” indimenticabili di sentimento e di intelletto. Nella cui creazione, Emily profuse l’immaginazione, la passione, l’intelligenza ― e un certo intimo orrore, di cui forse era quasi consapevole ― che anche in lei erano tempesta ininterrotta. Però non dobbiamo dimenticare che insieme a Emily e a Charlotte c’era Anne (1820 ― 1849), che scrisse “Agnes Grey” e “La signora di Wildfell Hall”. Ma insieme per poco, meravigliose e sfortunate sorelle Brontë! Meravigliose perché capaci di rendere immense le loro brevi vite non solo per sé ma anche per tutti noi per sempre, sfortunate perché figlie di un “reverendo” (tra virgolette perché io non lo riverisco: si era cambiato il cognome in Brontë ― la dieresi significa che la “e” va pronunciata “e”, non “i” ― per celebrare i massacri di liberali compiuti da Nelson nel Regno delle Due Sicilie, ed erano sicuramente sue le collere “come valanghe ghiacciate” di cui parla Jane Eyre) col quale né la moglie né le cinque figlie né il figlio poterono non morire giovani, e che invece sopravvisse a tutte loro e rimase solo fino a ottantaquattro anni. Ripeto: meravigliose sorelle Brontë!
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27. Buck, Pearl: “Stirpe di Drago”
“«Ci sono libri per ogni necessità» disse Wu Lien. <Bisogna innanzi tutto sapere a che scopo si vuole il libro e chi lo deve leggere. Se un uomo desidera leggere in segreto e per suo svago privato, ci sono libri a questo scopo. Se egli è legato alla propria casa e non può viaggiare, ci sono libri anche per questo. Se poi la sua mente è occupata da pensieri di veleno e di assassinio ma non osa commettere egli stesso simili cose, ci sono libri anche a questo scopo. A che deve servire questo tuo libro?» Lao Er sorrise, vergognoso, e infine decise di dire la verità: «Insomma, ecco, fratello» disse. «Io, quando ho sposato Jade, credevo che fosse come tutte le altre, e ora ho scoperto che sa leggere e ha una gran voglia di avere un libro. Addirittura si è tagliata i capelli, che aveva molto lunghi, per venderli e poter così comperarsi un libro: e questo senza dirmene, allora, il motivo. Così, invece di un paio di orecchini, come le avevo promesso, le ho detto che le avrei comprato un libro, ed ecco perché mi vedi qua oggi. Ma come posso fare, se non son capace di distinguere un libro dall’altro?»”
“Stirpe di Drago” (1942), bel romanzo della scrittrice statunitense Pearl Buck, narra la Resistenza (o il collaborazionismo) di una grande famiglia contadina cinese durante la feroce invasione giapponese del 1937, ma non perde mai di vista, con grande intensità, gli affetti e i rapporti reciproci dei personaggi. Alcuni dei quali indimenticabili, come Jade, l’indomita sposa di Lao Er, o Lao San, “il ragazzo troppo bello”, che violentato dai nemici si trasforma in un terribile guerrigliero. Pearl Buck (1892 ― 1973) passò in Cina tutta l’infanzia e l’adolescenza, insieme ai genitori missionari, e poi vi ritornò col primo marito dal 1917 al 1927. Oggi è dimenticata, ma secondo me ingiustamente, perché “Stirpe di Drago” e “La Buona Terra” (i suoi romanzi più famosi) sono ancora capaci di appassionare.
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28. Bulgakov, Michail: “Il Maestro e Margherita”
“«Dunque tu chi sei?» «Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene»” (Goethe, “Faust”). È l’epigrafe de “Il Maestro e Margherita” (1940), di Michail Bulgàkov (1891 ― 1940), ed è del tutto motivata: il più importante dei cinque personaggi principali (gli altri quattro sono Gesù, Ponzio Pilato, il Maestro e Margherita) è infatti Satana, e nonostante il lettore si aspetti da lui cose orribili (be’, in effetti ammazza e manda all’Inferno parecchia gente, ma tanto sono tutti comunisti), in realtà passa il tempo che trascorre a Mosca a “operare il Bene”, o quel che Bulgàkov credeva “il Bene”: annientare non tanto lo stalinismo (come può sembrare a qualche lettore distratto), ma soprattutto l’ateismo comunista; far pentire l’ombra di Ponzio Pilato di non aver salvato Gesù; riabilitare l’autore, detto il Maestro, dell’unico, grande e veritiero romanzo sulla passione e la morte di Cristo; e riunire al Maestro la bella “strega” Margherita che lo ama. Come non vedere, dunque (tra risate più o meno fatue sulle prodezze dei suoi diabolici assistenti) che Satana è in realtà un gran bravo bonaccione al servizio di Dio, se paragonato al VERO Satana, cioè all’ateismo? No, spiacente: per me il solo, vero Maestro del romanzo russo novecentesco è Boris Pasternak. Bulgàkov lo lascio agli intellettuali da sagrestia.
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29. Burgess, Anthony: “Un’Arancia a Orologeria”
Se avete letto “Arancia meccanica” (1962, tradotto nel 1969 col titolo “Un’arancia a orologeria” e riedito nel 1996 col titolo del film), di Anthony Burgess (1917 ― 1993), avrete scoperto quel che io, nell’autunno del ‘72, non seppi notare: il romanzo ― splendido per la creatività linguistica, e per la scrittura, così travolgente da aver poco da invidiare alla sua trasposizione cinematografica ― è molto più pessimista del film di Kubrick (che a mio giudizio, benché indimenticabile, non è tra i suoi migliori). Certo, Kubrick tutto fu meno che ottimista riguardo all’umano (tranne in “Shining”, che proprio per questo gli attirò l’eterno odio di quel Torquemada di Stephen King). Ma Kubrick (anche in “Arancia meccanica”) lasciò sempre sussistere il dubbio che il mondo umano POSSA diventare diverso da come lui lo raffigurava. Niente di ciò nel cattolicissimo Burgess, per il quale il mondo di “Arancia meccanica” è l’unico reale e l’unico possibile: un mondo in cui non esiste che la violenza, in tutte le sue forme ― non solo di Alex e dei suoi “drughi”, ma anche di chi ha il potere, di chi al potere si oppone e perfino degli intellettuali e degli scienziati. “Mio figlio, mio figlio. Avrei spiegato tutto questo a mio figlio quando fosse stato abbastanza bigio da capire. Ma d’altra parte sapevo che non avrebbe capito o non avrebbe voluto capire e avrebbe fatto tutte le trucche che avevo fatto io, sì, forse avrebbe perfino ammazzato qualche povera pulcella bigia circondata da ràttole e ràttoli miagolanti, e io non sarei stato capace di fermarlo. Né lui sarebbe stato capace di fermare il figlio suo, fratelli. E sarebbe andata avanti così fino alla fine del mondo, gira e rigira”. Un gran bel leggere, però!
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30. Buzzati, Dino: “Il Deserto dei Tartari”
Anche Dino Buzzati (1906 ― 1972) è un pessimista totale: non c’è speranza, nei suoi scritti, né per noi, né per gli affetti nostri, né tanto meno per l’amore. Avrei voluto postare “La Boutique del Mistero”, perché tra quei racconti c’è “Il Colombre” (1966), ma poiché la copertina era molto brutta le ho preferito quella de “Il Deserto dei Tartari” (1940) che lo è un po’ meno, anch’essa disegnata da Buzzati: un’uniforme vuota e un cavallo senza cavaliere, segni che l’essere umano ― non soltanto ai confini del deserto dei Tartari, ma ovunque ― per lui non c’è, non esiste, è solo un’illusione che mentre conforta amareggia, fa disperare, e alla fine uccide. Eppure, possiamo forse negare che “Il Deserto dei Tartari”, o “Un Amore”, si facciano leggere con attenzione bruciante dalla prima all’ultima pagina? No. Ma è come ritrovarsi in una fortezza ai confini del nulla, e non poter più uscirne perché fuori, appunto, c’è il nulla. Le poche pagine de “Il Colombre” sono meno pessimiste. Lasciano sperare che chi le legge possa vivere diversamente dal protagonista. Lo trovate qui, se volete.
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31. Cain, James: “Il Postino suona sempre due Volte”
“<Cora. Se volete, chiamatemi pure così>. Capii, allora, che il suo punto debole era quello. Non tanto le ‘enchiladas’ che le toccava di cuocere, non tanto i capelli che aveva neri, non di questo le bruciava. Ma piuttosto di trovarsi maritata a quel greco. Appunto questo le faceva temere di non essere riconosciuta come bianca: questo e non altro”. “Sono allo stremo delle forze. Non faccio altro che pensare a Cora. [...] Vorrei che sapesse che quello che ci siamo detti era vero, vorrei che sapesse che in quello che è successo, io non c’entro per niente. E cos’ha fatto, lei, per farmi tanto innamorare? Non so. [...] Non so perché tenesse tanto a me, dato che mi conosceva. Me l’ha detto un’infinità di volte che sono un poco di buono. Io non desideravo nulla, in realtà, all’infuori di lei”. Una lettura fondamentale, per sentire e capire l’odio di una certa ideologia statunitense della donna come oggetto non di desiderio, ma di volontà di morte. “Il postino suona sempre due volte” (1934) è il romanzo più famoso di James M. Cain (1892 ― 1977). Ispirò “Le dernier tournant” (1939) di Pierre Chenal, “Ossessione” (1943), di Luchino Visconti, e le versioni di Tay Garnett (1946), con John Garfield e Lana Turner, e di Bob Rafelson (1981), con Jack Nicholson e Jessica Lange.
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32. Camus, Albert: “Lo Straniero”
La copertina è di uno dei primi romanzi (1942) di Albert Camus (1913 ― 1960, premio Nobel per la Letteratura nel 1957) ― penso che da essi ci si debba accostare a lui ― ma le citazioni le scelgo da un testo filosofico: “L’uomo in rivolta” (1951): “L’analisi della rivolta conduce almeno al sospetto che esista una natura umana. [...] Perché rivoltarsi se non si ha, in sé stessi, nulla di permanente da serbare? Per tutte le esistenze insieme insorge lo schiavo quando sente che, da un determinato ordine, viene negato in lui qualcosa che non gli appartiene esclusivamente, ma che è luogo in cui tutti gli uomini, anche quello che lo insulta e lo opprime, hanno pronta una collettività”. “Non insisteremo mai troppo sull’affermazione appassionata che scorre nel moto di rivolta e lo distingue dal risentimento. Negativa in apparenza, poiché niente crea, la rivolta è profondamente positiva poiché rivela quel che negli esseri umani è sempre da difendere”. “Solo due universi sono possibili, l’universo religioso e quello della rivolta. La scomparsa dell’uno è la comparsa dell’altro”. “In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la medesima funzione del <cogito> nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma un’evidenza che toglie l’individuo dalla solitudine. [...] Mi rivolto, dunque siamo”.
(P.s.: No, non ho libri di Calvino; da tempo li ho dati via tutti, e in casa mia ho fatto di lui quello che penso che sia: “Lo Scrittore Inesistente”).
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33. Canetti, Elias: “Auto da Fé”
Nessuno sa tante cose come l’illustre sinologo e professore Kien ― vive tra i libri e per i libri, purché non siano romanzi ― e nessuno ne sa poche come la sua governante Therese. Ma poiché li unisce una tremenda meschinità, piena d’odio per gli altri e per la vita, Therese si abbatte su Kien e lo travolge come una personificazione del disumano che si è accumulato in lui nel corso del tempo. È la tragedia non solo di Kien, ma di interi popoli che tentando di annientare in sé stessi l’irrazionale profondo lo hanno reso mostruoso. Per questo i nazisti proibirono “Auto da fé”. “Il piacere che forse i romanzi offrono si paga a carissimo prezzo: essi finiscono per guastare anche il carattere più solido. [...] Si prende gusto al continuo mutare delle situazioni. Ci s’identifica coi personaggi che attraggono di più. [...] Ci si lascia guidare docilmente verso le mete altrui e si pèrdono di vista le proprie. I romanzi sono dei cunei che un autore con la penna in mano insinua nella chiusa personalità dei lettori. [...] I romanzi dovrebbero essere proibiti dalla legge”. “Per quanto poteva ricordare, non era mai incorso in errori di memoria. Perfino i suoi sogni avevano contorni più netti di quanto non avvenga per la maggior parte degli uomini. [...] La notte, nella sua testa, non metteva mai niente sossopra; i suoni che udiva avevano tutti un’origine normale, le conversazioni che teneva erano assolutamente sensate, tutto funzionava secondo la logica”. “Auto da fé” (1935, titolo originale “Die Blendung”, “L’Accecamento”, mentre “Auto da fé” si riferisce al pubblico processo in cui l’Inquisizione giudicava gli eretici e non di rado li mandava lì per lì al rogo) è l’unico romanzo di Elias Canetti (1905 ― 1994), tra le cui opere più celebri vanno ricordate “Masse e potere” (che lo impegnò per quarant’anni) e l’autobiografia “La lingua salvata”.
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34. Capote, Truman: “Colazione da Tiffany”
Non amo Truman Capote (1924 - 1984), benché non possa non intenerirmi se penso a lui bambino che ogni estate torna da Scout e Jem e “Boo” Radley ne “Il buio oltre la siepe”. E in fondo ho qualche problema anche con “Colazione da Tiffany” (romanzo del 1958, film di Blake Edwards del 1961 con la splendida Audrey Hepburn), perché ho problemi con tutte le storie del tipo di “Alice nel Paese delle Meraviglie” (e con gli scrittori alla Lewis Carroll, ne parliamo domani) che riducono le bambine, le ragazze e le donne a fuscelli in balìa di ogni sorta di psicopatici e di violenti, prima di concedere loro la grazia di un lieto fine. Ma... come potevo escludere dalla mia lista una copertina così bella? Del resto Capote qualche buon momento l’ha avuto, anche se forse nemmeno ricordava di doverlo a Scout: “Holly alzò il suo martini. «Auguriamo anche a lui buona fortuna> disse, toccando il mio bicchiere col suo. <Buona fortuna: e credi a me, carissimo Doc, è meglio guardare il cielo che viverci. Uno spazio così vuoto; così vago. Solo un posto dove va a finire il tuono e le cose scompaiono»”. Infine, se volete intenerirvi del tutto cliccate o toccate qui e ascoltate la canzone. Che non è di Capote, è di Henry Mancini e Johnny Mercer (che ne scrisse le parole), ma poiché Mercer, da bambino, in estate (come Scout e Jem?) raccoglieva mirtilli (huckleberries) e da adulto non poteva ricordare quelle scampagnate con i suoi “huckleberry friends” senza pensare a “Huckleberry Finn” di Mark Twain, be’, guardate un po’ dove ci porta questo... Moon River, Wider than a mile I’m crossin’ you in style Some day Old dream maker You heart breaker Wherever your goin’ I’m goin’ your way Two drifters Off to see the world There’s such a lot of world To see We’re after the same rainbow’s end Waitin’ round the bend My huckleberry friend Moon River And me...
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35. Carroll, Lewis: “Alice nel Paese delle Meraviglie”
Non so se Lewis Carroll (Charles Lutwidge Dodgson, 1832 - 1898) fosse un pedofilo o non. Con certezza non lo sa nessuno, non si saprà mai e forse non lo sapeva nemmeno lui. So, però, che non lo amo come scrittore. Non amo il “nonsense” come non amerei una “conversazione” fatta solo di battute umoristiche. Penso che giocare con le parole abbia invece un senso preciso e violento: ferire, in chi legge, il desiderio di un significato che muova i suoi affetti perfino se non lo comprende. Non credo che uno scritto privo di senso possa divertire, né tanto meno essere “musicale”. E penso che sia ancora più deleterio se i suoi “protagonisti” sono bambini. I protagonisti bambini, o ragazzi, vedono per la prima volta la luce nell’800: Oliver Twist, David Copperfield e la piccola Dorrit di Charles Dickens, Tom Sawyer e Huckleberry Finn di Mark Twain, Pinocchio di Collodi, Jim Hawkins di Robert Louis Stevenson, il piccolo Egòruška di Antòn Čechov, nel ‘900 Scout e Jem di Harper Lee, e molti altri. Le loro storie, spesso anche drammatiche, hanno sempre un senso. Anche Peter Pan ha un senso, per quanto orrendo: “Muori prima di diventare adulto, bambino!” Perfino il povero Jody Baxter di Marjorie Kinnan Rawlings: “No, via, puoi anche non morire fisicamente, purché uccida il ‘cucciolo’ che è in te!” Solo le “avventure” di Alice sono del tutto insensate. Solo le “avventure” di Alice dicono alle bambine e ai bambini che tutto quello che accade loro non ha alcun senso, e che loro stessi non sono che dei trastulli del nulla.
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36. Čechov, Anton: “La Steppa”
Di Antòn Čechov (1860 - 1904) fin dal primo incontro si vuole leggere tutto: i racconti, il teatro, e del teatro assistere a ogni regia. Non delude mai, e spesso conquista per sempre. Ma la sua opera che amo di più, una pietra miliare della mia vita, è “La Steppa”, del 1888. Čechov aveva ventotto anni, quando la scrisse. “La Steppa” è la vita, e il mondo. Non ogni vita, e non ogni mondo: la vita e il mondo degli esseri umani. Ma da un punto di vista che Čechov, per quel che ne so, fu il primo a immaginare: lo sguardo e la mente di un bambino. Altri avevano creato protagonisti bambini, o ragazzi. Ma lui per primo immaginò che nessuno più di un bambino guardi umanamente la vita e il mondo. Egòruska - che finite le elementari lascia la mamma e il villaggio natio, e accompagnato da uno zio, da un prete, da un cocchiere, e poi da una carovana di carrettieri, percorre la steppa verso la lontana città dove resterà a pensione da una sconosciuta signora per continuare gli studi - è il bambino nel cui sguardo il mondo e i suoi abitanti appaiono quali umanamente sono: chi del tutto umano e chi solo in parte, o quasi per niente, se non è riuscito a rimanerlo. E anche noi, attraverso i suoi occhi e i suoi affetti, vediamo e sentiamo noi stessi quali umanamente siamo, se ancora ne siamo capaci. È una rivoluzione copernicana: ne “La Steppa”, per la prima volta, al rapporto con la realtà umana non si arriva a poco a poco perché educati, istruiti e costretti: ci si nasce, è al bambino che gli altri si svelano quali sono, ed è la verità del bambino quella che va serbata per tutta la vita.
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37. Černyševskij, Nikolaj: “Che fare?”
“«Una donna che vive alle spalle di un uomo» disse Vera «non è che la sua schiava. No, signorino mio, io non voglio che voi siate il mio despota, il mio tiranno, l’autocrate benefattore! Insomma, tu taglierai gambe e braccia alla gente, e io darò lezioni di pianoforte». [...] «Nella vostra indole, signorina Vera, c’è così poca femminilità che voi finirete per pensare e agire da uomo». «Ma cosa significa questa femminilità? Capisco che le donne parlano con voce da contralto e gli uomini da baritono. E allora? Perché tutti ci ripetono ad ogni poco di serbare la nostra femminilità? Mi pare una sciocchezza»”.
“«Cara! Vorrei baciarti un’altra volta la manina». «No, basta. Non mi piace che alle donne si baci la mano». «Perché, Vera?» «Perché è un’offesa, una specie di degnazione, quasi che l’uomo dica: io sono tanto più in alto di voi, che non credo di abbassarmi con questa formalità cortigianesca»”. Nikolaj Černyševskij (1828 - 1889), socialista, studioso di filosofia e di estetica, economista e politologo stimato e citato da Karl Marx, scrisse il romanzo “Che fare?” nel 1862-63 (è suo il titolo, non di Lenin). Quello stesso anno fu arrestato e incarcerato dalla polizia zarista, e non tornò in libertà fino al 1888, poco prima di morire all’età di sessantun anni. Ma Vera vivrà per sempre: splendida protagonista che a metà dell’800, in un Paese fra i più arretrati, religiosi e oppressivi del mondo, disse alla donna e all’uomo che non c’è alcun amore ma solo reciproco inganno se nel rapporto la donna è considerata, dall’uno o dall’altra, meno di quella che è.
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38. Cervantes, Miguel de: “Don Chisciotte della Mancia”
“All’entrata del paese, don Chisciotte vide fra l’aie due ragazzini lottare, e uno dei due disse all’altro: «Non affannarti, Pietruccio, ché tanto non la vedrai più per tutto il tempo della tua vita». Lo udì Don Chisciotte e disse a Sancio: «Non hai fatto caso, amico, a ciò che ha detto quel ragazzo? ‘Non la vedrai più per tutto il tempo della tua vita’». «Ebbene? E che fa» rispose Sancio «che quel ragazzo abbia detto così?» «Che fa?» replicò Don Chisciotte. «Non vedi che questa frase, applicandola a me, significa che non vedrò mai più Dulcinea?»“
Si ride, leggendo le 1.200 pagine del “Don Chisciotte della Mancia (1605-1615) di Miguel de Cervantes (1547 ― 1616)? Sì, certamente. Si ride delle folli imprese in cui Don Chisciotte si precipita a corpo morto, come se ne vada non solo del suo valore e delle sue generose intenzioni, ma del futuro dell’Umanità. Si ride dei suoi errori, degli equivoci in cui cade, delle sciocchezze a cui crede, della pervicacia con cui respinge ogni lezione che subisce. Si ride dei brutti scherzi che gli fanno. E si ride, naturalmente, delle sue bislacche conversazioni con Sancio, e di Sancio stesso, che non è folle, ha con la realtà un rapporto lucido ed esatto, e nonostante ciò, anche quando a parole smentisce e critica il Cavaliere dalla Triste Figura, in cuor suo gli crede come un bambino al padre. Ma si ride con amarezza, perché le avventure di Don Chisciotte e Sancio Panza sono dolorose: in qualsiasi modo le interpretiamo ― come un’eroica, romantica lotta per una realtà ideale o una lotta disperata e suicida contro la realtà materiale ― quel che non cambia, e non vorremmo accettare, e alla fine ci abbandona a un senso di sconfitta totale, è che Don Chisciotte e Sancio, per tutto il tempo delle loro vite, non vedranno mai più Dulcinea: non vedranno mai neanche cominciare a realizzarsi quello che con tanta passione desideravano.
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39. Chandler, Raymond: “Tutto Marlowe Investigatore”
“«Credevo di essere innamorata di te, ma adesso non lo so più». «Era un grido nella notte» dissi. «Cerchiamo di non farlo diventare più di quel che era. In cucina c’è ancora caffè». «No, grazie. Voglio fare colazione. Non sei mai stato innamorato? Da desiderare di stare ogni giorno, ogni mese, ogni anno con una donna?» «Andiamo». «Un uomo così dolce, come fa a essere così cattivo?» domandò, con aria perplessa. «Se non fossi duro, non sarei vivo. Ma se non riuscissi a essere dolce, non meriterei di essere vivo»”.
“Ancora una Notte” (“Playback”) impegnò Raymond Chandler (1888 ― 1959) per undici anni: dal 1947 al 1958. Non è, forse, il suo romanzo migliore, ma è quello in cui il detective Philip Marlowe ― un personaggio mai statico, che di romanzo in romanzo diventa a poco a poco uno dei nostri più cari amici ― raggiunge la piena maturità umana e merita, un anno prima della morte del suo autore, di essere vivo per sempre. Lo so: le librerie grondano di investigatori, privati e pubblici. Ma Philip Marlowe è talmente superiore che non si può conoscerlo senza dimenticare tutti gli altri. E se dopo averlo letto vi viene voglia di vederlo, ascoltarlo, sentirlo muoversi, lasciate perdere Robert Mitchum e ― lo dico con dispiacere ― Humphrey Bogart: puntate su Paul Newman in “Detective’s Story” (1966, di Jack Smight ― anche se lì si chiama Lew Harper) e soprattutto su Elliot Gould ne “Il Lungo Addio” (1973, di Robert Altman).
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40. Christie, Agatha: “Dieci piccoli Indiani”
Se Agatha Christie (1890 ― 1976) sarà ricordata, non lo dovrà né a Miss Marple né a Hercule Poirot, i suoi celebri investigatori, ma a “Dieci Piccoli Negretti” (1939), che la cosiddetta correttezza politica ha rinominato “Dieci Piccoli Indiani” o “...E poi non rimase nessuno”. Qui non c’è un eroe in cui identificarsi, ma un implacabile, inesorabile meccanismo punitivo al quale neanche il lettore può sfuggire: un moderno trionfo della morte. Forse per questo in ottant’anni ha venduto 110 milioni di copie: la maggior parte delle storie di crimini sono trionfi della morte, ma quasi nessuna è così astrattamente perfetta.
“«Lei penserà che io sia pazzo, signore. Penserà che sia una sciocchezza. Ma bisogna spiegarselo, signore. Bisogna spiegarselo. Perché non si capisce, proprio non si capisce». «Be’, vuol dirmi di che si tratta? Non continui a parlare in modo sibillino». «Sono quelle statuine, signore. In mezzo alla tavola. Le statuine di porcellana. Erano dieci. Posso giurare che erano dieci». «Sì, dieci. Le abbiamo contate ieri sera, a cena». «Invece poi, mentre sparecchiavo, ce n’erano solo nove, signore. L’ho notato e mi è parso strano. Ma non ho detto niente. E ora, signore, è successo di nuovo. Stamattina non ci ho fatto caso, quando ho apparecchiato. Ma adesso, signore, quando sono tornato a sparecchiare... Guardi, se non mi crede. Ce ne sono solo otto, signore! Solo otto! Non capisco... Solo otto!»” Delle sue numerose versioni cinematografiche, nessuna rispetta il finale originario e solo una merita di essere vista: quella di René Clair del 1945. Le altre, meglio perderle che trovarle.
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41. Collodi, Carlo: “Le Avventure di Pinocchio”
Ci sono libri ― pochissimi, quasi unici ― che non si limitano a dare (o a tentare di togliere) e poi diventano ricordi, belli o spiacevoli: libri che vogliono unirsi a noi per tutta la vita come maestri in eterno e far di noi degli eterni allievi. E che, per questo, amiamo e odiamo finché non riusciamo a svelare il segreto con cui ci legano a sé e che strenuamente ci oppongono per continuare a tenerci legati. Finché non riusciamo a diventare noi i maestri e a far di loro gli allievi. O a illuderci di esserci riusciti. “Pinocchio è finto perché non è un ragazzino come si deve. Poiché solo i ragazzini come si deve sono ragazzini veri. Ma diventerà vero non appena sarà come lo vuole la Fata. Quando sarà ubbidiente, dirà sempre la verità, amerà lo studio e il lavoro, andrà volentieri a scuola, evidentemente sarà cambiato ― dice la Fata ― cosa che un pezzo di legno non può fare. E allora nessuno potrà più mettere in dubbio che sia un ragazzino vero. Esser vero, dunque, vuol dire corrispondere all’immagine che la Fata ha in mente? È la Fata la padrona e la depositaria della verità?” “Pinocchio come nessuno ve ne ha mai parlato”, di Luigi Scialanca. Carlo Collodi (Carlo Lorenzini, 1826 ― 1890). “Pinocchio” (1881-1883).
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42. Collodi, nipote: “Sussi e Biribissi”
“Sussi e Biribissi erano due ragazzi, ed erano amici. Ma erano due tipi così differenti l’uno dall’altro che sembravano messi insieme per scherzo. Sussi era biondo, un biondo giallo come una polenta di granturco scodellata di fresco. Grassoccio e rotondo come un pan di burro, bianco e rosso come una lazzarola, con certe ganasce che sembravan proprio stampate a pizzicotti. Aveva tredici anni e non era più alto di un caratello da marsala. Aveva delle gambine così corte che a vederlo di lontano pareva proprio che camminasse col... ci siamo intesi, e basta. Invece Biribissi era così nero che pareva tinto con l’inchiostro di quello buono. Secco, più secco di un baccalà stagionato, mostrava gli ossi come un ciuco arrembato. La sua caratteristica era quella di esser più sudicio di un bastone da pollaio. Non si lavava mai la faccia, e appunto per questo i compagni di scuola lo avevano soprannominato Il Filosofo”. “«Senti, Biribissi» saltò fuori il Sussi, fermandosi su due piedi, «che la faresti una cosa?» «Che cosa?» «Ma che te ne sentiresti il coraggio?» «Coraggio? In quanto a quello te ne vendo a chili. Di che si tratta?» «Lo faresti te un viaggio nel centro della terra?» «Se lo farei? Figurati! È più d’una settimana che ci penso»”. Paolo Lorenzini (1876 ― 1958), nipote dell’autore di “Pinocchio”, prese lo pseudonimo di Collodi nipote. “Sussi e Biribissi” (che potrebbe anche intitolarsi “Viaggio di due ragazzi nel sottosuolo di Firenze”), pubblicato nel 1902, è il suo romanzo più famoso.
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43. Conrad, Joseph: “Lord Jim”
“Sotto coperta, in una babele di duecento voci, si spogliava della propria realtà presente per anticipare con l’immaginazione la vita di mare quale la letteratura romanzesca gliel’aveva dipinta. Vedeva sé stesso in atto di salvare dei naufraghi, o di tagliare con l’ascia le alberature nella furia d’un ciclone, o di nuotare contro il risucchio trascinando un gherlino [...]: esempio costante di dedizione al dovere, eroe a tutta prova, come un personaggio di romanzo. [...] Quando tutti gli altri indietreggino, allora sì, lui solo saprebbe affrontare la falsa minaccia del vento e del mare”.
“Jim, in piedi sul ponte, nell’immobilità circolare dell’acqua e del cielo che aveva eternamente per centro la macchia nera del piroscafo in movimento, si sentiva pervaso da una grande certezza: la certezza di un’incolumità e di una pace senza confini, che si leggeva chiaramente nel silenzioso aspetto della natura così come la certezza di un amore si legge nella tenera calma del volto materno. E i pellegrini si abbandonavano al sonno al riparo del tendone teso come una tettoia, affidati alla saggezza e al coraggio degli uomini bianchi, alla potenza del loro scetticismo e al ferreo involucro della loro nave col fuoco in corpo”.
“La prima volta che lo vidi, Jim mi apparve distaccato e inabbordabile come soltanto i giovani sanno esserlo. Stava lì sano di membra, bello di volto, solidamente piantato: il ragazzo più promettente su cui mai si posò il sole. [...] Non aveva il diritto, ecco, di sembrare così valido. Pensai: be’, se un tipo simile può andar fuori rotta in quel modo...”
“«I fatti imminenti si proiettano dinanzi la propria ombra»: ma egli non sapeva scorgerla”.
“C’è una così magnifica indeterminatezza nelle speranze che ci spingono verso il mare, una così meravigliosa indefinitezza, una così bella sete di avventure che hanno solo in sé stesse la loro ricompensa! [...] In nessun altro genere di vita l’illusione è così lontana dalla realtà...”
Nei mari di Conrad immaginazione e realtà si fondono come nella nostre vite. Ma nella vita di Jim, piena d’immaginazione com’è piena di realtà, manca però qualcosa di fondamentale: sia la sua paura sia il suo coraggio sono fatti di totale solitudine. Gli altri non esistono: il dovere è sempre di Jim verso sé stesso. Un dovere che è debole quando egli lo impoverisce illudendosi su di sé, e immensamente forte, invece, quando infine realizza il sentimento della propria ignominia: ma sempre dovere e solitudine, mai rapporto.
Per questo la storia di Jim, per Conrad, è “una storia che può indurre al suicidio per semplice contatto”.
“Guai ai dispersi! Esistiamo soltanto per adesione reciproca”.
“Lord Jim” (1900) è il quarto romanzo di Joseph Conrad (Józef Teodor Konrad Naleçz Korzeniowski, nato nel 1857 in una provincia polacca dell’Ucraina, allora sotto la Russia zarista, e morto nel 1924 in un villaggio dell’Inghilterra sud-orientale) ed è considerato il suo capolavoro. Ma io ve li consiglio quasi tutti: “La follia di Almayer” (1895), “Un reietto delle isole” (1896), “Il negro del Narciso” (1897), “Nostromo” (1904), “L’agente segreto” (1906), e naturalmente i racconti, in particolare “Tifone” (1903) e “La linea d’ombra” (1917). P.s.. Non all’altezza il film di Richard Brooks del 1965: Peter O’Toole aveva senz’altro “le physique du rôle”, ma il cinema non si addice a Conrad più di quanto al mare si addica l’aereo.
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44. Cooper, James Fenimore: “L’Ultimo dei Mohicani”
È stato detto che non solo il “western” cinematografico ma il romanzo in quanto tale, negli Stati Uniti, è nato con Natty Bumppo, detto Occhio di Falco o anche Leather-Stocking (Calze-di-cuoio), protagonista di cinque romanzi di James Fenimore Cooper (1789 ― 1851), e soprattutto con “L’ultimo dei Mohicani” (1826), in cui Natty è affiancato dall’amico nativo americano Chingachgook e da suo figlio Uncas. Non è così, nessuna tradizione letteraria è mai nata da un’unica opera, ma un fatto è certo: chi legge da ragazzo “L’ultimo dei Mohicani” ne sente poi l’eco in molte delle proprie “esperienze americane” successive, e chi lo legge da adulto ha l’impressione di averla già sentita in molte delle sue esperienze precedenti.
“«Abbiamo viaggiato a lungo, e pochi di noi sono benedetti da un fisico come il vostro, che sembra non conoscere fatica o debolezza» disse Duncan. «Nervi e muscoli da uomo mi fanno superare ogni cosa» disse Occhio di Falco, osservandosi le membra muscolose con una semplicità che tradiva l’onesto piacere che gli dava il complimento. «Tuttavia, poiché carne e sangue non sono sempre uguali, è ragionevole pensare che le gentili signore desiderino riposare dopo tutto ciò che hanno visto e fatto oggi. Uncas, scopri la sorgente, mentre tuo padre e io prepareremo un riparo per quelle tenere teste con questi germogli di castagno e un letto di erba e foglie»”.
La splendida amicizia tra il “bianco” e l’“indiano”, il loro rispettoso rapporto con la natura, e l’amore tra la bella Cora e Uncas, “ultimo dei Mohicani”, fanno sognare un piccolo mondo umano primitivo che per un tempo ormai concluso (l’ultimo, appunto) è stato perfetto benché nemici disumani tentassero di distruggerlo. Poi dal sogno ci si sveglia scoprendo in Cooper razzismo e sessismo, anche se nascosti e inconsapevoli. Ma il ricordo del sogno rimane bello.
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45. Cormier, Robert: “La Guerra dei Cioccolatini”
Uno dei libri più amati da Stephen King: il romanzo dell’orrore delle scuole private, specialmente se cattoliche e specialmente se solo maschili. Ma (diversamente da quasi tutto King) senza mostri, senza demoni, senza la fede in un “Male” metafisico: solo preti, e ragazzi consegnati dalle famiglie ai preti.
“«Non bestemmiare, Obie» lo schernì Archie. «Dovrai dirlo in confessione». «Senti chi parla. Non so come hai avuto il coraggio di fare la comunione questa mattina in cappella». «Non c’entra il coraggio, Obie. Quando tu vai all’altare, tu ricevi il Corpo, rinco che sei. Io invece mastico una cialda, di quelle che si comprano a peso a Worcester. E quando tu dici ‘Gesù’ stai parlando del tuo capo. Io, invece, di in tipo che ha camminato in terra per trentatré anni come chiunque altro ma ha colpito la fantasia di alcuni dritti delle PR. PR sta per Pubbliche Relazioni, nel caso tu non lo sapessi, caro»”.
“«Voglio farti un quadro della situazione, Archie» disse Fratello Leon, il vicepreside, chinandosi in avanti sulla sedia. «Tutte le scuole private, cattoliche o non, navigano in brutte acque in questo momento. Parecchie chiudono. [...] Ho bisogno del tuo aiuto, Archie». «Del mio aiuto?» domandò Archie, fingendo stupore e cercando di eliminare dalla voce ogni traccia d’ironia. Finalmente sapeva perché era lì. Fratello Leon non intendeva l’aiuto di Archie, intendeva quello dei Vigilanti. Ma non voleva pronunciare la parola: ufficialmente non esistevano. Come può una scuola tollerare che un’organizzazione di studenti tipo i Vigilanti tenga gli altri studenti sotto controllo? Facendo finta che non esista. [...] Ma Fratello Leon, conoscendo i legami di Archie coi Vigilanti, audacemente lo aveva convocato nel suo ufficio”. “La Guerra dei Cioccolatini” (“The Chocolate War, 1974), di Robert Cormier (1925 ― 2000).
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46. Crichton, Michael: “Andromeda”
Scrivere romanzi o racconti che si svolgono nel futuro richiede che l’autore vi si sia recato o almeno lo abbia intravisto. Poiché Michael Crichton (1942 ― 2008) non ci riuscì, le sue opere stanno scomparendo dinanzi ai nostri occhi a mano a mano che ci muoviamo nel tempo. Resistono meglio le prime, scritte quando Hollywood non lo aveva ancora imprigionato in un falso presente. Come “Andromeda” (1969), che lo rese celebre in tutto il mondo a soli ventisette anni. “Era da molto tempo che non visitava un neonato, e aveva dimenticato quante difficoltà poteva presentare. Ogni volta che cercava di guardargli gli occhi, il bambino li chiudeva strettamente. Ogni volta che gli guardava in gola, il bambino chiudeva la bocca. Ogni volta che provava ad auscultargli il cuore, il bambino si metteva a strillare soffocando tutti gli altri suoni. Ma Hall non si perse d’animo, ricordando quel che aveva detto Stone. [...] E alla fine dovette concludere che il neonato, per quel che gli risultava, era perfettamente normale. Non presentava la benché minima anomalia. A parte il fatto che, chissà come, era riuscito a vincere il morbo”.
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47. Dahl, Roald: “Matilde”
I genitori di Matilde sono comici e fanno ridere, ma solo se immaginiamo che Matilde riuscirà a tener loro testa: altrimenti il vuoto interiore, l’anaffettività, la cattiveria e l’insensatezza che il signor Dalverme e sua moglie secernono, e che hanno già trasmesso al maggiore dei loro due figli, ci parrebbero più adatti a una fiaba dell’orrore come “Hänsel e Gretel”. Ci farebbe ridere sapere che Matilde, da grande, sarà come la madre? Ci fa ridere sapere che Michele, da grande, sarà come il padre? Fuori dalle belle storie e dai bei film, gli sventurati figli dei tanti Dalverme di questo mondo (che esistono davvero, e che sono, al contempo, meno simpatici di loro ma più abili a sembrare bravi e onesti anche a sé stessi) diventano molto più come Michele che come Matilde. E talora anche peggiori, cioè mostruosi come la signorina Spezzindue: che, diversamente dai Dalverme, non è simpatica nemmeno nella finzione, perché si vede subito che è una dei tanti orchi che un po’ dovunque sfruttano, rovinano o mandano a morire in guerra i figli migliori dei tanti Dalverme: quei figli, come Matilde, che i tanti Dalverme semplicemente abbandonano. Ecco perché a Roald Dahl non bastò che Matilde, grazie alla propria resistenza e al felice incontro con la signorina Dolcemiele, riuscisse a rimanere sé stessa, ma volle anche dotarla di superpoteri: perché potesse non solo vincere ma stravincere, assicurando alla giustizia i Dalverme e la Spezzindue, liberando (pacificamente) il mondo dalla loro presenza e risarcendo così lo scrittore e i lettori, almeno nella fantasia, della dolorosa consapevolezza di quale grosso guaio sia in realtà l’esser piccoli e inermi, e molto spesso indifesi, in un mondo in cui le Spezzindue e i Dalverme spadroneggiano. I superpoteri di Matilde, in apparenza così irreali, segnano al contrario l’irruzione del mondo reale in una vicenda che altrimenti mentirebbe ai suoi giovanissimi lettori e spettatori proprio come i contachilometri truccati del signor Dalverme ingannano i suoi clienti: “Se volete resistere agli stuoli di Dalverme e Spezzindue che incontrerete nella vita, cari bambini ― dicono quei superpoteri ― essere in gamba non basterà: dovete esserlo immensamente, straordinariamente, o non ce la farete. Ma neanche essere immensamente e straordinariamente in gamba servirà un granché, se non oserete avventurarvi nella foresta, trovare la casetta di una strega (come le chiamano i Dalverme e le Spezzindue), scoprire che invece è una fata buona, ed entrare, coraggiosi, a chiederle di aiutarvi: senza superpoteri e senza fatine buone ― avvisa onestamente Roald Dahl i suoi piccoli lettori e spettatori ― non nel mondo delle fiabe ma proprio nel mondo reale è impossibile cavarsela”. E naturalmente è necessario aver letto moltissime storie bellissime. Anzi: averle lette praticamente tutte. I superpoteri di Matilde vengono da lì, e anche la signorina Dolcemiele viene da lì. Nelle grandi storie c’è la forza che non è violenza e sulla violenza trionfa. Nelle grandi storie c’è l’esperienza che permette a Matilde di riconoscere la signorina Dolcemiele quando la incontra. Nelle grandi storie c’è l’intatta umanità che la signorina Dolcemiele vede e riconosce in Matilde fin dal primo giorno di scuola. Come la televisione riunisce i Dalverme e le Spezzindue mentre li gonfia di una vuota e grottesca presunzione d’aver visto e saputo e capito per aver troppo ripetuto e rimasticato piatte e offensive riproduzioni della realtà, così le bellissime storie narrate e lette uniscono e rendono invincibili le Matilde e le signorine Dolcemiele per aver tanto sognato e immaginato e desiderato meravigliose reinvenzioni della realtà. Roald Dahl (1916 ― 1990) ha scritto, tra l’altro, “Gremlins” (1943), “James e la pesca gigante” (1961), “La fabbrica di cioccolato” (1964), “Il grande ascensore di cristallo” (1972), “Un gioco da ragazzi e altre storie” (1977), “Storie impreviste” (1979), “Storie ancora più impreviste” (1980), “Gli Sporcelli” (1980), “Il Grande Gigante Gentile” (1982) e “Le streghe” (1983). Ma il suo romanzo (e il suo personaggio) che preferisco ― l’avrete capito ― è “Matilde” (1988).
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48. D’Annunzio, Gabriele: “Trionfo della Morte”
Non amo Gabriele D’Annunzio. Meglio: lo detesto, come uomo e come scrittore. E dico “come uomo e come scrittore” non perché li creda distinguibili ― niente, di un essere umano, è mai distinguibile dall’essere umano ― ma per esprimere con più forza la mia avversione. Eppure, come mi impressionò il pellegrinaggio de “Il Trionfo della Morte”! Avevo solo quattordici anni, e quello era uno dei primi “Oscar” Mondadori (che qualche anno dopo, con odio, buttai nella spazzatura, e ancora qualche anno dopo ricomprai, memore) e mi dissi: “Questa è la religione?! Questa... è l’Italia?!” Quando avete tempo, arrivate anche solo fino alle “femmine rettili”: sì, questa era l’Italia da cui viene, da poco più di un secolo, l’Italia di oggi!, questa era l’Italia che si prosternava davanti ai D’Annunzio e ai Mussolini, e che si prosterna oggi davanti ai Salvini e alle Meloni!
“«Viva Maria» Giorgio e Ippolita, smarriti, affranti, guardavano la tremenda folla da cui emanava un lezzo nauseabondo... Il disgusto li prendeva alla gola, li eccitava a fuggire; eppure l’attrazione dello spettacolo umano era più forte... Era uno spettacolo meraviglioso e terribile, inopinato, dissimile ad ogni aggregazione già veduta di cose e di genti, composto di mescolanze così strane aspre e diverse che superava i più torbidi sogni prodotti dall’incubo. Tutte le brutture dell’ilota eterno, tutti i vizii turpi, tutti gli stupori; tutti gli spasimi e le deformazioni della carne battezzata, tutte le lacrime del pentimento, tutte le risa della crapula; la follia, la cupidigia, l’astuzia, la lussuria, la frode, l’ebetudine, la paura, la stanchezza mortale, l’indifferenza impietrita, la disperazione taciturna; i cori sacri, gli ululi degli ossessi, i berci dei funamboli, i rintocchi delle campane, gli squilli delle trombe, i ragli, i muggiti, i nitriti; i fuochi crepitanti sotto le caldaie, i cumuli dei frutti e dei dolciumi, le mostre degli utensili, dei tessuti, delle armi, dei gioielli, dei rosarii; le danze oscene delle saltatrici, le convulsioni degli epilettici, le percosse dei rissanti, le fughe dei ladri inseguiti a traverso la calca; la suprema schiuma delle corruttele portata fuori dai vicoli immondi delle città remote e rovesciata su una moltitudine ignara e attonita; come tafani sul bestiame, nuvoli di parassiti implacabili su una massa compatta incapace di difendersi; tutte le basse tentazioni agli appetiti brutali, tutti gli inganni alla semplicità e alla stupidezza, tutte le ciurmerie e le impudicizie professate in pieno meriggio; tutte le mescolanze erano là, ribollivano, fermentavano, intorno alla Casa della Vergine. La Casa era massiccia, di architettura volgare, disadorna, fabbricata a mattone, senza intonaco, rossastra. Contro le mura esterne, contro i piloni del portico, i mercanti di oggetti sacri avevano inalzato le loro tende, collocato i loro banchi; e mercanteggiavano. Sorgevano da presso le baracche dei girovaghi, coniche, parate di larghi quadri raffiguranti battaglie sanguinose e pasti di cannibali. Uomini biechi, d’aspetto ignobile e ambiguo, strombettavano e vociavano su l’ingresso. Femmine impudenti, dalle gambe enormi, dal ventre gonfio, dal seno floscio, mal coperte di maglie sporche e di stracci luccicanti, celebravano in un gergo sguaiato le meraviglie che celava dietro di loro la cortina rossa. Una di queste bagasce disfatte, che pareva un essere generato da un uomo nano e da una scrofa, imboccava con la sua bocca viscida una scimmia lasciva, mentre a fianco un pagliaccio impiastricciato di farina e di carminio agitava con furia frenetica una campanella assordante. Le compagnie giungevano, precedute dai crociferi, cantando l’inno, in lunghe file. Le donne si tenevano a vicenda per un lembo della veste e camminavano estatiche, inebetite, con gli occhi sbarrati e fissi. Quelle del Trigno portavano una veste di panno tinto in grana, a mille pieghe, fermata a mezzo della schiena quasi sotto le ascelle, attraversata ai fianchi da una cintura multicolore che rialzandola e serrandola formava un rilievo simile a una gobba. E, come camminavano stracche, curve, con le gambe aperte, strascicando le scarpe plumbee, davano immagine di strani animali gibbosi. Talune erano gozzute; e le collane d’oro luccicavano sotto i gozzi adusti. «Viva Maria!» Emergevano dalla folla le sonnambule poste a sedere su piccoli palchi eminenti, le une di fronte alle altre, in contrasto. Bendate, del viso non mostravano se non la bocca loquace, in continua salivazione, infaticabile. Parlavano con una cantilena sempre eguale, alzando ed abbassando la voce, segnando la cadenza con una scossa del capo. A tratti, con un leggero sibilo, ritiravano in dentro la saliva soverchia. Una gridava, mostrando una carta da giuoco untuosa: «Ecco l’àncora della buona speranza!» Un’altra, dalla bocca smisurata dove appariva e spariva tra i denti guasti la lingua coperta d’una patina giallastra, stava tutta china verso gli ascoltanti, tenendo su le ginocchia le grosse mani dalle vene gonfie, e nel cavo del grembo un mucchio di monete di rame. Gli ascoltanti intorno, attentissimi, non perdevano una parola; non battevano palpebra, non facevano un gesto. Solo, di tratto in tratto, inumidivano con la lingua le labbra disseccate. «Viva Maria!» Nuove torme di pellegrini giungevano, passavano, scomparivano. Qua e là, all’ombra delle baracche, sotto i larghi ombrelli azzurri, o in pieno sole, le vecchie, sfinite dalla fatica, dormivano prone, con la faccia tra le due mani, nell’erba arsiccia. Altre, sedute in giro, con le gambe allargate sul terreno, masticavano carrube e pane faticosamente, in silenzio, senza sguardo, estranee all’agitazione che le circondava; e si vedevano i bocconi troppo grossi passare con sforzo nelle loro gole giallognole e rugose come le membrane delle testuggini. Talune erano piene di piaghe, o di croste, o di cicatrici, senza denti, senza cigli, senza capelli; non dormivano, non mangiavano; stavano immobili, rassegnate, quasi aspettassero la morte; e su le loro carcasse turbinava, denso e fervido come su le carogne nei fossi, un nuvolo di mosche. Ma nelle béttole, sotto le tende infocate dal sole meridiano, intorno alle travi infisse nel terreno e ornate di frasche, si esercitava la voracità di coloro che avevano penosamente ammassato i piccoli risparmi fino a quel giorno per sciogliere il vóto sacro e per appagare un desiderio di crapula, enorme, covato a lungo tra gli scarsi pasti e le dure fatiche. Si scorgevano le loro facce curve su la scodella, i moti delle loro mandibole stritolanti, i gesti delle loro mani dilanianti, tutte le loro attitudini di bruti alle prese con un cibo inconsueto. Fumigavano i larghi tegami pieni di polpi violacei, dentro buche circolari trasformate in fornelli, e il vapore si spandeva intorno attirando. Una fanciulla, smilza e verdognola come una locusta, offriva lunghe filze di cacio in forma di piccoli cavalli o di uccelli o di fiori. Un uomo che aveva una faccia liscia e untuosa di femmina, con le campanelle d’oro agli orecchi, con le mani e le braccia colorite d’anilina come quelle dei tintori, offriva sorbetti che parevano veleni. «Viva Maria!» Nuove torme giungevano, passavano. La moltitudine rigurgitava intorno al portico, non potendo penetrare nella chiesa già occupata e colma. Giocolari, bari, barattieri, biscazzieri, truffatori, ciurmatori d’ogni specie, la richiamavano, la distoglievano, la seducevano. Tutti questi fratelli di rapina fiutavano da lontano le prede, piombavano diritti e fulminei, non mancavano mai il colpo. Allettavano il gonzo in mille modi, dandogli la speranza d’un guadagno pronto e sicuro; lo eccitavano al rischio con infinite simulazioni; esasperavano in lui la cupidigia sino alla febbre. Poi, quando egli aveva perduto ogni ritegno e ogni lume, lo spogliavano interamente, senza pietà, con il dòlo più facile e più rapido; lo lasciavano stupefatto e misero, sghignazzandogli sotto il naso e dileguandosi. Ma l’esempio non salvava gli altri dal cadere nell’insidia. Ciascuno, stimandosi più avveduto e più esperto, si proponeva di vendicare il compagno beffato; e si gittava con veemenza nella ruina. Gli innumerabili stenti senza tregua patiti per giungere a convertire in denaro i risparmii di un anno, raffilati, centesimo per centesimo, su i bisogni vivi ― gli indicibili stenti che rendono l’avarizia dell’agricoltore sordida e cruda come quella dell’accattone ― , tutti palesava il tremito della mano callosa nel prendere la moneta riposta e nell’esporla al rischio. «Viva Maria!» Nuove torme giungevano, passavano. Una corrente sempre nuova persisteva in mezzo alla folla confusa e fluttuante; una cadenza sempre eguale dominava tutti i clamori misti. A poco a poco l’orecchio non percepiva se non il chiaro nome di Maria sul fondo cupo degli strepiti diversi. L’inno vinceva lo schiamazzo. L’onda continua e gagliarda batteva le mura del Santuario incendiate dal sole. «Viva Maria! Maria evviva!» Ancóra per qualche minuto Giorgio e Ippolita, smarriti, affranti, guardarono la tremenda folla da cui emanava un lezzo nauseabondo, da cui qua e là emergevano i volti imbellettati delle mime, i volti bendati delle sibille. Il disgusto li prendeva alla gola, li eccitava a fuggire; eppure l’attrazione dello spettacolo umano era più forte, li tratteneva nelle strettoie della calca, li portava dove la miseria appariva peggiore, dove si rivelavano con peggiori eccessi la crudeltà, l’ignoranza, la frode, dove le grida irrompevano, dove le lacrime scorrevano. «Avviciniamoci alla chiesa» disse Ippolita, che pareva fuori di sé, investita dalla fiamma di demenza che esalavano le turbe fanatiche passando con una furia più folle come più tristo feriva i cranii quel sole. «Hai ancóra forza?» le domandò Giorgio prendendole le mani. «Vuoi che andiamo via di qui? Troveremo un luogo dove riposarci. Temo che tu ti senta male. Vuoi che andiamo via?» «No, no. Sono forte, posso resistere. Avviciniamoci alla chiesa; entriamo nella chiesa. Non vedi? Tutti vanno là. Senti come gridano!» Visibilmente ella soffriva; aveva la bocca convulsa, i muscoli del viso contratti; e tormentava con le dita il braccio di Giorgio. Ma non distoglieva lo sguardo dalla porta del Santuario, che pareva velata da un fumo azzurrognolo a traverso il quale, ora sì ora no, brillavano le fiammelle dei cèrei. «Senti come gridano!» Ella titubava. Le grida sembravano venire da una strage: da uomini e donne che si sgozzassero a vicenda e si dibattessero nel sangue gorgogliante. Cola disse: «Chiedono la grazia». Egli non s’era mai distaccato dai suoi ospiti; s’era affaticato di continuo ad aprir la via tra la calca, a fare un po’ di largo intorno a loro. «Volete andare?» domandò. Ippolita si risolse. «Andiamo, andiamo». Il vecchio li precedeva, lavorando di gomiti, verso il portico. Ippolita quasi non toccava terra, quasi trasportata su le braccia da Giorgio che raccoglieva tutte le sue forze per regger lei e sé medesimo. Una mendicante li seguiva da presso, li premeva, chiedendo l’elemosina con una voce lamentevole, tendendo la mano e avanzandola talvolta sino a toccarli. Ed essi vedevano soltanto quella mano senile, deformata da grossi nodi alla nocca, tra giallognola e turchiniccia, con le unghie lunghe e violette, con la pelle tra dito e dito escoriata; che somigliava alla mano d’una scimmia inferma e decrepita. Giunsero finalmente al portico; s’addossarono a uno dei pilastri, presso il banco d’un mercante di rosarii. Le compagnie giravano intorno alla chiesa, aspettando il loro turno per entrare; giravano, giravano senza posa, a capo scoperto, dietro i crociferi, senza mai interrompere il canto. Uomini e donne portavano un bastone crociato o fiorito su cui s’appoggiavano con tutto il peso della loro stanchezza. Le loro fronti grondavano; rivoli di sudore correvano per le loro gote, inzuppavano le loro vesti. Gli uomini avevano la camicia aperta sul petto, il collo nudo, le braccia nude e su le mani, su i polsi, sul riverso delle braccia, sul petto la cute era tempestata di figure incise, colorite con l’indaco, in memoria dei santuari visitati, delle grazie ricevute, dei vóti sciolti. Tutte le deformazioni dei muscoli e delle ossa, tutte le diversità della bruttezza corporea, tutte le indelebili impronte lasciate dalle fatiche, dalle intemperie, dai morbi: ― i cranii acuminati o depressi, calvi o lanuti, coperti di cicatrici o di escrescenze; gli occhi bianchicci e opachi come bolle di siero, gli occhi tristamente glauchi come quelli dei grossi rospi solitarii; i nasi camusi, come schiacciati da un pugno, o adunchi come il becco dell’avvoltoio, o lunghi e carnosi come una proboscide, o quasi distrutti da una corrosione; le gote venate di sanguigno come le foglie della vite in autunno, o giallicce e grinze come il centopelle di un ruminante, o ispide di peli rossastri come la saggina; le bocche sottili come tagli di rasoio, o aperte e flaccide come fichi sfatti, o rapprese nella loro vacuità come foglie bruciacchiate, o munite di denti formidabili come le zanne dei cinghiali; i labbri leporini, i gozzi, le scrofole, le risipole, le pustole: ― tutti gli orrori della carne umana passavano nella luce del sole, davanti alla Casa della Vergine. «Viva Maria!» Ogni torma aveva il suo crocifero e il suo duce. Il duce era un uomo membruto e violento che eccitava di continuo i fedeli con urli e con gesti da forsennato, percotendo nella schiena i tardi, trascinando i vecchi sfiniti, ingiuriando le donne che interrompevano l’inno per trarre un respiro. Un gigante olivastro, a cui fiammeggiavano gli occhi sotto un gran ciuffo nero, trascinava tre donne per tre corde di tre capestri. Un’altra donna veniva innanzi ignuda dentro un sacco da cui escivan fuori soltanto il capo e le braccia. Un’altra, lunga e scarna, dal volto livido, dagli occhi bianchicci, veniva innanzi trasognata, senza cantare, senza mai volgersi, lasciando scorgere sul suo petto una fascia rossa che pareva la benda cruenta d’una ferita mortale; e di tratto in tratto vacillava come se non potesse più reggersi in piedi e dovesse alfine cader di schianto e non rialzarsi più. Un’altra, grifagna, iraconda, simile a una Furia rustica, con il manto sanguigno avvolto intorno ai fianchi ossuti, con sul busto un ricamo lucente come una spina di pesce, brandiva un crocifisso nero guidando e incitando il suo manipolo. Un’altra portava sulla testa una culla coperta da un panno cupo, come Liberata nella notte funebre. «Viva Maria!» Giravano, giravano senza posa, accelerando il passo, elevando la voce, eccitandosi sempre più agli urli e ai gesti degli energumeni. Le vergini, con gli scarsi capelli sciolti e impregnati d’olio d’oliva, quasi calve sul cocuzzolo, stupide e pecorine nel volto e nelle attitudini, procedevano in fila, ciascuna tenendo una mano su la spalla della compagna, guardando a terra, compunte, ― creature miserevoli, le cui matrici dovevano senza voluttà perpetuare in carne battezzata gli istinti e la tristezza della bestia originaria. Dentro una specie di bara profonda, portata a braccia da quattro uomini, giaceva un paralitico affogato dalla pinguedine, con le mani penzoloni contorte e nocchiolute per la mostruosità della chiragra come radici. Un continuo tremore glie le agitava; un sudore abondante gli stillava dalla fronte e dal cranio calvo, rigandogli la larga faccia ch’era d’un color roseo disfatto, sottilissimamente venato di vermiglio come la milza dei buoi. Ed egli portava appesi al collo molti brevi, spiegato sul ventre il foglio dell’Imagine. Ansava e si lamentava come in un’agonia tormentosa, già semispento; tramandava un insoffribile odore, quasi di dissoluzione; esalava da tutti i pori l’atroce pena che gli davano quegli ultimi guizzi della vita; ma pure non voleva morire: si faceva trasportare in una bara ai piedi della Madre per non morire. A breve distanza da lui, altri uomini di forza, usi a reggere nelle sagre le statue massicce o gli altissimi stendardi, trascinavano per le braccia un ossesso; che si dibatteva sotto le loro tenaglie ruggendo, lacero nelle vesti, con la bava alla bocca, con gli occhi fuori dall’orbite, con il collo gonfio di arterie, con i capelli scovolti, violaceo come uno strangolato. Passò anche Aligi, l’uomo della grazia, divenuto più pallido della sua gamba di cera. E di nuovo tutti gli altri passarono, nel continuo giro: passarono le tre donne dal capestro; passò la Furia dal crocifisso nero; e la taciturna dalla zona sanguigna; e quella con la culla sul capo; e quella vestita d’un sacco, chiusa nella sua mortificazione, rigata il volto di silenziose lacrime che le sgorgavano di sotto alle palpebre chine, figura di un evo remoto, isolata nella folla, come circondata da un’aura dell’antica severità penitenziale... «Viva Maria!» Giravano, giravano senza mai soffermarsi, accelerando il passo, elevando la voce, resi dementi dal sole che li feriva in fronte o all’occipite, eccitati dagli urli degli energumeni e dai clamori interni che udivano passando innanzi alla porta, invasi da una frenesia feroce che li spingeva ai sacrifici sanguinosi, agli strazii della carne, alle prove più inumane. Giravano, giravano, impazienti di entrare, impazienti di prosternarsi sulla pietra sacra, di colmare col pianto il solco lasciato ivi da mille e mille ginocchia. Giravano, giravano, aumentando di numero, accalcandosi, incalzandosi, con tal furia concorde che non più parevano un adunamento di singoli uomini ma la coerente massa d’una qualche cieca materia sospinta da una forza vorticosa. «Viva Maria! Maria evviva!» [...] «Venite dietro di me» ripeteva il vecchio, dividendo con la forza dei gomiti il torrente, affannandosi per difendere dagli urti i suoi ospiti. Entrarono da una porta laterale in una specie di sagrestia dove tra un fumo azzurrognolo si scorgevano le pareti ricoperte interamente dai vóti di cera sospesi a testimonianza dei miracoli compiuti dalla Vergine. Gambe, braccia, mani, piedi, mammelle, frammenti informi che rappresentavano i tumori, le cancrene e le ulceri, figurazioni rozze di morbi mostruosi, pitture di piaghe scarlatte e violacee sul pallore della cera stridenti, ― tutti quei simulacri immobili su le quattro alte pareti avevano un aspetto mortuario, facevano ribrezzo e paura, davano immagine d’un carnaio ove fossero raccolte le membra amputate in un ospedale. Mucchi di corpi umani inerti ingombravano il pavimento; tra mezzo ai quali apparivano volti lividi, bocche sanguinanti, fronti polverose, cranii calvi, capelli bianchi. Erano quasi tutti vecchi, svenuti per lo spasimo davanti all’altare, portati là a braccia, ammucchiati come cadaveri in tempo di pestilenza. Un altro vecchio veniva dalla chiesa portato a braccia da due uomini che singhiozzavano; e nel moto il capo gli penzolava ora sul petto ora su una spalla, e stille di sangue gli gocciolavano su la camicia dalle escoriazioni del naso, delle labbra, del mento. Disperate grida lasciava egli dietro di sé, che forse più non udiva: grida di dementi che imploravano la grazia ch’egli non aveva ottenuta. «Madonna! Madonna! Madonna!» Era un clamore inaudito, più atroce degli urli di chi arde vivo in un incendio senza scampo, più terribile d’un richiamo di naufraghi in un mare notturno condannati a morte certa. «Madonna! Madonna! Madonna!» Mille braccia si tendevano verso l’altare, con una frenesia selvaggia. Le femmine si trascinavano sulle ginocchia, singhiozzando, strappandosi i capelli, percotendosi le anche, battendo la fronte nella pietra, agitandosi come in convulsioni demoniache. Talune, carponi sul pavimento, sostenendo su i gomiti e su i pollici dei piedi scalzi il peso del corpo orizzontale, avanzavano a poco a poco verso l’altare; strisciavano come rettili. Si contraevano puntando i pollici, con piccole spinte consecutive; e apparivano fuori della gonna le piante callose e giallastre, i malleoli sporgenti e acuti. Le mani aiutavano di tratto in tratto lo sforzo dei gomiti; tremavano intorno alla bocca che baciava la polvere, presso alla lingua che nella polvere segnava croci con la saliva mista di sangue. E su quelle tracce sanguigne i corpi striscianti passavano senza cancellarle, mentre davanti a ciascuna testa un uomo alzato batteva con la punta di un bastone il pavimento per indicare la via diritta verso l’altare. «Madonna! Madonna! Madonna!» Le consanguinee, trascinandosi su le ginocchia ai due lati del solco, vigilavano il supplizio votivo. Di tratto in tratto si chinavano a confortare le misere. Se quelle davano segno di venir meno, le soccorrevano reggendole per le ascelle o sventolando sul loro capo un pannolino. Piangevano negli atti, dirottamente. Più forte piangevano nell’assistere i vecchi e i giovinetti al medesimo vóto. Non le femmine soltanto ma i vecchi, gli adulti, i giovinetti, per giungere all’altare, per esser degni di sollevare gli occhi verso l’Imagine, si assoggettavano al supplizio. Ciascuno posava la lingua dove l’altro aveva già lasciato il vestigio umido; ciascuno batteva il mento o la fronte là dove l’altro aveva già lasciato un brano di pelle o una goccia di sangue e il sudore e le lacrime. Improvviso un raggio di luce radente, dalla porta maggiore penetrando per gli interstizii della calca, illuminava le piante dei piedi contratti, incallite sulla gleba arida o sul sasso della montagna, difformate, non più umane quasi, ma bestiali; illuminava gli occipiti capelluti o calvi, bianchi di canizie o fulvi o bruni, sostenuti da colli taurini che si gonfiavano nello sforzo, o tentennanti debolmente come il capo verdognolo d’una vecchia testuggine sbucato dal guscio, o simili a un teschio dissotterrato dove ancóra rimanessero tra rosicchiature qualche ciocca grigia e qualche lembo di cuoio rossiccio. Si distendeva talora sui lenti rettili un’onda d’incenso cerulea lentamente; e velava per alcuni attimi quell’umiltà, quella speranza e quel corporale dolore, quasi penosa. Si presentavano d’innanzi all’altare, oltrepassando, nuovi pazienti a chiedere il miracolo; e coprivano con le loro ombre e con le loro voci gli atterrati che parevano non dover mai giungere a risollevarsi. «Madonna! Madonna! Madonna!» Le madri si scoprivano le mammelle inaridite e le mostravano alla Vergine per implorare la grazia del latte; mentre dietro di loro le consanguinee recavano i figliuoli macilenti, quasi moribondi, che mettevano un piagnucolio fioco. Le spose pregavano pel loro ventre sterile la fecondità, offrendo in dono le vesti e gli ori nuziali. «Fammi tu la grazia, per quel figlio che hai in braccio, Maria Santa!» Pregavano da prima sommesse, narrando tra le lacrime la loro pena, come se comunicassero con l’Imagine in un colloquio isolato, come se l’Imagine si chinasse dall’alto fino a loro per ascoltare il lamento. Poi, a grado a grado, si eccitavano sino al furore, sino alla demenza. Pareva che volessero strappare il consenso del prodigio a furia di grida e di gesti folli. Raccoglievano tutte le forze per gittare un urlo più acuto che giungesse all’imo cuore della Vergine. «Fammi la grazia! Fammi la grazia!» E attendevano, in una pausa ansiosa, sbarrando gli occhi, sperando di cogliere alfine un segno nel volto della persona celeste che scintillava tempestata di gemme tra le colonne dell’altare, inaccessibile. Un nuovo flutto di fanatici sopravveniva, prendeva il posto, si distendeva per tutta la lunghezza del cancello. Le alte grida e i gesti violenti s’alternavano con le offerte. Di là dal cancello, che precludeva l’accesso all’altar maggiore, i preti ricevevano nelle loro mani grasse e pallide le monete e le gioie. Nel tendere la destra e la sinistra da una parte all’altra, si dondolavano come le bestie prigioniere nelle gabbie dei serragli. Dietro di loro i chierici sostenevano larghi vassoi di metallo, su cui le offerte s’accumulavano sonando. Da un lato, presso la porta della sagrestia, altri preti stavano curvi intorno a un tavolo: numeravano le monete, esaminavano gli ori, mentre uno ossuto e fulvo scriveva con una penna d’oca in un gran registro. [...] «Madonna! Madonna! Madonna!» Erano le femmine rettili che, giunte alla mèta, si alzavano. Una di loro fu sollevata dalle parenti, rigida come un cadavere; fu sostenuta in piedi e scossa. Pareva morta. Aveva tutto il viso polveroso, la fronte e il naso escoriati, la bocca piena di sangue. Quelle del soccorso le soffiarono sul viso perché riprendesse la conoscenza; le tersero la bocca con un pannolino che diventò vermiglio; la scossero di nuovo e la chiamarono per nome presso all’orecchio. Ella, all’improvviso, arrovesciò il capo indietro. Poi si gittò contro il cancello, abbrancò i ferri convulsa; e si mise a urlare come una partoriente. Urlava e si dibatteva, coprendo ogni altro clamore. Un profluvio di lacrime le inondava la faccia, lavando la polvere e il sangue. «Madonna! Madonna! Madonna!» [...] Si diressero verso la strada che biancheggiava lungo un lato del piano. Pareva che lo strepito li incalzasse. La tromba d’un giocoliere mandava squilli acutissimi dietro di loro. La sempre eguale cadenza dell’inno persisteva su tutte le altre voci con la sua continuità esasperante. «Viva Maria! Maria evviva!» Un accattone comparve d’improvviso come se fosse balzato di sotterra; e tese la mano. «La carità, per amore della Madonna!» Era un giovine, col capo fasciato da un fazzoletto rosso che per un lembo gli copriva un occhio. Sollevò il lembo e mostrò l’occhio enorme, gonfio come una borsa, purulento, in cui il battito della palpebra superiore metteva un tremolio orribile a vedersi. «La carità, per amore della Madonna!» Giorgio gli fece l’elemosina; ed egli ricoprì la bruttura. Ma, poco oltre, un uomo gigantesco, sanguigno, monco d’un braccio, si trasse a metà la camicia per mostrare la cicatrice increspata e rossastra dell’amputazione. «Un morso! Il morso d’un cavallo! Guardate! Guardate!» E si gittò a terra, così scoperto; e baciò la terra più volte, gridando ogni volta con una voce aspra: «Misericordia!» Un altro accattone, uno storpio, stava sotto un albero, su un giaciglio composto d’un basto, d’una pelle di capra, d’una scatola da petrolio vuota e di grosse pietre. Avvolto in un lenzuolo lurido, d’onde uscivano due stinchi vellosi e chiazzati di fango secco, egli agitava rabbiosamente una mano ritorta come una radice, per cacciare le mosche che lo assalivano a nugoli. «La carità! La carità! Fate la carità! La Madonna vi farà la grazia. Fate la carità!» [...]) E tra la polvere apparve in confuso un viluppo di mostri. Uno dalle mani mozze agitava i moncherini sanguigni come se la troncatura fosse ancor fresca o mal cicatrizzata. Un altro aveva le palme munite d’un disco di cuoio e su quelle trascinava a fatica la massa del corpo inerte. Un altro aveva un gran gozzo grinzoso e violaceo che gli ondeggiava come una giogaia. Un altro, per una crescenza del labbro, pareva tenesse fra i denti un brano di fegato crudo. Un altro mostrava il volto devastato da una erosione profonda che gli scopriva le fosse nasali e la mascella di sopra. Altri mostravano altri orrori, a gara, con gesti violenti, con attitudini quasi di minaccia, come per far prevalere un diritto. «Ferma! Ferma!» «Date l’elemosina!» «Guardate! Guardate! Guardate!» «A me! A me!» «Date l’elemosina!» «Fate la carità!» «A me!» [...] Nulla ― né il vortice di demenza che trascinava le turbe fanatiche intorno al tempio; né le grida disperate che sembravano partire da un incendio o da un naufragio o da una carneficina; né i vecchi tramortiti e sanguinolenti che giacevano ammucchiati contro le pareti della stanza votiva; né le femmine convulse che strisciavano verso l’altare lacerandosi la lingua contro la pietra; né il supremo clamore prorotto dalle viscere della moltitudine confusa in un solo spasimo e in una speranza sola ― nulla, nulla eguagliava in terribilità lo spettacolo di quella grande erta polverosa, accecante di bianchezza, su cui tutti quei mostri della miseria umana, tutti quegli avanzi di una umanità disfatta, corpi accomunati alla bestia immonda e alla materia escrementale, ostentavano fuor de’ cenci le loro brutture e le proclamavano. «Dio mio, Dio mio, che paese maledetto!» mormorò Ippolita, esausta, sentendosi venir meno. «Andiamo via! Andiamo via! Torniamo indietro! Ti prego, Giorgio: torniamo indietro!»” (Gabriele d’Annunzio, 1863 ― 1938, “Trionfo della morte”, 1894, Milano, Mondadori, 1995, pp 235 ― 266).
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49. D’Arrigo, Stefano: “Horcynus Orca”
“Eppoi, di seguito, da schiena a schiena, quelle galeote senza re né regno, gli dettero senza riguardi un’incalcata di smacco, con mano più pesante ancora: «Ma quante miria e miria di braccia e gambe avrà sta tale Patria?» «La gamba, dice questo, la detti alla Patria. Il braccio, quello dice, lo detti alla Patria. Gamba, braccio... E che è per loro? Un fiore?» «E quanta boria, quanta trionferia ci mettono a dirlo...» «È tutto un macello di guerre, ma se senti questi qua, ti pare quasi che sono tutte questioni di uomini per femmine, azioni di amanteria». «Ma che gli farà, sta Patria?» «Sarà speciale, lei». «L’avrà filettata d’oro, lei». «O ci avrà il miele». «Pirdeu, più ne ammazza e più ne trova di questi ladri, assassini delle loro carni»”. “Horcynus Orca” (1957-1975), di Stefano D’Arrigo (1919 ― 1992).
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50. De Amicis, Edmondo: “Cuore”
È l’edizione di “Cuore” che mi regalarono a undici anni, nel 1962. E cosa trovo quando la apro? “Re Umberto”, lunedì 3 aprile:
“La carrozza arrivò davanti a noi. «Evviva!» gridarono molte voci. «Evviva!» gridò Coretti, dopo gli altri. Il re lo guardò in viso e arrestò un momento lo sguardo sulle tre medaglie. Allora Coretti perdé la testa e urlò: «Quarto battaglione del quarantanove!» Il re, che s’era già voltato da un’altra parte, si rivoltò verso di noi, e fissando Coretti negli occhi, stese la mano fuor della carrozza. Coretti fece un salto avanti e gliela strinse. La carrozza passò, la folla irruppe e ci divise, perdemmo di vista Coretti padre. Ma fu un momento. Subito lo ritrovammo, ansante, con gli occhi umidi, che chiamava per nome il figliuolo, tenendo la mano in alto. Il figliuolo si slanciò verso di lui, ed egli gridò: «Qua, piccino, che ho ancora calda la mano!» e gli passò la mano intorno al viso, dicendo: «Questa è una carezza del re»”.
Una pagina che mai più ho potuto leggere come a undici anni, da quando ho scoperto che quel re, quell’Umberto, nel 1898 insignì del titolo di grande ufficiale dell’Ordine militare di Savoia e nominò senatore del Regno il generale Bava Beccaris per aver ucciso a cannonate, a Milano, 83 manifestanti! E così anche tante altre pagine... Ma d’altra parte a undici anni non avrei goduto come godo a settanta, leggendo su Wikipedia che “Cuore” fu “molto criticato dai cattolici per la totale assenza di riferimenti alle tradizioni religiose”, al punto che “i suoi piccoli protagonisti non festeggiano nemmeno il Natale”! E che alcuni lo ritengono “un libro di forte ispirazione massonica, in cui il cattolicesimo è sostituito dalla religione laica della Patria, la Chiesa dallo Stato, il fedele dal cittadino, i comandamenti dalle leggi, il Vangelo dallo Statuto, i martiri dagli eroi”. E i papi dai re, aggiungo io. “Cuore” (1886), di Edmondo De Amicis (1846 ― 1908).
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51. De Céspedes, Alba: “Quaderno proibito”
“Ho fatto male a comperare questo quaderno, malissimo. Ma ormai è troppo tardi per rammaricarmene, il danno è fatto. Non so neppure che cosa m’abbia spinto ad acquistarlo, è stato un caso. Io non ho mai pensato di tenere un diario, anche perché un diario deve rimanere segreto e, perciò, bisognerebbe nasconderlo a Michele e ai ragazzi” (26 novembre)
“C’è, nel mio carattere, qualcosa che non riesco a decifrare. Finora avevo sempre pensato di essere chiara, semplice, e tale da non riserbare a me stessa, e agli altri, alcuna sorpresa. Eppure da qualche tempo non ne sono più così sicura: non saprei definire, tuttavia, a che cosa è dovuta questa mia impressione. Per ritrovarmi quale ho sempre pensato di essere bisogna che eviti di rimaner sola: accanto a Michele e ai ragazzi riacquisto sempre quell’equilibrio che era una mia prerogativa. La strada invece, mi stordisce, mi getta in una singolare inquietudine. Non so spiegarmi, ma, insomma, fuori di casa non sono più io. Uscita dal portone mi sembrerebbe naturale incominciare a vivere una vita tutta diversa da quella consueta, sono invogliata di prendere strade che non sono nel mio itinerario quotidiano, incontrare persone nuove, a me finora sconosciute, con le quali poter essere allegra, ridere. Ho tanta voglia di ridere. Forse tutto ciò vuol dire soltanto che sono stanca, dovrei prendere un ricostituente” (20 gennaio).
“Entrambi ci rifiutiamo di accettare che l’indefinibile qualche cosa che rende ribelli i nostri figli per noi sia davvero passato” (5 febbraio).
“A un certo punto non si capisce più dov’è la bontà e dov’è la spietatezza, nella vita di una famiglia” (7 marzo).
“Mi domando se non c’è più bontà nella freddezza con cui mia figlia difende la sua vita che nella debolezza con cui io acconsento a lasciar divorare la mia” (24 maggio). Pochi autori italiani del ‘900 sono stati grandi come Alba De Céspedes (1911 ― 1997), e non tantissimi neanche nel resto del mondo. È difficile sopravvalutare il suo contributo conoscitivo e divulgativo alla Letteratura della Resistenza, e tutti i suoi romanzi sono indimenticabili: “Nessuno torna indietro” (1938), “Dalla parte di lei” (1949), “Nel buio della notte” (1972), “Con grande amore” (2011, postumo). Ma per questa mia piccola biblioteca ho scelto “Quaderno proibito” (1952) perché è quello che ancora mi coinvolge di più ― quello che a soli quattordici anni, nell’edizione che qui vedete, mi svelò che una “madre di famiglia” è una donna.
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52. Defoe, Daniel: “La Peste di Londra”
“Sono, fino a nuovo ordine, proibiti tutti i banchetti e i pranzi nelle taverne, osterie, birrerie e gli altri pubblici locali del genere. Il denaro risparmiato per via di questo provvedimento verrà raccolto e impiegato a beneficio degli appestati poveri. Speciale sorveglianza verrà esercitata sulla pratica del bere nelle bettole, cantine, birrerie, caffè, eccetera, come tale pratica rappresenta il più comune peccato della nostra epoca e costituisce un grave pericolo di diffusione dell’epidemia. Pertanto si ordina che alle nove di sera gli anzidetti locali sospendano lo smercio”.
[...] Sono rigorosamente proibite tutte le rappresentazioni di comici, saltimbanchi, giocolieri, cantastorie e ogni altra manifestazione che possa produrre un assembramento di persone vuoi in luogo chiuso, vuoi in luogo aperto. I contravventori saranno puniti con severità estrema dall’Alderman del quartiere.
[...] A ogni casa infetta vanno assegnati due guardiani, uno per il giorno e uno per la notte. Questi guardiani debbono stare attenti, sotto pena di severi castighi, a non lasciar uscire nessuno dalle case infette e nessuno lasciarvi entrare. Il guardiano deve inoltre accudire a tutte le mansioni risultanti dai bisogni di coloro che abitano le case infette sottoposte alla sua sorveglianza; e se viene mandato a far qualche compera o altro deve chiuder la casa e portarsi la chiave. L’orario di servizio del guardiano di giorno è dalle sei del mattino alle dieci della sera; quello del guardiano di notte è dalle dieci della sera alle sei del mattino”.
“Sarà indubbiamente vero che, chiudendo le case e impedendo ai sani di separarsi dai malati, molte persone che sarebbero forse sfuggite al contagio vennero condannate a subirlo e così perirono. Eppure il bene pubblico esigeva che si passasse sopra a tutti gli inconvenienti privati, e non mi risulta che le mille proteste avanzate apportassero qualche mitigazione”.
“Si ricorse, oltre che all’inganno, anche alla violenza per fuggire dalle case segnate, giacché dal principio alla fine dell’epidemia vi furono non meno di diciotto o venti guardiani uccisi”.
“I bollettini ogni settimana segnalavano due o tre morti di spavento, ai quali bisogna, naturalmente, aggiungere tutti quei casi innumerevoli in cui lo spavento, anzi che uccidere, toglieva la memoria o il senno”.
“Continuò parecchie settimane, questa furia di partire da Londra, che è quanto dire tutto il mese di maggio e il mese di giugno, e nelle settimane ultime fu più intensa per via di una voce che cominciò a correre circa un ordine governativo di mettere in opera steccati e barriere sulla strada maestra a impedire che si viaggiasse, e circa l’intenzione delle città lungo la strada di non lasciar passare chiunque venisse da Londra nella paura che portasse seco l’infezione”.
“C’erano compagnie di giovinastri che, in mezzo a tutto quell’orrore, si riunivano nei locali ogni sera comportandosi con una stravaganza a tal punto offensiva da fare rimanere i padroni stessi vergognati e a un tempo terrificati. Sedevano essi, per solito, nelle salette vicine alle strade e, quando passavano i carri dei morti, aprivano le finestre e si affacciavano, e se udivano qualcuno lamentarsi o invocare il Cielo o raccomandarsi a Dio, lo coprivano di contumelie e lo schernivano”.
“L’infezione era in genere portata nelle case dalle persone di servizio che andavano in giro per le botteghe a comprare commestibili o altro, e necessariamente venivano a contatto, dai pizzicagnoli, fruttivendoli, droghieri, macellai, speziali, eccetera, con gente infetta.
[...] Il contagio avveniva per via di vapori o fumi, in medicina chiamati “effluvia”, i quali si sprigionavano dal respiro, dal sudore, dalle piaghe o da altro dei malati, e attaccavano i sani che si avvicinavano ai malati, penetrando subito nelle parti vitali del loro organismo e mettendo il loro sangue in fermento. Lo dico contro l’opinione di quanti sostengono che il contagio fosse dato dall’aria a mezzo di insetti e altre invisibili creature che, volando in essa, si introducevano nel corpo di una persona col respiro e una volta dentro generavano veleni o magari uova velenose e questi, mischiandosi al sangue, ammorbavano tutto l’organismo”.
“Restammo noi chiusi per qualche tempo, ma subito la mancanza di provviste sufficienti ci obbligò a riaprire. Tentai allora di rimediare a tale mancanza e, come avevamo il forno, comprai due sacchi di farina e per due settimane si fece il pane in casa. Comprai anche una gran quantità di orzo per fabbricar la birra, e burro salato, e formaggio di Cheshire. Solo per la carne non potei provvedere. E invero la peste infieriva talmente tra i beccai di Aldgate e Whitechapel che sarebbe stato rischioso all’estremo andare a comprarne da loro. Cose terribili accadevano in questi mercati. C’era gente che aveva la peste addosso e non lo sapeva, così usciva per fare la spesa e moriva in mezzo a tutti. D’un tratto un uomo o una donna piombava a terra cadavere, mentre era lì con la mano tesa che stava per pagare. Altri, colti dal male, avevano appena il tempo di capire, e si tiravano in disparte sotto un portone, e morivano seduti sullo scalino”.
“È da notare che quando c’era un bubbone si aveva qualche probabilità di guarire, malgrado il tormento insopportabile che arrecava, poiché, se si riusciva, per mezzo di impiastri, a farlo maturare e aprire, l’infermo era salvo; mentre nelle altre forme il male lavorava internamente e veniva fuori all’ultimo con un attacco improvviso che uccideva come un colpo apoplettico”.
“Quando il flagello si fu dichiarato senza lasciar più speranza di poter scongiurarlo e, come più sopra ho mostrato, chiunque aveva modo di ritirarsi in campagna lasciò con la famiglia la città, tutti i commerci e le industrie, salvo quelli dell’alimentazione, si arrestarono, e numerose categorie di lavoratori rimasero così sul lastrico, senza alcuna possibilità di procurarsi i mezzi per vivere. [...] Ma i magistrati seppero operare con prudenza fin dal principio dando ad alcuni più infelici un soccorso diretto di alimenti e denaro, e molti impiegando come guardiani delle case infette o come infermiere. Il numero delle case infette era grande; si dice persino che ve ne fossero diecimila alla volta; e giacché ogni casa aveva due guardiani, uno per la notte e uno per il giorno, una moltitudine di poveri diavoli poté avere impiego e pane”.
“Nessuno osava toccare quella borsa nonostante il denaro che conteneva. Ma egli andò anzitutto al pozzo e, attinto un secchio d’acqua, lo posò vicino alla borsa; poi andò dentro, tornò fuori con un sacchetto di polvere da sparo e gettò la polvere sulla borsa formando una coda di due yarde circa. Andato di nuovo dentro, tornò con un paio di molle roventi che aveva preparato certo a bella posta e diede fuoco alla polvere dalla punta estrema della coda. La polvere riempì l’aria di fumo e abbruciacchiò la borsa. Ma l’uomo non si contentò di questo e, presa sù la borsa con le molle, la tenne sollevata finché il ferro rovente non la bruciò da parte a parte. Quindi fece cadere le monete nel secchio pieno d’acqua, e dentro il secchio se le portò via”.
Conosciamo Daniel Defoe (1660 ― 1731) ― che dopo una vita avventurosa cominciò a scrivere a cinquantotto anni, ed è considerato tra gli inventori sia del romanzo sia del giornalismo ― soprattutto per “Le avventure di Robinson Crusoe” (1719) e per “Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders” (1721), che vi consiglio caldamente più per il loro immenso valore storico che per quello letterario. Ma per ovvi motivi ho preferito scegliere, per questa piccola Biblioteca, un’opera apparentemente minore come il “Diario dell’anno della peste” (1722). Cioè dell’anno 1665, quando, come racconta l’immaginario sellaio-narratore di quei fatti assolutamente veri, “vi fu a Londra una peste spaventosa / nell’anno sessantacinque, nostro evo; / si portò via centomila anime, / eppure io rimasi vivo”. La traduzione del “Diario dell’anno della peste” dall’originale inglese è di Elio Vittorini.
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53. Deotyma: “La Fanciulla della Finestrella”
Un giorno, nell’estate dei miei dieci anni, due suorine riuscirono, commuovendo il contadino, a entrare nell’orto di mio nonno con una borsa piena di libri delle Edizioni Paoline. E mi convinsero, commuovendo anche me, a comprare ― al modico prezzo di quattrocento lire ― l’unico il cui titolo mi attraeva con la magica parola “fanciulla”. (Sì, a dieci anni la parola “fanciulla” e i suoi sinonimi mi commuovevano già da tre o quattro). E non me ne pentii: la fanciulla nata dall’immaginazione della signora Deotyma piacque talmente al poco o tanto di fanciulla che era in me, che per sessant’anni ho poi di quando in quando desiderato rivederla perché mi aiutasse a non perderlo. Povere suorine, ingannate e sfruttate rappresentanti “gratis et amore Dei”, come ci sareste rimaste se l’aveste saputo!
Danzica, prima metà del XVII secolo...
“A questo punto il signor Casimiro sospirò e, come d’ordinario accade a quelli che sospirano, alzò gli occhi al cielo. Non aveva avuto ancora il tempo di guardarlo, che fu scosso da un tremito; congiunse le mani e mormorò: «Gesù dolcissimo! Ma è proprio lei!» Dicendo queste parole, guardava l’ultima finestra della casa di fronte. Era una finestrella rotonda alla sommità dell’edificio, incorniciata da un sottile bassorilievo. In quell’anello di pietra sbocciava qualcosa che assomigliava a una grande margherita: un gran colletto bianco trasparente e finemente arricciato riempiva quasi per intero la finestrella e, come nel centro di una margherita luccica una pallina d’oro, così entro quel merletto scintillava una testolina con i capelli d’oro chiusa in una ghirlandetta di nastri celesti; il viso, dall’incarnato luminoso, era pieno di grazia e aveva un’espressione quasi scherzosa; le labbra sembravano lamponi, e gli occhi due preziosi turchesi”. Jadwiga Łuszczewska (1834 ― 1908), meglio conosciuta con lo pseudonimo Deotyma (da Diotima di Mantinea, figura magistrale e sapienziale di donna che Platone, nel “Simposio”, introduce come maestra di Socrate sul concetto dell’Eros) scrisse “La fanciulla della finestrella” nel 1898.
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54. De Roberto, Federico: “I Viceré”
“Quando rientrò, il principe ricominciò a complimentarlo, additandolo come esempio al figliolo: «Vedi? Vedi quanto rispettano lo zio? Come tutto il paese è per lui?» Il ragazzo, stordito un poco dal baccano, domandò: «Che cosa vuol dire deputato?» «Deputati» spiegò il padre «sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento». «Non le fa il re?» «Il re e i deputati insieme. Il re può badare a tutto? E vedi lo zio come fa onore alla famiglia: quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!...»”
“Da un vicolo, era sbucato un frate; alla vista della tonaca i dimostranti che stavano innanzi s’erano fermati e gridavano sul muso al malcapitato: «Abbasso i preti!... Abbasso le tonache! Viva Roma nostra!...» Il frate, livido in volto, con gli occhi spalancati, guardò un momento la folla minacciosa e urlante; di repente, alzò le braccia, gridando anche lui, scompostamente: «Eh!... Eh!...» «È il matto... lasciatelo andare!...» esclamarono alcuni; ma pochi udirono l’avvertimento, e la folla si mise in moto gridando: «Morte ai preti!... Abbasso il temporale!... Abbasso!... Morte!...»” Federico De Roberto (1861 ― 1927), “I Viceré” (1894).
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55. Dick, Philip K.: “Tutti i Racconti”
In “The Mold of Yancy” (“Lo stampo di Yancy”, del 1955) una squadra di investigatori terrestri sbarca su Callisto (un satellite di Giove) per accertare se un regime totalitario si sia impadronito del potere. Ma trovano tutto apparentemente normale. “Com’è possibile una società totalitaria senza terrore?” si domanda uno di loro. “Non c’è nessun sintomo di paura”. “In qualche modo, delle pressioni vengono esercitate” ribatte un altro. “E com’è possibile?” “Non lo so. Dev’esserci qualche meccanismo che ci sfugge”. Finiscono per scoprire che la popolazione locale è sotto l’influsso di un saggio e bonario anziano padre di famiglia, Yancy, che attraverso i media dice la sua su tutto: “Su temi banali, Yancy offre opinioni ben definite: i cani sono meglio dei gatti; il succo di pompelmo è troppo acido senza un cucchiaino di zucchero; fa bene alzarsi presto la mattina, e fa male bere troppo. Ma sulle grandi questioni il vuoto assoluto, riempito da frasi altisonanti. Un pubblico in accordo con Yancy sulla guerra, le tasse, Dio e il pianeta, è virtualmente in accordo su niente. E su tutto. [...] In una frase, Yancy afferma una cosa; con la seguente il contrario: il totale equivale a zero, un risultato accuratamente programmato. [...] Non ci sono prigionieri politici, né campi di concentramento, né lavori forzati. Non ce n’è bisogno. È il primo stato totalitario realmente riuscito: innocuo e banale. L’ultimo stadio, mostruoso ma perfettamente logico, si raggiungerà quando tutti i bambini saranno volontariamente chiamati John Edward, come Yancy. E le bambine Margaret Ellen, come sua moglie”. Con l’aiuto di alcuni dissidenti, gli investigatori riescono a “capovolgere” la situazione, ma... davvero le cose andranno meglio?
Anche in “Human is” (“Umano è”, 1955) assistiamo a un “capovolgimento”: Dick capovolge “L’invasione degli ultracorpi” (“The Body Snatchers”), il romanzo di Jack Finney (1954) da cui Don Siegel avrebbe tratto nel 1956 il celebre film omonimo. Come gli ultracorpi, gli alieni di “Human is” si impadroniscono dei corpi dei terrestri, in particolare dei maschi. Solo che... c’è un problema: “Hanno una conoscenza vaga dei terrestri, una specie di ideale astrazione, un concetto basato su testi letterari vecchi di secoli, romanzi, poesie”. Di conseguenza, i maschi terrestri di oggi ― freddi, calcolatori, mostruosamente razionali, pieni d’odio nei confronti delle donne e dei bambini ― quando gli alieni si impadroniscono di loro si trasformano in uomini meravigliosi. E Jill, moglie di Lester Herrick, rifiuta di testimoniare in tribunale che quell’uomo identico a Lester non è suo marito, salva la vita all’alieno che se n’è impossessato e torna a casa con lui sentendo di esserne di nuovo innamorata: “«Stavo pensando che forse continuerò a chiamarti Lester» dice Jill. «Se non ti dispiace». «Non mi dispiace» dice l’uomo. E l’abbraccia, stringendola a sé. Poi la guarda con tenerezza, mentre le tenebre si addensano e i lampioni sui lati della strada diventano due file di candele gialle. «Tutto quello che vuoi. Purché possa farti felice»“.
E che dire di “Null-O” (“Zero-O”, 1958), in cui gli ultrarazionali individui mutanti che chiamano sé stessi “Zero-O” si stanno organizzando per sterminare gli emotivi esseri umani irrazionali e poi far esplodere, nell’ordine, la Terra, il Sole, la nostra Galassia e l’intero Universo affinché il Tutto torni completamente indifferenziato? Ecco una parte del dialogo fra il dottor North, un umano conquistato dagli “Zero-O”, e il ragazzo Lemuel, che sta cominciando a scoprire di esserlo: “«Incredibile» dice il dottor North. «Non riesco proprio a crederci. Tu sei assolutamente logico. Hai del tutto rigettato ogni emozione talamica. La tua mente è completamente libera da qualsiasi pregiudizio morale e culturale. Sei un anaffettivo perfetto, senza alcuna capacità empatica. Sei del tutto incapace di provare dolore, pietà, rimorso, o una qualunque delle normali emozioni umane». Lemuel annuisce. «È vero». Il dottor North si appoggia allo schienale, sbalordito. «Mi è difficile capire. È una cosa più grande di me. Tu possiedi una superlogica, assolutamente svincolata da qualsiasi forma di simpatia o antipatia, e concepisci l’intero mondo come un nemico organizzato per combatterti». [...] «Ho letto il ‘Mein Kampf’» dice Lemuel. «Mi dimostra che non sono solo»“. Philip Dick (1928 ― 1982, noto al grande pubblico soprattutto per “Do Androids Dream of Electric Sheep?”, 1968, da cui Ridley Scott trasse nel 1982 “Blade Runner”) è una lettura imprescindibile: racconti, romanzi, tutto. Ma... attenzione: in dosi “omeopatiche”, un pochino ogni tanto e mai di sera, se non volete incubi.
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56. Dickens, Charles: “Il Circolo Pickwick”
A pochissimi autori dedicherò più di una giornata: Charles Dickens (1812 ― 1870) è il primo, un altro sarà Dostoevskij, un altro ancora Melville, un altro Shakespeare, e poi basta. Dickens, però, sarà forse l’unico ad averne tre.
Non avevo più di undici-dodici anni quando conobbi Samuel Pickwick ― meraviglioso Don Chisciotte non pazzo, e che riesce davvero a raddrizzare torti e interi mondi “fuor di sesto”, perfino quando raddrizzarli senza guastarsi è più arduo, cioè quando a subirli è lui stesso ― il suo, più che cameriere, amico Sam Weller ― meraviglioso Sancio Panza non solo astuto ed esperto del mondo, ma anche capace d’amore e grande nemico dei preti ― e i suoi amici Snodgrass, immenso poeta che mai ha scritto un verso, Winkle, immenso sportivo che mai ha praticato alcuno sport, e Tupman, immenso Don Giovanni che un’unica volta in vita sua ha osato dichiararsi a una donna ― meravigliosi amici davvero tali, amici come si possono soltanto sognare o, appunto, trovare accanto a Pickwick ― avevo undici-dodici anni, dicevo, e quel che soprattutto ricordo è che quasi a ogni pagina non potevo trattenere le risate, e non mi passava neanche per l’anticamera del cervello di trattenerle: fu “Il Circolo Pickwick”, furono loro, Dickens e Pickwick, a donarmi la capacità di ridere o piangere leggendo, di cui poi tante volte, nella mia vita, ho visto gli amici miei meravigliarsi e mi ha sorpreso che se ne meravigliassero.
Ma con gli anni, naturalmente, ho scoperto qualcosa di ancor più importante delle risate o delle lacrime, che in fondo, tutt’e due, sono “solo” consolazione: ho scoperto che il mondo di Pickwick, e di (quasi) tutto Dickens, ha la capacità, l’arte, la scienza terapeutiche di immergere il lettore in un mondo umano ideale, dove l’importanza assoluta di rimanere umani è sostenuta dal creatore di quel mondo (cioè Dickens) con tutte le forze della sua passione e della sua arte, dove gli esseri umani decisi fin dalla nascita a rimanere umani ci riescono sempre, e dove quelli che invece hanno voluto diventare disumani vengono sempre sconfitti. Dickens, insomma, è tra i più grandi medici della mente della Letteratura di tutti i tempi, e “Il Circolo Pickwick”, scritto a soli 24 anni, è una delle cure più riuscite che mai siano state messe in atto. Debbo dirvelo: in vita mia l’ho riletto non solo una volta - come altri, non tantissimi, libri - non solo due, o tre - come pochissimi - ma una dozzina di volte. E ogni volta mi ha curato. Poi, certo, come tutti i medici, neanche Dickens è perfetto: anche lui ha commesso errori, anche lui ha fallito, anche lui ha talvolta perfino ucciso. Ne parleremo, se tutto va come dovrebbe, domani e dopodomani.
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57. Dickens, Charles: “Dombey e Figlio”
Confermo quel che ho scritto ieri: Dickens creò personaggi umanamente perfetti in un mondo ideale che il disumano non poteva distruggere. Ma poi (dopo “Oliver Twist”, “Nicholas Nickleby” e “Martin Chuzzlewit”, che vivono anch’essi nel mondo pickwickiano, dopo “Barnaby Rudge”, che lo sfigura, ma solo per un momento, con un’atroce irruzione del fanatismo religioso, e soprattutto dopo “La Bottega dell’Antiquario”, che lo devasta con l’irrimediabile morte della piccola Nell), in “Dombey e Figlio”, scritto a 34 anni, Dickens crea un mondo in cui il disumano è travolto, sì, ma da un mostruoso futuro che gli si precipita addosso muovendo “vibrazioni” che egli sente arrivare già nel presente, e la cui violenza appare rivolta contro il mondo intero e anche contro di noi.
“Un’altra paura lo coglie a un tratto, del tutto diversa da quella di essere inseguito” [del tutto diversa, cioè, da una paura causata da uno o più eventi passati, nota mia], e lo colpisce come una scossa elettrica, mentre furtivamente percorre le strade: un orrore irreale, incomprensibile e inesplicabile, associato a uno scuotimento della terra, a un’ondata, al movimento rapido e ampio nell’aria di qualcosa come l’ala della Morte. Egli si ritrae, come per lasciar passare la cosa. E invece non passa, non c’è mai stata, ma quale orrendo terrore ha lasciato dietro di se!” [...] “Si ferma, contemplando la buia distesa sulla quale gli alberi snelli segnano la strada delimitandola, e di nuovo il volo della Morte si rovescia su di lui, di nuovo passa, impetuoso e irresistibile, di nuovo nel suo animo non vi è che orrore, un orrore cupo come il paesaggio e indefinito come l’ultimo orizzonte. Non c’è alito di vento, né ombre fuggevoli contro l’ombra profonda della notte, né rumore alcuno. La città si stende dietro di lui, qua e là illuminata, e i mondi stellati sono nascosti da campanili e da tetti che quasi non si distinguono contro il cielo. Dappertutto si estendono spazi bui e solitari, e gli orologi battono fievolmente le due”. [...] “Di quando in quando, mentre dal Giura lontano arriva un alito d’aria di montagna che svanisce nella pianura, l’ondata violenta e orribile torna a inondare la sua fantasia, e passa lasciandogli il gelo nel sangue”. [...] “Di nuovo l’ondata senza nome arriva a gran velocità, e quando passa i sonagli tintinnano alle sue orecchie: «dove?». Le ruote rombano alle sue orecchie: «dove?». Tutto il rumore e lo sferragliare della carrozza si modellano su quel grido”. [...] “E sempre cova in lui un furore contro la donna che l’ha ingannato, e si è vendicata”. [...] “L’intollerabile terrore, il monotono sferragliare dei sonagli e lo scalpiccio dei cavalli, la monotonia della sua angoscia e del suo inutile furore, la ruota monotona della paura, del rimpianto e della passione che egli continua a far girare, rendono il viaggio una visione nella quale solo il suo tormento è reale. Una visione di lunghe strade, snodate fino a un orizzonte che continuamente si ritrae. [...] Una visione che attraversa il mattino, il mezzogiorno, il tramonto, e poi la sera e il precoce levarsi della luna. [...] Una visione in cui non dorme mai. [...] Una visione febbrile di cose passate e presenti che si confondono. [...] Una visione in cui cambiamento succede a cambiamento, ma sempre con la stessa monotonia di sonagli, di ruote e di zampe di cavalli, e non c’è riposo. [...] Una visione in cui è incapace di calcolare le ore trascorse nel viaggio e di afferrarne i riferimenti di tempo e di spazio”. [...] [Una locanda, e vicino la ferrovia...] [...] “Adesso, davvero, non si tratta di immaginazione. La terra trema, la locanda rimbomba, l’ondata violenta e impetuosa attraversa l’aria! La sente arrivare e passargli accanto sfrecciando; e anche quando, corso alla finestra, vede che cos’è, si ritrae come se non sia prudente stare a guardarla. Maledetto il demone fiammeggiante, che così facilmente avanza rimbombando, inseguito da luce e da fumo sinistro attraverso la valle lontana: egli si sente come se sia stato salvato mentre stava per esser fatto a pezzi. E questa sensazione lo fa indietreggiare rabbrividendo anche quando si è spento il più lieve, lontano rumore e quando le linee parallele della strada ferrata, che al chiaro di luna riesce a distinguere, convergenti verso un unico punto, sono vuote e silenziose come un deserto”. [...] “Uno scuotimento della terra e rapide vibrazioni alle sue orecchie; un grido lontano; una luce fosca che avanza, e si trasforma ben presto in due occhi rossi e in un fuoco violento che lascia cadere carboni accesi, l’irresistibile avanzare di una enorme massa ruggente che si dilata; un vento impetuoso, un tintinnio ― un altro demonio è passato e lui è aggrappato a un cancello, come per mettersi in salvo!” [...] “Ne aspetta un altro, e un altro ancora. [...] Ah! Vedere le grandi ruote girare e pensare di esserne travolto e schiacciato!” [...] “Passato, presente e futuro gli fluttuano confusamente davanti: ha perso la facoltà di guardare con fermezza, separatamente, ognuno di essi”. [...] “Ode un grido... un altro... sente la terra tremare... sa in un attimo che l’ondata è giunta... lancia un urlo... si guarda intorno... vede i rossi occhi, velati e fiochi alla luce del giorno, arrivargli addosso... è buttato a terra, afferrato, trascinato via come sulla ruota dentata di un mulino che lo fa girare vorticosamente, lo dilania, con il suo calore violento lo svuota della linfa della vita, e lancia in aria i suoi frammenti mutilati”.
Capiamo, allora, perché Dostoevskij (sia pure sbagliando) considerasse Dickens più grande di lui! (Avete dato però il giusto peso a quel terribile “E sempre cova in lui un furore contro la donna che l’ha ingannato, e si è vendicata”? Ieri vi dicevo che nemmeno Dickens è perfetto: ha commesso errori, ha fallito, ha talvolta perfino ucciso. Perché? Come? Ebbene, forse proprio per quel “furore” contro la donna “che si è vendicata”, e che per vendicarsi “ha ingannato”... Fatto sta che le donne, in Dickens, non sempre riusciamo ad amarle, e quando ci riusciamo muoiono ― come la piccola Nell ne “La Bottega dell’Antiquario” e Dora in “David Copperfield” ― o si rovinano ― come la meravigliosa Emily in “David Copperfield”, una delle più splendide fanciulle di tutti i tempi ― o se non muoiono e non si rovinano accade loro qualcosa di terribile ― come a Amy, “La piccola Dorrit”. Era forse questo, in realtà, il mostruoso futuro che si annunciava al presente come “un’ondata” che non finiva mai di passare? Non tanto la gigantesca locomotiva sociale, economica e tecnologica, come Dickens credette, quanto soprattutto quel che la rende disumana: la tragica forza distruttiva del disamore per la donna? ― Intuizione che devo a Barbara Occhigrossi).
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58. Dickens, Charles: “Lo Spiritato e il Patto del Fantasma”
Tra i “Canti di Natale” di Charles Dickens, “Lo Spiritato e il Patto del Fantasma” è uno dei più bei racconti mai scritti.
Nel 1848, mentre Karl Marx pubblica con Engels il “Manifesto del Partito Comunista”, Charles Dickens, di poco più anziano di lui ― trent’anni Karl, trentasei Charles ― scrive che chi non rimane umano distrugge in sé stesso tre caratteristiche che ci distinguono dagli altri animali:
1. “La prima è mentre attraversano un antico cimitero, le cui tombe non sembrano evocare in Redlaw nessun pensiero tenero o dolce o consolante”. [Solo gli esseri umani serbano per sempre la memoria dei defunti].
2. “La seconda è quando [...] Redlaw vede la luna circondata da una miriade di stelle [...] ma non prova nessuno di quei sentimenti che provava in passato ogni volta che levava gli occhi ad ammirare una splendida notte”. [Solo gli esseri umani si interessano alle stelle].
3. “La terza è quando, fermatosi ad ascoltare una dolce melodia, Redlaw non avverte altro che l’artificio scolastico della musica comunicato al suo orecchio dall’arido meccanismo degli strumenti senza che nel cuore gli si risvegli una sola eco”. [Solo gli esseri umani creano e amano l’arte].
Intorno a Redlaw, lo Spiritato, le creazioni umane “tremano senza posa come esseri consapevoli del suo potere di distruggerli”. “Ogni cosa, intorno a lui, assume un aspetto di morte”. Come mai? Cosa gli è successo?
Dickens racconta che Redlaw ha voluto perdere la “memoria”. E poi spiega, pagina dopo pagina, che quella che chiama “memoria” è la sensibilità e l’affettività nei confronti di ciò che è umano in noi e negli altri. A metà dell’800 (secolo talmente straordinario che la violenza reazionaria di tutto il successivo ― e oltre ― non è ancora riuscita a cancellarne le intuizioni) Dickens scrive che chi distrugge in sé stesso la memoria affettiva umana è chi...
1. ...non ricevette “nessuna cura materna, nessun consiglio paterno. Il padre fu per lui un estraneo, e presto non ebbe più posto neanche nel cuore della madre. I suoi genitori erano della specie che non si cura né molto né a lungo della prole, ma come gli uccelli lascia vagare presto liberi i figli. Se poi questi procedono bene ne usurpano il merito, se procedono male reclamano la pietà del mondo”.
2. ...”senza poter mai più recuperare quel potere di cui si è spogliato, lo distrugge in coloro ai quali si avvicina”. [E le pagine in cui quelli che non resistono a Redlaw non si riconoscono più, provano soltanto un gelido fastidio gli uni per gli altri, fanno impallidire con un secolo di anticipo “L’invasione degli ultracorpi”].
3. ...”In altri tempi, anzi solo ieri, tutti quegli oggetti così associati alla vita [...] pungevano nel vivo la sua tenerezza. Ora, invece, gli si offrono alla vista solo come oggetti insignificanti, e se pure sente qualcosa nella loro connessione, questo lo rende perplesso e non lo illumina. Non riesce a guardarli che con ottusa curiosità”. [È la “perdita del mondo” descritta più di cent’anni dopo da Ernesto De Martino ne “La fine del mondo”].
4. ...”Il cambiamento avvenuto in lui rende le vie più frequentate un deserto, e la moltitudine che ha intorno, indaffarata in tanti modi diversi, gli sembra una desolazione immensa battuta da venti vorticosi e sollevata da un caos distruttivo”.
Charles Dickens, nel 1848, prevede il fascismo e il nazismo? Be’, leggete queste righe e rispondete voi: “Questo è l’esempio estremo e assoluto di un essere che fin dalla nascita è stato abbandonato a una condizione peggiore di quella delle bestie. Non c’è che arida solitudine, in lui. Guai mille volte alla nazione che conterà nel suo seno centinaia e migliaia di esseri come questo. Non esiste uno solo di questi mostri, non uno, che non semini messi che il genere umano un giorno dovrà raccogliere. Ogni atomo della miseria di questo fanciullo genera un campo intero di rovine, che verranno raccolte, conservate insieme e a loro volta disseminate in altri punti della terra. L’omicidio patente e impunito tollerato quotidianamente per le vie di una città sarebbe un danno minore dello spettacolo di un solo essere come questo”.
Pochi sanno che “The Haunted Man and the Ghost’s Bargain” (“Lo Spiritato e il Patto del Fantasma”, tradotto di solito in italiano come “Il Patto col Fantasma”) era il racconto preferito di Vincent Van Gogh, che amava molto Dickens: “Dickens opera resurrezioni!” scrisse al fratello Theo. Qualcuno, immagino, vorrà sapere se Dio vi sia mai nominato. La risposta è sì. Ma solo da Redlaw, lo Spiritato.
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59. Dostoevskij, Fëdor: “La Mite”
Il mondo è finito, per l’uomo che credeva di essere il protagonista de “La Mite”, ed egli se ne accorge, lo sente, lo sa: “«C’è ancora sul campo un uomo vivo?» grida l’eroe russo. Lo grido anch’io, che non sono un eroe, e nessuno risponde. Dicono che il sole dia vita all’universo. Il sole sorge, ma guardatelo, non è forse morto? Tutto è morto e dappertutto stanno cadaveri. Soltanto uomini soli, e intorno a loro regna il silenzio: ecco la terra!” Ma perché il mondo è finito, ed egli ha intorno soltanto cadaveri di uomini soli, soltanto uomini soli-cadaveri, uno dei quali è lui? Lo dice egli stesso: “L’ho torturata, ecco il fatto!” E lei, “La Mite”, non può più amare l’uomo che l’ha torturata per tutto il tempo in cui ella ha cercato di amarlo, e poi per tutto il tempo in cui ella ha cercato di ribellarsi ― di ribellarsi curandolo! ― e poi per tutto il tempo in cui ella, sconfitta, è rimasta accanto a lui “così”. Eppure come può non amarlo, adesso che lui ― “Ma tardi!!! Sono arrivato tardi!!!” ― ha infine capito “di averla sposata per tormentarla, per tormentare lei perché lui ha fallito la vita”, e nel capirlo si è riempito d’amore? Come può non amarlo e insieme amarlo, lei, quindicenne a cui “amare solo in parte” è impossibile? Per questo il mondo finisce. Fëdor Dostoevskij (1821 ― 1881) scrisse “La Mite” a partire dal 1868, e la pubblicò nel 1876 all’interno del “Diario di uno scrittore”.
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60. Dostoevskij, Fëdor: “I Demoni”
Dostoevskij, scrittore all’altezza di Shakespeare e del quale nessuno è a sua volta all’altezza, sa come creare dei Macbeth e degli Iago, mostri impressionanti di disumanità. Penso, per esempio, a Svidrigajlov, il tormentatore di Dunja, sorella del protagonista Raskòl’nikov ― un’altra “Mite” ― in “Delitto e Castigo” (1866). E penso, ovviamente, al pedofilo e assassino Stavrogin e a Verchovenskij, “I Dèmoni” (1871). Dostoevskij sa, ripeto, come sono i mostri: non è secondo ad alcuno, in questo. Ma è addirittura eccelso nell’immaginare, comprendere, descrivere uomini ― nel senso di maschi ― che sembrano mostri, anche a sé stessi, ma... non lo sono. “Colpevoli-Innocenti”, li chiamo, e li amo immensamente: soprattutto per loro, oltre che per “La Mite”, amo Dostoevskij ed egli è per me un fratello di gran lunga maggiore.
“Colpevole-Innocente” diventa Raskòl’nikov attraverso l’inchiesta, il processo e il “castigo” del suo duplice omicidio. “Colpevole-Innocente” è Dmitrij de “I Fratelli Karamazov” (1878-1880), incarcerato e processato per un omicidio, l’assassinio del padre, che non ha commesso ma avrebbe voluto commettere. Ma il “Colpevole-Innocente” che amo di più è Šatov, personaggio tra i più importanti de “I Dèmoni” e di tutto Dostoevskij.
Šatov, studente rivoluzionario, colpevole perché ha aderito al gruppo diretto dal “dèmone” nichilista assoluto Verchovenskij ed è deciso ― lui stesso lo crede ― a partecipare ad atti di terrorismo, diviene innocente quando all’improvviso torna dall’estero sua moglie Marija, che da tre anni lo ha lasciato, considerandolo non abbastanza sovversivo, e si è messa col “demone” Stavrogin, dal quale è stata abbandonata quando è rimasta incinta.
Prossima al parto, sola, disperata, Marija torna da Šatov e, con estremo orgoglio, trattandolo addirittura freddamente, gli chiede aiuto. E lui, Šatov, che l’ha sempre amata con immensa passione, non solo l’accoglie, non solo accetta umilmente la sua freddezza, ma ― come se da tempo inconsciamente prepari un cambiamento che questo ritorno, da lui creduto impossibile, rende infine vero ― si trasforma in un “colpevole-innocente”. E per questo i “dèmoni”, giudicandolo ormai inaffidabile, lo attirano con l’inganno in un luogo isolato, lo “processano” e lo uccidono.
“Marija lo fissò con un lungo sguardo stanco, estenuato. Šatov era davanti a lei, dall’altra parte della stanza, a cinque passi, e con timidezza, ma con una certa espressione rinnovata, con un certo insolito splendore nel volto, la ascoltava. Quell’uomo forte e ruvido, col pelo sempre irto, s’era a un tratto tutto raddolcito e rasserenato. Nella sua mente tremò qualcosa d’insolito, di completamente inatteso. Tre anni di lontananza, tre anni passati dallo scioglimento del matrimonio, non avevano strappato nulla dal suo cuore. E forse ogni notte, in quei tre anni, egli l’aveva sognata, aveva sognato il caro essere che una volta gli aveva detto «ti amo». Egli non avrebbe mai potuto ammettere dentro di sé, nemmeno in sogno, che una donna potesse mai dirgli «ti amo». Si riteneva orribile, odiava il proprio viso e il proprio carattere, si paragonava a un mostro da esibire nelle fiere. Di conseguenza, egli poneva l’onestà al di sopra di tutto, si abbandonava alle proprie convinzioni fino al fanatismo, era tetro, superbo, irascibile e di poche parole. Ma ecco: quest’unico essere che lo aveva amato per due settimane (egli ci credeva sempre, sempre!); l’essere che egli aveva sempre ritenuto infinitamente superiore a lui benché vedesse con tutta chiarezza le sue aberrazioni; questa donna, questa Marija Šatov, era a un tratto di nuovo a casa sua, di nuovo davanti a lui... Era quasi impossibile immaginarlo! Egli era così colpito, in questo avvenimento era racchiuso per lui tanto di pauroso, e nello stesso tempo tanta felicità, che certo egli non poteva e forse non voleva, anzi, temeva di riaversi. Era un sogno”.
Lo domando agli amici uomini (poiché le donne sono o innocenti o colpevoli, mai colpevoli e innocenti insieme): è vero o non, come penso, che Šatov ― magari non per la vita, magari solo per un certo periodo ― siamo tutti? Non rispondetemi, se non volete. Ma io, per me, dico di sì: io sono (anche) Šatov. FëdorDostoevskij (1821 ― 1881).
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61. Dostoevskij, Fëdor: “L’Idiota”
Grandissimo romanzo, “l’Idiota”. Eppure è la storia di un totale fallimento umano.
“L’idea essenziale, l’idea poetica più bella e più ricca di tutta la mia carriera letteraria” spiega Dostoevskij “è di rappresentare un uomo assolutamente buono. Niente è più difficile al mondo, soprattutto in questo momenti”. E negli appunti preparatori lo descrive così: “Timore. Sottomissione. Umiltà. NB: in ogni momento si pone la domanda: «Ho ragione io o sono loro che hanno ragione?» NB: suo modo di considerare il mondo: perdona tutto, trova una ragione a tutto, non conosce peccato imperdonabile e scusa tutto. È convinto in sé stesso di essere un idiota”.
Perché fallisce, Myškin, “l’Idiota”? Perché non riesce né a salvare né ad aiutare? Troppo facile rispondere che sono gli altri a non voler essere salvati. Qualcosa anche in lui ― forse, soprattutto in lui ― rende il suo fallimento inevitabile e infine rende “vero” quell’epiteto di “idiota”, che alcuni gli rivolgono con odio, del quale anch’egli è “convinto in sé stesso”. Ma cosa? Si direbbe, con tutto il rispetto, che Dostoevskij non lo sappia.
“Come rendere il personaggio simpatico al lettore?” si domanda. “Don Chisciotte e Pickwick, eroi buoni, sono simpatici al lettore perché sono comici. Egli, Myškin, non è comico, ma possiede un altro elemento di simpatia: è innocente”.
Ed è vero: l’innocenza assoluta di Myškin lo rende non solo simpatico, ma irresistibile. Al punto che il lettore, per tutto il romanzo, lo ama... perfino più di sé stesso.
“Come avete saputo che ero io?” gli chiede Nastasja Filippovna quando per la prima volta s’incontrano. “Vi ho riconosciuta dal ritratto, e poi...” “E poi?” “E poi perché vi avevo immaginata proprio così come siete... Sembra anche a me di avervi già vista”. “Dove? Dove?” “Mi pare di aver visto una volta i vostri occhi... no, non è possibile! È così, un’idea... non sono mai stato qui prima di adesso. Può darsi che li abbia visti in sogno...”
Ma quanto più il lettore ama “l’Idiota” per la sua innocenza, tanto più lo addolora il suo fallimento. Il quale ha un’unica causa: non l’innocenza ― che, i bambini lo dimostrano, non rende impotenti ― ma la fede religiosa. Sì, non c’è altra spiegazione: è il cristianesimo assoluto di Myškin, quel suo “tutto capire, tutto perdonare”, a renderlo incapace di intervenire nelle vite di quelli che ama. E a deludere, quindi, fin quasi al limite della sopportabilità, il lettore che ama lui.
Dostoevskij se ne accorse? Capì che Myškin non era all’altezza di Don Chisciotte e di Pickwick perché la fede rendeva inetta la sua “innocenza”? Una cosa è certa: “l’Idiota”, primo “assolutamente buono”, fu anche l’ultimo, ed egli tornò ai suoi più veri, e immensi, protagonisti: gli innocenti... colpevoli. FëdorDostoevskij (1821 ― 1881).
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62. Dumas, Alexandre: “La Sanfelice”
Vi domanderete, forse, perché tra i romanzi di Alexandre Dumas “père” (1802 ― 1870) non abbia scelto quelli (bellissimi) che amai da ragazzino e che ancora amo, “I Tre Moschettieri” (1844, seguìto nel 1845 da “Vent’anni dopo” e nel 1848 da “Il Visconte di Bragelonne) o “Il Conte di Montecristo” (1844), e abbia invece preferito “La Sanfelice” (1866) che ho scoperto a quasi cinquant’anni. Per due motivi. In primo luogo per amore di Luisa Sanfelice e delle altre splendide donne rivoluzionarie e patriote (in particolare Eleonora Pimentel Fonseca) che, come scrive Gerardo Marotta, “affrontarono forca, mannaia, carcere, esilio, violenze d’ogni genere” per la libertà di Napoli e d’Italia. E in secondo luogo perché “La Sanfelice” è l’unico romanzo storico (e l’unico testo così accessibile che perfino i “nostalgici” odierni del Regno di Napoli sarebbero in grado di leggerlo) dal quale abbiamo notizia degli orrori commessi dai fanatici cattolici italiani inquadrati nell’esercito della Santa Fede, l’armata del cardinale calabrese Fabrizio Ruffo che tra il febbraio e il giugno del 1799 restaurò il dominio borbonico a Napoli ponendo fine alla Repubblica Napoletana.
“Nelle vie di Napoli, abbandonate ai sanfedisti, i ‘lazzaroni’, incitati da fra Pacifico, si diedero contro i patrioti ad atti di crudeltà che superavano tutti quelli commessi fino ad allora. [...] Durante il tragitto che Salvato dovette percorrere per andare dal punto in cui era stato arrestato a quello in cui avrebbe aspettato la morte promessagli dal Beccaio, poté assistere ad alcune di quelle crudeltà. Vide un patriota legato alla coda di un cavallo infuriato, che lasciava sul lastricato una larga scia di sangue e spargeva agli angoli delle vie e dei vicoli i resti di un cadavere straziato anche dopo la morte. Gli passò davanti un altro patriota che barcollava, con gli occhi strappati, il naso e le orecchie tagliati. Era nudo, e alcuni uomini che lo seguivano lo costringevano a camminare spingendolo da dietro con le punte delle sciabole e delle baionette. Un altro, a cui avevano segato i piedi, veniva costretto a colpi di frusta a correre sulle ossa delle gambe, e ogni volta che cadeva doveva rialzarsi e riprendere l’orribile corsa. Infine, all’ingresso di un palazzo era stato eretto un rogo, dove bruciavano donne e bambini gettati tra le fiamme vivi o moribondi, e di cui quei cannibali, compreso il parroco Rinaldi, strappavano dei pezzi mezzi crudi per divorarli. [...] Siccome si potrebbe pensare che scriviamo cose orrende per diletto, citeremo i tre diversi testi da cui abbiamo preso questi particolari. [...] Bartolomeo Nardini, nelle sue ‘Mémoires pour servir à l’histoire des révolutions de Naples’ scrive, tra l’altro, che «gli sventurati patrioti che tentavano di fuggire, non trovando alcuno disposto a dare loro asilo, erano costretti a nascondersi nelle fogne, da cui la fame li obbligava a uscire di notte in cerca di un po’ di cibo. I ‘lazzaroni’ si appostavano, li catturavano, li facevano spirare tra mille torture; poi tagliavano le teste ai corpi mutilati e le portavano al cardinale Ruffo». [...] «Durante l’assedio dei castelli» racconta lo storico Vincenzo Cuoco «il popolo napoletano commise delle barbarie che fan fremere: incrudelì financo contro le donne, alzò nelle pubbliche piazze dei roghi ove si cuocevano le membra degli infelici, parte gittati vivi, e parte moribondi». [...] Un altro autore, che mantiene l’anonimato e intitola il suo libro ‘Mes périls pendant la révolution de Naples, ou Récit de toutes les horreurs commises dans cette ville par les Lazzaronis et les Calabrois’, racconta [...] che il parroco Rinaldi ― il quale, non sapendo scrivere, gli fece redigere per re Ferdinando un resoconto in cui sollecitava Sua Maestà per essere nominato governatore di Capua ― «enumerò tra i suoi meriti incontestabili il fatto di aver più volte mangiato dei giacobini, e una volta addirittura una spalla di un bambino strappato dal grembo della madre sventrata»”.
“Secondo l’abitudine adottata dall’inizio di questo libro, di non affermare nulla degli orrori commessi in quei giorni senza comprovarlo con documenti autentici, prendiamo le righe che seguono da ‘La rivoluzione napoletana del 1799’, di Bartolomeo Nardini: «Le giornate del 9 e del 10 [giugno 1799] furono segnate da crimini e infamie di ogni sorta, di cui la mia penna si rifiuta di tracciare il quadro. Acceso un grande fuoco di fronte al Palazzo reale, gettarono nelle fiamme sette sventurati arrestati alcuni giorni prima e spinsero la crudeltà fino a mangiare le membra, ancora sanguinanti, delle loro vittime. L’infame arciprete Rinaldi si glorificava di aver partecipato a quell’immondo banchetto». [...] Ma oltre all’arciprete Rinaldi, c’era un altro che si faceva notare a quell’orgia di antropofagi: Gaetano Mammone. Rinaldi mangiava le carni quasi crude; Mammone beveva il sangue direttamente dalle ferite. L’orrido vampiro ha lasciato impresso un tale terrore nella mente dei napoletani, che ancora oggi, a mezzo secolo dalla sua morte, nessun abitante di Sora ha osato rispondere alle mie domande e darmi informazioni su di lui. «Beveva sangue come un ubriacone beve vino!» è l’unica cosa che ho sentito dire dai vecchi che l’avevano conosciuto, ed è in realtà l’unica risposta che mi sia stata data da venti diverse persone che l’avevano visto ubriacarsi di quell’orrida bevanda”. Forse perciò, come scrive Felice Piemontese nell’introduzione a “La Sanfelice”, “questo splendido libro ― da qualcuno considerato, forse esagerando, «il più grande romanzo mai scritto su Napoli» ― è stato inaccessibile al lettore italiano fino al 1998”. Poiché l’Italia di oggi viene da una guerra civile durata quasi due secoli (1799-1945), a “bassa intensità” per periodi di tempo anche lunghi, ma in altri violentissima come mai al mondo: una guerra, ancora oggi non del tutto spenta, delle forze della reazione contro le forze del progresso umano, nella quale il fanatismo ideologico di destra e il fanatismo religioso cattolico si sono sempre uniti fin quasi a non distinguersi.
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63. Durova, Nadežda: “Memorie del Cavalier-Pulzella”
“Di giorno in giorno mi facevo sempre più coraggiosa e intraprendente, e a parte la furia di mia madre non c’era niente al mondo che potesse farmi paura. Trovavo strano che le mie coetanee temessero di restarsene sole al buio: io, al contrario, ero capace di andarmene a notte fonda al cimitero, nel bosco, in una casa vuota, in una caverna sotterranea. In una parola, non c’erano posti dove non potessi recarmi la notte con la stessa audacia con cui vi andavo di giorno; nonostante anche a me, come a tutti gli altri bambini, fossero stati fatti racconti di spiriti, di morti, folletti dei boschi, banditi, e ninfe che fanno il solletico alla gente fino a farla morire. Pur credendo con tutto il cuore a queste sciocchezze, non ne avevo nessuna paura, anzi ero assetata di pericoli, avrei voluto esserne circondata, li avrei cercati se solo avessi avuto la minima libertà; ma l’occhio vigile di mia madre seguiva ogni mio passo, ogni mio moto”.
“L’oppressione incessante della mia libertà, insieme alla severità di mia madre, a volte perfino la sua crudeltà, avevano impresso nella mia fisionomia un’espressione di paura e di dolore. Può darsi che avrei finito col dimenticare le mie maniere da ussaro e sarei diventata una ragazza comune, come le altre, se mia madre non mi avesse dipinta nei colori più cupi la sorte della donna. In mia presenza parlava con le espressioni più risentite del destino riservato a questo sesso: a suo parere, alla donna tocca nascere vivere e morire nella schiavitù, le è destinata dalla culla alla tomba una cattività senza fine, una dipendenza gravosa, oppressioni d’ogni sorta, ed è piena di debolezze, priva di qualsiasi perfezione e incapace di tutto: in una parola, la creatura più infelice, insignificante e spregevole del mondo. Questi discorsi mi facevano girare la testa: decisi di rompere, anche a costo della morte, con un sesso che, com’ero convinta, è maledetto da Dio”.
“L’ardore battagliero si accese nella mia anima con forza inverosimile, i sogni mi brulicavano nella mente e cominciai a cercare con impegno il modo di mettere in atto la mia intenzione: diventare una guerriera”. “Nadežda Andreevna Durova (1783 ― 1866), dopo un matrimonio e un figlio, poco più che ventenne, fuggì presso un reggimento di cosacchi riuscendo ad arruolarsi come ufficiale di cavalleria durante le campagne napoleoniche. Si congedò nel 1816 col grado di capitano e iniziò a scrivere romanzi e racconti e le sue “Memorie”, conseguendo una certa notorietà negli ambienti della cultura russa. Quando morì, fu seppellita con gli onori militari” (dal risvolto di copertina).
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64. Ende, Michael: “La Storia Infinita”
Qualcuno, forse, ha visto il film ma non ha letto il libro? In tal caso, senza volerlo e senza accorgersene, è stato indotto a fraintendere gravemente “La Storia Infinita”.
A Michael Ende il film di Wolfgang Petersen non piacque non tanto perché si discosta dal libro (è un diritto di ogni regista), ma soprattutto perché lo immiserisce. Ecco alcuni dei suoi sfregi, dai meno spiacevoli al più doloroso...
Il film attenua l’antipatica freddezza del padre di Bastian dando l’impressione che s’interessi al figlio (ma facendogli pronunciare battute insensate e violente come: “Basta fantasticare! Affronta la realtà!”) mentre nel libro, invece, l’uomo è indifferente a tutto da quando è morta la mamma di Bastian.
Poco dopo, nella misteriosa libreria in cui Bastian si nasconde ai tre teppistelli che lo tormentano, fa dire al signor Coriandoli una frase molto sciocca: “I libri che leggi tu sono innocui”. Come se esistano libri innocui!
E poi fa cadere Atreiu nella Palude della Tristezza PRIMA dell’incontro con Morla, mentre nel romanzo ci cade DOPO perché a deprimerlo fino a quel punto è la millenaria anaffettività di Morla (“Non che questo ci importi granché, però...”).
Nel film, inoltre, dopo l’incontro con Morla, Atreiu sta per essere raggiunto da Mork, l’orrenda creatura delle tenebre (e il regista, più di una volta, fa coincidere il nostro punto di vista con quello di Mork, cosa che non è affatto gentile...) quando arriva Falcor, il Fortunadrago (che invece si chiama Fùcur) e lo porta via con sé. Nel romanzo, invece, non è Falcor che salva Atreiu! Al contrario, è Atreiu che tenta, senza riuscirci, di sottrarre il Fortunadrago alla mostruosa Ygramul, le Molte, essere magnificamente contraddittorio che nel film non c’è; poi si fa mordere da lei (o da loro) e il veleno di Ygramul gli conferisce il potere di trasferirsi all’istante nei pressi dell’Oracolo del Sud, dove Fùcur lo raggiunge imitando il suo “trucco” ed entrambi vengono curati dai Bisolitari, Urgula ed Enghivuc... Nel film, insomma, Atreiu sfugge a Mork per pura fortuna(drago): “Avere un Fortunadrago con te è il solo modo per andare in missione!” gli dice infatti Falcor. Nel romanzo, invece, la fortuna non c’entra: è Atreiu che accetta generosamente di sacrificarsi a Ygramul pur di avere una possibilità in più di salvare il Regno di Fantàsia.
Nel romanzo, poi, all’opposto che nel film, Bastian non oppone resistenza né incredulità alla proposta di entrare nel regno di Fantàsia per aiutare l’Infanta Imperatrice: “Io vengo, sicuro che vengo, Atreiu!” esclama, felice.
Ma lo sfregio più grave è quello che fa sparire dal regno di Fantàsia un intero Paese (e non uno qualsiasi, ma un Paese di fondamentale importanza) come se anche il regista, al pari di Mork, sia un inconsapevole servitore del Nulla... Nel romanzo, prima dello scontro finale con Mork, Atreiu arriva nel Paese della Mala Genìa, cioè degli esseri fantastici spaventosi, rimasto deserto dopo che essi, anziché fuggire dinanzi al Nulla come gli altri abitanti di Fantàsia, vi si sono gettati volontariamente. E Mork è anche lui uno di quei mostri terrorizzanti, ma non si è potuto buttare nel Nulla perché Maya, la Principessa delle Tenebre, prima di tuffarvisi insieme ai sudditi, lo ha incatenato dinanzi a un buco in un muro. Atreiu, come Odisseo, dice a Mork di chiamarsi Nessuno e si offre di scioglierlo, ma il Lupo Mannaro gli annuncia che appena sarà libero lo divorerà: “Io non sono dei vostri” afferma. “Tu conosci solo il Regno di Fantàsia, ma ci sono anche altri mondi. Per esempio, quello dei figli dell’uomo. E poi ci sono anche altri esseri, che non hanno un loro mondo proprio, al quale appartenere. In compenso possono entrare e uscire impunemente dai diversi mondi degli altri. Io sono di questi. Nel Regno degli Uomini ho l’aspetto di un essere umano, ma non lo sono. E in Fantàsia assumo la figura di un essere fantàsico, ma non sono uno di voi”. Per uscire da Fantàsia e raggiungere il Mondo degli Uomini (unico luogo dove può trovare un nome nuovo per l’Infanta Imperatrice) basterebbe che Atreiu si gettasse anche lui nel Nulla. Ma poi dovrebbe restare sulla Terra per sempre e non sarebbe mai più sé stesso, perché gli esseri di Fantàsia, quando si buttano nel Nulla, si trasformano in Menzogne. È per questo che gli Umani odiano Fantàsia e tentano di distruggerla. Ma così riescono solo a renderle più numerose e più forti, le Menzogne che li affliggono. E danno modo al Potere di servirsi di esse per dominarli. “Per te e per quelli come te la strada è semplicissima” dice Mork, spiegando ad Atreiu in che modo le “creature fantàsiche” possono entrare nel “mondo dei figli dell’uomo”. [...] “Devi soltanto saltare nel Nulla. [...] [Ma] se tu dovessi fare la tua comparsa nel Regno degli Uomini, là non saresti più quello che sei qui. [...] Sai come vi chiamano laggiù? [...] Menzogne!” abbaia Mork. E prosegue: “Non appena verrà il tuo turno di saltare nel Nulla, diventerai anche tu un servo del potere, senza volontà e irriconoscibile. [...] Con voi, creature di Fantàsia, nel mondo degli uomini si fanno i più grossi affari...”) Michael Ende sapeva quel che scriveva. Aveva conosciuto e ascoltato attentamente un uomo che di fantasia se ne intendeva più di tutti al mondo. Uno che anch’io conobbi e ascoltai. Ricordo, anzi, che Massimo Fagioli ribadì con forza questo concetto ― cinque anni dopo “La Storia Infinita” e un anno dopo il film ― verso la fine di maggio del 1985, quando uscì “La Rosa purpurea del Cairo” di Woody Allen: “È un film sbagliato!” disse. “I personaggi fantastici non devono essere portati qui: dobbiamo andare noi da loro!” Non gli piaceva chi tenta di sottomettere la fantasia alla ragione. “Rapire” personaggi fantastici ai loro autori, “farli sparire” dal loro mondo e trasferirli nel nostro non è arte: è asservirsi al potere.
L’Infanta Imperatrice va chiamata Occhi d’Oro, Sovrana dei Desideri (e non “come la mamma”). Ma chi è l’Infanta Imperatrice? “Lei non è di Fantàsia” risponde Fùcur. “Noi esistiamo tutti in grazia della sua esistenza, ma lei è di natura diversa... Nessuno in tutta Fantàsia sa chi è lei, nessuno lo può sapere. Una volta ho sentito un saggio affermare che chi lo capisse del tutto, spegnerebbe con ciò la propria esistenza”. Quando Atreiu è dinanzi all’Infanta Imperatrice, nello stesso momento anche Bastian la vede: “Presto sarà del tutto con noi,” dice di lui l’Infanta, “e mi chiamerà con il mio nuovo nome... Allora io sarò guarita e Fantàsia con me. Ci sono due modi per varcare i confini tra Fantàsia e il Mondo degli Uomini, uno giusto e uno sbagliato. Quando le creature di Fantàsia vengono trascinate nell’altro mondo in quella terribile maniera, è il modo sbagliato. Ma quando è un figlio dell’uomo a venire da noi, è il modo giusto”. Questi sono “solo” i più importanti degli sfregi incomprensivi e semplicistici di Wolfgang Petersen a “La Storia Infinita”. Nonostante essi (e nonostante il regime torrentizio che impone alla vicenda, umiliante per l’ampio respiro e la maestosa struttura del romanzo), “La Storia Infinita” è talmente bella che il film avvince e commuove ugualmente. Ma proprio questo lo rende ancora più pericoloso: non mi stupirei se dopo il film le vendite del romanzo fossero crollate.
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65. Eschilo: “Tragedie”
“I Persiani” (del 472 prima dell’Era comune) è la tragedia della mostruosa ambizione imperiale di Serse, sordo all’ammonimento dello spettro del padre, Dario: “Quando l’alterigia fiorisce dà frutti di sventura da cui miete una messe tutta di pianto”. Una lezione ancora attuale per tutti i politici, e per chiunque si creda un capo.
“I sette contro Tebe” (468) è la terza (e l’unica superstite) di una trilogia ― “Laio”, “Edipo”, “I sette contro Tebe” ― sul mito dell’atroce destino che travolse la famiglia reale di Tebe. (Sapete tutti, vero, cosa accadde al povero Edipo?)
“Prometeo incatenato” (forse del 460) è la prima di una trilogia che comprendeva anche “Prometeo liberato” e “Prometeo portatore del fuoco” (fratello maggiore di tutti coloro che, avendo trovato o scoperto qualcosa, cercarono di farne dono ad altri...)
La “Orestea” (458) è l’unica trilogia di Eschilo che ci è pervenuta per intero. Comprende “Agamennone”, “Le Coefore” e “Le Eumenidi” e narra la vicenda di Clitennestra, moglie di Agamennone, che al ritorno del marito dalla guerra di Troia lo uccide, con l’aiuto di Egisto, per vendicare la morte della figlia Ifigenia, sacrificata da Agamennone alla dea Artemide; e che a sua volta viene poi uccisa, insieme all’amante, dal figlio Oreste aiutato dalla sorella, Elettra.
Ma quella che amo di più è “Le Supplici” (che Eschilo scrisse nel 490, a trentacinque anni), prima tragedia di una trilogia che narra la vicenda delle cinquanta figlie di Danao che implorano il re di Argo di aiutarle a non sposare i loro cinquanta cugini, figli di Egitto, fratello di Danao. Ma saranno rapite e costrette alle nozze (nelle due tragedie successive, “Gli Egizi” e “Le Danaidi”, che non ci sono pervenute), e quella notte diventeranno, tutte meno una, le assassine dei cugini-mariti: “Zeus felice, ascoltami e attua. Respinga il giusto tuo sdegno i maschi violenti, sprofonda nei riflessi violetti del mare la minaccia che naviga sulla tolda nera. [...] Come vorrei incontrare capestri che siano nodi di morte, prima che un uomo esecrato sfiori questo mio corpo: piuttosto, morta, mi domini Ade. [...] Ma la spietata tracotanza della muta di maschi nati da Egitto m’incalza correndo con grida scurrili, tentando con la violenza di afferrare la fuggitiva. [...] Zeus signore mi risparmi nozze atroci con sposo aborrito. [...] E assegni il trionfo alle donne”.
Eschilo (525 - 456 prima dell’Era comune).
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66. Esiodo: “Le Opere e i Giorni”
“Sulla terra non v’era un sol genere di Contesa, bensì due ve ne sono; e mentre l’una è lodata da chi ben la conosce, l’altra è riprovevole: hanno infatti indole diversa. L’una, la trista, favorisce la guerra luttuosa e la discordia. L’altra la generò per prima la Notte tenebrosa, e il Cronide dall’alto trono, abitatore dell’etere, la pose nelle radici della terra: molto migliore è questa, per gli uomini: essa, infatti, esorta anche il neghittoso al lavoro. Poiché l’ozioso volge lo sguardo a un altro che è ricco e che si affretta a seminare, a coltivare e a ben governare la casa; il vicino emula il vicino che alla ricchezza attende. Buona Contesa è questa per i mortali: il vasaio gareggia col vasaio, l’artigiano con l’artigiano, il povero col povero, il cantore col cantore”.
“Mai avrei voluto trovarmi con la quinta stirpe di uomini: ma o prima morire o nascere dopo. Ora, infatti, è la stirpe di ferro [dopo quelle dell’oro, dell’argento, del bronzo, degli eroi]: né mai di giorno cesseranno di distruggersi per la fatica e per la pena, né mai di notte: e gli dei daranno pensieri luttuosi. [...] Il padre non sarà simile ai figli, né a lui i figli; né l’ospite all’ospite o il compagno al compagno né il fratello sarà caro così come prima lo era. Non verranno onorati i genitori appena invecchiati, che saranno, al contrario, rimproverati con dure parole. Sciagurati! ché degli dei non hanno timore. Questa stirpe non vorrà ricambiare gli alimenti ai vecchi genitori; il diritto per loro sarà nella forza ed essi si distruggeranno a vicenda le città. Non onoreranno più il giusto, l’uomo leale e neppure il buono, ma daranno maggior onore all’apportatore di male e al violento; la giustizia risiederà nella forza delle mani; non vi sarà più pudore: il malvagio, con perfidi detti, danneggerà l’uomo migliore e v’aggiungerà il giuramento. La Gelosia malvagia, maledica e dallo sguardo pieno d’odio, s’accompagnerà con tutti i miseri umani”.
“Ai giudici che invece impartiscono ai cittadini e ai forestieri la vera giustizia, a quelli la città fiorisce, i popoli sono in essa fiorenti, e la pace, nutrice di giovani, è sulla terra”.
“Migliore di tutti è colui che tutto pensa da sé, meditando su quello che poi e alla fine risulterà essere il meglio; buono è anche colui che ascolta chi lo consiglia bene. Chi, invece, non pensa da solo e neppure dà retta ai buoni consigli, quegli è un uomo vano”.
“L’uomo che rimanda è sempre in lotta coi guai”.
“L’uomo ricco di fantasia rimugina di fare un carro: stolto! ché non sa nemmeno che cento sono i pezzi del carro e che bisogna prima radunarli in casa”.
“Non v’è cosa migliore che sposare una buona moglie, e niente di peggio che sceglierla cattiva e che pensi a gozzoviglie: per quanto il marito sia forte, costei lo brucia senza bisogno di fiaccola e lo condanna a precoce vecchiaia”.
“Non libare all’alba lo scintillante vino a Zeus, e neppure agli altri dei, senza aver prima lavato le mani; gli dei, infatti, non ascolterebbero le tue preghiere, ma le rigetterebbero indietro. Non orinare in piedi stando in faccia al sole e, dopo che sia tramontato fin quando sorge, non orinare nudo, ricordalo!, poiché le notti sono sacre agli dei beati. E neppure lungo la strada né fuori di essa, mentre cammini. L’uomo pio e saggio compie queste cose accosciandosi o presso il muro di un ben recinto cortile. [...] E non orinare nelle fonti, ma guardatene bene! I tuoi piedi non varcheranno mai le belle acque correnti dei fiumi perenni, se prima non avrai pregato guardando il limpido fluire e non ti sarai lavato le mani nell’acqua dell’amabile purezza”.
“Odiosa è la guerra a tutte le femmine”.
Esiodo: “Dimmi, Omero, che cosa per i mortali è più bello, che cosa più odioso, ché bramo saperlo”. Omero: “Esiodo, ben volentieri te lo dirò. Esser sé stesso misura di sé sarà il più bello dei beni, e dei mali tutti il peggiore”. Esiodo (tra l’VIII e il VII secolo prima dell’Era comune).
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67. Euripide: “Tragedie”
Nel contesto culturale dell’antica Grecia, duramente avverso alle donne, le protagoniste delle tragedie di Euripide (480 ― 405 prima dell’Era comune) spiccano per la loro statura sempre superiore a quella degli uomini che hanno intorno.
Perfino dinanzi a “Medea” (431), che tradita da Giasone (da lei aiutato a conquistare il Vello d’oro) ne uccide l’amante, il padre di lei e i propri figli ― e poi, dice il mito, fugge ad Atene, ne sposa il re, tenta di ucciderne il figlio Teseo per favorire il proprio, fugge di nuovo e torna dal padre, che l’accoglie benché la sua carriera di pluriomicida fosse iniziata con l’assassinio del fratello ― perfino dinanzi alla follia di Medea, Euripide non teme di lasciar intuire che se Giasone non fosse l’uomo che è, tanto più bramoso di potere e di ricchezze quanto più è stupido, imbelle e vile, le cose sarebbero potute andare in modo diverso. “O Zeus grande, e anche tu, o veneranda Temi, guardate il mio strazio! A che sono valsi i giuramenti solenni che mi avvinsero un giorno a uno sposo maledetto? Ch’io possa vederlo, lui con la sua sposa novella, ridotti in briciole, e insieme con essi le loro case! Non mi hanno forse per primi recato oltraggio? Lasciai padre e patria per uno spergiuro e uccisi turpemente un fratello amatissimo!” [...] “No, mio cuore, non compiere l’eccidio! Lasciali stare, misero cuore, i ragazzi! Risparmiali! Chissà... forse domani anche da lungi ti potranno rendere felice!... ― Ma che dico? Per i Geni della giusta vendetta che hanno stanza nell’Ade, no, non sarà mai che lasci i figli alla mercè dei miei nemici! È fatale che muoiano, e se debbono morire, sarò io che darò loro la morte, io stessa, che li ho partoriti!”
“Le Troiane” (415) narra le ultime ore di libertà delle donne di Troia prima che i vincitori dei loro mariti se le spartiscano: Cassandra ad Agamennone (insieme al quale ella sa, poiché vede il futuro, che in Grecia sarà uccisa dalla moglie di lui), Andromaca a Neottolemo ed Ecuba a Odisseo. Ma la sorte più terribile è quella di Andromaca, moglie di Ettore, poiché i Greci decidono di precipitare dalle mura di Troia suo figlio Astianatte per impedire che un giorno il bambino vendichi il padre. “...Con uno spaventoso salto, giù dalle mura d’Ilio, a capofitto sarai senza pietà precipitato e, ancora così piccolo, morrai!... Tenero bimbo mio, che tante volte ho cullato, stretto, accarezzato tra le braccia; o dolcissima fragranza del corpicino roseo, dunque inutile è stato il nutrimento del mio seno mentre eri in fasce, vane le fatiche, le pene logoranti, estenuanti, con gioia sopportate! Ancora una volta ― non lo potrai mai più ― la mamma tua saluta e a te stringila forte, e cingi con le braccine il suo collo, e accosta alle labbra di lei la tua boccuccia, piccolo mio!”
“Elettra” (413) aveva un padre, Agamennone, che per bramosia di potere sacrificò ad Artemide l’altra sua figlia, Ifigenia, perché la dea gli fosse propizia, e che per questo, dieci anni dopo, al ritorno dalla guerra di Troia, fu ucciso dalla moglie Clitennestra e dall’amante di lei, Egisto. Elettra ha un fratello, Oreste, a cui ora chiede di vendicare il padre: mentre lui andrà a uccidere Egisto, lei farà dire alla madre di aver partorito e che venga, per favore, ad aiutarla col bimbo. E quando Clitennestra accorre ― e per un istante non è l’uxoricida, ma la madre che viene in aiuto alla figlia ― Elettra la uccide, insieme al fratello, con il coltello con cui si abbattono i tori da sacrificare. Ma prima ha con lei un tremendo duello psicologico, che ci svela che solo loro, solo queste due donne disperate e folli, fra quelli che hanno intorno, non arretrano dinanzi alla necessità che il mondo umano sia giusto.
Proprio Ifigenia (“Ifigenia in Aulide”, 407) è la più splendida protagonista di Euripide: la figlia che Agamennone, re dell’Argolide (che i Greci hanno scelto come capo supremo dell’esercito e della flotta in partenza per Troia), istigato dall’indovino Calcante, decide di sacrificare ad Artemide per propiziarsene il favore. Le invia un messo con l’ordine di raggiungerlo, perché Achille vuole sposarla. Invece è una menzogna: Achille e gli altri Greci, tranne Menelao fratello di Agamennone, sono all’oscuro di tutto. E Agamennone e Menelao, in attesa della ragazza, intrecciano un ampolloso, grottesco “scaribarile” in cui ognuno si finge pentito, e quasi crede di esserlo, per spingere l’altro a commettere il crimine che rinsalderà il suo potere. Arriva Ifigenia, accompagnata dalla madre Clitennestra e dal fratellino Oreste. E noi, dopo venticinque secoli, riusciamo ancora a immaginare la commozione del pubblico di Atene sentendo Clitennestra, futura assassina del marito e uccisa a sua volta dai figli superstiti, parlare teneramente così: “Figliola, lascia pure il cocchio e posa a terra il delicato piede con prudenza. Fanciulle, reggetela fra le braccia, aiutandola a scendere! Una di voi tenda anche a me la mano, perché sicura io lasci il mio sedile. E voi altre mettetevi dinanzi al giogo dei puledri, che si adombrano per un nonnulla, e sorreggete questo piccolo, figliolo di Agamennone, Oreste. È ancora un bimbo! Figlio mio, ti ha fatto venir sonno il movimento del cocchio? Suvvia, svégliati! Vedrai presto le nozze di tua sorella! [...] E tu, Ifigenia, sta’ più che puoi vicina a tua madre, perché felice io sembri a queste donne straniere. E a tuo padre, che ci ha raggiunto, dai il tuo saluto!” Quando l’inganno viene scoperto, Clitennestra rivolge ad Agamennone indimenticabili parole, da cui traspare con chiarezza che non si è mai fatta illusioni sulla sua pochezza e la sua viltà: “Innanzi tutto” dice Clitennestra “tu mi hai sposata contro il mio volere e a forza mi hai presa, dopo avermi ucciso il mio primo consorte Tantalo e strappato al mio sen con violenza e al suol scaraventato un mio bambino, anche lui da te ucciso! I miei fratelli, i Dioscuri, allora t’inseguirono con i loro destrieri, ma fu Tindaro, il vecchio padre mio, che ti salvò, poi che ai suoi piedi ti eri gettato supplice: in questo modo tu potesti ottener la mia mano! [...]. E al tuo ritorno in Argo come potrai stringere al seno i tuoi figli? Non lo potrai per certo! Chi di essi oserà guardarti, conoscendo che una di loro fu da te abbracciata e poco dopo uccisa? Hai meditato su tutto questo, o a te importa solo di impugnare lo scettro e fare il duce?” E Ifigenia: “Suvvia, guardami, padre mio, posa gli occhi su me, via, dammi un bacio, perché almeno, morendo, io porti con me questo ricordo, se non vuoi ricrederti. Tu, fratellino mio, puoi darmi soltanto scarso aiuto, ma unisci le tue lacrime a quelle mie, pregando nostro padre di non uccider tua sorella. I bimbi sentono anch’essi a loro modo il male. Guarda, o padre, egli tace, ma ti prega anche lui! Deh, pietà! Via, non uccidermi! Noi due, che ti siamo cari, ti preghiamo: lui, bambino ancora, io grande ormai. Addurrò, terminando, la più valida delle ragioni, una soltanto, questa: per l’uomo non vi è nulla di più dolce della luce, e niente è sottoterra!” Cosa sa rispondere, Agamennone, alla supplica della figlia? Soltanto che è il suo stesso esercito, “è l’Ellade tutta che m’impone, sia che lo voglia o non lo voglia, il tuo sacrificio, o figlia, come vuole Calcante, e non so come sottrarmi a questo duro fato”. E Ifigenia, allora, dinanzi a quel padre e re indegno e criminale che la sacrifica alla bramosia di potere, si erge invece come una sovrana autentica: “Odi, mamma, quel ch’io penso. La mia morte è ormai decisa: l’accetto, e voglio nobilmente affrontarla, dal mio animo rigettando ogni viltà. Vedi se anche a te par giusto quel che volgo nella mente. Tutta quanta la grande Ellade ha su me i suoi occhi; io soltanto posso far partire la flotta! [...] Volentieri offro la vita alla mia patria! Immolatemi, e poi distruggete Troia! Sarà questo il monumento che a me stessa erigerò duraturo e assai più nobile che non siano nozze illustri e figlioli”. Poi, forse, accade un colpo di scena. “Forse”, poiché nessuno ha la certezza che siano sincere le parole di chi lo racconta... In “Ifigenia in Aulide” è già evidente ― insieme al sentimento che le donne siano le prime vittime del potere, col quale gli uomini scendono a patti contro di loro, e al contempo le sue uniche avversarie ― il disprezzo di Euripide per il clero, rappresentato dall’”indovino” Calcante, che del potere è servo. Ma ne “Le Baccanti” (407) il disprezzo colpisce la religione stessa nella figura di Dioniso, che esiste soltanto per sterminare quelli che a Tebe non lo credono un dio. A questo scopo fa impazzire tutte le donne, inducendole a fuggire sul monte Citerone a celebrare i suoi riti. Lì, invase dal furore dionisiaco, esse commettono violenze e devastazioni, si scagliano sulla gente, rapiscono i bambini. E che cosa sa fare il re Penteo per aiutare i sudditi? Si lascia convincere da Dioniso a travestirsi da donna per spiarle! Ma il dio, dimostrando l’impotenza e la stupidità del potere statale dinanzi alla religione, aizza le Baccanti a sradicare l’albero su cui si è nascosto, ad aggredirlo, a farlo a pezzi. E colei che per prima lo colpisce, spezzandogli un braccio, è sua madre Agave.
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68. Farmer, Philip J.: “Venere sulla Conchiglia”
Perché ridiamo, o almeno sorridiamo?
“C’era qualcosa di strano, negli Shaltooniani, qualcosa che lo faceva sentire a disagio, ma non riusciva a capire cosa fosse. All’inizio, Simon aveva pensato che dipendesse dalle loro origini feline. Dopo tutto, benché umanoidi, erano fondamentalmente gatti, così come i Terrestri, in fondo, sono scimmie. Eppure sulla Terra aveva conosciuto molti turisti extraterrestri di origine felina e si era sempre trovato bene con loro. Anzi, lui preferiva i gatti ai cani. Era solo per circostanze indipendenti dalla sua volontà che lasciando la Terra aveva portato con sé un cane. Forse, pensò, la colpa era dell’acre odore di muschio che incombeva sulla città, coprendo quello di letame che veniva dalle fattorie attorno. Emanava da tutti gli Shaltooniani adulti, ed era esattamente lo stesso che hanno i gatti in calore. Dopo un po’, Simon capì perché. Gli Shaltooniani erano effettivamente nella stagione degli accoppiamenti, che durava tutto l’anno. Il loro principale argomento di conversazione era il sesso, ma anche di questo non riuscivano a parlare a lungo: dopo neanche mezz’ora, cominciavano a innervosirsi, si scusavano e se ne andavano. Tutte le volte che Simon ne seguiva uno, maschio o femmina, lo vedeva entrare in una casa dove c’era ad aspettarlo qualcuno del sesso opposto. La porta veniva chiusa, e dopo pochi minuti dalla casa usciva un baccano indiavolato. [...] Alla fine, Simon concluse che il suo disagio non dipendeva dal fatto che, secondo il suo punto di vista, gli Shaltooniani erano fanatici del sesso. Non si trattava di riprovazione morale. [...] Se mai, quella che provava era invidia. L’evoluzione ha gabbato i Terrestri. Perché l’Homo sapiens non ha saputo conservare la libidine del babbuino? Perché ha permesso che la società si modellasse in modo da condizionare l’impulso sessuale?”
Era un brano di “Venere sulla Conchiglia” (“Venus on the Half-Shell”, 1974, noto anche come “Lo Spaziale Errante”), di Philip José Farmer (1918 ― 2009). Aristofane, Plauto, Rabelais, Cervantes, Sterne, Dickens, Twain, Hašek... Come mai gli umoristi sono così rari, tra le migliaia di esseri umani che nei secoli si sono dedicati alla Letteratura? (E come mai ― già che ci siamo ― sono in proporzione molto più numerosi fra gli scrittori di fantascienza?) La risposta, io penso, non dipende che in minima parte dalla (difficile) comprensione di cosa sia l’umorismo. L’umorismo, probabilmente, scaturisce dalla capacità, solo umana, di ridere con amore, o almeno con simpatia, delle proprie e altrui debolezze, e ridendo rendere più affettivi i rapporti, meno infelice la vita, e migliore il mondo. (Sì, lo so: delle nostre insufficienze vi è chi ride con odio, con disprezzo, con freddo sarcasmo ― basta accendere il televisore per constatarlo ― però quel tipo di riso, malato e nocivo, sta al riso propriamente umano come la psicopatia alla salute mentale e lo stupro all’amore). Ma se questo è vero (e anche se non lo è), per quale motivo ridere e indurre al riso attraverso la Letteratura ― al riso umano, affettivo, empatico, gioioso ― è talmente più difficile del commuovere, che solo pochissimi ne sono capaci? Forse perché la scrittura richiede un’impegno, una concentrazione, lavoro e fatica talmente prolungati e assidui, che solo pochissimi ― tra i quali non pochi autori di fantascienza ― sono abbastanza sani di mente (e fortunati, anche) da poter mantenersi per così tanto tempo e senza pause disposti a sorridere umanamente? Un po’ come l’erezione ― in altre parole ― solo in alcuni l’umorismo è durevole come tutti vorremmo che sia?
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69. Faulkner, William: “Luce d’Agosto”
William Faulkner (1897 ― 1962) è forse lo scrittore il cui stile amo di più, e dinanzi al quale, perciò, quando scrivo, mi è più difficile rimanere me stesso, cioè di gran lunga meno grande ma non meno unico. Questo non implica che egli sia anche l’autore che mi è più caro, o che consideri “Light in August” il più bel romanzo di tutti i tempi, ma “solo” che nessun’altra scrittura suscita in me sentimenti così immediati e intensi per quel che narra e per i suoi protagonisti. Sentimenti dai quali, perciò, debbo persino difendermi, talvolta, quando le idee che mi ispirano non mi convincono del tutto.
Ecco, da “Luce d’Agosto” (1932) ― nella traduzione di Elio Vittorini ― un mirabile brano sullo scorrere del tempo, umano e non.
“Si è seduta sulla sponda del fosso, coi piedi nella scarsa profondità del fosso, e si è tolta le scarpe. Dopo un po’ ha cominciato a sentire il carro. L’ha sentito per un pezzo. E finalmente lo ha visto comparire, lo vede venir sù per la salita. L’acuto eppur fragile cigolio-brontolio del legno e del metallo che han ricevuto pioggia e sole, e olio mai, è terribile nella sua lentezza; è una serie di secche, pigre detonazioni che si odono a mezzo miglio di distanza nel caldo, tranquillo silenzio che odora di pini, quel pomeriggio d’agosto. Per quanto i muli si affannino in una perseverante, inflessibile specie di ipnosi, sembra che il veicolo non avanzi. E così poco comunque viene avanti che sembra sospeso per sempre e per sempre a metà della distanza come un misero grano di collana sul filo rossiccio della strada. Così vero è questo, che pur nel sorvegliarlo l’occhio lo perde, come vista e sensi sonnacchiosamente si avvolgono e sommergono, in uno con la strada, nel tranquillo mutare monotono dal giorno alla notte e dalla notte al giorno, alla stregua d’un filo già misurato che venga riavvolto su un rocchetto. Tanto che alla fine il suono sembra arrivare, come da una banale e insignificante regione situata di là da ogni distanza, lento, terribile e privo di significato quale un’ombra che preceda di mezzo miglio il proprio corpo. “È un bel pezzo prima di vederlo che lo sento” pensa Lena. E già si pensa in cammino su quel carretto, pensando “sarà come se ci fossi sopra mezzo miglio prima di esserci montata, prima ancora che il carretto sia arrivato dove io mi trovo, e quando poi ne sarò discesa continuerà per ancora mezzo miglio con me sopra”.
Vi dico solo che Lena, prossima al parto ― “Light in August” significa “Luce d’Agosto”, ma anche “Leggera in Agosto” ― è in cammino nella speranza di ritrovare il ragazzo che l’ha messa incinta. E che il tempo, quindi ― non umano nelle cose (il carretto), negli animali (i muli), e umano in lei, ma tutto umano in quel che lei può farne nella mente e nel cuore ― è il tempo che le rimane per salvare l’umanità della sua vita per la nascita che sta per avvenire. Di Lena, di questa indimenticabile ragazza ― “da ogni contatto con lei”, scrisse Fernanda Pivano, “scaturisce una promessa di speranza” ― William Faulkner ha detto: “Ha in sé qualcosa della caratteristica pagana di essere capace di accogliere tutto. Cioè... desidera il bambino, non ha mai vergogna del bambino, con o senza un padre; si limita a seguire le convenzioni del tempo in cui vive quando cerca il padre, ma per quanto la riguarda non ha alcun bisogno di lui. A lei basta avere il bambino. E non c’è altro: solo la caratteristica luminosa, luminescente, di una luce [“light”] più antica della nostra”.
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70. Fenoglio, Beppe: “Una Questione privata”
Su Beppe Fenoglio (1922 ― 1963) e sulla Letteratura della Resistenza, prima di scrivere qualsiasi cosa, desidero invitarvi a leggere quattro importanti articoli pubblicati qualche anno fa nel blog “I Giorni e le Notti”:
1. “Beppe Fenoglio e la romanzofobia comunista”, di Susanne Portmann (2014, ― “la dura verità è che egli volontariamente ha scritto e riscritto la sua epopea partigiana seguendo il suo modus operandi della ‘fatica nera’, e che, per poter pubblicare quel poco che gli riuscì da vivo, fu costretto dai suoi editori a riscriverla. [...] Quello per cui senz’altro ha sofferto di più è questa negazione nei suoi confronti);
2. “La memoria della Resistenza: una questione personale”, di Susanne Portmann (2015);
3. “Dopo il 25 Aprile: i romanzi del ritorno”, di Gian Carlo Zanon (2014).
4. “Resistenza. Storia, rappresentazione, immagine”, di Gian Carlo Zanon (2014).
Più che per “Il Partigiano Johnny”, più che per “I Ventitre Giorni della Città di Alba”, più che per i racconti, è per “Una Questione Privata” ― a mio parere ― che Beppe Fenoglio è il più grande scrittore italiano della seconda metà del ‘900.
La bellezza, lo spessore, l’affettività, la musica di questo romanzo tolgono il fiato quasi a ogni capitolo, a ogni pagina, a ogni capoverso. I due anni “infiniti” della Storia d’Italia ― il ‘43-’45, la Resistenza al nazifascismo, la guerra civile, i partigiani; il conflitto politico tra gli “azzurri” badogliani e i “rossi” comunisti e socialisti ― in cui già si delineavano i compromessi e le delusioni del dopoguerra; i rapporti, tutti ― perfino quello (unidirezionale) coi fascisti, talmente incapaci di averne da preferire la morte anche solo all’idea di poter accettarlo; e soprattutto il rapporto con la donna, che della Resistenza al fascismo e al nazismo era il senso più vero, la Verità profonda la cui ricerca e il cui sentimento erano nel cuore di ogni partigiano, anche di chi non lo sapeva o oddirittura non ne voleva sapere: in sole 129 pagine, “Una Questione Privata” è un intero Universo umano. Così vasto che non si può finire di leggerlo senza immediatamente desiderare di rileggerlo, di reimmergersi in esso.
Impossibile raccontarlo, naturalmente, anche se volessi farlo (e naturalmente non voglio). Ma un mio pensiero vorrei proporvelo, poiché forse non è banale. In “Una Questione Privata” non solo Fulvia, ogni donna che Milton incontra o ricorda è fondamentale. Comprese, non ultime, le “vecchie” come quella che “gli si fermò davanti, secca, oleosa, sdentata, puzzolente, con sui fianchi le mani ridotte a un fascio di ossicini, mentre Milton cercava disperatamente di rivedere la giovane, la ragazza che era stata” (capitolo VIII). Ma perché (nel capitolo XIII) Milton pensa: “Fulvia, a momenti mi ammazzi!”? È davvero così? Davvero è Fulvia che “a momenti” lo ammazza? Penso di no. Penso (e penso, intendiamoci, che Fenoglio lo sapesse perfettamente) che ciò che “a momenti” ammazza Milton sia l’aver frainteso la Verità di cui andava in cerca riguardo a Fulvia ― di averla fraintesa fin quasi a impazzire ― e che questo gli accada non per aver amato Fulvia, come superficialmente si potrebbe credere, ma per non essere riuscito a sentire e a respingere il fascismo della “custode - governante” che (nel capitolo II) lo manipola e lo avvelena...
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71. Fielding, Henry: “Tom Jones”
“Avendo deciso, sin dal momento in cui incominciammo a scrivere questa storia, di non adulare nessuno, ma di ispirarci unicamente alla verità, siamo ora costretti a presentare il nostro eroe sotto un aspetto assai meno favorevole di quel che vorremmo; e a dichiarare, sin dal suo primo apparire, come tutta la famiglia del signor Allworthy fosse convinta che sarebbe finito sulla forca. Debbo riconoscere, pur dolendomene, che questa opinione era anche troppo giustificata. Sin dai suoi primi anni il ragazzo aveva dimostrato la tendenza a molti vizi e soprattutto a uno che porta dritto dritto a quel destino che gli abbiamo profeticamente annunciato; già tre volte infatti l’avevan colto a compiere un furto: e cioè a rubar mele in un frutteto, a portar via un’anatra dall’aia di un contadino, e a sottrarre una palla dalla tasca del signorino Blifil. Le colpe del giovinetto erano ancora accentuate dalla luce sfavorevole in cui apparivano paragonate alle virtù del suo compagno, il signorino Blifil, giovinetto di carattere così diverso dal piccolo Jones che tanto i familiari quanto l’intero vicinato non facevano che lodarlo. Era in realtà un ragazzo eccezionale: sobrio, discreto e devoto più di quanto non si sia di solito alla sua età: qualità che gli conquistavano l’affetto di quanti lo conoscevano. Mentre Tom Jones era antipatico a tutti; e molti si chiedevano come mai il signor Allworthy permettesse che un ragazzo simile fosse educato insieme al nipote, senza temere che lo corrompesse col suo esempio”.
“A tredici anni, Sofia incominciò a nutrire una certa tenerezza per Tom Jones, e non poca antipatia, invece, per il giovane Blifil. [...] Ancora ragazzina, Sofia si rese conto che Tom, pur essendo birichino, pigro, spensierato e chiassoso, faceva in realtà del male unicamente a sé stesso, mentre il signorino Blifil, ch’era invece prudente, serio e discreto, si preoccupava di giovare a un’unica persona; e chi fosse questa persona il lettore potrà indovinarlo senza il nostro aiuto”.
“I giovani di carattere aperto e generoso sono per natura inclini alla galanteria; e questa, nel caso di giovani intelligenti come Tom, si esplica nel comportarsi con cortesia nei riguardi di tutte le donne. Tom si distingueva così vuoi dalla chiassosa rudezza dei semplici giovanotti campagnoli vuoi dal comportamento solenne e piuttosto noioso del signorino Blifil; quand’ebbe vent’anni, non c’era donna del vicinato che non lo stimasse un avvenente e simpatico ragazzo. [...] E Sofia si lasciò rubare irrimediabilmente il cuore prim’ancora di accorgersi di essere in pericolo...” “Tom Jones” (1749), di Henry Fielding (1707 ― 1754), capolavoro di raffinato umorismo, è uno dei primi (e dei più importanti) romanzi della Letteratura inglese. Da non perdere, una volta letto il libro, la trasposizione cinematografica di Tony Richardson del 1962, con Albert Finney nella parte di Tom e Susannah York nella parte di Sofia.
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72. Finney, Jack: “Indietro nel Tempo”
Jack Finney (1911 - 1995) è celebre per aver scritto, nel 1955, “L’Invasione degli Ultracorpi”, da cui Don Siegel, l’anno dopo, trasse un film che divenne, come si suol dire, un cult: “Quell’uomo sembra, parla, ricorda, agisce in tutto e per tutto come zio Ira. Esternamente, direi. Ma internamente è diverso. Le sue risposte...” s’interruppe, cercando le parole, “non sono giuste emotivamente, se così posso dire. [...] Lo zio era un padre per me, lo è stato fin dalla mia infanzia; quando parlavamo di quel periodo, Miles, c’era sempre una luce particolare nei suoi occhi... Ecco, quello sguardo è scomparso. Con questo zio Ira, o chiunque sia, ho l’impressione, anzi la certezza direi, che parli automaticamente. Che i fatti presenti nella memoria di Ira si trovino nella sua in ogni particolare, ma senza emozioni. Non c’è alcuna emozione, c’è la finzione dell’emozione”.
Ma ancor più de “L’Invasione degli Ultracorpi” amo di Jack Finney “Indietro nel Tempo” (“Time and Again”, del 1970).
Nessuno ha mai descritto il viaggio nel tempo con l’appassionata intelligenza di Jack Finney in questo romanzo. Senza “spoilerare” vi dico che la sua immensa scoperta creativa è che il viaggio è possibile (e avviene realmente, non si tratta d’immaginazione o di sogno) ma solo se si riesce a immedesimarsi del tutto, cognitivamente e ancor più affettivamente, nell’epoca che si desidera raggiungere.
Le 450 pagine di “Indietro nel Tempo”, per volontà dell’autore e l’attenta sua scelta del “materiale iconografico”, sono corredate da numerose fotografie e disegni di luoghi, donne e uomini della New York del 1882. Ma la mia copia del libro è piena anche delle sottolineature e dei commenti (a matita) che quasi a ogni pagina mi ispirava...
“Il soggetto deve rispondere a certi requisiti fisici, psicologici e di temperamento. Deve vedere la vita in maniera speciale. Deve avere la capacità, e questa a quanto pare è una dote piuttosto rara, di vedere le cose come sono e allo stesso tempo di vederle come sarebbero potute essere”.
“Osservare vecchie foto mi ha sempre riempito di meraviglia; forse capite quel che voglio dire. Mi riferisco a quel senso di meraviglia che si prova [...] sapendo che la luce, fissando l’immagine sulla pellicola, si è davvero riflessa su quei visi e su quegli oggetti dimenticati. E che quelle donne, quegli uomini, quei bambini, erano davvero lì a sorridere per l’obiettivo della macchina fotografica. [...] In quel momento io provo un profondo senso di suggestione. Mi sembra di coglierlo nella sua realtà; così vero, che se guardo attentamente mi sembra che la vita che è bloccata in quell’immagine debba continuare. Che lo zoccolo sollevato del cavallo, così incredibilmente nitido, debba per forza tornare a toccare il selciato; che le ruote debbano per forza continuare a girare, la bambina debba avvicinarsi alla carrozza, e l’uomo uscire dalla scena”.
Ma l’immaginazione affettiva con cui possiamo muoverci nel tempo ― comprende Simon, il protagonista del romanzo ― è come imprigionata nel presente dagli innumerevoli fili che ci connettono a esso:
“La nostra concezione del passato, del futuro e del presente non è corretta. Noi pensiamo che il passato se ne sia andato, che il futuro debba ancora venire, e che esista solo il presente. Poiché il presente è tutto ciò che siamo in grado di vedere. [...] Siamo come in una barca senza remi che procede lungo un fiume serpeggiante. [...] Ma il passato, là dietro, dietro le anse e le curve del fiume, esiste davvero. È davvero lì. [...] Lei sa che giorno è oggi, il mese e l’anno per mille motivi, [...]. Molti di essi sono possibili solo nel nostro secolo, alcuni solo in questo decennio, altri solo quest’anno, e ce ne sono alcuni che possono avvenire solo in questo determinato giorno. Sì, lei è circondato da innumerevoli fatti che la legano a questo secolo, a quest’anno, a questo mese, a questo giorno e a questo momento, come miliardi di fili invisibili”. “Ma siamo circondati anche da miriadi di frammenti sopravvissuti di giorni che una volta esistevano esattamente come oggi esiste ora”.
Però una donna e un uomo possono creare “fili” interumani - o, potremmo dire, una piccola “prigione” - che unificano il tempo di lei e il tempo di lui: “Per qualche misterioso motivo - misterioso perché la serata era trascorsa come tante altre - avevamo oltrepassato una specie di confine invisibile, e la nostra relazione non era più casuale, ma stava prendendo una forma molto precisa: Kate aveva iniziato a raccontarmi di sé stessa”. “La donna sorrideva, il viso inclinato all’indietro, godendosi la neve, e si udivano solo i campanelli, i passi soffocati del cavallo, e il leggero sibilo della slitta sulla neve. Mi passarono davanti, e li seguii con lo sguardo finché non scomparvero nel nevischio, il tintinnio sempre più distante. Poco prima che scomparissero del tutto, sentii la donna che rideva; una risata distante e felice, attutita dalla neve. E... sì, emotivamente continuo a sentirla”.
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73. Fitzgerald, Francis Scott: “Assoluzione”
Di Francis Scott Fitzgerald (1896 ― 1940), grandissimo e infelicissimo scrittore, ho scelto di postare le foto di due romanzi celeberrimi: oggi “Tenera è la Notte” (1934) e domani “Il Grande Gatsby” (1925). Ma invece vi parlerò di due racconti che amo immensamente: oggi “Assoluzione”, che scrisse nel 1924, e domani “Babilonia rivisitata”, del 1930.
Il Ragazzino e il Sacerdote
C’era una volta... ― “Assoluzione” comincia come una fiaba: “C’era una volta un sacerdote dagli occhi freddi e umidi che, nel silenzio della notte, versava fredde lacrime. E c’era un ragazzino bellissimo e molto vivace, dell’età di undici anni, che un pomeriggio entrò nella sua stanza stregata...”
“Padre” Schwartz (così si chiama il sacerdote dagli occhi freddi: dal tedesco “schwarz”, nero, come del resto lo sono tutti) esce il meno possibile dalla stanzetta in cui cerca “una piena unione mistica con Nostro Signore”. Ma in estate ― è estate, infatti, per sua disgrazia ― dalle quattro del pomeriggio al crepuscolo “una calda follia” lo raggiunge anche lì: un “profumo di saponette a buon mercato”, un “fruscio di fanciulle svedesi sul sentiero accanto alla sua finestra”, la “terribile dissonanza delle loro risa argentine”, il “terribile frumento del Dakota che gremisce la valle del Fiume Rosso”... “Padre” Schwartz, allora, “prega a voce alta affinché scenda presto il crepuscolo”. E poiché la preghiera non ha effetto, “angosciato” ― è la vita che lo angoscia, e nella vita soprattutto i segni insopprimibili della viva presenza umana ― “abbassa lo sguardo sul disegno del tappeto e porta la sua mente a cupe meditazioni in labirinti grotteschi”.
Finché, un pomeriggio, alla porta della stanzetta ― ch’è “stregata” dal cupo meditare del (cosiddetto) padre l’unione con Dio e il perdersi dei rapporti umani in labirinti grotteschi ― “bussa un ragazzino bellissimo e molto vivace di undici anni, a nome Rudolph Miller”. Perché “bellissimo”?, ci domandiamo, sùbito inquieti. Nella stanzetta c’è solo il (cosiddetto) padre Schwartz, dunque è per lui che Rudolph è bellissimo. Lo sarebbe anche per noi, ché i bambini sono tutti bellissimi. Ma poiché lo è, invece, solo “negli occhi freddi” del (cosiddetto) padre (dove non dovrebbe, poiché egli è “angosciato” da ciò ch’è umano e bello) come non spaventarci? Dato che nella stanzetta c’è solo il (cosiddetto) padre Schwartz, qui la bellezza di un bambino non è più una delle infinite umane bellezze di cui noi lettori siamo felici come del frumento maturo del Dakota o della dissonanza delle risa delle fanciulle: qui, dove a trovarlo bellissimo sono gli occhi freddi del (cosiddetto) padre Schwartz, la bellezza di un bambino di undici anni ci fa temere per lui.
Entra dunque nello studio “un ragazzino bellissimo e molto vivace”, e il (cosiddetto) padre, “sorprendendosi a fissare i suoi occhi accesi da puntini splendenti di luce color cobalto, è spaventato dalla loro espressione”. Ma poi “si accorge che il piccolo visitatore è in uno stato di abietta paura”, e questo ― che in noi accresce l’inquietudine ― in lui ha un effetto tranquillante: nel mondo capovolto del (cosiddetto) padre la vista di un ragazzino è “angosciosa” e “spaventosa”, la sua abietta paura “rassicurante”.
Qualche tempo prima, entrato in un granaio, Rudolph aveva udito “un tale e una ragazza” dirsi “cose impure” ed era rimasto ad ascoltarli “sentendosi pulsare forte i polsi per una strana, romantica eccitazione”. Per un mese, dopo, era riuscito a non andare a confessarsi. Ma un sabato suo padre lo aveva “agguantato per il collo mentre giocava: «Vacci subito»“, aveva detto. “«Non tornare finché non ti sarai confessato»“. E Rudolph aveva dovuto ubbidire, poiché non ci sono vie di fuga per un bambino, quando i genitori sono dalla parte delle ombre nere: si era recato in chiesa, era entrato “nella grande bara collocata perpendicolarmente del confessionale”, dove il (cosiddetto) padre Schwartz lo attendeva sotto forma di “smorta ombra immobile dietro la grata”, e aveva confessato per primi i (cosiddetti) peccati più lievi, più facili da ammettere. Poi quello “di non credere d’essere il figlio dei suoi genitori” ― “«Hai pensato, vuoi dire, di valere troppo per poter essere il figlio dei tuoi genitori?»“ aveva domandato il (cosiddetto) padre ― e infine, con uno sforzo, l’episodio del granaio. Ma dei “polsi” che “palpitavano forte” non era riuscito a parlare. E nondimeno, quando il (cosiddetto) padre Schwartz alla fine gli aveva chiesto se non avesse detto bugie, Rudolph aveva risposto: “«Oh, no, padre, non dico mai bugie»“. Ma non era vero: non aveva parlato dell’”eccitazione” che lo “aveva pervaso”; perciò, “negando di aver detto bugie, si era macchiato di un peccato terribile: aveva mentito in confessione”.
In un primo momento, tornando “a casa di suo padre” ― non a casa sua: di suo padre ― “sollevato di essere passato dalla chiesa opprimente a un aperto mondo di campi di frumento e di cielo” ― lo stesso frumento del Dakota che per il (cosiddetto) padre Schwartz è terribile ― Rudolph aveva “rinviato la piena consapevolezza di quel che aveva fatto”. Poi, “riempiendosi i polmoni d’aria pungente”, aveva ripreso il suo vero nome, Blatchford Sarnemington ― il nome di un bambino che “vale troppo” per essere Rudolph Miller, figlio dei suoi genitori ― e come Blatchford era entrato “nell’angoletto segreto della sua mente in cui era al sicuro da Dio, in cui architettava i sotterfugi con i quali, non di rado, truffava Dio; e celato in quest’angoletto aveva riflettuto sul modo per meglio evitare le conseguenze della bugia”. E aveva trovato la soluzione: “il giorno dopo doveva a tutti i costi evitare la comunione. Troppo grande sarebbe stato il rischio a cui si sarebbe esposto se avesse fatto infuriare Dio fino a quel punto: la comunione fatta senza essersi purificata l’anima gli si sarebbe tramutata in bocca in veleno ed egli avrebbe dovuto allontanarsi insozzato e dannato per sempre dalla balaustra dell’altare. Bisognava che l’indomani mattina bevesse acqua ‘per sbaglio’, ponendosi, secondo le leggi della Chiesa, nell’impossibilità di ricevere quel giorno la comunione”.
(Da bambini si deve imbrogliare Dio, avendo a cuore sé stessi, la salute mentale, la sopravvivenza psichica e talvolta anche fisica. Ma come imbrogliare, bambini, il sentimento di bassezza insinuato fin dai primi anni dall’idea di Dio? Sia la schiavitù, che sembra alleviarlo, sia la ribellione, che sembra liberarne, invece lo accrescono: senza il genio dell’immaginazione, senza un atto creativo più potente dell’onnipotente ― Dio non c’è, nel mondo ch’è il mio ― dal labirinto non si esce).
Suo padre, però, l’aveva scoperto. Carl Miller ― un uomo che “due cose legavano alla vita: la fede nella Chiesa Cattolica Romana e una mistica adorazione per James J. Hill, il costruttore dell’Empire”; non il figlio, no, né un qualsiasi altro umano o non umano realmente esistente: “per vent’anni egli aveva vissuto solo con il nome di Hill e con Dio”, e per tutta la vita “non aveva fatto che rielaborare decisioni prese da tempo da altri: mai aveva saggiato nelle proprie mani l’equilibrio di una sola cosa” ― Carl Miller “aveva udito un suono furtivo giungergli dalla cucina, era stato in ascolto, la leggerezza dei passi gli aveva detto che non si trattava di sua moglie, e allora, con la bocca lievemente socchiusa” ― immagine del godimento di chi ha scoperto, prima o poi, che colpire e ferire e uccidere almeno col pensiero nel nome di Dio è l’unico sollievo possibile dal sentimento della propria bassezza, se non si esce dal labirinto ― “si era precipitato giù per le scale e aveva spalancato la porta della cucina”.
Sorpreso col bicchiere in mano, Rudolph, “tradito”, come ogni innocente di fronte a un aguzzino, “dalla sincerità della propria immaginazione”, aveva commesso uno sbaglio: aveva detto di essersi dimenticato che avrebbe dovuto fare la comunione ― e questa, come sappiamo, era una bugia ― ma che non aveva ancora bevuto neanche una goccia d’acqua: e questa era la verità, ma lo costringeva a comunicarsi, cioè a “indurre in tentazione i fulmini ricevendo il Corpo e il Sangue del Cristo con il sacrilegio nell’anima”. E così era stato aspramente redarguito per una negligenza di cui non era colpevole ― “«se sei così smemorato da non ricordare la tua religione»“ aveva detto suo padre, “«bisognerà fare qualcosa di drastico al riguardo. Cominci con il trascurare la tua religione e sùbito dopo diventi un bugiardo e un ladro, e allora ti aspetta il riformatorio!»“ ― mentre per la sincerità la sua situazione non era migliorata in alcun modo. Sincerità incompleta, certo ― irrisoria, anzi: “non aveva bevuto”, solo questo aveva detto a suo padre di tutto ciò che gli era accaduto e lo tormentava, solo questo minuscolo pegno era riuscito a pagare alla “sincerità” di cui il rapporto tra un padre e un figlio (come potrebbe essere) era colmo nella sua “immaginazione” ― ma come avrebbe potuto dir tutto, come essere così pazzo da far come se Dio non fosse vero e fosse vero il padre ideale che esisteva soltanto nella sua immaginazione? “Sarebbero state percosse feroci”, lo sapeva, e ― ciò che “più paventava” ― sarebbe stata “la ferocia selvaggia, sfogo dell’uomo incapace” (cioè dell’uomo reso impotente dal disprezzo religioso per sé stesso) “che dietro le percosse si sarebbe celata”.
Eppure la lealtà di Rudolph nei confronti di suo padre era stata totale, alla fine, anche se solo entro i confini del rapporto con lui, quando “un’enfasi non voluta” nella voce di quest’ultimo ― “«E in chiesa, prima di fare la comunione faresti bene a inginocchiarti e a chiedere a Dio di perdonare la tua sbadataggine»“ ― aveva agito “come una sostanza catalizzatrice con la confusione e il terrore” del bambino: “un’ira sfrenata e orgogliosa si era gonfiata in lui, egli non l’aveva nascosta, e con rabbia” ― manifestando al padre con piena sincerità quel che sentiva ― “aveva scagliato il bicchiere nel lavandino”.
Era stato brutalmente picchiato, per aver per un attimo creduto più in suo padre che in Dio: “il tonfo sordo di un pugno sul lato della testa, trascinato o sollevato quando istintivamente si avvinghiava a un braccio, conscio del vivo dolore di colpi e torsioni”. Aveva respinto la madre, “disprezzandone la nervosa impotenza”, quando ella aveva tentato “di applicargli sul collo la tintura d’arnica”. E poi, in chiesa, prima della comunione, “lo aveva colmato una lagrimosa esultanza. Mai più sarebbe riuscito a porre con facilità un’astrazione di fronte alle esigenze della sua quiete e del suo orgoglio. Un confine invisibile era stato oltrepassato, ed egli era divenuto consapevole del proprio isolamento... conscio del fatto che esso si applicava non solo ai momenti in cui era Blatchford Sarnemington, ma anche a tutta la sua vita interiore. Fino a quel momento, fenomeni come le ‘folli’ ambizioni, i meschini pudori e timori, altro non erano stati se non riserve private, non riconosciute dinanzi al trono della sua anima ufficiale. In quel momento capì inconsciamente che le sue riserve private si identificavano con lui stesso: la pressione dell’ambiente lo aveva spinto sulla strada solitaria e segreta dell’adolescenza”.
Così ― mentre suo padre (troppo tardi per non pensare, noi lettori, che non sia che un fatuo ghiribizzo da demente) guardandolo inginocchiarsi dinanzi all’altare si sentiva “orgoglioso di lui e incominciava a essere sinceramente, e non solo formalmente, dispiaciuto di quel che aveva fatto” ― Rudolph “rabbrividiva” udendo la campanella della comunione. “Non v’era motivo per cui Dio non dovesse fermargli il cuore”, aveva pensato. “Nelle ultime dodici ore aveva commesso una serie di peccati mortali, uno più grave dell’altro, e stava ora per coronarli con un empio sacrilegio. «Domine, non sum dignus...»“
Ma ormai era Blatchford Sarnemington per sempre, il ragazzino che valeva troppo per esser figlio di Carl Miller, e la sua vera identità era “il suo isolamento”: aveva preso la comunione e poi, “solo con sé stesso, madido di sudore, immerso fino al collo nel peccato mortale, tornando al banco aveva udito il picchiare secco dei suoi zoccoli biforcuti risuonare forte sul pavimento e aveva saputo ch’era il nero veleno chiuso nel suo cuore”.
“Domine, non sum dignus”... Il ragazzino Rudolph Miller ― il ragazzino Blatchford Sarnemington ― porta fino in fondo la ribellione comunicandosi “immerso fino al collo nel peccato mortale”, ma... non la porta fino in fondo. Non osa il “Non est Dominus, sum dignus”, l’atto creativo più potente dell’onnipotente ― Dio non c’è, nel mondo ch’è il mio ― non osa disconoscere la creazione del mondo ricreandolo per sé senza Dio, e dal labirinto non esce. E allora dove può andare a finire se non nelle fauci del Minotauro ― dell’uomo che la volontà di “unirsi a Nostro Signore” ha diviso dall’essere umano ― nella “stanzetta stregata” del (cosiddetto) padre Schwartz? Dio abbandona ai (cosiddetti) padri i figli che i padri abbandonano a Dio, se i figli non riescono a farsi padri di sé stessi e creatori del proprio mondo.
Rudolph infatti è lì, ora: “il bellissimo ragazzino dagli occhi di smalto celeste, dalle ciglia che si aprono intorno a quegli occhi come petali di fiori, ha confessato a Schwartz il suo peccato. [...] I gelidi, umidi occhi di Schwartz sono fissi sul disegno del tappeto [...] e dalla brutta stanza [...] si alza una rigida monotonia frantumata di tanto in tanto dai riverberi nell’aria secca del picchiare di un lontano martello. I nervi del sacerdote sono tesi fino al punto di rottura e i chicchi del suo rosario strisciano e si contorcono come serpenti sul panno verde che riveste la scrivania. Il sacerdote non riesce a ricordare che cosa dovrebbe dire. Tra tutte le cose esistenti nella sperduta cittadina svedese, egli è soprattutto conscio degli occhi di quel ragazzino... gli occhi bellissimi con le ciglia che se ne staccano con riluttanza incurvandosi all’indietro come per riunirsi di nuovo a essi...” Non vi dico cosa succede dopo. Lascio il (cosiddetto) padre Schwartz lì dov’è ― mi piacerebbe che il lettore di queste righe senta, ora (come ho sentito io leggendo per la prima volta “Assoluzione”) che si deve accorrere a difesa, dove un bambino è di fronte a un (cosiddetto) padre, e senza perder tempo corra a continuare da sé queste pagine ― e aggiungo, con Francis Scott Fitzgerald, solo che Rudolph, qualsiasi cosa accada nella stanzetta stregata, “sente che le proprie intime convinzioni sono state confermate: esiste in qualche luogo qualcosa di ineffabilmente splendido e questo qualcosa non ha niente a che vedere con Dio”. E intanto “fuori della finestra, lo scirocco turchino tremola sul frumento, e fanciulle dai capelli gialli camminano con sensualità lungo strade che annodano i campi, gridando cose innocenti, eccitanti, ai giovani che lavorano nei solchi tra il frumento. Gambe si delineano sotto la cotonina non inamidata e le vesti son calde e umide sull’orlo delle scollature. Per cinque ore la vita ardente e fertile ha bruciato nel pomeriggio. Di qui a tre ore scenderà la notte, e in tutta la regione quelle bionde fanciulle nordiche e quegli alti giovani delle fattorie andranno a coricarsi accanto al frumento, sotto la luna”.
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74. Fitzgerald, Francis Scott: “Babilonia Rivisitata”
Di Francis Scott Fitzgerald (1896 ― 1940), grandissimo e infelicissimo scrittore, ho scelto di postare le foto di due romanzi celeberrimi: ieri “Tenera è la Notte” (1934) e oggi “Il Grande Gatsby” (1925). Ma invece vi sto parlando di due racconti che amo immensamente: ieri “Assoluzione”, che scrisse nel 1924, e oggi “Babilonia rivisitata”, del 1930.
Rovinato dalla Grande Crisi, Charlie Wales, di trentacinque anni e “piacevole aspetto” ma con “una ruga profonda tra gli occhi” (ai bei tempi uno dei “masters of the Universe” della Borsa di New York: “una specie di clan reale, quasi infallibile, circondato da un che di magico”) si sta pian piano riprendendo: è di nuovo “in affari”, questa volta nell’Europa dell’Est, dove gli hanno affidato la rappresentanza di “un paio di ditte” (“laggiù non mi conoscono”, dice: sa che se lo conoscessero non si fiderebbero) e comincia a rivedere un po’ di denaro: non ancora la ricchezza fuor di misura dei giorni delle “banconote da mille regalate a orchestre per aver suonato un singolo pezzo” o delle “banconote da cento messe nelle mani di un portiere per aver chiamato un tassì” ― niente a che vedere con quegli “anni folli”, per il momento ― ma abbastanza soldi per sentire “le porte del mondo di nuovo spalancate”.
Per questo ha la forza, dopo tre anni, di tornare a Parigi, dove “ai tempi delle quotazioni in rialzo” si era “ritirato” a sperperare i milioni accumulati in America: poiché da un anno e mezzo non beve (“solo un whisky ogni pomeriggio, non una goccia di più”, e anche quel poco “volutamente, per impedire che l’immaginazione attribuisca un’importanza esagerata all’idea dell’alcool”); poiché “gli affari vanno a gonfie vele”; poiché, insomma, “le cose sono cambiate, sono cambiate radicalmente”, e Charlie ― un uomo nuovo: che ha sofferto e fatto soffrire, ma che sente di essersi riscattato dalla follia di quegli anni ― vuol ritrovare l’unica persona “che per lui abbia importanza”, l’unica che gli è rimasta: Honoria, una bambina di nove anni che non lo vede da quando ne aveva sei. Da quando Charlie si è dato alla fuga, dopo la morte della moglie, lasciando la figlia agli zii materni.
Anche Parigi è cambiata, da prima della Grande Crisi. Locali quasi deserti, pullman turistici semivuoti, la notte buia perfino a Montmartre, maître che al passaggio di Charlie si fanno sulla porta a invitarlo dentro, gli “amici” di un tempo scomparsi ― chi gravemente malato, chi dileguatosi seminando assegni a vuoto, chi tornato in America a cercare di rifarsi una vita... Nei ritrovi, solo “giovani donne dalla voce stridula”: “Niente le tocca,” pensa Charlie. “Le azioni salgono o crollano, la gente ozia o lavora, ma loro continuano, imperterrite, come sempre”. Lui invece, che “non ha mai mangiato in un ristorante realmente economico di Parigi”, ora “per qualche strano motivo vorrebbe averlo fatto”.
Ora, nel rammaricarsi di esser di quelli che non sanno cosa sia un ristorante economico, Charlie comprende, sentendo l’”improvviso provincialismo” della città, (“adesso ci sono così pochi americani, in giro”, dirà Marion, la cognata che per tre anni ha fatto da mamma a Honoria, “che almeno puoi entrare nei negozi senza che ti credano milionario”) che quel che non c’è più non se n’è solo andato: è stato sprecato. E non per caso, non per il gusto di sprecare, ma per “annullare”.
Tutto quel denaro, infatti, “non è stato dato via in cambio di niente; è stato dato, anche la somma sperperata nel modo più pazzo, come un’offerta al destino, perché a Charlie fosse concesso di dimenticare quel ch’è più degno di essere ricordato, quel che ora ricorderà sempre: la bambina tolta alla sua autorità di padre, la moglie rifugiatasi in una tomba del Vermont”. Sì, ora Charlie comprende, con disperato orrore, di “averla guastata lui, per sé, quella città: non se n’era accorto, mentre i giorni si susseguivano gli uni agli altri, e poi, a un tratto, ecco che se n’erano andati due anni: ecco che tutto se n’era andato, compreso lui”.
Ma è davvero così? Charlie e gli altri (i “padroni dell’Universo” degli “anni folli”, quelli che “in ultimo”, con la Grande Crisi ormai incombente, “non lavoravi neppure e non facevi che arricchire sempre più”, arricchire e sperperare) davvero hanno guastato solo per sé le città e le nazioni, o anche e soprattutto per i milioni di donne e di uomini e di bambini che con sé hanno trascinato nella rovina?
Eppure gli altri, le vittime, non solo sono sopravvissuti, ma in qualche modo stanno meglio di lui. Anche ora che Charlie si è ripreso, e già guadagna “il doppio di loro”, gli altri, quelli che ricchi non son mai stati e nella crisi “hanno tirato avanti risparmiando il centesimo” ― la cognata “dagli occhi preoccupati”, che ha perduto la “bellezza fresca” di prima; suo marito, Lincoln, per tutta la vita un impiegatuccio (o almeno così sembra a Charlie, che “si domanda se non possa far qualcosa per toglierlo alla routine della banca”); i due figli, che a scuola non vanno bene: possibile che Marion e Lincoln li abbiano trascurati per Honoria, orfana e abbandonata per colpa del padre? ― tuttavia in qualche modo stanno meglio di Charlie. Poiché da loro “fa caldo, è una casa, persone vicine accanto al fuoco”. I bambini, anziché trascurati, “si sentono molto al sicuro e importanti; la madre e il padre sono seri, vigili. Hanno da fare, per i figli, cose più importanti della sua visita. Non che siano persone insignificanti e noiose, ma si trovano nella morsa della vita e delle circostanze”. E in quella “morsa” non solo “la vita”, non solo “le circostanze”: tutto, a parte la “bellezza fresca”, è più difficile sprecare e annullare. Ecco perché stanno meglio di Charlie, quelli che non hanno mai neanche immaginato di poter essere ricchi come lo è stato lui, e come forse sarà di nuovo ora che la Crisi sta passando.
Non tutti, però. Stanno bene, pur nella “morsa”, quelli che come Marion (e in parte suo marito) hanno sempre diffidato, sempre rinfocolato l’antipatia che fin dall’inizio li ha divisi da Charlie e da quelli come lui (“le persone di quel genere la sconvolgono fisicamente”, dice Lincoln della moglie, e certo non si riferisce a Charlie, ma... in fondo sì, si riferisce anche a lui). Stanno bene quelli che hanno odiato Charlie e gli altri “masters of the Universe”, e contro di loro “hanno eretto un muro”. Mentre la povera Helen, la sorella di Marion, che di Charlie si è perdutamente innamorata, e l’ha sposato, e ha fatto una figlia con lui, e per lui è morta ― “era malata di cuore”, dice Charlie, poiché sa che è morta di crepacuore ― Helen e quelli come Helen non stanno bene, non sono sopravvissuti: sono morti. Di chi stava con Charlie e gli voleva bene, si è salvata solo sua figlia, che ancora lo ama malgrado tutto. Ma solo perché Lincoln e Marion l’hanno presa con sé, nella “morsa”, togliendola a Charlie e a quelli come lui. Quelli che dalla “morsa” erano “liberi”. “Liberi” di sperperare, disperdere, non ricordare. Annullare.
Ora Charlie ha capito. E rivorrebbe Honoria con sé ― finché ancora è in tempo, per i pochi anni che mancano a quando Honoria “crescerà e conoscerà qualcuno della sua età, e lo sposerà e si dimenticherà di aver avuto un papà” ― rivorrebbe quella sua figliola da lui abbandonata e resa orfana (“non potrò mai dimenticare, finché vivrò”, lo rimprovera Marion, “la mattina in cui Helen venne a bussare alla porta di casa mia, bagnata fino alle ossa e tremante di freddo, e disse che tu l’avevi chiusa fuori”. E Charlie, che ora sa, e ricorda, e ha finito di sperperare, non può non riconoscere che sì, è così, prima della crisi lui e quelli come lui “chiudevano fuori nella neve le mogli” poiché la neve degli anni folli “non era neve reale: se non si voleva che fosse vera neve, bastava sborsare un po’ di denaro” e andarsene, “liberi” dalla “morsa” delle mogli e dei figli, col gran codazzo appresso di quelli che seguivano i “padroni dell’Universo” come cani: “le persone incapaci di fare una somma o di mettere insieme una frase coerente; l’ometto con cui Helen aveva accettato di ballare alla festa a bordo del transatlantico, e che l’aveva offesa a tre metri dal tavolo; le donne e le ragazze trascinate fuori dai locali pubblici, strillanti nell’ebbrezza dell’alcool e degli stupefacenti... gli uomini che chiudevano fuori nella neve le mogli...”) poiché, ora che tutto questo è sparito, cos’è rimasto a Charlie del mondo che un tempo spendeva e sprecava come se ne fosse il padrone? Solo Honoria, solo sua figlia. È lei “the Universe”, adesso, ma lui non è il suo padrone. È lei, è l’amore di sua figlia ― salvata da Marion e Lincoln, gente comune, di quelli che hanno sempre “tirato avanti risparmiando il centesimo” ― è il rapporto con Honoria il solo mondo in cui l’ex “padrone dell’Universo” esiste ancora, ancora può fare, ancora è un essere umano reale, vivo, non “un fantasma improvvisamente emerso dal passato”. Poiché l’amore del padre per la figlia non è come l’amore della figlia per il padre. Non lo è mai, non può esserlo, ma in particolare non lo è per questi due: l’amore di Honoria è l’amore gratuito di una bambina che non ha ancora cominciato ad annullare e forse mai comincerà (benché il padre si dica certo che “crescerà e conoscerà qualcuno della sua età, e lo sposerà e si dimenticherà di aver avuto un papà”), mentre quello di Charlie per lei è l’amore disperato di chi ha sperperato e annullato tutto, tutto ― ha tramutato il mondo in denaro e l’ha speso ― ma per inconcepibile, immeritata fortuna ha riavuto salva la figlia, nonostante lui, da due di quelli che ha sempre disprezzato: un uomo e una donna “qualsiasi”, una “qualsiasi” mamma, un “qualsiasi” lavoratore.
Riuscirà Charles J. Wales, di Praga ― uomo nuovo, che ha più niente a che fare coi Charlie Wales di Wall Street e di Parigi, non beve più, non sperpera, non annulla, e “nella bianca, morbida luce che si diffonde all’alba su chi è in bilico tra il sonno e la veglia si sorprende a parlare di nuovo” alla moglie che abbandonò nella neve ― riuscirà a riavere sua figlia, a metter sù casa con lei, a “far venire la sorella dall’America” perché lo aiuti, a “non soffocare in alcun modo la personalità” della bambina, a “non amarla troppo”, “con un attaccamento eccessivo”, a “proteggerla” (“si sentiva travolto da un’ondata possente di desiderio di protezione”), a “immettere in lei una piccola parte di sé prima ch’ella si cristallizzi del tutto”, e però anche ad “aver fede nel suo carattere in quanto elemento eternamente valido”?... Sì, sono belle le immagini, belli i pensieri di Charlie sull’unica parte del mondo ― sua figlia ― in cui egli ancora esiste dopo aver “guastato, per sé,” tutto il resto. Ma egli riavrà Honoria solo se riuscirà a render belle le immagini, belli i pensieri su di lui DEGLI ALTRI, di coloro che hanno il potere di restituirgliela o no. E se ci riuscirà o meno spero che lo scopriate da soli leggendolo.
Lo storico, naturalmente, della Grande Crisi parla in modo diverso...
“In questo clima psicologico e politico, e nel pieno di una prosperità in cui alcuni punti d’ombra parevano trascurabili (zone di disoccupazione, eccessi nelle speculazioni finanziarie, aumento della criminalità) viene trionfalmente eletto alla presidenza degli Stati Uniti un repubblicano. (...) Non è facile individuare con esattezza tutte le cause della Crisi che, partita dall’America, coinvolse quasi immediatamente i paesi europei e investì con ondate successive il resto del mondo. Le interpretazioni «ufficiali» mettono l’accento sulla folle corsa alle speculazioni finanziarie e borsistiche e sullo spirito di avventura di improvvisati uomini d’affari statunitensi, (...) che certamente contribuirono ad accelerare i tempi della crisi; ma la sua forza distruttiva e le sue estese ripercussioni risulterebbero in parte inspiegabili se non si tenesse conto: 1, del carattere «subalterno» al capitale americano del capitale europeo, latino-americano, asiatico; 2, delle tendenze economiche prevalenti nel decennio precedente la crisi: scarsi investimenti nei maggiori settori produttivi (...), scarso o fittizio incremento del potere d’acquisto (scarsità camuffata dall’esplosione delle vendite rateali), permanere di una estesa disoccupazione o sottoccupazione, politica di bassi salari; 3, della quasi totale assenza, negli USA come in Europa, di un efficace controllo da parte dello Stato sul sistema bancario privato (ciò che permise alle banche di impegnarsi in iniziative imprenditoriali utilizzando il denaro dei risparmiatori e di manovrare i titoli azionari di cui erano in possesso lanciandosi in imprese speculative azzardate). Solo in questo quadro, che è tuttavia lungi dall’essere completo, possono valutarsi le premesse della Grande Crisi che privò del lavoro decine di milioni di persone in tutto il mondo, spinse al fallimento decine di migliaia di imprenditori e falcidiò le economie di milioni di risparmiatori” (Rosario Villari, “Storia contemporanea”, Bari, 1970, Editori Laterza). Ricostruzione esatta, valida, interessante. Ma lo storico non dice tutto, e lo riconosce. Manca quel di più che per vederlo, o quanto meno intuirlo, si ha da essere anche “artisti”. Non aver troppo intorbidato il “fondo” immaginoso e creativo che è per nascita in ognuno di noi. E poter scorgere, così, o almeno intuire, anche la “neve” in cui i Charlie Wales (poiché tanto “non è neve reale: se si vuole che non sia vera neve, basta sborsare un po’ di denaro”) abbandonano le mogli, le figlie, e milioni di Marion e di Lincoln che “tirano avanti risparmiando il centesimo”. Credendosi, i Charlie Wales, padroni del mondo. Mentre un mondo ― anche se piccolo ― può averlo e serbarlo soltanto chi non si fida di loro.
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75. Flaubert, Gustave: “La Signora Bovary”
C’è chi sostiene che Emma Bovary non sia capace di vedere e apprezzare le gioie che la vita le ha dato: un marito che le vuol bene, una bella figlia, il benessere economico, la stima dei concittadini. Da questa incapacità dipenderebbe la sua insoddisfazione, da cui Emma non guarisce perché quel che cerca, in realtà, non esiste. Infatti è stata paragonata a Don Chisciotte: anche lei si sarebbe lasciata suggestionare da stupidi romanzetti, anche lei sarebbe partita alla ricerca di qualcosa che non c’è, e anche lei a una vaga, insensata aspirazione avrebbe sacrificato tutto, perfino la vita. Hanno dato anche un nome alla sua “malattia”: la chiamano “bovarismo”.
Ma se tutto questo fosse vero, perché Flaubert ci avrebbe dato un’immagine così ripugnante degli uomini che Emma ha la sventura di incontrare?
Fin dalla prima pagina il suo futuro marito, Charles Bovary, è descritto come uno stupido totale, a partire... dal cappello: “Uno di quegli squallidi oggetti che hanno nella loro muta bruttezza non so che profondità d’espressione, come il volto d’un imbecille”. E fino all’ultima il sentimento più benevolo dello scrittore per questo personaggio è un pietoso disprezzo. E che dire di (quasi) tutti gli altri uomini che Emma si ritrova intorno a Yonville? Li riassume e li rappresenta il farmacista Homais, grossolano, stupido, anaffettivo, ma al dunque “vincente” perché l’insensibilità lo preserva dai sentimenti che fanno soffrire le donne come Emma: “Il signor Homais” ― sono le ultime parole del romanzo ― “ha una clientela che fa spavento; l’autorità lo tratta con riguardo e l’opinione pubblica lo protegge. Ha avuto recentemente la Legion d’Onore”.
C’è chi difende Charles Bovary sostenendo che ama sua moglie anche se lei non lo ama. Ma è un “amore” pieno d’odio e di disprezzo: mai, neanche per un attimo, egli attribuisce all’evidente sofferenza di Emma una causa reale, che si possa capire, affrontare, risolvere. Se ne rattrista, è vero, ma non capirla lo turba invece così poco che sembra dirle che da capire c’è niente. E proprio questo è il disprezzo pieno d’odio che l’apparenza dell’amore cela anche a lui: la tranquilla accettazione del non capirla ― al punto di non sapere di non capirla ― che insensibilmente tramuta in un oggetto privo di significato la donna che egli crede di amare.
È il medesimo odio e disprezzo che Charles è troppo stupido per saper di nutrire non “solo” per Emma, ma per tutti gli esseri umani, come dimostra l’orrendo esperimento “in corpore vili” con cui porta Hippolyte sull’orlo della tomba e gli fa perdere una gamba.
No: la “tranquillità” di Charles, il suo essere un “uomo come si deve”, “senza grilli per il capo”, “mite”, “innamorato della moglie”, nascondono qualcosa di orrendo: Emma, come Hippolyte, è vittima della sua incapacità di difendersi da un normalissimo... mostro.
“In fondo all’anima, Emma attendeva un avvenimento. Come i marinai che si sentono perduti, volgeva di qua e di là sguardi disperati, cercando in lontananza qualche vela bianca, tra le nebbie dell’orizzonte. Non sapeva che cosa aspettasse, quale caso; né da qual vento questo sarebbe portato, né a qual riva condurrebbe lei; se fosse scialuppa o bastimento grande, se carico d’angosce o pieno di felicità fino alle murate. Ma ogni mattina, appena sveglia, incominciava a sperare che sarebbe venuto appunto quel giorno; e ascoltava tutti i rumori, si alzava di soprassalto, si stupiva che non capitasse nulla; poi, al tramonto, sempre più triste, desiderava di esser già al domani.”
Emma, a Yonville, è la più umana e la più sana. Non è lei a essere “sbagliata”. Lo sono gli altri, per i quali la vita è fatta solo di mangiare, bere, dormire, far soldi, opprimere e violentare i deboli e credere di “amare” i forti che in un modo o nell’altro hanno potere su di loro.
Però Emma una colpa ce l’ha, ed è per essa, forse, che Flaubert la tratta spesso con un po’ di “rabbia”, come una figlia che lo delude: non sa cosa vuole davvero, non sa cosa le manca. Sa soltanto che le manca qualcosa, ma non fa alcuna ricerca per capire che cos’è. In questo è come suo marito, poiché anche lei è insensibile a sé stessa e si odia e si disprezza quasi come la odia e la disprezza lui. Crede che tutto andrà a posto, nella sua vita, se un uomo diverso s’innamorerà di lei. Ma non è questo il suo sbaglio, è valido il pensiero, se qualcuno delude, che qualcun altro possa soddisfare... Il suo sbaglio è credere che un uomo diverso dal marito sarebbe tale per l’eleganza, la raffinatezza, il saperci fare con le donne, il saper parlare di poesie e di tramonti. E poiché non è questo quel che davvero le manca, si fa ingannare da uomini non meno senza cuore di Charles Bovary, dietro le loro maschere più o meno riuscite.
Poi, dopo il funerale di Emma, mentre “Charles non tarda a calmarsi, provando forse, come gli altri, il vago sollievo che tutto sia finito”, mentre “Rodolphe dorme tranquillo nel suo castello, e Léon dorme anch’egli, laggiù”, “c’è un altro che invece non dorme: inginocchiato sulla fossa, tra gli abeti, un ragazzo piange, col petto rotto dai singhiozzi, ansando nel buio, sotto il peso d’un immenso rimpianto più dolce della luna e più inscrutabile della notte...” È Justin, il commesso del farmacista, “un lontano cugino del signor Homais ch’è stato preso in casa per carità e fa anche servizio di domestico”. Justin, lui sì, ha amato Emma di quell’amore puro e assoluto che avrebbe potuto salvarla. Ma lei non se n’è accorta, mai. E proprio per questa cecità, ch’è odio quasi come l’odio del marito o di Homais, muore con l’orribile visione del mendicante cieco.
(P.s.: scusate la mia copia un po’ sciupata, ma è del ‘64). Gustave Flaubert (1821 ― 1880). “Madame Bovary” (1857).
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76. Fleming, Ian: “A 007 dalla Russia con Amore”
Lo ammetto: fra i tredici e i quindici anni (1964 ― 1966), James Bond (finché lo interpretò Sean Connery: i film successivi non volli vederli) fu il mio eroe, l’uomo che sarei voluto diventare e che in cuor mio imitavo: in cuor mio, dico, poiché nella realtà non potevo, purtroppo. Avidamente leggevo e rileggevo i romanzi di Ian Fleming senza curarmi di “spoilerare” i film a me stesso. Anche perché, del resto, i film cominciarono fin dal primo ad “addolcire” i romanzi per adeguarli al “disgelo” fra Usa e Urss e all’ipocrisia statunitense. In quegli stessi anni leggevo anche ben altro. “Madame Bovary”, per esempio, di cui vi ho parlato ieri, l’ho letto a tredici. E in effetti ebbi anche altri eroi, altri modelli: Tom Sawyer dagli otto ai tredici (e per tutta la vita) e poi Johnny Hunter, il protagonista di “A Summer Place” (come sopra). Ma James Bond riempì un vuoto, nella mia adolescente immaginazione: fu il duro grazie al quale loro, i teneri, sopravvissero in me alle altrui e alle mie offese. Poi, dai sedici-diciassette anni ai trenta, su Tom Sawyer e Johnny Hunter prevalse, ma non li cancellò, Benjamin Braddock de “Il Laureato” (non il più bel film della mia vita, ma di gran lunga quello che ho visto più volte) e a James Bond si affiancò Philip Marlowe (si assomigliavano: non per niente Fleming e Chandler erano grandi amici). E infine, quando divenni insegnante e poi padre, a tutti loro si unì e si sovrappose Atticus Finch. Un bel miscuglio, eh? I romanzi di Ian Fleming, oggi, sono quasi impossibili da rileggere (ma io li ho ancora con me, e li ho riletti) e impossibili, per quel che so, da ripubblicare e perfino da tenere in biblioteca: sebbene antifascista, (aveva combattuto i nazisti nella Seconda guerra mondiale), era anche aspramente anticomunista, misogino, “omofobo” (come si dice oggi), perfino razzista, e i suoi romanzi grondavano di tali “sentimenti” quasi a ogni pagina. Ma io, allora, a tredici anni, benché fossi ateo già da due, non immaginavo che di lì ad altri sei, diventato comunista, sarei entrato in conflitto col mio eroe. E quando avvenne, del resto, mi tenni il conflitto senza troppe difficoltà. Me lo son tenuto fino a oggi, a dire il vero. James Bond, in me, è ancora in servizio: mi dà una mano contro la “cancel culture”. E io gliene sono grato. Purché, s’intende, continui come sempre a coesistere pacificamente con gli altri miei eroi. IanFleming (1908 ― 1964). “Dalla Russia con Amore" (1957).
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77. Foer, Jonathan Safran: “Estremamente forte, incredibilmente vicino”
Succede solo a me? Dopo vent’anni, la tragedia di coloro che morirono nelle Twin Towers mi commuove ancora fino alle lacrime di dolore inguaribile e di rabbia impotente. “Più” di ogni altra in vita mia ― “più” fra virgolette, perché so che le emozioni non si possono quantificare, e non lo faccio, e invero non c’è tragedia che non mi commuova, ma quella... quella non posso impedirmi di sentirla come se sia morto lì qualcuno che mi era caro, e con lui una parte di me. Come se soffra, ancora oggi, di una sorta di stress post-traumatico. Perché? Fu l’uragano mediatico di quei giorni a fissarla in me fino a questo punto? O il fatto ― e in tal caso mi sembra che non potrei non vergognarmene ― che con le vittime dell’11 settembre 2001 condividevo, più che con altre... praticamente tutto ― il mio vissuto, le mie esperienze, la mia storia? Ma ecco, ora comprendo che non è vero: ogni tragedia è per me orribile e dolorosa, ma è stata quella ― a cinquant’anni, quando già ne avevo viste tante, troppe ― ad aprirmi infine a tutte completamente il cuore quasi più di quel che posso sopportare, ed è per questo che mi sembra, ma non è così, di sentirla più delle altre.
Come saprete, il protagonista di “Estremamente forte, incredibilmente vicino” (2005), di Jonathan Safran Foer (1977 ― vivente) è un bambino di nove anni, Thomas, che nell’attacco alle Twin Towers ha perduto il padre.
Ho appreso della sua esistenza (e di quella del film, che è del 2011) solo nell’estate del 2016, leggendo “Autolesionismo ― Quando la pelle è colpevole”, di Cecilia Di Agostino, Marzia Fabi e Maria Sneider (L’asino d’oro edizioni), che nelle ultime pagine parlano del film. E naturalmente ne sono loro grato. Ma dopo aver visto il film volli leggere il romanzo: non posso farne a meno, quando un film mi piace, e scopro sempre (unica eccezione: “Shining”) che il romanzo è di gran lunga più bello.
Chi conosce solo il film crede che la storia finisca, banalmente e velenosamente, con Thomas che trova l’ultimo messaggio del padre sotto l’altalena e supera la paura della medesima. Il che, banalmente e velenosamente (mi meraviglia e mi rattrista che Foer lo abbia accettato) insinua che alla fine sia il padre a salvare il figlio mentre è vero l’opposto: il padre era uno splendido padre, e ha fatto tantissimo, ma alla fine è il figlio a salvare sé stesso (e la memoria del padre), come scoprirà chi conosce solo il film se leggerà il romanzo e arriverà all’ultima pagina che naturalmente non racconto.
Racconto, invece, una differenza non meno importante...
Chi conosce solo il film crede che per “Estremamente forte, incredibilmente vicino” la tragedia delle vittime delle Twin Towers sia la più mostruosa di tutti i tempi. Ma non è vero: il romanzo ― più umano e più onesto del film (statunitense come il libro) di Stephen Daldry ― affianca loro, con eguale dignità e provando e suscitando il medesimo orrore, le vittime di Dresda e le vittime di Hiroshima, centinaia di migliaia di bambini, di donne e di uomini bruciati o liquefatti vivi dai padri e dai nonni delle vittime delle Twin Towers.
“Avevo letto il primo capitolo di ‘Dal Big Bang ai Buchi Neri’ quando papà era ancora vivo, e le scarpe mi erano diventate incredibilmente pesanti per come la vita è relativamente insignificante e, in confronto con l’universo e con il tempo, non importa nemmeno che io esista o no” ― be’, ecco un’idea che ogni volta che la sento mi fa cadere le braccia, e il libro dalle mani una volta per tutte. Ma sentite come Thomas continua, e capirete perché questa volta ho continuato a leggere, invece:
“Quella sera, mentre papà mi rimboccava le coperte e stavamo parlando del libro, gli avevo chiesto se non gli veniva in mente una soluzione a quel problema. «Quale problema?» «Il problema che siamo relativamente insignificanti». Lui mi ha detto: «Ma... cosa succederebbe se un aereo ti lasciasse al centro del deserto del Sahara, e tu raccogliessi un singolo granello di sabbia con le pinzette e lo spostassi di un millimetro?» Ho risposto: «Probabilmente, morirei disidratato». E lui: «No, intendo solo in quel momento, quando sposti il granello. Cosa vorrebbe dire?» «Non lo so. Cosa?» Lui mi ha detto: «Pensaci». Ci ho pensato. «Credo che avrei spostato un granello di sabbia». «E questo significherebbe che?...» «Il fatto che ho spostato un granello di sabbia?» «Significherebbe che hai cambiato il Sahara». «E allora?» «Allora? Allora, il Sahara è un grande deserto. Ed esiste da milioni di anni. E tu lo avresti cambiato!» «È vero!» ho detto, alzandomi a sedere. «Avrei cambiato il Sahara!» «E significherebbe che?...» mi ha chiesto ancora lui. «Cosa? Dimmelo tu». «Be’, non sto parlando di dipingere la ‘Gioconda’ o sconfiggere il cancro, ma solo di spostare di un milimetro quell’unico granello di sabbia». «E allora?» «Se non l’avessi fatto, la storia umana sarebbe andata in un modo...» «Sì?» «Ma tu lo hai fatto, e dunque?...» Mi sono alzato in piedi sul letto e ho gridato: «Ho cambiato il corso della storia umana!» «Proprio così». «Ho cambiato l’universo!» «Esatto» «Sono Dio!» «Sei ateo». «Non esisto!» Mi sono ributtato sul letto, tra le sue braccia, e ci siamo scompisciati tutt’e due”. (La copertina italiana del libro è grottescamente sbagliata. Solo un designer e un editore che non hanno letto il romanzo e non hanno visto il film possono credere che sia quello “il vaso blu” che il papà di Thomas compra per donarlo alla moglie per il loro anniversario, e che sia quella ― e per di più “crociata” ― la chiave di cui il padre di Thomas non si accorge, ovviamente, poiché “il vaso blu” è di porcellana, non di vetro. Scusatemi per aver postato un tale scempio, ma quello purtroppo è).
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78. Fogazzaro, Antonio: “Malombra”
“Erano un libro di preghiere, uno specchietto piccolissimo con la cornice d’argento, una ciocca di capelli biondi legati con un brandello di seta nera, e un guanto. Marina, attonita, faceva passare e ripassare ciascun oggetto sotto la fiammella della candela. I capelli erano finissimi: parevano d’un bambino. Il guanto, a un bottone solo, era piccolo, stretto, allungato; aveva l’atto d’una cosa viva: conteneva ancora, per così dire, lo spirito della mano delicata che l’aveva portato un giorno. A chi erano appartenuti quegli oggetti? Quale amore, quale occulto disegno li aveva nascosti là dentro? [...] Marina, quasi senza sapere che si facesse, afferrò il libro di preghiere e ne sfogliò le pagine. Ne cade un foglio ripiegato, tutto, tutto coperto di caratteri giallognoli, sbiaditissimi. Ella lo apre e vi legge:
«2 maggio 1802. Per ricordarmi. Ch’io mi ricordi, nel nome di Dio! Altrimenti perché rinascere? Ho pregato la Vergine e Santa Cecilia di rivelarmi il nome che mi sarà imposto allora. Non vollero. Ebbene, qualunque sia il tuo nome, tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l’anima nia infelice. Avanti di nascere hai sofferto tanto, tanto (questa parola era ripetuta dieci volte in caratteri assai grandi) col nome di Cecilia. Ricordati! Maria Cecilia Varrega di Camogli, infelice moglie del conte Emanuele d’Ormengo. [...] Ricordati la visione avuta in questa camera, due ore dopo mezzanotte, le parole di fuoco sfolgoranti sulla parete, parole d’una lingua ignota e tuttavia chiarissime in quel punto alla mia intelligenza che vi intese il conforto e la promessa divina. Mi è impossibile trascrivere quei segni, non ne ricordo che il senso. Dicevano che rinascerei, che vivrei ancora qui fra queste mura, qui mi vendicherei del conte d’Ormengo, qui amerei Renato e sarei riamata da lui. [...] Càmbiati nome! Che io torni a essere Cecilia. Ch’egli ami Cecilia!»“.
“Malombra” (1881), primo romanzo di Antonio Fogazzaro (1842 ― 1910, la cui opera più celebre è “Piccolo Mondo Antico”), è la storia della marchesina Marina Malombra, orfana, che in una villa su un lago lombardo ― dov’è ospite dello zio, conte Cesare d’Ormengo, il cui padre aveva segregato e fatto morire la moglie Cecilia perché si era innamorata di un ufficiale, Renato ― si convince di essere Cecilia reincarnata e di dover vendicarsi sul figlio del suo oppressore.
Fu pubblicato lo stesso anno de “I Malavoglia”, di Giovanni Verga (1840 ― 1922), del quale è agli antipodi per la concezione della Letteratura, della Societa e dell’essere umano perché Antonio Fogazzaro era un fervente cattolico: per tutta la vita si lasciò guidare da sacerdoti e prelati, e quando in punto di morte ne fu ricompensato con la condanna del suo ultimo romanzo, “Il Santo”, all’Indice dei Libri Proibiti, accettò umilmente il castigo.
Eppure “Malombra” è un romanzo indimenticabile, sia per la protagonista, intelligente, orgogliosa, indomita (una ragazza capace di dire allo zio, gran reazionario: “se credessi e andassi a messa vorrei anche poter dirla, ma la parte attiva dell’impostura è oramai tutta presa dagli uomini”), affascinante benché folle, (quante altre folli, affascinanti o non, è dato d’incontrare nella Letteratura italiana d’ogni epoca, e quante nella realtà?), sia per l’eco che vi si sente quasi a ogni pagina di un secolo, il XIX, che osò avventurarsi nella psiche umana e riuscì perfino a intuirne qualcosa, prima che il volgare positivismo freudiano e l’altrettanto volgare misticismo junghiano non vi mettessero una pietra sopra.
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79. Follett, Ken: “I Pilastri della Terra”
Chi ama la Storia ama anche i romanzi storici per la loro meravigliosa capacità di fonderla con le peripezie, i rapporti e gli affetti di coloro che la vivono. Li ama, in altre parole, perché il suo sentimento di sé scaturisce anche dalla percezione, senza la quale s’impoverirebbe o addirittura si spegnerebbe, di vivere entro una sconfinata vicenda collettiva che dal presente si estende a tutto il passato e a tutto il futuro.
Alcuni sono capolavori assoluti, come “Il Dottor Živago”, “Guerra e Pace”, i drammi storici di Shakespeare. Altri, benché non raggiungano quelle altezze, commuovono per la passione con cui le perseguono, come “Via col Vento” e “Passaggio a Nord-Ovest”. Altri ancora sono solo grandi opere di ricostruzione storica, come “Ivanhoe”, “I Promessi Sposi” e i romanzi storici di Ken Follett (1949 ― vivente), ma li ricordiamo con piacere perché, anche se non hanno cambiato le nostre vite, ci hanno offerto viaggi avvincenti in questo o quel tempo in cui fummo talvolta immaginati dai nostri avi.
Da “I Pilastri della Terra” (1989), prologo, “Anno 1123”:
“Era il momento decisivo. Se il condannato si fosse dibattuto ancora, sarebbe morto anche prima. Gli armigeri gli slegarono le gambe e lo lasciarono solo sul carro, con le mani legate dietro la schiena. Sulla folla scese il silenzio. A questo punto c’era quasi sempre un po’ di trambusto. La madre del condannato si metteva a urlare, oppure la moglie estraeva un coltello e accorreva per tentare di liberarlo. A volte il prigioniero invocava il perdono divino, o scagliava maledizioni agghiaccianti contro i carnefici. Gli armigeri si piazzarono ai due lati del patibolo, pronti ad affrontare un eventuale incidente. E in quel momento il condannato cominciò a cantare. Aveva una voce tenorile alta e pura. Le parole erano in francese, ma anche chi non conosceva la lingua capiva, dalla melodia malinconica, che era una canzone molto triste. «Un’allodola presa nella rete Cantava soavemente più che mai, Come se il canto suo potesse ancora Separare le ali dalla rete». E mentre cantava, l’uomo guardava fissamente qualcuno tra la folla. A poco a poco si formò un vuoto intorno a quella persona, e tutti poterono vederla. Era una ragazza di circa quindici anni”.
Dalla Parte quarta, “1142 ― 1145”:
“Jack sorrise. «Quando ho lasciato Kingsbridge con il cavallo di mia madre e gli attrezzi di mio padre in un sacco appeso alla spalla, credevo che esistesse un unico modo per costruire una chiesa: grossi muri con archi a tutto sesto e finestre piccole, sovrastate da un soffitto di legno o da una volta di pietra a botte. Le cattedrali che ho visto mentre andavo da Kingsbridge a Southampton non mi hanno insegnato niente di diverso. Ma la Normandia ha cambiato la mia vita». «Lo immagino» disse Raschid, con voce assonnata. Non sembrava molto interessato, quindi Jack rievocò quei giorni in silenzio. Poche ore dopo lo sbarco a Honfleur era andato a vedere l’abbazia di Jumièges. Era la chiesa più alta che avesse mai visto; a parte questo, aveva i soliti archi a tutto sesto e il soffitto in legno... ma non nella casa capitolare, dove l’abate Urso aveva costruito un soffitto di pietra rivoluzionario. Anziché una levigata volta a botte, aveva nervature slanciate che scaturivano dalle sommità delle colonne e si congiungevano all’apice del tetto. Le nervature erano solide, e le sezioni triangolari del soffitto tra l’una e l’altra erano sottili e leggere. Il frate custode della fabbrica aveva spiegato a Jack che così era più facile costruire: prima si erigevano le nervature, e le sezioni erano più semplici. Era un tipo di volta che pesava assai meno. [...] A Lessay, poco lontano, aveva detto il frate, c’era una chiesa che aveva la volta a nervature dappertutto. L’indomani Jack era andato a Lessay e aveva passato l’intero pomeriggio nella chiesa, a contemplare la volta. Alla fine aveva concluso che la cosa più sorprendente era che le nervature, discendendo dall’apice fino ai capitelli delle colonne, drammatizzavano il modo in cui il peso del tetto veniva sostenuto dai membri più forti. La nervatura rendeva visibile la logica della costruzione”. Una perfetta ricostruzione storica è emozionante di per sé, quando è vissuta da personaggi che sanno rispecchiare noi nelle loro vicende e nell’intera vicenda umana.
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80. Forster, Edward Morgan: “Passaggio in India”
“«Eccetto il mio servitore» disse la signorina Quested, «è troppo se ho parlato a un indiano dal mio sbarco in poi». «Beata voi!» «Ma io voglio vederli». Diventò il centro di un divertito gruppo di signore. Una disse: «Vuole vedere gli indiani! Questa è nuova!» Un’altra: «Gli indigeni! Dio mio, che idea!» Una terza, più seria, disse: «Lasciate che vi spieghi. Non è che gli indigeni vi rispettino di più dopo avervi incontrata, capite?» «Non è raro che dopo un incontro succeda così». Ma la signora, assolutamente stupida e cordiale, continuò: «Voglio dire questo, prima di sposarmi ero infermiera e ne ho visti moltissimi, quindi lo so. Io sugli indiani so la verità vera. Una situazione delle più impossibili per una donna inglese, ero infermiera in uno Stato indigeno. L’unico scampo era di tenersi rigorosamente appartati». «Anche dai pazienti?» «Be’, la cosa più amabile che si possa fare per un indigeno è di lasciarlo morire» disse la signora Callendar. «E se va in paradiso?» domandò la signora Moore, con un sorriso gentile ma pungente. «Può andare dove vuole, purché non venga vicino a me. Mi danno i brividi»”.
Eppure quella stessa signorina Quested, tanto più umana e intelligente delle sue interlocutrici, 150 pagine dopo denuncia alla polizia un indiano, il giovane vedovo dottor Aziz, disponibile, gentilissimo, perfino soave, accusandolo di averle “mancato di rispetto” durante una gita:
“Il teste riferì senza riserve tutto quello che sapeva. Circa un’ora prima, la signorina Derek era arrivata al volante dell’auto del Mudkul; sia lei che la signorina Quested erano in uno stato terribile. Si erano precipitate al bungalow dei McBride, dove egli appunto si trovava, e immediatamente lui aveva steso la denuncia e organizzato l’arresto alla stazione. «Qual è l’accusa, precisamente?» «Che il dottor Aziz ha seguito la signorina Quested nella grotta e ha tentato di mancarle di rispetto. Lei l’ha colpito col binocolo; lui vi si è aggrappato e la cinghia si è rotta, così lei è potuta scappare. Quando poco fa lo abbiamo perquisito, aveva il binocolo in tasca»”.
Due sono gli obiettivi che Edward Morgan Forster (1879 ― 1970) persegue in “Passaggio in India” (1924), e per conseguirli senza che i lettori se ne accorgano li distrae con la simpatia che il solo personaggio davvero riuscito e indimenticabile, il dottor Aziz, suscita in loro:
1. Dimostrare che le donne sono stupide e scellerate: le razziste, come quelle che disapprovano la signorina Quested per il suo desiderio di “conoscere gli indiani”, ma ancor più le donne in apparenza migliori come, appunto, Adela Quested. L’unica (però materna) eccezione è l’anziana signora Moore: le giovani sono tutte spregevoli, infide e pericolose. Specialmente per gli uomini come il dottor Aziz, autentici, naturali, non guastati dalla civiltà.
2. Dimostrare, capovolgendo beffardamente il senso della poesia di Walt Whitman “A Passage to India”, scritta per l’apertura del Canale di Suez, che l’incontro o addirittura la creazione di un legame tra Occidente e Oriente sono del tutto impossibili. Col sottinteso, celato in ambedue le “dimostrazioni”, che quel che non è potuto e non potrà mai riuscire né al Canale di Suez né alla migliore delle donne, è riuscito invece a lui, Edward Morgan Forster, essere umano “speciale”, che durante la Prima guerra mondiale, volontario della Croce Rossa in Egitto, “intrecciò” (racconta l’introduzione) “il suo primo completo rapporto amoroso con il giovane bigliettaio di tram Mohammed”.
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81. Foscolo, Ugo: “Ultime Lettere di Jacopo Ortis”
Ugo Foscolo (1778 ― 1827), tutte le più belle donne se lo contendevano. Inoltre era un convintissimo ateo e anticlericale, un rivoluzionario, un appassionato ribelle. Da ragazzo, nell’isola natia di Zante, racconta Wikipedia che “la popolazione voleva un giorno dar l’assalto al ghetto ebraico, come spesso accadeva. Foscolo, benché giovanissimo, riuscì a impedirlo: mentre le porte stavano per cedere, balzò sul muro di cinta e gridò: «Vigliacchi, indietro!». E la folla, impressionata, si disperse”. Per tutto ciò l’ho sempre ammirato, anche se come poeta non riesco ad amarlo (ma non perché alle medie dovetti impararlo a memoria ― Leopardi, per esempio, lo imparai volentieri, e “l’Infinito” posso recitarlo senza incertezze ancora oggi).
Del suo romanzo epistolare, le “Ultime Lettere di Jacopo Ortis” (1799 ― 1802), mi è sempre piaciuta soprattutto la sicura antipatia che Odoardo, ricco promesso sposo di Teresa, suscita in Jacopo prim’ancora che questi la conosca e se ne innamori: “Sarà forse un bravo e buono giovine; ma la sua faccia non dice nulla”. Antipatia alla quale Jacopo, una settimana dopo ― quando già da più di tre giorni ama la “divina fanciulla” ― trova romantici motivi che sarebbero validi in qualsiasi epoca della storia umana:
“Io non odio persona del mondo, ma vi sono cert’uomini ch’io ho bisogno di vedere soltanto da lontano. ― Suo suocero me n’andava tessendo jer sera un lungo elogio in forma di commendatizia: «buono» ― «esatto» ― «paziente!» e niente altro? possedesse queste doti con angelica perfezione, s’egli avrà il cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale non animata mai né dal sorriso dell’allegria, né dal dolce silenzio della pietà, sarà per me un di que’ rosaj senza fiori che mi fanno temere le spine. Cos’è l’uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice? scellerato, e scellerato bassamente. ― Del resto, Odoardo sa di musica; giuoca bene a scacchi; mangia, legge, dorme, passeggia, e tutto con l’oriuolo [l’orologio] alla mano; e non parla con enfasi se non per magnificare tuttavia la sua ricca e scelta biblioteca. Ma quando egli mi va ripetendo con quella sua voce cattedratica, «ricca e scelta», io sto lì lì per dargli una solenne smentita”.
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82. Fournier-Alain: “Il grande Amico”
È la storia ― narrata dal più caro compagno di scuola del protagonista ― dell’addio del suo “grande amico” Meaulnes all’adolescenza.
La prima parte, in cui quell’età offre loro tutte le sue splendide e drammatiche promesse, e la seconda, in cui i due ragazzi cercano con immensa speranza di ritrovarne la magia, il “Paese misterioso”, il “sentiero perduto”, sono per il lettore ― pur tra i molti segni della conclusione che li attende ― un viaggio nel tempo di una bellezza indimenticabile. Tanto che quando si arriva alle ultime pagine si vorrebbe ― e l’autore desiderava forse proprio questo ― non aver letto la terza. Un po’ come anche noi, sbagliando, vorremmo talvolta delle nostre vite.
“Intanto le due donne gli passavano accanto, e Meaulnes, immobile, fissò la fanciulla. Spesso, in seguito, quando si addormentava dopo aver disperatamente tentato di ricordare quel bel volto sparito, vedeva in sogno succedersi file e file di ragazze che le somigliavano. L’una portava un cappello eguale al suo, l’altra aveva la medesima espressione pensosa, questa il suo sguardo puro, quella la sua vita sottile, e una ancora quei begli occhi azzurri: ma nessuna era lei, l’alta ragazza del castello. Il mio amico ebbe appena il tempo di vedere, sotto una massa di capelli biondi, un viso dai tratti un po’ minuti, ma disegnati con una finezza quasi dolorosa. Guardandola ora, mentre si allontanava, il suo vestito gli apparve quel che era, il più semplice, il più sobrio abbigliamento. Perplesso, stava per chiedersi se unirsi o no alle due signore, quando la giovane, voltandosi impercettibilmente verso di lui, disse alla compagna: «Il battello, credo, non dovrebbe tardare». Meaulnes le seguì. La vecchia, curva e vacillante, chiacchierava allegramente e rideva, la ragazza rispondeva a bassa voce. Quando furono sull’imbarcadero, essa rivolse a Meaulnes quel suo sguardo grave e innocente che pareva dire: «Chi siete, cosa fate qui? Io non vi conosco: eppure è come se vi conoscessi». Altri invitati s’erano intanto sparsi fra gli alberi, in attesa, mentre tre imbarcazioni stavano approdando, pronte ad accogliere i gitanti. Al passaggio delle due signore, probabilmente la castellana e sua nipote, a uno a uno i giovani salutavano profondamente, le ragazze s’inchinavano. Strana mattinata! Strana gita! Nonostante il sole faceva freddo, e le signore si avvolgevano al collo quei boa di piume che allora erano di moda... La vecchia dama rimase sulla riva, e Meaulnes si trovò, senza sapere come, sullo stesso battello della giovane castellana. Poggiò i gomiti sull’orlo del parapetto, e tenendosi con la mano il cappello battuto dal vento, guardò a suo agio la fanciulla che s’era seduta al coperto. Anche lei lo guardava: rispondeva alle compagne, sorrideva, poi posava dolcemente gli occhi azzurri su di lui, mordendosi un tantino le labbra. Un gran silenzio dominava le sponde vicine, e il battello filava con un calmo pulsare di macchina fra lo sciabordio dell’acqua. Pareva di essere in piena estate, e di dover approdare nel bel giardino di una casa di campagna: la fanciulla avrebbe passeggiato sotto un parasole bianco, e fino a sera si udirebbe il gemito delle tortore... Ma, d’un tratto, una raffica gelida rammentava agli invitati della strana festa che si era in dicembre”. Alain-Fournier (pseudonimo di Henri-Alban Fournier, nato nel 1886, morto in guerra nel 1914 a ventotto anni), lasciò un solo romanzo, “Il grande Amico” (“Le grand Meaulnes”, 1913) e qualche poesia inedita.
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83. Frank, Anne: “Diario”
“Devo studiare per non restare ignorante, per andare avanti, per diventare giornalista, perché è quello che voglio! So di saper scrivere. Un paio di racconti sono carini, le descrizioni dell’Alloggio segreto sono umoristiche, molte parti del mio diario funzionano, ma... resta da vedere se ho veramente talento. [...] Chi non scrive non può sapere quanto sia bello scrivere; in passato mi dispiaceva di non saper disegnare bene, ora invece sono superfelice di saper almeno scrivere. E se non ho il talento di scrivere per giornali o libri, be’, potrò pur sempre scrivere solo per me. Ma voglio andare avanti, non riesco a immaginare di vivere come la mamma, la signora Van Daan [...]. Devo avere qualcosa, oltre a un marito e dei figli, a cui dedicarmi! Non voglio far la fine di gran parte della gente, che non ha vissuto per uno scopo. Voglio essere utile e procurare gioia!” (Anne Frank, “Diario”, 5 aprile 1944, all’età di quindici anni).
Anne Frank è fra i più grandi, fra i grandissimi autori del ‘900 e oltre. Leggendo queste righe comprendiamo che lo intuisce, lo sente, lo sa. Non per uccidere Anne Frank i nazisti e i fascisti di ogni tempo e luogo mirano allo sterminio, ma perché lo sterminio degli Ebrei, e con esso la distruzione dell’Umanità, compirebbe la trasformazione in mostri che perseguono con psicopatica lucidità delirando di tramutarsi in dei. Anne Frank non la conoscono, non sanno neppure il suo nome, anche se con psicopatica freddezza vogliono cancellarla, come se non sia mai esistita, dalla faccia della Terra. Io, invece ― e con me anche voi ― Anne Frank non solo la conosciamo e l’amiamo, ma sentiamo che dai nazisti e dai fascisti di ogni tempo e luogo dobbiamo assolutamente salvarla. Sentiamo che se non salviamo lei, la nostra salvezza e quella dei nostri cari ci sembrerebbero vane. Per questo lottiamo, con una passione, un’intelligenza, una forza, una determinazione, sulle quali i nostri limiti evidenti, e perfino le nostre miserie, non hanno alcun potere e scompaiono: per salvare Anne, e con Anne tutti gli Ebrei, con Anne noi stessi e i nostri cari, con Anne l’Umanità. Riusciamo: Anne è salva ― tutti, insieme a lei, siamo salvi ― e da quel felice giorno continua, scrivendo come solo lei sa fare, a “essere utile e procurare gioia”. Fra poco più di una settimana, il 12 giugno, avrà 92 anni. (Vi sarete accorti, certo, che queste righe vi arrivano da un altro Universo. Ma so che non credete che l’Universo in cui le leggete sia più vero di esso).
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84. Gadda, Carlo Emilio: “Quer Pasticciaccio brutto de Via Merulana”
Un’intera pagina sul posteriore di un carabiniere e su quel che ne esce:
“Il fido Farafilio si accoccolò. Introdusse nello stipo le due mani: ad afferrar con l’una, per il manico, il pitalone [«vaso da notte» (nota mia)] ricolmo [di noci, e sotto le noci di un involto di refurtiva (nota mia)], a stringerlo riguardosamente dall’altra parte con il palmo dell’altra, quasi accarezzandone la bonarietà, così rotonda sull’opposto e non manicato emisfero. E lo estrasse dal tabernacolo (ed era peso come ben di rado) nella figura propria dell’utente, o addirittura del proprietario, che si accinga nottetempo a servirsene per la finalità deteriore. Ottava e nona noce rotolarono. Troppo scarsa, poi, alla quasi fanciullesca opulenza del bravo milite, la giubba grigioverde liberò ad evidenza le rotondità postìche [«posteriori» (nota mia)] di lui, debitamente rivestite di panno d’egual colore. Enfatizzate dalla posizione di acchiocciamento, apparvero emulare e vincere al tutto le rotondità lisce del vaso, come le avesse enfiate una pompa, di quelle a treppiede, dei meccanici da biciclette. L’incredibile pieno era per infrangere, ne aveva già tutta l’aria, la cucitura posteriore mediana dei pantaloni: che sembrò invece soltanto allentarsi, nel teso zigzagare d’un filo poco cucirino [«poco idoneo al cucire» (nota mia)] e di colore azzurro verde, più scuro del grigio della stoffa. Sollecitata detta cucitura oltre il debito, il carico di spacco non fu raggiunto. Uno sparo secco rintronò invece nella camera. No: non era una revolverata. Il Farafilio, povero figliolo, molto probabilmente arrossì, con quel suo modo di arrossire a chiazze, nel volto buono e severo. Racchioccolato come si ritrovava con la faccia contro il comodo [«il comodino», che prima ha chiamato «stipo» e «tabernacolo» (nota mia)] e lo zipeppe [«vaso da notte» (nota mia)] in braccio, non ne andò divulgata la porpora. L’umile dovere aveva nominato se stesso, ecco tutto: certe posture favoriscono certe nomenclature, quasi elicitandone [«tirandone fuori», «ricavandone» (nota mia] il suono alle fonti stesse del medesimo”.
E che dire dello spettacolo che a quello stesso Farafilio offre, pochi minuti dopo (di tempo reale, che nel romanzo durano però venti pagine) un “cavalluccio piazzato a gambe larghe per una impreveduta occorrenza”? “Adocchiato l’ippurico laghetto [l’acido ippurico è un metabolita del toluene prodotto dal fegato, ma è presente anche nelle urine (nota mia)], e annasata la vaporazione dolciastra e ancor tepida che ne promanava, [Farafilio] manifestò nell’erubescente pelle del collo e delle zone ad hoc della faccia la sua riprovazione, il suo sdegno. Quella stazioncella cavallina era natura scostumata ad averla chiesta, ma una frustataccia avrebbe potuto fors’anco evitarla: c’erano due donne!”
Gadda, però, nei confronti delle donne, è spesso meno garbato di quel cavallo, o non descriverebbe come segue il suddetto vaso da notte svuotato di noci e refurtiva: “Il pitale Creso, da un letto all’altro, aveva tutta l’aria di una puerpera, così smagato e sminuito da ricolmo invece che era”.
L’aver letto per primo, di Gadda, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, mi tolse per sempre la voglia di leggerne altro. Fu un errore, forse, ma trecento pagine colme di descrizioni come quelle di cui sopra mi avevano messo a durissima prova. È questa, mi ero domandato, la celebrata “sperimentazione linguistica” di Carlo Emilio Gadda (1893 ― 1973)? Una lingua (l’italiano) e tre dialetti (romanesco soprattutto, ma anche napoletano e molisano) impastati e amalgamati insieme come gli ingredienti di un polpettone... per fare che cosa? Mettere insieme una galleria di mostri e di mostruosità che neanche il peggior Fellini?
È vero che Gadda è bravo come nessuno a costringere il lettore non soltanto a vedere quel che egli descrive, ma perfino a riprodurlo con le proprie membra. Leggendo che “il groviglio dei molti nodi fu districato da ungulazione pervicace”, per esempio, come non vederlo e sentirlo con tutti se stessi? E come non vederla, la “sora Manuela”, quando se ne va “tutta de prescia, smovenno er culo come una quaja [«quaglia» (nota mia)] e ticchettando in difficile equilibrio sui tacchi de gli scarpini boni che parevano du trampoli, come una scrofona su queli zoccoletti che cianno”? Ma a cosa approda, alla fin fine, questa eloquenza più che rabeleisiana? A nient’altro, ripeto, che a una processione di mostri e mostruosità da circo Barnum, senza neanche un personaggio ― no, neppure Ingravallo ― che susciti la minima commozione o almeno un po’ di simpatia. Ecco un esempio di mostro (femmina), ma ne potrei fare cento d’ambo i sessi:
“Nella bocca senza denti er bucio, nero: da cui, tra verbo e verbo, ella risucchiava dentro la già erogata saliva, con una specie di sibilo un po’ umidiccio dove poi gli erre sguazzavano a ritroso, come chi, buttato là dal frangente, sia travolto indietro dalla risacca. Un indugio di piccole, soavissime bulle [«bollicine» (nota mia)], sui labbri, accompagnava il recupero: che con una repentina falciata, poi poco dopo, il vertice acuminato e scarlatto della lingua s’incaricava di perfezionare. Sì, uno sfavillìo negli occhi, nella faccia, quando appena gli parlasse, al ragazzo, a Diomede: sì, dentro le du vesciche sierose delle occhiaie due punti neri, gli occhi, du capocchie de spillo. [...] Un sorriso livido le storceva la bocca, da un lato, diaframmando er bucio: su la pelle de mezza faccia un riverbero giallo, da fa paura, come de certi fochi malsani, de la zecca del Frulla”.
Bravo? Sì: bravissimo. Sconvolgentemente bravo. Ma quale musica suona questo suo straordinario virtuosismo? Quali sentimenti, quali idee suscita nel lettore? La famosa “sperimentazione” reca con sé solo concetti vetusti che di “sperimentale” hanno niente. E la “musica” è solo horror. Orrende idee e orrenda musica che imperversano contro le donne, soprattutto. Come in questa “raffinata” meditazione attribuita dall’autore a Ingravallo (che in teoria sarebbe un personaggio “positivo”):
“La personalità femminile ― brontolò mentalmente Ingravallo quasi predicando a se stesso ― che vvulive dì?... ‘a personalità femminile, tipicamente centrogravitata sugli ovarii, in tanto si distingue dalla maschile, in quanto l’attività stessa della corteccia, int’ ‘o cervello d’ ‘a femmena, si manifesta in un apprendimento, e in un rifacimento, d’ ‘o ragionamento dell’elemento maschile, si putimme chiamarle ragionamente, o addirittura in una riedizione ecolalica delle parole messe in circolo dall’uomo ch’essa ci ha rispetto: da ‘o professore, da ‘o commendatore, da ‘o dottore de ‘e femmene, da l’avvucate ‘e lusso, o da chillo fetente d’ ‘o balcone ‘e palazzo Chigge. La moralità - individualità della donna si rivolge per addensamenti e per coaguli affettivi al marito, o al facente funzione, e dai labbri dell’idolo dispiccica l’oracolo quotidiano della sottintesa ammonizione: ché uomo non è, che non si senta Apollo nel sacello delfico. La qualità eminentemente ecolalica [ripetitiva delle parole altrui (nota mia)] della di lei anima (il concilio di Magonza, nel 589, le concesse un’anima: a un voto di maggioranza) la induce a soavemente farfallare d’attorno al perno del coniugio: plastile cera, chiede dal sigillo l’impronta: al marito il verbo e l’affetto, l’ethos e il pathos. Donde, cioè dal marito, il lento e greve maturare, il discendere doglioso dei figli. Mancandole i figli, sentenziò Ingravallo, il marito decade senza suo demerito a buon amico ma di gesso, a ornamento piacevole della casa, a delegato e segretario generale della confederazione dei sopramòbili, a mera immagine ovvero cioè manichino di marito: e l’uomo in genere (nel di lei apprendimento inconscio) è degradato a pupazzo: un animale infruttifero, con un testone finto da carnevale. Un arnese che non serve: uno sdipanato succhiello. È allora che la povera creatura si dissolve, come fiore o corolla, già vivida, che renda al vento i suoi petali. L’anima dolce e stanca vola verso la crocerossa, nell’inconscio «abbandona il marito»: e forse abbandona ogni uomo in quanto elemento gamico. La personalità di lei, strutturalmente invida al maschio e solo racchetata dalla prole, quando la prole manchi accede a una sorta di disperata gelosia, e, nel contempo, di sforzata «συμπατία» [«simpatia»] sororale nei confronti delle cosessuate. Accede, potrebbe credersi, a una forma di omoerotia [omosessualità] sublimata: cioè a una paternità metafisica”.
“Soltanto” ironia? Può darsi. Ma che non sia tale, secondo me, lo dimostra il fatto che poi... tutti i salmi finiscono in gloria. Che l’intera “operazione «Pasticciaccio», cioè, a poco a poco si rivela come un tentativo di dimostrare l’esistenza del Male, e del Male soltanto, in tutti i suoi personaggi e perciò in tutti noi. L’intera galleria di mostri, tutta la mostruosa cultura dell’autore, tutto l’esibito suo virtuosismo, altro non contengono né esprimono che quell’antichissima “idea” per niente sperimentale:
“Ci sono dei torbidi attimi nel lento gocciolare delle ore: delle ore di pubertà. Il male affiora a schegge, imprevisto, orribili schegge da sotto il tegumento, da sotto la pelle delle chiacchiere: un bel diploma di ragioniere, un altro, poi, di dottore. Da sotto la copertura delle decenti parvenze, come il sasso, affiora, che nemmeno lo si vede: come la buia durezza della montagna, in un prato”. E ancora, e ancor più: “Il male, ai due renduti in panni bigi, sembrò esistere: a maturare i giorni e gli eventi: da sempre: muta forza o presenza in un pandemonismo della campagna e della terra, sotto cieli o nuvole che non potevano far altro se non rimirare, o fuggire. S’era palesato in quella sensazione di sgomento, di allentamento d’ogni vincolo giusto, che incolse i loro cuori al venir fuori: alla subita riapparita del paese, della nuvolaglia in corsa, nel cielo. Il diavolo...” eccetera eccetera. “Sperimenta” o rivanga?
Anche a proposito di “chillo fetente d’ ‘o balcone ‘e palazzo Chigge”, senza dubbio fa piacere leggere su Mussolini e sul fascismo parole come queste: “Vigeva ora il vigor nuovo del Mascellone, Testa di Morto in bombetta, poi Emiro col fez, e col pennacchio, e la nuova castità della baronessa Malacianca-Fasulli, la nuova legge delle verghe a fascio. Pensare che ce fossero dei ladri, a Roma, ora? Co quer gallinaccio co la faccia fanatica a Palazzo Chiggi?” O come queste: “Nel frattempo Ingravallo maturò de premura quelle che il Truce in cattedra, a palazzo der Mappamonno, avrebbe chiamato le direttive da impartire... alle sottostanti gerarchie: cioè a li vasi de coccio l’uno de sotto all’artro che se le bevevano a garganella in cascata, le sue truculente fessaggini: l’uno dal sedere dell’altro”. Ma farebbe di gran lunga più piacere se esse non fossero state scritte a “babbo morto”, tra il 1945 e il ‘56-’57, e soprattutto se non sapessimo che a “babbo vivo”, invece, Gadda era stato un convinto interventista (nel maggio 1915 era sceso in piazza inneggiando all’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria-Ungheria e poi era partito volontario) e che nel 1921, “ante marcia”, si era iscritto al Partito nazionale fascista. È almeno un buon thriller (o “giallo”, come si diceva a quei tempi), “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”?... Anche riconoscergli questo non è facile, confuso e caotico com’è nell’intreccio nonostante la chiarezza (per chi ne intende la “sperimentazione” linguistica) delle immagini e delle idee di cui sopra. Sarà anche colpa mia, sarà che non mi è mai riuscito di amare i “gialli” italiani e i loro fin troppo italiani (in senso deteriore) investigatori, ma... basta aver visto, (dopo aver letto il “Pasticciaccio”), “Un maledetto imbroglio”, (lo trovate su YouTube), che Pietro Germi e un grande cast ne trassero nel 1959 modificandolo con sensibilità e intelligenza, per comprendere che il film, come “giallo” e in ogni altro senso, è di gran lunga superiore al romanzo.
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85. Gary, Romain: “Le Radici del Cielo”
Di Romain Gary (pseudonimo di Roman Kacew, 1914 ― 1980) è da non perdere quasi tutto quello che scrisse. In particolare “La Vita davanti a Sé” (1975) e “Educazione Europea” (1946: “La giovane donna mise un disco sul fonografo. «‘La Polonaise’ di Chopin» annunciò. Per più di un’ora i partigiani, alcuni dei quali avevano marciato per dieci chilometri per raggiungere il rifugio, ascoltarono la voce, quel che c’è di migliore nell’essere umano, come per rassicurarsi. Per più di un’ora degli uomini stanchi, feriti, affamati, perseguitati, celebrarono così una dignità che nessuna bruttura, nessun crimine poteva intaccare. Janek non avrebbe mai dimenticato quel momento: i volti duri e virili, il piccolo fonografo in una buca di nuda terra, le mitragliette e i fucili posati sulle ginocchia, la ragazza con gli occhi chiusi e lo studente dal baschetto bianco e lo sguardo fiero che le teneva la mano; la stranezza di quegli istanti, la speranza, la musica, l’infinito. [...] Pensava spesso a quel che gli aveva detto suo padre quando si erano visti per l’ultima volta, «nessuna cosa importante muore», la risentiva perfino nell’eterno mormorio della foresta. Era una frase strana, visto che tanti vengono uccisi ogni giorno”).
Ma ho scelto “Le Radici del cielo” perché non è “solo” bellissimo e appassionato: è anche ― se si considera che fu scritto nel 1956; ripeto: nel 1956 ― un impressionante capolavoro di preveggenza ambientalista, scientifica, storica: “Talvolta mi sembra che quell’avventura continui in qualche luogo, intorno a noi, in un’altra dimensione, e che i suoi eroi, colpiti da eternità, siano per sempre condannati alle stesse peripezie e agli stessi errori, finché un lampo fraterno della nostra comprensione non li libererà dal ciclo infernale. È come se ci facciano dei segni disperati, cercando con ogni mezzo di attirare la nostra attenzione, talvolta con una strana mancanza di pudore; come se sentano l’esigenza di accattivarsi a qualsiasi costo la nostra simpatia” (pag. 32).
“«Non si possono vedere i grandi branchi di elefanti correre attraverso gli immensi spazi africani» diceva la petizione «senza sentirsi spinti a giurare di fare qualsiasi cosa pur di perpetuare fra noi la presenza di questa meraviglia della natura la cui visione farà sempre sorridere di gioia ogni uomo degno di questo nome». Ogni uomo degno di questo nome, ripeté Orsini, in un grido quasi disperato, gonfio di un immenso rancore, e tacque, come a sottolineare l’enormità di una simile pretesa. La petizione diceva altresì che «il tempo dell’orgoglio è finito» e che dobbiamo guardare con maggiore umiltà e comprensione alle altre specie animali, «differenti, ma non inferiori». Differenti, ma non inferiori!, ripeté nuovamente Orsini, con una sorta di compiacimento esasperato. E la petizione continuava: «Su questo pianeta l’uomo è ormai arrivato al punto in cui gli è davvero necessaria tutta l’amicizia che può trovare, e, nella sua solitudine, tutti gli elefanti, tutti i cani, tutti gli uccelli...» Orsini se ne uscì in una strana risata, una sghignazzata trionfale, del tutto priva di allegria. «È tempo di rassicurarci sul nostro conto mostrando che siamo capaci di salvare questa libertà monumentale, goffa, magnifica, che ancora sopravvive accanto a noi»” (pagg 42-43).
“«Debbo dirvi che come prigioniero di guerra ho contratto un debito verso gli elefanti e ora cerco solo di soddisfarlo. Fu un nostro compagno ad avere l’idea, dopo qualche giorno di cella ― un metro e dieci per uno e cinquanta ― quando sentì che i muri stavano per soffocarlo, si mise a pensare ai branchi di elefanti in libertà: alla mattina i tedeschi lo trovavano che scherzava in piena forma e non potevano più niente contro di lui. Quando poi uscì di cella ci raccontò la cosa, e ogni volta che chiusi in gabbia non ne potevamo più cominciavamo a pensare a quei giganti lanciati a corsa sfrenata attraverso i grandi spazi aperti dell’Africa. Ci voleva uno sforzo incredibile di immaginazione, per farcela, ma quello sforzo ci teneva in vita. Soli, mezzi morti, stringevamo i denti, sorridevamo, e chiudendo gli occhi continuavamo a vedere i nostri elefanti che travolgevano tutto sul loro cammino, irresistibilmente. Ci pareva di sentir la terra tremare, sotto il passo di quella libertà prodigiosa, e il vento del mare aperto scendeva nei nostri polmoni. Naturalmente le autorità del lager cominciarono a preoccuparsi; il morale della nostra baracca era particolarmente alto e moriva meno gente. Ci resero la vita ancora più dura. Ricordo un compagno, un certo Fluche, un parigino, che dormiva accanto a me. Lo vedevo, la sera, incapace di muoversi ― il suo polso ormai batteva lento, trentacinque pulsazioni ― ma ogni tanto i nostri sguardi si incontravano e io scorgevo in fondo ai suoi occhi una luce di contentezza appena percepibile, e sapevo che gli elefanti erano sempre lì, che li vedeva sfilare all’orizzonte... Le guardie si domandavano cosa diavolo avessimo in corpo. Poi uno spione ci tradì. Potete immaginare quello che avvenne. L’idea che ci fosse ancora in noi qualcosa che loro non potevano intaccare, una finzione, un mito che non potevano portarci via e che ci aiutava a resistere, li faceva infuriare. Ci riservarono un trattamento speciale. Una sera Fluche arrivò alla baracca strisciando, e dovetti aiutarlo a raggiungere il pagliericcio. Rimase un attimo sdraiato, con gli occhi spalancati, come se stesse cercando di vedere qualcosa, e poi mi disse che era finita, che non li vedeva più, che non credeva nemmeno più alla loro esistenza. Facemmo il possibile per aiutarlo a resistere. Avreste dovuto vederla, quella banda di scheletri che eravamo, andargli intorno freneticamente, puntando il dito verso un orizzonte immaginario, e descrivergli quei giganti che nessuna espressione, nessuna ideologia potevano cacciare dalla terra. Ma Fluche non riusciva più a credere alle meraviglie della natura, a immaginare che esista al mondo una simile libertà... che gli uomini, anche se solo in Africa, sappiano ancora trattare la natura con rispetto. Tuttavia fece uno sforzo. Volse verso di me la sua faccia distrutta e mi strizzò l’occhio: ‘Me n’è rimasto uno solo’ mormorò. ‘L’ho nascosto bene, proprio in fondo, ma non potrò più occuparmene... Non ho più quello che ci vuole... Prendilo insieme ai tuoi’. Parlava con uno sforzo terribile, povero Fluche, ma nei suoi occhi c’era ancora quella scintilla. ‘Tienilo con i tuoi... Si chiama Rodolfo’. ‘È un nome da fesso’ risposi. ‘Non lo voglio... Pensaci tu’. Ma mi guardò in un modo... ‘E va bene’ dissi, ‘prenderò il tuo Rodolfo. Poi, quando starai meglio, te lo darò indietro’. Ma tenevo la sua mano tra le mie, e seppi subito che Rodolfo sarebbe rimasto con me per sempre. Da allora lo porto con me dovunque. Ed è per questo, signorina, che sono venuto in Africa, è questo che difendo. E se in qualche posto uno schifoso cacciatore uccide un elefante, mi viene una tale voglia di ficcargli una pallottola dove so io, che non riesco più a dormirci la notte»” (pagg 51-53).
“«Gli uomini muoiono, pur di conservare alla vita una certa bellezza»” (pag. 81). “Gli uomini debbono riuscire a salvare anche le cose che non servono loro per fare suole di scarpe o macchine per cucire. Debbono conservare un margine, una riserva dove ogni tanto rifugiarsi. Una civiltà puramente utilitaristica arriverà sempre all’estremo, vale a dire ai campi di lavoro forzato” (pagg 82-83).
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86. George, Peter: “Il Dottor Stranamore”
Peter George (1924 ― 1966) pubblicò nel 1958 il romanzo “Red Alert ― Two Hours to Doom”, da cui Stanley Kubrick, nel 1964, trasse il celeberrimo “Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba”.
Ecco l’incipit: “La vicenda ha inizio nella seconda metà del ventesimo secolo terrestre. Non sappiamo perché venisse usato questo sistema cronologico, poiché abbiamo le prove che sulla Terra la vita esisteva da un periodo di tempo molto più lungo. Ma si può ritenere che dopo un disastro senza precedenti i sopravvissuti abbiano deciso di ricominciare a contare il tempo daccapo. Il che sembra confermato dalla nostra esperienza di altri mondi. A quell’epoca la tecnologia terrestre, sebbene ancora primitiva a paragone della nostra, era abbastanza progredita da fabbricare armi termonucleari sufficienti, secondo i nostri calcoli, a distruggere il mondo per tre volte e mezza. Per quale ragione volessero poter distruggerlo più di una volta sola è per noi un mistero”.
Insieme al suo collega di Mosca (che il romanzo e il film non ci mostrano, ma la cui esistenza è provata dall’invenzione per i Sovietici dell’“ordigno - fine - del - mondo”), il personaggio del dottor Stranamore (ma “doctor Strangelove” sarebbe tradotto meglio da “dottor Perversione”) rappresenta il nazismo e il fascismo che Americani e Russi, più o meno consapevolmente, riportarono nelle rispettive patrie mentre li combattevano, e che mantennero in vita nella convinzione di essere in grado di controllarli. Nella certezza che li avrebbero sempre dominati e che mai ne sarebbero stati dominati.
Era valida questa presunzione? Si può coltivare e diffondere per più di settant’anni l’idea e il potere di distruggere l’intera Umanità senza esserne alterati nella psiche? Romanzo e film sostengono che non si può, che l’esito finale dell’esistenza di idee e armi di sterminio globale sarà la totale catastrofe del genere umano. E la mostruosità anche fisica del dottor Stranamore raffigura visivamente quel che accade agli esseri umani o alle collettività devastati da un’idea e un potere siffatto: il disumano lo ha corroso e distrutto, si è esteso alla sua tecnologia, la sua mente e le sue mani continuano a produrre armi di sterminio sempre più efficaci, e quelle stesse mani tentano infine di strangolare quel poco di umano che ancora sopravvive in lui.
Se alle idee naziste e fasciste di distruzione dell’Umanità si continua a permettere di circolare e diffondersi, come ci si può stupire che appaiono dei serial killer di massa? Personaggi come il generale Jack D. Ripper, comandante della base Burpelson dell’Air Force (“ripper” significa “squartatore”, e “Burpelson” si può tradurre come “Figlio d’un rutto”) che vuole sterminare l’Umanità perché è convinto che i comunisti vogliano sterminare l’Umanità, o come il comandante dell’unico bombardiere che il Pentagono e il Cremlino non riescono a richiamare né ad abbattere, il maggiore T. J. “King” Kong (nome che allude allo scimmione gigante dell’omonimo film di Ernest B. Schoedsack del 1933, lo stesso anno dell’ascesa di Hitler al potere), che niente al mondo (né tanto meno una propria renitenza a distruggerlo, il mondo) trattiene dall’ubbidire fino alla morte agli ordini ricevuti (altra caratteristica dei nazisti e dei fascisti, che non riconoscono il diritto-dovere di esaminare e discutere le leggi e gli ordini), sono esempi del fatto che una collettività, se accetta di ospitare un dottor Stranamore (se accetta, cioè, di accogliere e lasciar sopravvivere idee mostruose come quella dello sterminio) non può evitare che esse a poco a poco si diffondano e proliferino, all’inizio nell’ombra, e finiscano prima o poi col manifestarsi in comportamenti non meno mostruosi. Alcuni credono che l’esistenza delle bombe atomiche (e delle loro ancor più distruttive discendenti, le bombe all’idrogeno, o “bombe H”) sia stata benefica, perché il terrore di provocare con esse la fine del mondo trattenne gli U.S.A. e l’U.R.S.S. dallo scatenare una Terza guerra mondiale che sarebbe stata ancora più spaventosa delle precedenti. Ma questo ragionamento contiene più di una falla: poiché la Storia non si fa con i “se”, e dunque non si può affermare con certezza che le due superpotenze, se non avessero avuto le bombe atomiche, sarebbero entrate in guerra; e soprattutto perché il pericolo che si tenti di cancellare l’Umanità dalla faccia della Terra, finché le armi che lo permettono e le idee che lo pensano non saranno state fatte sparire al suo posto, non è cessato con la fine della Guerra Fredda.
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87. Ginzburg, Natalia: “Lessico Famigliare”
Ecco due saggi della potenza che allo stesso tempo è grazia, dei gentili affetti che allo stesso tempo sono grandi passioni, e della calma che allo stesso tempo è tempesta di “Lessico famigliare” (1963), di Natalia Ginzburg (1916 ― 1991):
1. “Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: «Non fate malagrazie!» Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: «Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! non fate potacci!» Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire. Diceva: «Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!» E diceva: «Voialtri che fate tanti sbrodeghezzi, se foste a una ‘table d’hôte’ in Inghilterra, vi manderebbero subito via». Aveva, dell’Inghilterra, la più alta stima. Trovava che era, nel mondo, il più grande esempio di civiltà”.
2. “Di Turati [1857 ― 1932, tra i primi e più importanti leader del socialismo italiano e tra i fondatori, nel 1892, del Partito Socialista Italiano], mio padre diceva che era un ingenuo; e mia madre, che non trovava che l’ingenuità fosse una colpa, sospirava e diceva: «Povero mio Filippèt». Venne una volta, a quell’epoca, Turati a casa nostra, essendo di passaggio a Torino; e lo ricordo, grosso come un orso, con la grigia barba tagliata in tondo, nel nostro salotto. Lo vidi due volte: allora, e più tardi, quando dovette scappare dall’Italia, e abitò da noi, nascosto, per una settimana. Non so tuttavia ricordare una sola parola che disse quel giorno, nel nostro salotto: ricordo un gran vociare e un gran discutere, e basta. Mio padre tornava a casa sempre infuriato, perché aveva incontrato, per strada, cortei di camicie nere; o perché aveva scoperto, nelle sedute di Facoltà, nuovi fascisti tra i suoi conoscenti. «Pagliacci! Farabutti! pagliacciate!» diceva, sedendosi a tavola; sbatteva il tovagliolo, sbatteva il piatto, sbatteva il bicchiere, e soffiava per il disprezzo”.
“[È un] libro apparentemente semplice eppure indefinibile, misterioso. Romanzo? Libro di ricordi? Cronistoria? Autobiografia?” (Domenico Scarpa). “Non mi dispiace concludere questa prefazione nel nome del Tolstoj di «Guerra e Pace». Sono certo che la Ginzburg sarebbe felice di accucciarsi all’ombra di quel fogliame, nel più piccolo angolo di quel modo così storico e romanzesco d’interpretare il mondo” (Cesare Garboli).
Temendo che accostare “Lessico famigliare” a “Guerra e Pace” sia troppo generoso nei confronti di Natalia Ginzburg, Garboli ruzzola all’estremo opposto con parole offensive come “accucciarsi” e “nel più piccolo angolo”. Mentre in “Lessico famigliare”, lo si vede con chiarezza dagli esempi di cui sopra tratti dalle primissime pagine, la Guerra e la Pace ― di una famiglia italiana, e dell’Italia, tra l’inizio degli anni ‘30 e l’inizio dei ‘50 del secolo scorso ― mai sono solo affiancate e giustapposte: sempre, come e forse più che nel capolavoro di Tolstoj, si fondono l’una con l’altra come l’idrogeno e l’ossigeno nell’acqua.
L’esempio n° 1 può sembrare solo pacifico, affettuoso, dolcemente memore. L’esempio n° 2, invece, guerresco, tumultuoso, drammatico. Ma a guardar meglio, quanta guerra (ancorché “famigliare”) in quei bicchieri rovesciati, nell’insoddisfazione e nelle urla del padre, e sì, anche nella garbata presa in giro, da parte della figlia, dell’anglofilia di lui. E quanta pace, nel secondo brano, in quella settimana che “Filippèt” Turati trascorre nascosto e al sicuro in casa Levi prima di sfidare il fascismo rischiando la cattura, la prigionia, forse la morte. Nelle parole “grosso come un orso”, in quell’immagine che Natalia bambina ha di lui come un orso nel salotto dei suoi genitori, la Guerra e la Pace sono così intimamente connesse che un lettore frettoloso non se ne rende conto, benché in cuor suo se ne accorga. Tutto il libro è così: ogni pagina, ogni riga, ogni parola: la storia di una famiglia, il suo “lessico”, le sue parole soltanto sue, e la sua bellicosa pace, si fondono con la storia d’Italia, con le immense e talora assordanti parole di un’intera collettività atrocemente dilaniata e al contempo protesa, nei migliori suoi esponenti, a custodire la propria umanità e a riedificare il Paese. E proprio questo è l’apparente “mistero” che molti hanno creduto di vedere in “Lessico famigliare”: “Romanzo? Libro di ricordi? Cronistoria? Autobiografia?” No, “Lessico famigliare” è la traduzione in parole, e nei sentimenti che esse esprimono, del senso della memoria dell’autrice e nostro: quale nuovo “genere letterario” possiamo inventarci, che nome potremmo dare alle opere che come questa descrivono l’essenza dell’umanità?
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88. Goethe, Johann Wolfgang: “Le Affinità elettive”
“«Conosco purtroppo più di un caso» osservò Carlotta, «in cui un’unione intima e che pareva indissolubile tra due esseri è stata distrutta dall’intervento casuale di un terzo, e uno di quei due prima così strettamente uniti s’è visto spinto lontano, nel vuoto». «In chimica, premurosamente, si aggiunge allora un quarto elemento, affinché nessuno venga abbandonato» disse Edoardo. «Le nature che incontrandosi si avvincono subito, determinandosi reciprocamente, si chiamano affini» disse il Capitano. [...] «Ma le affinità diventano davvero interessanti quando producono delle separazioni» disse Edoardo. «Anche nella scienza naturale» esclamò Carlotta, «s’incontra questa triste parola, che purtroppo ora udiamo così spesso nel mondo?» [...] «Ciò che noi chiamiamo pietra calcarea, per esempio» disse il Capitano, «è una terra calcarea più o meno pura, intimamente legata a un acido sottile che ci si manifesta in forma di gas. Ora, se noi mettiamo un pezzo di tale pietra nell’acido solforico rarefatto, questo attrae la calce e con essa diventa gesso; mentre l’acido, delicato e aereo, fugge via. Si ha, dunque, una separazione e una nuova composizione, il che giustifica l’uso della parola affinità elettiva, poiché si ha realmente l’impressione che un rapporto venga preferito all’altro, venga eletto in luogo dell’altro»”.
È quel che accade a Edoardo, a sua moglie Carlotta, al Capitano e alla giovanissima Ottilia quando, per circostanze le cui radici affondano molto indietro nel tempo, si trovano a vivere insieme nel castello di Edoardo e Carlotta: Edoardo s’innamora di Ottilia; e il Capitano, caro amico di Edoardo, s’innamora di Carlotta. Ma sono uomini e donne, non quattro elementi chimici, e su di loro non agisce un “chimico premuroso”, ma il quinto individuo onnipotente che li ha creati: Johann Wolfgang Goethe (1749 ― 1832). Il quale nel 1809, all’età di sessant’anni, scrive “Le Affinità Elettive” intervenendo nelle vite dei personaggi sotto le mentite spoglie di un’entità che essi chiamano “destino”.
L’obiettivo di Goethe è immensamente ambizioso, così ambizioso che anticipa la ricerca di quella che il giovane Karl Marx (nella lettera al padre del 10 ― o 11 ― novembre 1837) chiamerà “la pura perla”: “Cercai d’immergermi nella scienza e nell’arte. [...] D’immergermi in profondità nel mare con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale altrettanto necessaria, concreta e saldamente conchiusa di quella fisica, di non usare più arti di scherma, di tenere la pura perla alla luce del sole”.
Ma Goethe fallisce, arte e scienza gli restano divise e contrapposte (mentre Marx consegue almeno il parziale successo della tesi di laurea su Epicuro) proprio perché non sa e non vuole liberare i personaggi de “Le Affinità Elettive” dalla propria razionale, cosciente volontà di spingerli verso un esito che confermi la vetusta idea che l’amore, se si avventura fuori dal matrimonio ― cioè, appunto, fuori dal dominio della razionalità ― abbia così poco futuro da non aver quasi neanche presente: il Capitano e Carlotta, rasentando l’anaffettività, si piegano al suo volere, rinunciano ad amare, si rassegnano, e Goethe li risparmia. Mentre Edoardo e Ottilia, appassionati e ribelli, vanno incontro alla tragedia che a loro e ai lettori egli descrive come “fatale” benché l’abbia invece preparata, con cura pressoché maniacale, fin dalle prime pagine.
“Ottilia si sedette su uno degli stalli e, volgendo lo sguardo in alto e intorno a sé, le parve di essere e di non essere, di sentirsi e di non sentirsi, come se tutto quello che la circondava dovesse sparirle dinanzi, come se lei stessa dovesse sparire. [...] Si affrettò a tornare al castello. [...] Era la vigilia del compleanno di Edoardo. Ben altrimenti aveva sperato di festeggiarlo: come tutto doveva essere adornato per quella solennità! E invece la ricca messe dei fiori autunnali non era stata colta: i girasoli volgevano tuttora le loro facce al cielo; gli astri guardavano tuttora placidi e modesti davanti a sé; e quelli che erano stati legati in ghirlanda avevano servito per ornare un luogo, che se non doveva rimanere il capriccio di un artista ma essere adibito a qualche scopo, sembrava adatto solo a una tomba comune”.
Accade lo stesso nel “Faust”: anche Margherita, come Ottilia ― personaggi femminili che Goethe, secondo i critici e i biografi, “amava immensamente” (figuriamoci se le avesse odiate!) ― espiò l’amore con tremende vicissitudini e con la morte. Poiché, come scrisse Francesco De Sanctis nella “Storia della letteratura italiana” (1870) “[la] lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtudi […]: questa [...] è la base della leggenda del Dottore Fausto che vendé l’anima al diavolo, leggenda così popolare al medio evo, e resa immortale da Goethe”. (P.s.: riguardo al giovane Marx, a suo padre e all’amata Jenny permettetemi di consigliarvi ancora una volta il mio “Karl, Jenny, Heinrich e la pura perla”).
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89. Gogol, Nikolaj: “Le Anime morte”
Niente è trascurabile, di ciò che Nikolaj Gogol’ (1809 ― 1852) scrisse nella sua breve vita solitaria, inquieta, tormentata, e infine tragica nonostante le miriadi di personaggi che popolavano la sua fantasia.
1. L'intricata foresta narrativa de “Le Veglie alla Fattoria di Dikanka” (1831-1832), gremita di esseri umani e demoniaci partecipi gli uni degli altri. Come “Ivan Fëdorovič Šponka e sua zia”: lei cinquantenne, mai sposata ― “era solita dire che la sua libertà di zitella le era più cara d’ogni cosa al mondo”, “sapeva incutere soggezione a chicchessia, fidando nella propria robustezza virile”, “aveva una statura quasi gigantesca, e una corporatura e una forza adeguate” ― che un giorno, a un tratto, decide di dar moglie al nipote e gliela trova su due piedi. E lui, ufficiale trentottenne, per altro frettolosamente congedatosi, a questa decisione della zia si smarrisce, non sa più chi è e chi non è, insomma dà di fuori: “Come, zia! Una moglie! Ma no, zia; fatemi il piacere... Voi mi volete proprio mettere in imbarazzo... io finora non ho mai preso moglie... Io non so proprio che farmene!” “Lo saprai, Ivan Fëdorovič, lo saprai” ribatte la zia. E Ivan impazzisce. Si corica, si addormenta a fatica, e nel sonno “gli pare che tutto rumoreggi e gli vortichi intorno, e lui corre, corre, e le gambe gli vengono meno... è ormai sfinito... Improvvisamente qualcuno lo afferra per un orecchio. «Ahi! Chi è?» «Sono io, tua moglie!» dice una voce stentorea. [...] Ivan si sveglia di botto; è imbarazzato, perché non sa come avvicinarla e cosa dirle, ma si accorge che lei ha la faccia di un’oca. Si volta dall’altra parte, ed ecco un’altra moglie, anche questa con un viso di oca. Si gira da un’altra parte ancora, ed eccoti una terza moglie dura impalata, e dietro ce n’è una quarta. L’angoscia lo prende, fugge in giardino; ma in giardino fa caldo. Si toglie il cappello, e vede che dentro il cappello c’è una moglie. La faccia gli si bagna di sudore; mette la mano in tasca per prendere il fazzoletto, e anche nella tasca c’è una moglie; si toglie dall’orecchio l’ovatta, che ci aveva messo per conciliarsi il sonno, e pure lì c’è una moglie. [...] E la zia non è più lei, si è tramutata in campanile, ed egli si sente issare con una corda. «Chi è che mi tira sù?» chiede Ivan Fëdorovič, con voce lamentosa. «Sono io, tua moglie, e ti tiro sù perché sei una campana»...”
2. E che dire di “Tarass Bul’ba” (1835), capo cosacco ormai vecchio la cui forza è però ancora sovraumana, uomo violentissimo, atroce, mostruoso, ma narrato come se sia al di là del bene e del male? Tarass Bul’ba che ha due figli, da lui disprezzati perché hanno studiato; e uno lo ammazza lui, ammazza il figlio che per amore di una ragazza si è messo coi polacchi, l’altro glielo ammazzano i nemici, e allora Tarass “scorrazza per tutta la Polonia col suo reggimento, incendia diciotto paeselli, brucia quaranta castelli: «Non risparmiate niente e nessuno!» ripete. E i cosacchi non rispettano neanche le damigelle dalle ciglia nere, dai seni nivei, dai volti chiari; non le lasciano salvarsi nemmeno davanti agli altari...”
3. “I Racconti di Pietroburgo” (1835-1842): “Il cappotto”, storia di un misero impiegato, Akàkij Akàkievič, il cui vecchissimo cappotto va in pezzi, e per comprarsene uno nuovo “decide di ridurre le spese per un annetto almeno: abolire il tè, non accendere, la sera, la candela, e se avrà da fare, andare nella stanza della padrona di casa e lavorare al lume della candela di lei; e per strada camminare con la maggior leggerezza possibile per non consumare troppo presto le suole” ― Akàkij Akàkievič, del quale fu memorabile interprete Renato Rascel nel film di Alberto Lattuada del 1952. E “Il naso”, in cui “l’assessore di collegio Kovalev, svegliatosi abbastanza per tempo, fa con le labbra «brrr...!», come fa sempre al risveglio sebbene egli stesso non sappia spiegare perché; si stiracchia, chiede un piccolo specchio che è sulla tavola. Vuol dare un’occhiata a un foruncolo che gli è spuntato sul naso la sera innanzi; ma, con sua somma meraviglia, vede che invece del naso ha una superficie perfettamente liscia!” E poi, in strada, mentre si precipita dal capo della polizia per sporgere denuncia, “a un tratto resta come inchiodato davanti alla porta d’una casa; sotto i suoi occhi avviene un fatto incomprensibile; vicino all’ingresso si è fermata una carrozza; lo sportello si apre; ne salta giù, piegandosi, un signore in uniforme che corre per la scala. E quale non è il terrore e insieme la meraviglia di Kovalev quando riconosce in quel signore in uniforme... il proprio naso!”
4. “L’Ispettore generale” (1836), dramma e commedia insieme, tristissimo per l’indegnità morale di tutti i suoi personaggi, nessuno escluso, ma comico per la potenza satirica con cui si abbatte su di loro, su tutti i capi, i capetti e i loro servi stupidi e corrotti che in ogni tempo e luogo sono la vergogna e la rovina delle Istituzioni ― “L’ispettore generale”, talmente copiato da teatranti e cineasti, che nemmeno la prima volta lo si può leggere senza aver l’impressione di conoscerlo già: “Atto primo. Stanza in casa del Prefetto. Scena prima. Il Prefetto, il Direttore degli Istituti di Sanità, il Direttore delle Scuole, il Giudice, il Commissario, due brigadieri. Il Prefetto: «Signori, vi ho convocati per comunicarvi una notizia spiacevolissima: arriva un ispettore». Àmmos Fëdorovič: «Come, un ispettore?» Artèmij Filìppovič: «Come, un ispettore?» Il Prefetto: «Un ispettore da Pietroburgo, in incognito. E quel ch’è peggio con istruzioni segrete». Àmmos Fëdorovič: «Accidenti!» Artèmij Filìppovič: «Si stava così bene, e ora, nossignore!» Lukà Lukìč: «Santo Iddio! E per di più con istruzioni segrete!» Il Prefetto: «Io quasi lo presentivo: tutta la notte ho sognato due topi fenomenali»... 5. E infine “Le Anime morte”, il capolavoro a cui Gogol’ si dedicò dal 1837 alla morte: storia di un uomo, Čičikov, che viaggia per la Russia (in cui vige ancora la servitù della gleba) offrendo ai proprietari terrieri di acquistare, purché a un prezzo ragionevole, i servi maschi deceduti per i quali son tenuti a pagare le tasse finché lo Stato, con un censimento che può farsi attendere per anni, non riconosca che quei “beni”, cioè quegli esseri umani, in quanto morti non sono più una fonte di reddito per i loro padroni. Padroni il cui squallore li rende “anime” ancora più “morte” dei loro poveri servi deceduti, come del resto è “morto” lo stesso Čičikov che comprandoli si prepara a frodare la collettività fingendosi ricco con quei certificati di proprietà che un tempo erano esseri umani... La satira geniale di Gogol’ disegna una Russia, ma in realtà un mondo, che è l’opposto del mondo di Dickens, del quale fu contemporaneo: non un paradiso in cui rimanere umani anche fra le più tremende vicissitudini, ma un inferno in cui nessuno ci riesce, e in cui tutti, invece, si tramutano in morti pezzi di carta (come le pagine sulle quali Gogol’, ormai, si affaticava invano) venduti e comprati e bruciati da altri morti pezzi di carta. E così fu scrivendo “Le Anime morte” che Gogol’ infine impazzì: si mise in testa (con un prete fanatico) di completare l’Inferno del primo volume con un Purgatorio e un Paradiso, vi si affaticò per anni senza riuscirci, scrivendo e poi bruciando, scrivendo e poi bruciando, finché non rinunciò a tutto, anche a nutrirsi, e a quarantatré anni si lasciò morire: Nikolaj Gogol’, geniale e infelice ispiratore e maestro di grandi scrittori (Dostoevskij, per esempio), di grandi registi (Buster Keaton, per esempio) e di grandi pittori come Chagall, a cui appartiene l’incisione che vedete sulla copertina della mia copia de “Le Anime Morte”: “Čičikov e Sobakevič parlano d’affari”.
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90. Golding, William: “Il Signore delle Mosche”
Si dice che Thomas Hobbes (1588 ― 1679), nel suo celebre Leviatano, abbia affermato che “homo homini lupus”, cioè che ogni essere umano è portato a comportarsi come una belva, nei confronti di ogni altro, quando crede che nessuno lo controlli e che per i suoi crimini non sarà giudicato né punito. Quella frase, che Hobbes non pronunciò né scrisse mai, esprime tuttavia il concetto di fondo della sua opera filosofica e politica: l’idea che gli esseri umani siano feroci per natura, e che solo uno Stato onnipotente possa obbligarli (con la paura che incutono le polizie, i tribunali e le forche) a rispettarsi a vicenda.
“Il Signore delle mosche”, di William Golding (1911 ― 1993), pubblicato nel 1954 ― tre secoli e tre anni dopo “Il Leviatano” ― fu accusato di essere un veicolo propagandistico di questa idea totalmente pessimista, di cui ogni religione e quasi ogni filosofia sono state e sono portatrici fin da molto prima di Hobbes: l’idea, ripeto, che gli esseri umani siano per natura nemici e pronti a sbranarsi l’un l’altro anche solo per un modesto vantaggio, poiché del tutto inabili a convivere in pace se le leggi e il potere non li costringono minacciandoli di pesanti sanzioni.
William Golding, è l’accusa, per istillare nei lettori tale idea (e parare l’obiezione che le viene rivolta, e cioè che solo alcuni sono spinti alla follia e alla violenza da famiglie e società malate, mentre alla nascita siamo tutti affettuosi, socievoli, solidali, e portati a collaborare) scelse come protagonisti del suo romanzo dei bambini, che dovrebbero essere la perfetta incarnazione dell’iniziale innocenza umana, li relegò su un’isola deserta (cioè, appunto, in uno “stato di natura”, ovvero in una condizione di assoluta libertà dalle leggi, dal potere e dalla presenza degli adulti) e li tramutò in mostri per “provare” che già nei bambini l’umanità non è che apparenza, un evanescente strato di amorevolezza imposto loro dai genitori e dalla scuola: un’illusione, insomma, da cui può emergere e scatenarsi in ogni momento la brutale realtà del feroce animale umano.
Riflettiamo, prima di chiederci se l’accusa rivolta a William Golding sia giustificata da quel che narra “Il signore delle mosche”, sulle conseguenze di questa idea.
Se fosse vero che ogni essere umano è per natura il peggior nemico dei propri simili, la libertà sarebbe impossibile: tutti dovremmo continuamente sorvegliarci a vicenda e nessuno potrebbe mai sentirsi al sicuro vicino ad alcun altro. Sarebbe impossibile ogni progresso morale, civile, sociale, politico: come non si possono rendere amici i predatori e le prede, così non vi sarebbe modo di far convivere in pace le nazioni, le classi sociali e i singoli individui. E infine sarebbe impossibile allevare con amore i bambini: solo con le minacce, le punizioni, le percosse (e promesse, premi e carezze elargiti soltanto per aver qualcosa in cambio), i piccoli umani potrebbero essere indotti a comportarsi umanamente, se ognuno nascesse nemico di ogni altro.
È questo, dunque, il significato de “Il signore delle mosche”? È una menzogna, la storia spaventosa che racconta? Ed è per interessata malignità e violenza, o quanto meno per un suo disperato sconforto, che William Golding la inventò? Purtroppo sì.
Vi è chi lo nega sostenendo che solo una parte dei piccoli naufraghi diventa un’orda di fanatici e violenti mostriciattoli. Altri cedono e si lasciano soggiogare dai più folli e violenti, sì, ma solo per paura, per debolezza. E alcuni, invece, restano umani fino a rischiare e addirittura a sacrificare la vita per serbare intatta la propria umanità.
Ma non è così: questa interpretazione si basa su una lettura superficiale del romanzo (oppure, ma è lo stesso, su una lettura ipocrita, “politically correct”).
È vero che i “buoni” ― Piggy, Ralph e Simon ― appaiono diversi da Jack e da quelli che di Jack subiscono l’atroce fascino (ma dovrebbe metterci sull’avviso, fin dalle prime pagine, la delusione che Ralph infligge a Piggy svelando a Jack il suo soprannome). È vero che all’inizio solo Jack, fin dalla prima battuta di caccia, lascia spegnere il fuoco dando prova di non sperare in una salvezza umana ― in una salvezza che venga dalla solidarietà e dalla collaborazione tra i bambini, da un lato, e dall’altro fra gli adulti che li cercano ― ma di credere con forza che il solo modo per sopravvivere sia far emergere e trionfare la disumanità, poiché solo essa rende forti, potenti, invincibili.
È vero che Ralph, Piggy e Simon, ognuno a suo modo, sembrano intuire che la salvezza che il fuoco sempre acceso promette e rende possibile rappresenta la luce che splende nella mente umana fin dalla nascita, che mai deve spegnersi, e che ci rende unici sulla Terra: la comune umanità che ci distingue da tutto ciò che non è umano, e per la quale nessuno può venire oppresso, sfruttato, maltrattato, ucciso. Mentre per Jack quel fuoco, quella luce, nel buio del suo Universo senza immaginazione né pensiero non importa, non serve, non ha valore, non esiste, né in lui né in altri.
Nessuno, da quando Jack è al mondo, lo ha guardato o gli ha parlato o lo ha sfiorato con una carezza vedendo quella luce nei suoi occhi, e volendo mantenerla e ravvivarla. Nessuno ha mai chiamato Jack soffiando anche per lui nella conchiglia del desiderio e della considerazione reciproca che chiama a raccolta gli esseri umani che sanno che uno speciale legame li unisce tutti. Il povero Jack è cresciuto senza vederla, quella luce, senza udire le dolci ma perentorie note di quella conchiglia: senza mai sentirsi speciale, prezioso, amato. Senza mai sentirsi unito a ogni altro essere umano dalla suprema volontà di non lasciarla mai spegnere, quella luce, di non infrangerla mai, quella conchiglia, anche a costo della vita.
Tutto ciò, a Jack, nessuno l’ha mai detto. Peggio: nessuno gliel’ha mai fatto sentire. La sua mente è piena dell’orrore che il buio di quel fuoco mai acceso in lui e il silenzio di quella conchiglia mai ascoltata vi hanno sparso, e che Jack non ha saputo rifiutare. Per questo si convincono, Jack e quelli che ne subiscono l’atroce fascino, che sull’isola ci sia un mostro che li minaccia tutti: poiché il mostro è in loro, poiché i mostri sono loro; poiché il mostro, il “sovraumano” feroce, insensato, orribile, è l’odio e il disprezzo per quel ch’è umano con cui sono stati nutriti e avvelenati fin dalla nascita. E la testa di porco, l’idolo terrorizzante e nauseabondo, il signore delle mosche (“ecco un regalo per il mostro” dice Jack, issandola su una pertica) che altro è se non il vero volto del Dio di coloro che mai furono trattati come esseri umani? Sì: la testa di porco è Dio, e Dio è la testa di porco, per chi al mondo fu accolto come un “homo homini lupus” e tale si è convinto di essere perdendo e scordando, sconfitto da famiglie e società mostruose, la certezza della propria nascita umana.
Eppure, tale è la potenza di questo romanzo, che fino all’ultimo speriamo che non sia vero che voglia farci credere che Jack rappresenti tutti noi. Che Ralph, Piggy, Simon, siano diversi da Jack e da quelli che lo ammirano e ne fanno il loro capo. Che noi e i nostri cari siamo come Ralph, Piggy, Simon, non come Jack. E che Ralph, e Piggy, e Simon, e noi, siamo sempre stati umani, ci siamo nati ― come Jack e gli altri ― ma diversamente da loro siamo riusciti a rimanerlo. E non c’importa che Ralph sia rimasto umano “solo” perché né cattiverie né menzogne né incomprensioni lo hanno mai aggredito, e Piggy, invece, “solo” grazie alle fragili lenti del sapere libresco in cui deve aver trovato rifugio da un ambiente non troppo diverso da quello che ha distrutto l’infanzia di Jack, e Simon, invece, “solo” per le sue solitarie fantasie: quel che conta, per noi, è che in un modo o nell’altro siano rimasti umani tutti e tre, e che ora siano qui a ricordarci che la nostra specie non è solo quella che sciama come mosche sugli idoli dalle teste di porco, ma anche (e soprattutto, e originariamente) la specie che ha nella mente una luce, un “fuoco”, che mai si spegnerà, e una conchiglia che la chiama a raccolta per tenerlo acceso per sempre.
E così non vediamo ― non vogliamo vedere, e non vedendolo, in fondo, sconfiggiamo Golding ― che Ralph (sottile, raffinata, “geniale” ambiguità di Golding) sotto sotto è un debole che può solo crollare insieme agli illusi che si fidano di lui; che Piggy (sottile, raffinata, “geniale” ambiguità di Golding) sotto sotto è un intellettuale impotente le cui idee non hanno altro senso che quello di permettergli di sopravvivere malgrado la sua inferiorità; che Simon (sottile, raffinata, “geniale” ambiguità di Golding) sotto sotto è un povero pazzo; e che anche Ralph e Piggy, per la disumanità che infine li vince, hanno creduto nel signore delle mosche e hanno partecipato all’assassinio di Simon. Non lo vediamo perché non vogliamo vederlo? No: non lo vediamo perché non vogliamo farci ingannare da sottili, raffinate, “geniali” menzogne sulla nascita umana. Neanche se chi tenta di propinarcele è un genio.
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91. Goldoni, Carlo: “La Locandiera”
Quand’ero bambino, le commedie di Carlo Goldoni (1707 ― 1793) erano tra i miei più dolci sollievi dalla malinconia: “Il servitore di due padroni” (1745), “La vedova scaltra” e “La putta onorata”(1748), “La buona moglie” (1749), “La serva amorosa” (1752), “Gli innamorati” (1759), “I rusteghi” e “Un curioso accidente” (1760), “La trilogia della villeggiatura” (“Le smanie per la villeggiatura”, “Le avventure della villeggiatura” e “Il ritorno dalla villeggiatura”, 1761), “Sior Todero brontolon” (1762), “Le baruffe chiozzotte” (1762), “Una delle ultime sere di carnovale” (1762), “Il ventaglio” (1764): le leggevo e rileggevo senza mai stancarmi, talvolta la notte con una torcia sotto le coperte. Le amavo così tanto, che ho continuato a rileggerle per tutta la vita. E oggi so che quand’ero bambino, oltre a consolarmi, mi aiutavano a vedere gli "estranei", quelli che preti e maestri chiamavano “il prossimo”, non come un insieme di misteriosi, temibili individui ― quali tendevo a vederli ― ma come miei simili felici di assomigliarmi e che io assomigliassi a loro.
La preferita era “La Locandiera” (1752). Che però era tutt’altro che soltanto un sollievo dalla malinconia: erano interi continenti che sprofondavano nell’oceano come Atlantide, e altri che all’improvviso sorgevano intorno a me come il Nuovo Mondo dinanzi a Cristoforo Colombo.
Mirandolina: “Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con questi per l’appunto mi ci metto di picca. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste nel vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura”.
Tenete presente che avevo dieci anni, undici tutt’al più, quando per la prima volta mi trovai di fronte Mirandolina, e capirete la tempesta che suscitò in me. L’amavo e al contempo la detestavo: com’era possibile? Non sopportavo che una femmina fosse così padrona di sé e di tutti: avrei voluto vederla piangere! E al contempo intuivo, sia pure vagamente, che neanch’io ― orrore! ― sarei riuscito a non cadere in ginocchio dinanzi a lei. Il Conte d’Albafiorita e il Marchese di Forlipopoli mi sgangheravano dalle risate, erano di nuovo soltanto sollievo dalla malinconia, ma per il Cavaliere di Ripafratta parteggiavo disperatamente: speravo con tutto il cuore che non cedesse, e lo sostenevo con la mia assoluta certezza che io, al suo posto, non avrei ceduto! Ma no: cedeva con impressionante rapidità, e vedendolo innamorato cotto di Mirandolina io sentivo con assoluta certezza che la stessa cosa sarebbe accaduta anche a me, se fossi stato nei suoi panni! Posso ben dire che fu lei, Mirandolina, a costringermi per tutta la vita a poter solo fingere quella superiorità sulle donne a cui altrimenti avrei forse continuato a credere fino a oggi. (Se non avete letto “La Locandiera” né l’avete vista a teatro, guardatela su YouTube: non quella con Carla Gravina, ma quella del 1966 con la splendida, bravissima Valeria Moriconi, Glauco Mauri e Paolo Graziosi diretti da Franco Enriquez. E già che ci sono, permettetemi di consigliarvi, sempre su YouTube, 1, "Le smanie per la villeggiature" e 2, "Le avventure della villeggiatura: non quelle con Toni Servillo ― oh, no! ― ma quelle con la splendida, bravissima Sonia Bergamasco).
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92. Gončarov, Ivan Aleksandrovič: “Oblomov”
“«Mi son fidata troppo delle mie forze: è qui il mio errore, Ilja, e non in ciò che tu temi» disse Olga. «Ho creduto di poterti animare, che tu avresti potuto vivere per me, e tu sei già morto da tanto tempo. Io non avevo preveduto questo errore, e ho sempre aspettato, sempre sperato... ed ecco!...» ella finì, faticosamente, con un sospiro. E dopo un silenzio sedette. «Non posso stare in piedi: mi tremano le gambe. Una pietra si sarebbe animata con quel che io ho fatto» continuò ella, con voce languida. «Adesso non farò più niente, nemmeno un passo: tutto è inutile; tu sei morto. Ne convieni, Ilja?» soggiunse, dopo un momento di silenzio. «Non mi rimprovererai di essermi staccata da te per superbia o per capriccio?» Egli scosse il capo. «Sei convinto che non ci restava altro da fare, nessuna speranza?» «Sì» disse egli, «è vero... Ma forse...» soggiunse, indeciso, «fra un anno...» «E tu credi che fra un anno potresti organizzare le tue cose e la tua vita?» disse Olga. «Pensa un po’!» [...] «Se tu sapessi come ti amo...» disse egli. «Io non aspetto un’assicurazione d’amore, ma una breve risposta» lo interruppe lei, quasi seccamente. [...] «E se ci si sposasse, che sarebbe dopo?» domandò. Egli taceva. «Tu ti addormenteresti ogni giorno di più, vero? E io? Tu vedi come sono io. Io non mi stancherò mai di vivere. Ma insieme si vivrebbe alla giornata, si aspetterebbe il Natale, poi la quaresima, si farebbero delle visite, si andrebbe a ballare, non si penserebbe a nulla; ci si coricherebbe e si ringrazierebbe Iddio che la giornata è passata presto, e la mattina ci si sveglierebbe col desiderio che oggi sia uguale a ieri... Ecco il nostro avvenire. Non è così? Ed è vita, questa?» [...] Voleva dirgli «addio», ma la voce le si spezzò a metà della parola; il viso le si contrasse convulsamente; appoggiò la mano e la testa sulla spalla di lui e scoppiò in singhiozzi. La donna orgogliosa e sagace scomparve e rimase solo la donna, senza difesa contro il dolore. «Addio, addio...» balbettò, fra i singhiozzi”. “Oblomov” (1859), di Ivan Aleksandrovič Gončarov (1812 ― 1891), è uno dei romanzi più sconvolgenti che mai siano stati scritti. Ma per esserne sconvolti si deve sentire e capire che non è solo la storia di Ilja Iljič Oblomov, piccolo possidente russo così abituato a vivere della sua rendita, benché modesta, che a 32 anni è già tanto vecchio di cuore e di mente da non poter fare più nulla, quasi neanche alzarsi al mattino ― “Ah, Oblomov, quello che all’inizio, per uscire dal letto, gli ci vogliono ottanta pagine!” esclamò mia madre, quando a ventisei anni le dissi che lo stavo leggendo, ma... non che temevo di avviarmi sulla medesima strada. Sì, per essere sconvolti da Oblomov si deve sentire e capire che la storia del suo sprofondare nel nulla, e del tentativo dell’energico amico Stolz di scuoterlo dall’apatia, e dell’amore della splendida Olga che per qualche tempo lo restituisce all’umanità, non è solo sua, ma di tutti coloro che a un certo momento hanno osato temere che la loro vita non riuscisse come speravano che sarebbe stata.
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93. Grahame, Kenneth: “Il Vento nei Salici”
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94. Greene, Graham: “Fine di una Storia”
“Il Vento nei Salici” (“The Wind in the
Willows), che Kenneth Grahame (1859 ― 1932) scrisse nel 1908 e Beppe Fenoglio
tradusse in italiano durante l'adolescenza, è ancora oggi uno dei libri più
letti dai bambini (e dagli adulti) di lingua inglese. Lo scrisse per il suo
unico figlio, Alastair, che aveva allora otto anni, e che a venti morì suicida a
Oxford. Intendiamoci: fu uno scrittore di altissimo livello, “Il vento nei salici” si legge con piacere a qualsiasi età, il suo periodare incanta come una voce affettuosa, e i suoi personaggi non si dimenticano. A me piace soprattutto il Rospo, ma neanche la Talpa mi è indifferente. Però...
È con Grahame che gli animali iniziano a prendere il posto degli esseri umani nella letteratura per l’infanzia ― non solo fu amato da Disney: il suo influsso fu così pervasivo, e giunse così lontano, che arrivò perfino a “City” (“Anni senza fine”, 1952), di Clifford Simak, in cui a ereditare la Terra sono le formiche e i cani ― come per suggerire ai bambini l’idea che la causa umana sia una causa persa. Gli esseri umani, ne “Il vento nei salici”, non appaiono che sullo sfondo, e sono piuttosto antipatici. O nella migliore delle ipotesi presenze ormai remote, oggetto di una malinconica nostalgia venata di disprezzo. Come qui:
“«A questa stagione» disse il Topo, «son tutti tappati in casa, in cerchio attorno al fuoco; uomini, donne e bambini, cani e gatti e tutta. Sguscieremo con tutta sicurezza, senza noie o impicci, e potremo anche sbirciarli tra l’impannate se ti garba, e veder quel che combinano». Il rapido cader della notte decembrina aveva già avviluppato il villaggio, quando vi s’inoltrarono in punta di piedi tra un primo tenue fioccare di neve farinosa. Null’altro appariva che quadrati d’un arancione brumoso a entrambi i lati della strada, mentre la luce del fuoco o della lampada d’ogni casetta filtrava tra l’impannate nel buio mondo di fuori. La più parte delle finestre, a ingraticciata bassa, non avevano scuri, e a loro che sbirciavano dal di fuori, gli astanti, raccolti intorno alla tavola del tè, assorti in lavori manuali, o ragionamenti con risa e gesticolio, avevano quella felicissima grazia che è l’ultima dote del grande attore, quella grazia naturale che s’accorda a una totale inconsapevolezza d’osservazione. Andando a loro talento da un teatro all’altro, i due spettatori, così lontani da casa loro, avevano negli occhi un lampo nostalgico, come guardavano un gatto coccolato, un bimbetto sonnacchioso preso in braccio e portato a nanna, o un uomo stanco picchiare e vuotar la pipa su un capo d’un ceppo ardente”...
Dispiace, poi, che il senso profondo dell’intera vicenda sia che all’avventura si debba rinunciare. Il Rospo, unico personaggio davvero imprevedibile ― unico personaggio... umanamente imprevedibile ― pesanti, grottesche disavventure e un reazionario uso della forza da parte del Topo, della Talpa e del Tasso, lo riducono a più miti consigli. Ma “rinuncia all’avventura” non è, in fondo, sinonimo di “rinuncia alla vita”? La stessa rinuncia del Topo d’Acqua quando il Topo di Mare lo affascina coi racconti della sue avventure e vuol convincerlo a imbarcarsi con lui:
“«E tu, verrai anche tu, fratello; ché
i giorni passano e più non ritornano, e il Sud ancora t’attende. Prendi
l’Avventura, intendi il richiamo, prima che passi l’irrevocabile istante! È solo
un chiudersi fragoroso della porta dietro di te, un giocondo passo in avanti, e
sei fuori della vita vecchia e nella nuova! Poi, un giorno, un giorno ancora
lontano da ora, torna a casa se vuoi, quando la coppa è stata tracannata e il
gioco giocato, a sedere presso il tuo fiume tranquillo con un sacco di belle
memorie per la compagnia. Puoi facilmente raggiungermi sulla strada, ché tu sei
giovane, e io matuso e tardo. M’indugierò, e guarderò dietro di me; e alfine ti
vedrò venire, avido e spensierato, con tutto il Sud nel viso tuo!» Meccanicamente si rizzò, e prese a rifare il paniere, con cura e senza fretta. Meccanicamente rincasò, raccolse poche cose necessarie e speciali ricordi cui era legato e li pose in un sacchetto; operando con lenta deliberazione, movendo per la stanza come un sonnambulo, ancora in ascolto, con labbra dischiuse. Si mulinellò il sacchetto sull’omero, scelse con cura un forte bordone pel suo tragitto, e senza fretta, ma senza esitazione, varcò la soglia proprio come la Talpa s’inquadrava nell’uscio. «Dove vai, Topolino?» chiese la Talpa, stupitissima, afferrandolo pel braccio. «Al Sud, con tutti gli altri» mormorò il Topo con trasognata monotonia, senza guardarla. «Prima al mare e poi a bordo, alle spiagge che mi chiamano!» S’avanzò risoluto, ancora senza fretta, ma con una ferrea fissità di proposito; ma la Talpa ora allarmatissima, gli si piazzò di fronte, e fissandone gli occhi vide che erano vitrei e mutati in un grigio striato e cangiante ― non gli occhi del suo amico, ma di qualche altro animale! Lottando con lui a furia, lo ritrascinò in casa, lo piombò giù e lo tenne saldo. Il Topo si dibatté disperatamente per pochi istanti, poi le forze parvero recedere da lui di repente, e giacque immoto e esausto, a occhi chiusi, tremante. Subito la Talpa l’aiutò a rizzarsi e l’insediò in una poltrona, dove sedette in collasso e accasciatissimo, il corpo scosso da un tremito violento, che a volte passava a un accesso isterico di arido singulto. La Talpa chiavò l’uscio, ripose in un tiretto il sacco e lo mise sotto chiave, e sedette cheta sul tavolo presso l’amico, in attesa che lo strano accesso gli passasse. Gradatamente il Topo passò in un sopore turbato, rotto da sussulti e da vaghi mormorii di cose strane e singolari e estranee all’ignara Talpa; da cui passò in sonno profondo.
Ansiosissima, la Talpa lo lasciò per
poco per sbrigare le faccende di casa; e abbuiava quando tornò nel tinello e
trovò il Topo dove l’aveva lasciato, desto in pieno, ma astratto, silente e
depresso. Gli guardò gli occhi, frettolosamente; li trovò, con suo sollievo,
tersi e bruni come prima; e sedette e tentò di confortarlo e di aiutarlo a
narrare quel che gli era successo. [...] Con apparente indifferenza, la Talpa portò il discorso sul raccolto che aveva da esser mietuto, sui carri torreggianti e le loro cavalcature in isforzo, sui covoni in aumento, e sulla gran luna che sorgeva su campi spogli punteggiati di covoni. Ciarlò delle mele che s’imporporavano, di noci che s’abbuiavano, di marmellate e di conserve e della distillazione di cordiali; finché a brevi passi come questi raggiunse il pieno inverno, le sue gioie serene e l’intima vita casalinga, e poi divenne semplicemente lirica. A gradi il Topo prese a rizzarsi a sedere e a unirsi alla conversazione. I suoi occhi ottenebrati ripresero luce, e perse molta di quella sua cera astratta”.
Che ne avrebbero pensato Robert Louis Stevenson, Fanny Vandegrift e Samuel Lloyd Osbourne, che ― racconta Wikipedia ― spinti anche dai libri d’avventure esotiche di Melville, partirono per una crociera alle isole Marchesi (Polinesia Francese), a Tahiti e alle isole Sandwich (le Hawaii), durante la quale la salute di Stevenson migliorò così tanto che decisero di stabilirsi per sempre nel Pacifico e, dopo un’ulteriore esplorazione dei vari arcipelaghi e un soggiorno di alcuni mesi a Honolulu, si stabilirono a Upolu, la principale delle Samoa, dai cui abitanti Stevenson era chiamato Tusitala, “narratore di storie”? Non avrebbero forse avuto l’impressione che “Il Vento nei Salici” fosse una totale smentita dell’opera e della vita stessa di gente come loro e come Melville? Un invito a tenere i piccoli umani talmente chiusi in casa che poi, a vent’anni, preferissero talvolta morire piuttosto che avventurarsi nel mondo?
E infine dispiace, ne “Il Vento nei
Salici”, che i personaggi sono tutti maschi. Il che, per concludere, porta a
domandarsi come mai questo romanzo piacque così tanto a Beppe Fenoglio ― allora
giovanissimo, forse ancora liceale ― che volle tradurlo. Confrontandosi, tra
l’altro, con quella assurda mancanza, che un ragazzo come lui non poteva
gradire, e risolvendola “femminilizzando” gli animali i cui nomi, in italiano,
sono femminili. Come la Talpa, che nei disegni originali di Ernest Howard
Shepard (1879 ― 1976) è maschio, ma nella traduzione è “amica” del Topo, non suo
amico. La risposta, probabilmente, è che Fenoglio fu attratto, conquistato,
“ipnotizzato” dalla musica di Grahame come il Topo d’Acqua dalla voce suadente
del Topo di Mare. E quanto all’“avventura” era troppo certo che non le si
sarebbe mai negato per temere di poter diventare anche lui un “figlio” del
“Vento nei Salici”.
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95. Grimmelshausen, Hans J. C.: “L’avventuroso Simplicissimus”
Da un articolo (del 2000) di Susanne Portmann, Federica Fiore e Hamoun Vaziri:
“[...] Un romanzo, ‘L’avventuroso Simplicissimus’, che niente ha da invidiare né a un ‘Pantagruel’ né a un ‘Don Chisciotte’. Fu pubblicato nel 1668. [...] Un libro sempre molto letto, ancora all’inizio dell’Ottocento, ma soltanto dai giovanissimi e dai ceti inferiori. Sulla scia romantica si dette il via alle riedizioni moderne del romanzo, che vennero fortemente ostacolate e condannate dalla chiesa cattolica. [...] Ma gli studi e le ricerche su Grimmelshausen che iniziarono con il Romanticismo hanno prodotto fino a oggi pochi dati certi: di Grimmelshausen sappiamo che nacque nella cittadina di Gelnhausen, nell’Assia, forse nel 1621, che prese parte alla Guerra dei Trent’anni al seguito delle truppe imperiali e che si convertì al cattolicesimo. Poi, dopo la guerra, aprì una locanda nel sud della Germania, ebbe undici figli, morì nel 1676, e con il proprio nome firmò solo le sue opere edificanti, come ‘La storia del casto Giuseppe in Egitto’. Su di lui si è scoperto molto poco di sicuro, e quel poco ha dato licenza di confondere il romanzo con un’autobiografia e l’autore con il suo personaggio. Un personaggio dal nome latino che, nonostante il suo linguaggio fiorito, inconfondibilmente adopera il ‘parlare tedesco’ (‘teutsch reden’, espressione che sta anche per un parlare franco e chiaro). Un personaggio senza nome, e dai tanti nomi insieme. È il ‘Bub’, ‘bambino’, che cresce nei boschi sperduti dello Spessart presso il padre adottivo, che mai gli diede un nome. È il bambino che viene battezzato Simplicius da un eremita che non sa di essere il suo vero padre. È Simplicius, che dagli orrori a cui è costretto ad assistere cerca scampo presso l’esercito imperiale, dove suo zio, che non sa di esserlo, cerca deliberatamente di farlo impazzire per fare di questo bambino del tutto ingenuo un utile buffone che viene soprannominato ‘vitello’. È colui che pur di liberarsi di questa pelle d’animale fugge vestito da ragazza. È Sabina, che cercando scampo dalle molestie del suo padrone, del servo, nonché della padrona, incorre nell’accusa di essere una spia. È Simplicius Simplicissimus, che si salva da un processo per stregoneria perché lo rapiscono i croati, che dovrà seguire come servo. È colui che diventa moschettiere nell’esercito imperiale, si fa un nuovo nome, Cacciatore, e da cacciatore ― cioè ladro ― si fa furbo e diventa ricco, e ancora più ricco quando trova un tesoro. È colui che le donne amano, e che, sorpreso a letto con una fanciulla, nello stesso letto la sposa. È colui che per un disguido finisce a Parigi, dove diventa Beau Alman ― ‘il bel tedesco’ ― guadagnandosi da vivere come cantante e prestando eccellenti servigi intimi alle dame della corte di Francia. È colui che si ammala di vaiolo, s’improvvisa medico, fa ritorno in Germania da mendicante, recupera il tesoro nascosto e si ritrova ricco. È colui che apprende la morte della moglie, ma non può farsi riconoscere come padre del proprio figlio perché questi è nato nello stesso periodo in cui altre dodici ragazze della buona borghesia della medesima città avevano partorito un maschietto ciascuna, tutti somiglianti a Simplicissimus come gocce d’acqua. Ed è colui che ci regala un solo, breve, commovente incontro con il suo unico figlio legittimo, chiamato Giovane Simplicius: non appena Simplicissimus bacia il bambino, i nasi di tutt’e due iniziano a sanguinare, come vuole la credenza popolare, per il vincolo di sangue che spontaneamente si manifesta”. Mi piacerebbe trascrivere l’intero articolo, che spazia con appassionato acume sulla storia della Letteratura tedesca esponendo su di essa alcune importanti considerazioni e si conclude con un’analisi molto coinvolgente dell’altro capolavoro di Grimmelshausen, purtroppo non ancora tradotto in italiano ― “A scorno di Simplex, ovvero accurata e meravigliosa descrizione della vita dell’arcitruffatrice e vagabonda Courasche” ― ma non posso farlo. S’intitola “Non solo Goethe. Simplicissimus e Courage. Radici umane nella Letteratura tedesca” ed è stato scritto, vi dicevo, da Susanne Portmann, Federica Fiore e Hamoun Vaziri. Se il testo integrale è nel web, e se qualcuno ne conosce il link, lo inserisca in un commento!
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96. Grubb, Davis: “La Morte corre sul Fiume”
È il romanzo (1953) di Davis Grubb (1919 ― 1980), da cui Charles Laughton (1899 ― 1962) trasse nel 1955 lo splendido film omonimo con Robert Mitchum, Shelley Winters e Lillian Gish. Rarissimo esempio ― forse unico, anzi, sia come romanzo sia come film ― di descrizione di uno psicopatico assassino realizzata senza nulla concedere all’idea che la follia (o il cosiddetto “male”) alberghino per natura in ognuno di noi. E splendida descrizione di due bambini, i bambini che egli insegue per ucciderli, raccontati senza nulla concedere all’idea che i piccoli umani vengano alla luce... non umani.
Il reverendo Harry Powell, predicatore itinerante, si è tatuato le nocche della mano destra con le lettere della parola “love”, amore, e quelle della sinistra con la parola “hate”, odio; ha creato, parlandone con Dio, la propria religione (così simile a quella cristiana che egli riesce facilmente a farsi credere un prete come gli altri); e l’ha dotata di un undicesimo comandamento (che Powell evita, però, di comunicare alle sue sciagurate “pecorelle”): “Combatti con ogni mezzo la sessualità umana e uccidi ogni donna che commette il tremendo peccato di piacere agli uomini”.
D’altra parte, poiché di sola fede non si campa, la religione del reverendo Powell lo autorizza, quando la peccatrice da eliminare è una danarosa vedova, a sposarla e impadronirsi dei suoi beni, prima di ucciderla e rimanere vedovo anche lui. Ed egli lo fa tutte le volte che può (e in maniera scrupolosa, tanto che nessun sospetto l’ha mai sfiorato) unendo, così, devozione e tornaconto.
Solo che Powell, oltre che assassino, è truffatore e ladro. E poiché, nel commettere tali delitti, è meno accurato o ha meno fortuna di quando uccide per ubbidire al suo Dio, un bel giorno la sua carriera criminale viene interrotta da qualche anno di galera.
Ma in cella non sta con le mani in mano: conosce Ben Harper, condannato a morte per un omicidio commesso nel corso di una rapina, e riesce a farlo parlare quanto basta per capire che il bottino mai ritrovato di quell’impresa (diecimila dollari) dev’essere nelle mani della moglie di Ben, Willa, o comunque nascosto in casa sua.
Quando Harper viene giustiziato, Powell, che intanto ha scontato la pena, si precipita da Willa, scopre che è una seducente sciocchina sola al mondo (proprio il tipo di donna che egli si fa un dovere di castigare) e la induce a sposarlo a furia di chiacchiere pie e di untuose gentilezze (e con l’aiuto di una vecchia beghina, direttrice spirituale della piccola comunità di provincia a cui Willa appartiene, che Powell persuade facilmente di essere un santo inviato da Dio).
Willa, però, dei diecimila dollari non sa niente: sono i suoi figlioletti, John e Pearl, a custodirne il segreto; e Powell, dopo aver invano tentato di guadagnarsi la loro fiducia, uccide la donna (più per punirla d’aver cercato di far l’amore con lui che per averlo sorpreso a interrogarli), ne fa sparire il cadavere ancorandolo in fondo al fiume e torna dai bambini per costringerli a parlare.
John e Pearl riescono a sfuggirgli saltando su una barchetta abbandonata; e sùbito una quieta corrente, la stessa che a qualche metro di profondità dona una parvenza di vita ai capelli della loro povera madre, li sospinge, braccati dal mostruoso reverendo Powell, verso un mondo naturale e umano di cui non immaginavano l’esistenza: un mondo magico, possente, generoso, al centro del quale una misteriosa vecchina attende i bambini sperduti come loro...
Può sembrare che il movente delle orribili azioni del reverendo Harry Powell sia la bramosia di denaro: la volontà d’impadronirsi a ogni costo dei diecimila dollari che il defunto Ben Harper, bandito di poca fortuna, ha affidato ai figlioli un istante prima di essere arrestato. Ma non è così. Powell (diversamente da Harper, che era diventato un rapinatore nella folle illusione di uscire con la violenza dalla miseria, ma avrebbe potuto imboccare altre strade) non ha possibilità di scelta: è costretto alla rapina perché non è capace di rivolgersi agli altri se non per assassinarli, e dunque non può procurarsi il denaro per vivere altrimenti che truffando, rubando e uccidendo.
Uno come Harper può cadere dal mondo del lavoro in quello del crimine per i motivi più diversi (in genere, per un intreccio di fattori personali e sociali che a un certo momento lo sprofondano in una crisi gravissima, dalla quale non ha speranza di uscire senza un aiuto che di solito non trova, e che spesso non sa neanche cercare), ma non finisce col delinquere perché non possa lavorare con gli altri e per gli altri. Quasi sempre, anzi, oltre a commettere crimini, saltuariamente lavora; e poi ha parenti e amici, non di rado è fidanzato o sposato, talora (come Ben Harper) è padre: rapporti e situazioni più o meno disastrati, certo, ma che testimoniano della sua perdurante (benché deteriorata) umanità.
Uno come il reverendo Powell, invece, per vivere deve delinquere, perché non può lavorare. E non perché non sia capace, o non abbia voglia, o tenti di ribellarsi a quella costrizione, ma perché non è in grado di stabilire alcun rapporto reale, neanche minimo, con un altro essere umano.
Ogni lavoro, infatti, anche il più umile, semplice e solitario, richiede un rapporto con gli altri. L’artista, per esempio, anche se si isola dal mondo per creare, si rivolge pur sempre a un pubblico, reale o potenziale, al quale offrirà prima o poi l’opera compiuta. Un contadino o un pescatore, soli in una campagna deserta o in mezzo al mare, hanno in mente i propri cari e lavorano per loro, o magari per la speranza di farsi un giorno una famiglia, o per il ricordo, grazie al quale riescono a tirare avanti, di quella che avevano un tempo e che hanno perduto. Nemmeno Robinson Crusoe avrebbe trovato la forza di darsi da fare, sulla sua isola deserta, se in lui, insieme al cosiddetto istinto di sopravvivenza (e alla fede in Dio di cui si compiaceva a ogni due per tre) non fosse rimasto forte anche e soprattutto il legame affettivo con i suoi simili.
Il reverendo Powell, invece, da molto tempo non ha più alcun rapporto con esseri umani reali, neanche sotto forma di ricordo o di speranza. Eppure va tra la gente, frequenta uomini e donne, vive e parla con loro. Ma è una recita, poiché in realtà se ne sta sempre chiuso dentro di sé come in un’orrenda segreta senza porte né finestre. Eppure i suoi sensi e la sua ragione funzionano, ed egli è perfettamente in grado di vedere, udire, interagire con gli altri. Ma non ha più alcuna comunicazione affettiva con loro, né vi è più, in lui, alcuna speranza di averne in futuro e alcun ricordo di averne avuta in passato. È sempre con sé che il reverendo Powell parla, quando sembra che parli con gli altri. I quali, per lui, non si distinguono dagli oggetti inanimati e non hanno, quindi, alcuna possibilità di movimentare i suoi sentimenti, ma solo quella di “indossare”, come nudi manichini senza vita, l’odio e la rabbia che egli nutre per loro non come esseri umani, ma come fantasmi da lui creati che popolano la sua mente.
È vero che la realtà si fonde con l’immaginazione in tutte le menti umane. Ma non in tutti allo stesso modo. Quando l’immaginazione è sedotta dalla realtà umana come l’amante dall’amata, il rapporto con essa è valido, pieno di significato, profondo, creativo. Quando, invece, l’immaginazione si distacca e si aliena dalla realtà umana, allora diventa mostruosa, insensata, delirante e nociva.
È quel che è accaduto al reverendo Powell: c’è solo repulsione, in lui, per la realtà umana. E benché egli, materialmente, la veda com’è, e parli, risponda e agisca appropriatamente, la sua mente, invece (in cui non ci sono “hate” e “love”, odio e amore, come proclamano le nocche delle sue dita, ma la furia che lui chiama amore e la volontà omicida che lui chiama odio) vede e ascolta solo il suo delirio.
Come può lavorare, uno così? Come può trarre da vivere onestamente da una realtà che per lui non è popolata che da ombre indistinte e mostri ripugnanti? Dove può attingere la passione, la forza, la costanza e la resistenza per operare nel mondo con quel minimo di armonia che è necessaria per non impedire agli altri di fare lo stesso, se nei loro confronti egli oscilla tra lucido odio e furia implacabile, e a nessuno permette di arrivare al suo cuore per modificarli? No, il reverendo Powell non può che delinquere per vivere, poiché non dispone di alcun altro modo di agire, e perciò non può trovarlo innaturale più di quanto un ragno possa giudicare strano il proprio acquattarsi in cima alla tela in attesa di una preda.
Eppure, per quanto il reverendo Powell odi tutti gli esseri umani, poiché in tutti vede solo dei fantocci che gli si agitano intorno come ombre incomprensibili su un muro, alcuni li odia così tanto che deve cancellarli dalla faccia della terra: le donne che talora riescono, magari senza volerlo né accorgersene, ad aprire uno spiraglio nei bastioni di idee deliranti che imprigionano la sua mente precludendole ogni contatto con gli altri.
Le donne, infatti, sono talvolta così belle e appassionate da intaccare anche la più gelida insensibilità. È per questo, per l’intensa seduzione esercitata dai loro sorrisi pieni di luce, dai loro movimenti aggraziati, dalle loro voci melodiose, che esse, oltre che molto amate dagli uomini, nel corso dei millenni sono state viste come nemici mortali da tutte le religioni, piene d’odio per la sessualità umana, che sempre hanno tentato di demonizzarle chiamandole peccatrici e streghe, di spegnerne la vitalità e la fantasia con la violenza fisica o morale e di costringerle a chiudersi in casa e a imbruttirsi. Ed è per questo che anche il reverendo Harry Powell le odia con tutte le sue forze: la bellezza di una donna, il suo fascino, il desiderio che ella può suscitare in un uomo di “uscire da sé” per entrare in rapporto con lei (vale a dire la cosa più bella che a un uomo possa accadere, l’evento che più di ogni altro può restituire alla sua immaginazione quella sintonia con la realtà che fu perfetta solo agli albori della sua esistenza) per un individuo come Powell è invece quanto di più pericoloso possa capitargli. Poiché il suo mondo fantastico è ormai così intriso, permeato, “materiato” di repulsione e odio, che anche il minimo fremito di desiderio potrebbe scardinarlo, farlo implodere, distruggerlo. E ridurre lui a poco più di un vegetale.
L’esistenza stessa delle donne, soprattutto se belle, libere, seduttive, è un attentato continuo al delirio che mantiene in funzione la mente del reverendo Powell. Che ne sarebbe della sua religione (cioè del suo mondo di angeli asessuati e demoni ributtanti) e che ne sarebbe del creatore di tale mondo (cioè di Powell medesimo) se il fascino di una donna riuscisse a penetrarvi? No, per il reverendo Powell le donne sono le streghe più infide e potenti. Ed egli, perciò, quando non gli riesce di crederle inesistenti, per far sì che non ci siano può solo ucciderle. Per tramutarle da desiderabili in orrende e per punirle del “peccato” da loro commesso contro di lui e contro la sua fede.
Per questo uccide Willa: non perché ella l’abbia sorpreso mentre interrogava i bambini o perché possa impedirgli di impadronirsi del denaro, ma perché la donna, la prima notte di nozze, ha tentato di suscitare il suo desiderio. Ed è ancora per questo, con ogni probabilità, che il reverendo Powell tenta di assassinare i bambini: non per i diecimila dollari, ma perché John e Pearl sono riusciti per un istante ad accendere in lui un minuscolo bagliore d’affettuoso interesse, e quindi devono morire prima che esso si trasformi in un’esplosione di luce che lo accecherebbe. Poichè il bambino è la verità dell’essere umano. E Powell, della verità umana, non può più sostenere la vista senza disgregarsi.
Ma John e Pearl fuggono. Per aver salva la vita? Certo. Ma non solo. Poiché nessun bambino vivrebbe neanche un giorno, se la sua volontà di vivere non fosse anche speranza, così John e Pearl senza speranza non si salverebbero: consapevolmente o meno, si lascerebbero prendere dall’uomo nero.
Invece riescono a sfuggirgli, riescono a “tuffarsi” nel mondo prima che gli artigli del reverendo si chiudano sui loro fragili corpi, poiché essi, al contrario di Powell, con la realtà hanno mantenuto un rapporto affettivo: amano il mondo, hanno ancora fiducia in esso, e gli permettono di entrare nelle loro menti e di fondersi con la loro immaginazione.
La fuga di John e Pearl, infatti, è la parte più affascinante della vicenda. Nel corso di essa il mondo appare loro non come agli adulti, o peggio come nei deliri del reverendo Powell, ma in tutta la sua incantevole, accogliente, ingenua magia. E implicitamente pone ai lettori un quesito cruciale: qual è il vostro mondo? Quello a cui John e Pearl si abbandonano con fiducia? Il mondo gelido, insensato, feroce, in cui il reverendo Powell si muove come un ragno sulla tela, appeso al filo del proprio delirio? O quello sempre insicuro in cui vivono i tanti che credono ai tipi come Powell, che si fidano di essi, e che affidano loro, senza un briciolo d’amore né un lampo di saggezza, le donne e i figli?
Dopo il capitolo sul reverendo e quello su John e Pearl, infatti, un altro importante “discorso” de “La morte corre sul fiume” è quello su coloro che si schierano dalla parte dei Powell, e in tal modo, più o meno consapevolmente, li aiutano a imperversare sugli altri. La più mostruosa è la beghina che spinge la povera Willa a sposare il reverendo, e che poi, quando le malefatte di Powell la costringono ad aprire gli occhi, aizza e si mette alla guida del furibondo corteo che lo cerca per linciarlo. Ma i compaesani non sono, in fondo, migliori di lei: tutti ciechi, prima, nella loro stupida infatuazione per il lupo travestito da agnello, e tutti ciechi, anche dopo, nel furore che sta per trasformarli in assassini: ciechi e stupidi sempre. Cosa sono, del resto, cecità e stupidità, se non conseguenze dirette dell’assuefazione all’anaffettività?
Meno del reverendo Powell, ma solo per essersi avviati con minor decisione sulla strada che egli ha percorso fino in fondo a passi da gigante, anche i compaesani di John e Pearl hanno fuorviato la propria immaginazione: l’hanno portata molto lontano dal mondo magico dei bambini, con mille scuse menzognere l’hanno condotta nella nera foresta delle streghe e degli orchi, e laggiù l’hanno abbandonata.
Ma ecco la signora Rachel Cooper, la buona vecchina che offre ai bambini accoglienza e protezione; ecco la sua severa bontà e la sua dolcezza un po’ malinconica riscattare gli adulti dalla condanna senza appello che stava per colpirli. Eppure vive sola in una casetta lontano dal paese! Eppure cattura i bimbi sperduti e abbandonati, i poveri Hänsel e Gretel che sorprende mentre vagano nel bosco impauriti e tremanti! Non sembra proprio una strega?
No. Se fosse una strega, o un’orchessa, non si sarebbe allontanata dagli esseri umani per salvare il proprio amore per loro rifiutandosi di condividere quel che fanno di disumano. E non dovrebbe duramente faticare dapprima per essere ascoltata, poi per essere capita, infine per essere creduta, e talvolta addirittura per essere vista. No, gli orchi e le streghe vanno sicuri tra la gente come fa il reverendo Powell, ostentando cortesia e amabilità, sorridendo sempre e spacciando con incredibile improntitudine le bugie più insensate, rozze e violente; e la gente, spesso, corre ammirata ad ascoltarli, crede alle balle che raccontano e li segue fino alla morte (in genere, quella degli altri).
Perfino i bambini, talora, si lasciano ingannare dagli orchi e dalle streghe travestiti da agnelli e da fatine. Ne “La morte corre sul fiume”, per esempio, è quel che accade alla piccola Pearl. E lì per lì non riusciamo a crederlo: com’è possibile, ci vien fatto di domandarci, che sia anche lei già così sciocca come la madre, o addirittura insensata come la vecchia balorda che induce la madre a sposare il reverendo Powell? Ma poi capiamo che il modo in cui un bambino si lascia ingannare è l’opposto di quello in cui si fa ingannare un adulto: il bambino, se cade in trappola, è perché si attende che il mondo umano sia come lui, umano davvero; l’adulto, invece, perché ha dimenticato e non vuol più sapere come il mondo umano dovrebbe essere.
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97. Gutteridge, Lindsay: “Guerra fredda in un Giardino”
Attenzione: se siete insettofobi, non leggete quel che segue!
“Durante il mattino rimasero sdraiati in una valle a prendere il sole. A mezzogiorno, quando il metallo si era fatto eccessivamente caldo, tornarono giù per lo spiovente e si ripararono dal sole sotto il groviglio del caprifoglio che stava sul tetto. Sabbia e detriti, venuti giù lungo le valli, erano stati fermati dalle ramificazioni contorte della pianta, depositandosi dove i fiori caduti e il dolce profumo del caprifoglio riempivano l’aria. Un fiore dalla forma di tromba giaceva mezzo sepolto. Henry toccò l’estremità del grande tubo nel punto in cui si era staccato dal peduncolo della pianta: l’orlo non era lacerato, ma aveva un taglio a tacche regolari. «Vedi qui, Bill? Una vespa l’ha morsicato da parte a parte». Additò il punto da cui il fiore era caduto, e Olsen vide una chiazza asciutta di gomma resinosa che era essudata dalla glandola nettarea della pianta. «La via regolamentare per giungere al nettare è lungo il tunnel del fiore, impollinandolo nel transito ― le falene v’insinuano una lingua lunghissima allo stesso scopo ― ma alcune vespe ne fanno a meno: prendono la scorciatoia staccando a morsi la corolla e arrivando al nettare in questo modo». «Le bastarde» sogghignò Olsen. «Ti faccio vedere». Henry si arrampicò fino all’interno di una corolla che dondolava non lontano da terra. Olsen v’introdusse la testa e arricciò il naso: «Ha l’odore di un bordello esotico». Lunghe sbarre di stami uscivano dal fiore, e Henry le tagliò via col machete. Granelli di polline vennero scossi dagli stami e scivolarono giù sulla sabbia come palloni dorati. Anche Olsen vi si arrampicò, e dovettero chinarsi ben bene per camminare all’interno del fiore. Henry si accovacciò e immerse il machete nella parete terminale. Un’essenza sottile e cremosa scorse sulla lama. Olsen allungò il braccio sopra la spalla di Henry e con l’indice si portò un po’ di liquido alla bocca. «Buono, buono. Lui molto buono, molto dolce...» Melodrammaticamente strabuzzò gli occhi, si fregò lo stomaco con un movimento rotatorio, passò il bordo della mano sulla lama del machete e si leccò il palmo. Si accamparono all’ombra e prepararono il pasto. Mentre erano in cerca di carburante nel sottobosco trovarono e uccisero un essere dalle molte zampe; Henry le arrostì sul fuoco. Tagliò un tratto di stame in fette spesse, le avvolse in una foglia e le seppellì, insieme a un granellino di polline, in mezzo al fuoco. Poi fece girare le zampe su un bastoncino finché ne sgocciolò fuori del liquido che schizzò sulle fiamme. Spezzarono le zampe, aprirono l’avvolgimento esterno della palla di polline ormai bruciato e svolsero la foglia contenente le fette cotte e fumanti. «Carne e due contorni di verdura» disse Olsen, con la bocca piena. «I miei complimenti allo chef». Terminò di mangiare, buttò nel fuoco gli involucri delle zampe e il tegumento del polline, si pulì le mani unte con la foglia, si si lasciò cadere all’indietro e ruttò. «Ecco risolta la faccenda della rigovernatura... e ora ci vorrebbero del brandy e dei sigari. Diavolo, perché non mi son portato da bere, Henry? Avresti dovuto ricordarmelo». Rimasero sdraiati in prossimità del campo per il resto del pomeriggio. Con l’avvicinarsi della notte si fece più freddo e si sedettero accanto al fuoco avvolti nelle coperte. «Penso che dormirò nella corolla, Bill, là dovrebbe essere più caldo e più asciutto». Henry gettò la coperta nel fiore aperto e vi si arrampicò. Stese la coperta e si apprestò a dormire. «Domattina profumerai come una fata» gridò Olsen, poi preparò il fuoco e vi si sdraiò vicino, con la balestra sotto la coperta. Dormirono più a lungo del solito. Olsen si svegliò accanto alle ceneri grigie del fuoco, la coperta zuppa di rugiada. Si alzò, si stiracchiò, poi diede una spinta alla casa-fiore sospesa di Henry. Essa oscillò sul suo peduncolo e Henry ne uscì tutto rigido, sbadigliando rumorosamente. La prima colazione fu a base di carne fredda e nettare fresco. Olsen si stropicciò le mani appiccicose e indicò un lontano tremolar di luce attraverso il groviglio di rampicanti: «Sembra acqua? Che ne dici di una lavata?» Ma Henry si sentiva addosso una grande stanchezza per l’arrampicata sul tetto e fece ritorno al fiore per un altro po’ di riposo. Olsen distese la sua coperta al sole, poi si mise in spalla la balestra e si diresse sotto i rampicanti verso il luccichio dell’acqua. Scese giù nella grondaia piena d’erba e camminò attraverso il folto finché raggiunse una stretta spiaggia. L’acqua colmava la grondaia fin dove l’occhio arrivava. S’inginocchiò sulla sponda, ne prese un po’ nei palmi delle mani e se la portò alla bocca. Era amara; la sputò, poi avanzò veloce sull’orlo della grondaia arrugginita. Si era aspettato un lago dove poter immergersi, ma questo era simile a un canale abbandonato, una gialla pellicola di ossido galleggiava a chiazze sulla superficie e lontane dune ne bloccavano l’estremità meridionale. Una frotta di larve di zanzara immote stava sospesa a testa in giù sotto la superficie dell’acqua, e sotto di loro un essere rosso simile a un verme si snodava pigramente. Un movimento improvviso nell’acqua fonda e immobile fece sussultare Olsen. Una forma grigia, trascinantesi dietro una nube di fanghiglia, emerse dalla nera melma del fondo del canale. Lo scorpione d’acqua afferrò il verme rosso con le sue chele, poi s’inabissò e sparì in una silenziosa esplosione di fango. Il tutto avvenne in pochi secondi. Lentamente la nube nera si adagiò sotto la superficie e le larve di zanzara saltellarono sballottate nell’acqua agitata. Una sensazione come di prurito si diffuse sulla parte posteriore del collo di Olsen. Egli corse lungo l’orlo della grondaia verso le dune, le valicò e si lasciò dietro il ripugnante canale. Una serie di pozzanghere non contaminate da depositi chimici si stendeva in una bassura ed egli le attraversò sguazzandovi dentro finché ne trovò una abbastanza profonda da poter nuotare. Lasciò la balestra sulla riva, si gettò a nuoto a si lavò, poi si lasciò galleggiare tenendo gli occhi chiusi. Rimase con le braccia e le gambe distese e si rilassò. Il sole brillava caldo attraverso le palpebre. Impercettibilmente la corrente trasportò il suo corpo attraverso la pozza: toccò la riva sabbiosa con le mani e si destò dal torpore causatogli dal sole. Si raddrizzò improvvisamente, andò sotto con la testa spruzzando acqua all’intorno e faticò a trovare l’equilibrio. L’acqua era abbastanza bevibile, la trangugiò, poi ne uscì, raccolse la balestra e si diresse all’accampamento. Era deserto; la sua coperta era ancora stesa accanto alle ceneri del fuoco della sera prima. Andò verso il fiore in cui Henry aveva dormito. Il sole del mattino brillava attraverso i petali. «Bastardo poltrone» disse Olsen. Si bloccò. Due forme scure erano visibili attraverso la parete traslucida del fiore: una piccola all’estremità del tubo e una grande vicino all’imboccatura. La più grande si mosse cautamente in avanti. Olsen lanciò sei dardi contro quell’ombra in movimento. Sparava come una macchina, caricando la balestra e scoccando mentre era in corsa. Al primo colpo quella cosa si fermò. Al secondo, uno stridulo ronzio giunse da dentro il fiore. L’essere lottò con violenza frenetica, scuotendolo tutto. Olsen lanciò il terzo, quarto e quinto dardo. Il calice si gonfiava e si allungava, Olsen si acquattò sotto la curva del fiore e colpì ancora e ancora. Sentiva il pesante corpo vibrare all’interno. Al suo ultimo dardo la pianta ebbe un’ultima scossa, un nero artiglio all’estremità di una zampa pelosa emerse da uno dei fori fatti dalla balestra, poi l’intera massa penzolò lentamente fino a fermarsi del tutto. Olsen guardò nell’imboccatura del fiore. Un viluppo di ali bloccava il passaggio. Una goccia di veleno colò piano piano dall’aculeo della vespa morta. «Henry!» gridò. Non ci fu risposta. Corse sotto il fiore e praticò una fenditura a forma di V nel pallido ventre del calice, abbassò il lembo e introdusse la testa all’interno dell’apertura. Henry era seduto con le ginocchia tirate sù e la schiena verso l’estremità del tunnel. Aveva un’espressione attonita, gli occhi fissi in quelli dell’insetto. Olsen guardò l’animale. Sebbene fosse morto, quegli occhi sfaccettati e scintillanti e le zanne terribili, visti così da vicino, lo fecero rabbrividire. Toccò Henry sulla caviglia. «Vieni fuori, ragazzo mio» disse, affettuosamente. «Adesso è morta»”.
Lindsay Gutteridge (1923 ― 2007) scrisse “Guerra Fredda in un Giardino” (“Cold War in a Country Garden”) nel 1971.
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98. Handke, Peter: “L’Ora del vero Sentire”
Nel 1981 una splendida ragazza mi parlò di lui, e io (che di solito, in fatto di letture, non sento nessuno neanche se mi ci metto d’impegno) poiché l’amavo mi immersi nei bei titoli del Peter Handke (1942 ― vivente) di allora: “Prima del calcio di rigore” (1970), “Breve Lettera del lungo Addio” (1972), “Infelicità senza Desideri” (1972), “L’Ora del vero Sentire” (1975), “La Donna mancina” (1976), “Storia con Bambina” (1981), “Il Cinese del Dolore” (1983). Poi mi fermai, smisi di seguirlo, e non l’ho più riletto fino a oggi. Forse non mi piacque “Il cinese del dolore”? Forse intuii, leggendolo, un’incipente involuzione a cui non volli assistere? Quel che so è che nel secolo scorso non pochi scrittori (e registi) non riuscirono a mantenersi all’altezza dei loro esordi (ne cito solo uno, del quale riparleremo: il grandissimo Alberto Moravia ventiduenne de “Gli Indifferenti”) o morirono prima che accadesse. Come se qualcosa “nell’aria”, da cent’anni a questa parte, soffochi e uccida i talenti artistici più indifesi per far pullulare le erbacce invece dei fiori...
Vi parlerò dei due libri che più mi coinvolsero nonostante l’impegno quasi sovraumano con cui Handke evita ogni minimo risalto emotivo, come per allontanare i lettori “dalla lacrima facile” e attrarre, invece, quelli i cui sentimenti sono ancora così vivi che bastano le nude parole, senza “paramenti e bardature” ― nella loro nuda “fattualità” ― a suscitarli in essi come quand’erano bambini. (Ho detto “evita”, ma ignoro se Handke abbia poi continuato a fingersi glaciale o se oggi lo sia davvero...)
“L’Ora del vero Sentire” (“Die Stunde der wahren Empfindung”, 1975, uscito in Italia nel 1980) è la storia di un uomo che si presenta così: “Chi ha mai sognato di essere diventato un assassino e di continuare la vita normale solo in apparenza?” Come se sappia o intuisca che anche ad altri (ricordate il dottor Borg de “Il posto delle fragole”, 1957?) i sogni prima o poi rivelano che hanno ucciso qualcuno che erano loro stessi.
“Ma la cosa che lo angosciava di più era il fatto di essere diventato un altro, e di dover tuttavia fingere che nulla fosse cambiato”. Sì: mentre l’orrore che si è palesato in lui ci sconvolge fin quasi a dissuaderci dal seguitare a leggere, a Gregor Keuschnig dispiace soltanto di non poter manifestarlo. Osserva sua moglie dormire e si chiede “come può cancellarla dalla propria vita”. “Solo se morisse potrei sentire di nuovo qualcosa per lei” pensa. “È diventato insensibile”. “Per lui tutto è ugualmente lontano e ugualmente indifferente. [...] È come se il suo sguardo, prima di poter percepire qualcosa, sia reso vano da uno schermo invisibile; non può raggiungere niente ― e prova anche disgusto, all’idea di raggiungere qualcosa”. “Tutte le cose che vede son diventate segni di morte”. “Sì, vive ancora, va liberamente in giro, ma presto sarà finita, per lui. Vuole picchiare tutti, uno per uno”. “Sente una voglia furiosa di uccidere”. Va dall’amante, ma “se lei lo toccasse la sbatterebbe con un pugno sul pavimento”. “Mettere - i - calzoni - sulla - sedia; mettersi - a - letto - insieme”; mettere - il - membro - nella - vagina. Lei gli passa l’unghia sul pene, e lui ha la sensazione che lo contagi con una ripugnante malattia della pelle”.
Leggete questo: “Dall’ultima notte qualcosa si è fermato. È l’inconoscibile, ed egli può soltanto allontanarsene. Esservi iniziato è diventato assurdo, esserne raccolto inimmaginabile, farne parte è l’inferno sulla terra. [...] L’imbroglio è stato scoperto, e lui si è sottratto all’incantesimo”. Ricorda anche a voi “Forse un mattino andando in un’aria di vetro” (1925), di Eugenio Montale? Quel disumano “...ed io me n’andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”?
“Gli paiono fasulli perfino i lattanti sotto i parasole, con le guance color carota tritata. Anche loro fanno solo come se, pensa. Ma in realtà sono nauseati fino alla morte, dalla loro scipita esistenza di lattanti!”
Però Gregor Keuschnig ha una figlia, Agnes: “Quando, alcuni anni prima, l’infermiera gli aveva fatto vedere per la prima volta la bambina, attraverso il vetro, si era mosso qualcosa dentro di lui? Aveva avuto un senso di felicità, certo ― ma in che modo era stato reale? Non si ricordava una sensazione, ma il fatto di essere stato felice. Era stato commosso, certo, ma ora neanche a occhi chiusi riesce a rivivere quello stato”.
L’orrore giunge al culmine quando Keuschnig, abbandonato dalla moglie, resta con la figlia e, un giorno terribile ― mentre “per la prima volta si rallegra di essere solo con lei”, poiché la bambina “nella sua solitaria autonomia irradia un orgoglio così oggettivo che si comunica anche a lui... percepire insieme a lei!, solo così può scacciare il disgusto e la nausea”, scoprendo che “in tutte le cose, nelle nuvole, nelle ombre degli alberi, nelle pozze d’acqua, la bambina vede forme... che lui non percepiva più da tanto tempo ― proprio quel giorno Keuschnig perde di vista la figliola! E “cerca, sì, per tutta la piazza, guarda nelle macchine che arrivano, ma è una pura formalità”.
Non vi racconto cosa succede dopo questa catastrofe, né in che modo ― in apparenza del tutto impossibile ― proprio adesso scocchi per Gregor Keuschnig “l’ora del vero sentire” che lo restituisce (forse) alla sua umanità. Vi dico soltanto (lo avrete già intuìto, anche se non avete letto questi due romanzi) che c’è un nesso fondamentale tra “L’Ora del Vero Sentire” e “Storia con Bambina” (“Kindergeschichte”, 1981). Tutt’e due sono autobiografici, ma nel secondo né il padre né la bambina hanno un nome: un padre scrittore e una figlia poco più che neonata che la donna, ben presto, lascia soli.
“Di per sé il fatto «bambino», senz’altri attributi, emanava serenità ― l’innocenza era una forma dello spirito! ― e si trasfuse come qualcosa di furtivo nell’adulto al di qua della vetrata, unendo quei due, una volta per sempre, in una sorta di cospirazione. [...] Il neonato; il lavoro [di scrittore] ben fatto; l’inaudito momento di unione con la donna nel cuore della notte: per la prima volta, l’uomo [...] si scopre in uno stato di piccola perfezione, forse poco appariscente, ma a lui adeguato. Si sente trascinato fuori, all’aperto, dove le strade sono adesso, almeno una volta, le vie di una metropoli amica [...]. Fu l’ultimo momento di unità, per molto tempo”.
Per alcuni anni, vi dicevo, l’uomo resta solo con la bambina. “È un tempo senza amici; anche sua moglie è ormai una sgradevole estranea. Tanto più reale la bambina, anche per il rimorso che l’uomo prova ogni volta che fugge letteralmente a casa da lei. Piano piano attraversa la stanza ormai buia, e mentre si avvicina al letto si vede dall’alto e da dietro come in un film, un ‘kolossal’. Qui è il suo posto. Vergogna per tutte le false comunità, vergogna per quel continuo, vile rinnegare e passare sotto silenzio il solo essere che mi appartiene! Vergogna per la mia solerzia a favore della vostra attualità! ― Così, a poco a poco, perviene alla certezza che, per uno come lui, ciò che da sempre conta è l’altra storia, quella che gli appare dai lineamenti della bimba dormiente. [...] Tutto confluisce nella storia della bambina, e di lei, a parte i soliti aneddoti, all’adulto rimane impresso un aspetto caratteristico: è gioiosa e sensibile”.
Naturalmente non posso raccontarvi tutto il romanzo. Leggete ancora questo brano, però (e notate, tra l’altro, come ricorda Holden e Phoebe:
“Una sera di primavera la vede là ― nell’immagine interiore, ‘là sopra’ ― in una piazzola di sabbia. Sta giocando da sola in una frotta di bambini quasi coetanei, che come lei non sanno ancora camminare. Atmosfera di crepuscolo, anche dai rami frondosi sopra i bambini; aria tiepida e chiara, alcuni volti e mani straordinariamente luminosi là dentro. Egli si china su quella figura dalla veste rossa. Essa lo riconosce, e pur senza sorridere emana splendore da lei. Non le dispiace stare in mezzo agli altri, ma appartiene a lui e lo ha atteso a lungo. Adesso, dietro i tratti infantili riappare all’adulto, ancor più intensamente di quand’è nata, quel viso illuminato e onnisciente, ed egli accoglie per sempre, da quegli occhi calmi e senza età, il breve sguardo dell’amicizia; un sentimento che fa dimenticare sé stessi e piangere. Più tardi, ancora in primavera, la bambina è seduta sul cavallo di una giostra, da sola. I bordi della piazza sembrano scogli bianchi di schiuma; ha giusto smesso di piovere. La scossa di partenza scuote tutta la giostra che si mette in moto, e la bambina, con un inconsueto senso di distacco dall’adulto, alza un momento lo sguardo, si perde però subito nell’ebbrezza di girare in tondo e non ha più occhi per altro. In seguito l’uomo collega questo attimo con un momento della propria infanzia, quando una volta percepì con uno strazio atroce il distacco di sua madre da lui, pur essendo con lei nella medesima stanzetta: È possibile che quella donna lì sia qualcosa di diverso da me qui? Lo sguardo fisso sulla giostra che va con quella figurina rapita nei suoi giri fa emergere il contrasto del momento: l’adulto scopre per la prima volta in quel che gli appartiene un essere autonomo, indipendente da uno dei genitori qui presente; che anzi dev’essere confermato in questa sua libertà!”
Sono tanti, troppi, i brani che vorrei trascrivere ― alcuni drammatici, altri gioiosi, tutti commoventi: vi invito a scoprirli da soli. Ancora solo uno, anche questo del tutto “salingeriano” (ma non lo dico per criticare, anzi)...
“La primavera seguente, durante un viaggio in treno attraverso una valle grigia, bagnata, vede un bambino procedere lesto accanto ai binari e dentro di sé gli parla: «Che tu sia lodato, bambino sconosciuto, dal passo saltellante!» ― E dopo ancora, un altro tragitto in pullman ― anche questa volta ci sono quasi solo bambini, mentre il crepuscolo annotta ― e la frase che si affaccia spontanea: «C’è salvezza per i bambini?» Poiché nel corso del tempo il viaggiatore ha creduto di vedere che essi, senza eccezione, sentono la mancanza di qualche cosa e sono in attesa di qualche cosa. I lattanti che incontra in aereo, nelle sale d’aspetto, o altrove, non sono soltanto ‘piagnucolosi’ o irrequieti, ma gridano dal profondo. Quasi immancabilmente dalle contrade più tranquille si leva ben presto lo strillo disperato di un piccolo essere umano che da qualche parte invoca un congiunto. Ma è chiaro che i bambini sentono anche l’esigenza di estranei incontrati per caso: infatti, nella ressa dei boulevard, dei supermercati e dei métro, l’unica cosa certa sono sempre quei due occhi spalancati, quasi immobili, che, a mezza altezza rispetto agli adulti, veramente percepiscono ogni singolo in una folla, per grande che sia, e là cercano uno sguardo di risposta (così come, d’altra parte, il passante può confidare sul fatto di essere notato soccorrevolmente da loro nel transitare). E quindi gli appare evidente: i «tempi moderni», che pure ha così spesso maledetti e ripudiati, non esistono affatto: anche «la fine del mondo» è solo un’idea cervellotica: con ogni nuova mente ricominciano le medesime possibilità, e gli occhi dei bambini nella calca ― guardali! ― trasmettono lo spirito eterno. Guai a te, se non sai captare questo sguardo”.
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99. Hardy, Thomas: “Tess dei d’Urberville”
Può un solo istante ― l’incontro mancato tra due che si sarebbero amati ― causare il fallimento e la tragedia delle loro vite? “Tess dei d’Urberville ― Una donna pura” (1891), capolavoro di Thomas Hardy (1840 ― 1928), è un romanzo appassionante ma dolorosissimo. In cui riesce, invece, come un incastro perfetto tra oggetti inanimati, l’incontro fra lo stupido, alcolizzato rigattiere Jack Durbeyfield e il fatuo ma colto parroco Tringham, che lo convince di essere l’ultimo discendente di una nobile, antica famiglia, i d’Urberville. Ma non è l’immediata, folle esaltazione di Jack o l’analogo, travolgente delirio di sua moglie a spingere Tess verso la rovina, no: quel che priva la splendida Tess della forza di opporsi alla loro follia ― Tess che non è una sciocca, e vuol fare la maestra ― è l’istante del mancato incontro tra lei e Angel Clare, giovane studente di buona famiglia, che quello stesso giorno di primavera si ferma per qualche minuto a ballare in un campo con le ragazze del villaggio, ma... non invita Tess, o Tess non si fa invitare, o tutt’e due le cose, e perciò non si conoscono, non si innamorano, e niente può più salvarli: neanche incontrarsi di nuovo in futuro, neanche innamorarsi tutt’e due immensamente, neanche sfidare i pregiudizi, l’invidia, la cupa disumanità di quasi tutti quelli che hanno intorno... Ho scritto “salvarli”? Ho sbagliato. Ad Angel l’istante mancato lascia, dopo la tragedia, una via di scampo: solo a Tess, solo alla splendida fanciulla Tess, l’aver perduto quell’unico momento toglie per sempre ogni speranza di diventare la splendida donna che poteva essere.
Sbaglia, dunque, Pietro Citati, nell’introduzione, parlando di “destino”. Nessuno scrittore, per quanto inetto, ignora (o vuol nascondere ai lettori) che il “destino” è lui medesimo. Shakespeare è il “destino” di Ofelia, Giulietta, Desdemona. Tolstoj è il “destino” di Anna Karenina. Dostoevskij è il “destino” della Mite. Hardy è il “destino” di Tess. Thomas Hardy cinquantunenne, che pagina dopo pagina le dedica tutta la poesia di cui è capace: la poesia per la quale, buona o mediocre, al culmine del successo abbandonerà fino alla morte la narrativa. Possiamo solo voler credere ― per amor suo e ancor più per amore dei suoi illustri predecessori, e non certo dei loro miseri epigoni novecenteschi ― che le tragedie che infliggono alle meravigliose ragazze da loro create non le costruissero con l’odio, ma col dolore.
“Fantasia e realtà si sfiorano mentre il sole illumina le figure delle fanciulle contro il verde delle siepi e le facciate delle case, merlettate di rampicanti; benché tutte siano vestite di bianco, non ci sono due bianchi uguali: alcuni abiti sono quasi candidi, altri tendono all’azzurrino, e altri ancora, indossati da donne più anziane, tendono al livido. [...] Ma guardiamo quelle nei cui corsetti la vita palpita, rapida e calda. Le ragazze sono la maggioranza del gruppo, e i loro folti capelli riflettono alla luce solare tutte le tonalità dell’oro, del nero, del castano. [...] E mentre il sole riscalda i loro corpi, ognuna ha dentro di sé un altro piccolo sole di cui gode il tepore: un sogno, un affetto, un’innocente mania o almeno qualche remota speranza”.
“L’aspetto di Tess rivela ancora tracce dell’infanzia: nonostante la sua bellezza e la prorompente femminilità s’indovinano, talvolta, i dodici anni sulle sue guance, o i nove brillare nei suoi occhi; perfino i cinque anni aleggiano di quando in quando nelle curve della sua bocca. Ma pochi se ne accorgono e ancora meno vi riflettono”.
Una tragedia costruita con l’odio o col dolore?, mi domandavo. Sentite quel che Tess risponde al fratellino mentre insieme guardano le stelle:
“«Mi hai detto una volta che le stelle sono mondi, Tess?» «Sì». «Come il nostro?» «Non so, ma penso di sì. Assomigliano ai frutti del nostro melo: alcuni sono splendidi e sani, e alcuni marci». «Noi dove viviamo?... su un mondo splendido o su uno marcio?» «Su uno marcio»”.
“Così ebbe inizio la storia. Se Tess avesse sentito l’importanza dell’incontro, si sarebbe chiesta perché quel giorno dovesse notarla e desiderarla l’uomo sbagliato e non l’altro. [...] Così, in questa storia come in milioni di altre, le due unità di un perfetto insieme non si sono incontrate al momento perfetto: e l’assente, vagando in solitudine per il mondo, aspetta in crassa ottusità un tempo che giungerà sempre troppo tardi”.
“Ma qualcuno potrebbe domandarmi: dov’era l’angelo custode di Tess?” scrive Hardy (che non fu mai credente e per questo pagò ― e fece pagare ― notevoli prezzi, sebbene conoscesse le Scritture meglio di un teologo). “Esisteva una provvidenza che tutelasse la sua ingenua fiducia? Forse, come le altre divinità delle quali parlò l’ironico Tisbita [il “profeta” Elia, che sconfisse quattrocento sacerdoti di altri dei e poi li derise perché solo il suo aveva fatto un miracolo per lui], stava chiacchierando, o era inseguito, o era in viaggio, o forse stava dormendo e non si era svegliato? Perché su questo bel tessuto femminile, sensibile come una sottile ragnatela e fino ad allora puro come la neve, veniva tracciato un disegno così rozzo? Perché così spesso ciò che è rozzo s’impadronisce di ciò che è più delicato: l’uomo sbagliato, di una donna, la donna sbagliata, di un uomo? Migliaia d’anni di filosofia analitica non sono riusciti a spiegarcelo”.
David Herbert Lawrence (1885 ― 1930), su cui Hardy certamente influì, all’inizio del ’900, pochi anni dopo “Tess”, scrisse (ne “Il Pavone bianco”): “Alcuni, invece di portare con sé nubi di gloria, trascinano seco nubi di dolore: sono, costoro, nati col «dono del dolore»; «solo i dolori sono reali» proclamano. «Gli angeli velati e grigi del dolore elaborano lentamente le belle forme. Il dolore è la bellezza, e la suprema benedizione». Questi pensieri si leggono nei loro occhi, e nel tono delle loro voci. Emily [la ragazza di cui è innamorato ne “Il Pavone bianco”] aveva il dono del dolore. Esso mi affascinava, ma mi spingeva anche alla ribellione”.
Lode a Lawrence, per aver almeno tentato di ribellarsi!
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100. Hašek, Jaroslav: “Il buon Soldato Sc’veik”
Non si può ridere della guerra. Ma ridere di coloro che mandano gli altri a morire e ad ammazzare, e di chi giulivo come un’oca ubbidisce e va, e di preti e prelati d’ogni risma religiosa che benedicono i morituri e lucrano sui morti, questo si può fare. E l’unico che lo ha fatto è Jaroslav Hašek (1883 ― 1923) nel romanzo “Il buon soldato Sc’veik” (1912 ― 1923). Perciò, se non l’avete letto, vi propongo di salvare quel che segue e centellinarvelo nei prossimi giorni come un buon vinello.
Sc’veik si reca col cappellano a servire la messa al campo
Non c’è massacro d’uomini i cui preparativi non abbiano avuto luogo nel nome di Dio o a ogni modo d’un supposto ente supremo che l’umanità ha creato con la sua fantasia. Prima di decapitare un prigioniero di guerra, gli antichi Fenici celebravano un solenne servizio divino simile a quello celebrato dai loro posteri più giovani di qualche migliaio di anni, prima d’entrare in battaglia e d’annientare i loro nemici col ferro e col fuoco. Gli antropofagi delle isole della Polinesia e della Nuova Guinea, prima di divorare solennemente i loro prigionieri di guerra o la gente che non serve a niente come i missionari, gli esploratori, i rappresentanti di commercio o dei semplici curiosi, sacrificano ai loro dei eseguendo i più svariati riti liturgici. Poiché il nostro civilissimo costume dei paramenti non è ancora giunto fra loro, essi adornano i propri fianchi con ciuffi di piume d’uccelli selvatici. La Santa Inquisizione, prima di mandare al rogo le sue vittime, celebrava la più solenne delle cerimonie religiose, vale a dire una gran messa cantata. All’esecuzione di un criminale assiste ovunque qualche sacerdote che lo tormenta con la sua presenza. In Prussia è il pastore che guida il poveraccio sotto la scure, nell’Austria è il prete cattolico che lo conduce alla forca, come pure in Francia alla ghigliottina. Allo stesso modo, in America è un sacerdote che l’accompagna alla sedia elettrica, e in Ispagna alla garrota; in Russia è un pope barbuto che presenzia all’esecuzione dei rivoluzionari. In ogni paese i sacerdoti brandiscono il crocifisso come per dire: “Ti taglieranno la testa, t’impiccheranno, ti faranno attraversare da quindicimila volt, ma non avrai mai sofferto come Lui”. L’immane scannatoio della guerra mondiale non avrebbe potuto agire senza la benedizione ecclesiastica. I cappellani militari di tutti gli eserciti pregavano e officiavano per la vittoria del paese di cui mangiavano il pane. Alle esecuzioni dei soldati ammutinati si poteva vedere un sacerdote, che non mancava neanche all’impiccagione dei legionari cèchi caduti in mano agli Austriaci. Niente era cambiato dall’epoca in cui il bandito Adalberto, che più tardi fu canonizzato, concorse attivamente, con la spada nella destra e il crocifisso nella sinistra, al massacro e all’annientamento degli Slavi baltici. In tutta Europa gli uomini marciavano come greggi allo scannatoio dove li conducevano, in una con gli imperatori, i re, gli altri potentati e i generali in grembiule da macellaio, i sacerdoti di tutte le confessioni che li benedicevano e li facevano falsamente giurare che “in terra, in mare e in aria”, ecc., ecc... La messa si celebrava in due occasioni diverse. Prima quando un reparto partiva per il fronte, e poi al fronte stesso, in anticipazione di qualche mischia sanguinosa e di una strage. Mi ricordo che una volta, durante una di queste messe, un aeroplano nemico lasciò cadere una bomba proprio sull’altare da campo, e del povero cappellano non rimasero che dei miseri resti sanguinolenti. Allora i giornali lo descrissero come un martire, mentre i nostri aeroplani preparavano una fine altrettanto gloriosa al cappellano militare della parte opposta. Quest’avventura ci rallegrò moltissimo, e sulla croce provvisoria piantata sul luogo dove avevano sepolto i rimasugli del cappellano, apparve nel corso della notte la seguente epigrafe funeraria: “È a te e non a noi che hanno fatto la festa. Ci promettevi il cielo come fosse una pacchia. T’è caduta una tegola del cielo sulla testa. T’ha schiacciato. E non resta di te che questa macchia”. [...] L’altare da campo usciva dal laboratorio della ditta ebraica Moritz Mahler di Vienna, che fabbricava ogni specie di oggetti necessari alla messa e articoli di devozione, come rosari e santini. L’altare si componeva di tre parti, riccamente addobbate d’una falsa doratura, come ogni pompa ecclesiastica. Senza una buona dose di fantasia era impossibile rendersi conto di che cosa rappresentassero effettivamente le immagini dipinte a trittico sopra l’altare da campo. La verità è che quell’altare avrebbe potuto servire abbastanza bene ai pagani dello Zambesi o agli sciamani dei Buriati e dei Mongoli. Decorato con colori sgargianti, da lontano aveva tutto l’aspetto di una di quelle tavolette colorate che i medici delle ferrovie adoperano per scoprire gli impiegati affetti da daltonismo. Nella massa spiccava una sola figura: un uomo nudo con un’aureola, il corpo verdastro come la pelle di un’oca che puzza e che già si trova in istato di avanzata putrefazione. A quel santo nessuno faceva niente di male. Però accanto a lui si vedevano due creature alate, incaricate di rappresentare due angeli, e lo spettatore aveva l’impressione che il sant’uomo tutto nudo nutrisse un grande spavento riguardo ai due angioli custodi che l’accompagnavano. Infatti le due creature celesti avevan tutta l’aria di mostri favolosi, o meglio d’un qualcosa d’intermedio fra un gatto selvatico fornito di ali e il drago dell’Apocalisse. Il pannello dirimpetto doveva raffigurare la Santissima Trinità. Per ciò che riguarda la colomba, così all’ingrosso, il pittore aveva poco da perdere. Aveva dipinto un volatile incerto, che poteva essere con altrettanta ragione una colomba che una gallina faraona. Ma il Padreterno sembrava uno di quei feroci banditi del Far West, che amano presentare al nostro pubblico i sanguinari produttori del film americano. Il Figliolo era invece un uomo giovane e gaio, con una bella pancia, e indossava un capo di biancheria che aveva tutta l’aria di un paio di mutandine da bagno. L’insieme dava l’impressione di trovarsi dinanzi a uno sportivo, e la sua mano reggeva la croce con la grazia d’una racchetta. Visto da lontano il complesso si confondeva in una macchia confusa e faceva l’effetto di un treno che arriva alla stazione. In quanto al terzo pannello, era impossibile raccapezzarsi che cosa volesse rappresentare. I soldati ne discutevano sempre e facevano l’impossibile per risolvere quel rebus. Ci fu persino un tale che suppose che quello fosse un paesaggio della valle della Sàsava. Il fatto è che sotto vi si poteva leggere questa iscrizione: “Sancta Maria, Mater Dei, miserere nobis”. Sc’vèik caricò con garbo l’altare su una carrozzella, montò a cassetta accanto al vetturino, e il cappellano Katz si mise a sedere coi piedi comodamente appoggiati sulla Santissima Trinità. Sc’vèik ammazzava il tempo discutendo della guerra col vetturino. Il vetturino era un sovversivo, e commentava così le vittorie dell’esercito austriaco: “In Serbia ve l’hanno date sode, non c’è che dire” e così via. Quando attraversarono la linea daziaria, l’impiegato domandò se non trasportavano niente da dichiarare. Sc’vèik rispose: “La Santissima Trinità e la Madonna col mio cappellano”. Nel frattempo, lassù in piazza d’armi, le compagnie destinate al fronte aspettavano con impazienza l’inizio della funzione. Ma dovettero attendere ancora per un bel pezzo. Infatti il cappellano e il suo attendente dovettero prima recarsi dal tenente Witinger per la famosa coppa sportiva che doveva fungere da calice, e poi al convento di Brenov per farsi dare l’ostensorio, il ciborio e altri accessori occorrenti alla messa, inclusa una bottiglia di vin santo. Il che dimostra che officiare una messa da campo non è poi la cosa più semplice del mondo. “È un lavoro alla carlona” disse Sc’vèik al vetturino, e aveva ragione. Quando infatti arrivarono in piazza d’armi e furono giunti accanto al piedistallo di legno destinato a sostenere l’altare, si accorsero che il cappellano s’era dimenticato del chierichetto che serviva la messa. Di solito gli serviva la messa un soldato di fanteria, che aveva preferito passare al genio telegrafisti e che era stato mandato al fronte. “Non fa niente, signor cappellano”, disse Sc’vèik, “io posso sostituirlo benissimo”. “Ma sapete servir messa?” “Non mi ci sono mai provato”, rispose Sc’vèik, “ma bisogna provarsi a far di tutto. Siamo in guerra, e ora la gente fa delle cose che prima non le sarebbero neppure passate per il capo. Sarò pur capace di ribattere con un “et cum spiritu tuo” al vostro “Dominus vobiscum”. E poi quale difficoltà c’è a girare intorno a voi come un gatto intorno a un bel piatto fumante di patate? Oppure lavarvi le mani e versarvi il vino dal calice...” “Bene”, disse il cappellano, “basta che non mi versiate dell’acqua. È meglio che mi versiate un po’ di vino anche dal secondo calice. Per il resto vi dirò tutto io, se dovrete girare a destra o a sinistra. Se farò adagio un sol fischio, vorrà dire a destra, se ne farò due, a sinistra. In quanto al messale non c’è bisogno che vi diate troppa pena. Tutto il resto è un giochetto. Avete paura?” “Io non ho paura di niente, signor cappellano, neanche di servir messa”. Il cappellano Katz aveva ragione a dichiarare che tutto il resto non era che un giochetto. Tutto filò come per incanto. L’allocuzione del cappellano fu estremamente concisa. “Soldati! Vi abbiamo radunati qui perché prima di partire per il fronte rivolgiate i vostri cuori a Dio, onde ci dia la vittoria e ci mantenga in salute. Io non voglio trattenervi troppo e vi faccio i miei migliori auguri”. “Riposo!” comandò il vecchio colonnello del battaglione di sinistra. La messa da campo si chiama così appunto perché è sottomessa alle leggi della strategia come una campagna di guerra. Durante le lunghe battaglie manovrate della Guerra dei trent’anni, anche le messe da campo durarono in proporzione. In accordo alla tattica moderna, che vuole rapidi e agili movimenti degli eserciti, anche le messe da campo debbono avere un’agilità e una rapidità equivalenti. Questa durò dieci minuti esatti, e i soldati che eran vicini all’altare si stupirono grandemente sentendo il cappellano fischiare durante la messa. Sc’vèik eseguiva rapidamente i segnali, volteggiando ora a destra e ora a sinistra, senza dir altro che “et cum spiritu tuo”. Tutto questo armeggio aveva l’aria d’una danza di pellerossa intorno al totem, ma aveva questo di buono, che dissipava la noia ispirata nei soldati da quella triste e polverosa piazza d’armi, mal alberata e piena di gabinetti che sostituivano col loro sentore il mistico aroma d’incenso delle cattedrali gotiche. Tutti si divertivano come matti. Gli ufficiali che facevan cerchio intorno al colonnello si raccontavano storielle allegre. Tutto procedeva con ordine, e ogni tanto si udiva qualcuno della truppa che diceva: “Fammi tirare una boccata”. E come il fumo d’un rogo consacrato, salivano sù dalle bocche verso il cielo le nuvole azzurre delle sigarette. Tutti i gradi si erano messi a fumare da quando avevano visto il signor colonnello accendersi un sigaro. Quando echeggiò il comando “Pregate!”, il polverone turbinò e il pittoresco quadrato delle uniformi si genuflesse dinanzi alla coppa sportiva del sottotenente Witinger, vinta da lui nella corsa da Vienna a Moedling organizzata dal “Favorito dello Sport”. Il calice era ricolmo, e il giudizio generale provocato dalla manipolazione del cappellano fu espresso nella seguente frase, che corse sùbito nelle file: “Che garganella!” La manovra fu messa in esecuzione una seconda volta. Al che seguì un altro comando di “Pregate!”, mentre la musica attaccava insieme l’ouverture e il finale del “Dio proteggi la patria”. “Raccogliete tutti questi aggeggi”, disse il cappellano a Sc’vèik additando l’altare da campo, “bisogna restituirli a chi ce li ha prestati”. E così ritornarono col loro vetturino e resero tutto fino all’ultimo oggetto, a eccezione soltanto della bottiglia di vin santo. Tornati a casa, dopo avere rimandato quel disgraziato di vetturino a farsi pagare dal comando il prezzo della lunghissima corsa, Sc’vèik disse al cappellano: “Signor cappellano, vorrei sapere se chi serve messa dev’essere della stessa confessione di chi la celebra”. “Perbacco!” rispose il cappellano. “Altrimenti non sarebbe valida”. “Allora, signor cappellano, è successo un gran brutto affare”, esclamò Sc’vèik, “perché io non appartengo a nessuna confessione. Ho sempre avuto una grande sfortuna!” Il cappellano Katz guardò un po’ il viso di Sc’vèik, stette un po’ zitto e poi gli batté una mano sulla spalla e gli disse: “Bevetevi il vin santo che è rimasto nella bottiglia, e ritenetevi già riammesso nel grembo della Chiesa”. Dibattito religioso Spesso succedeva che Sc’vèik stava giorni interi senza rivedere quel pastore di anime militari. Il cappellano Otto Katz alternava i doveri del suo ufficio con la bisboccia, e ogni tanto faceva ritorno a casa sudicio e non lavato come un gatto in amore che ha fatto le sue escursioni sù per i tetti. In occasione di questi ritorni, quando era in vena di conversare, prima d’addormentarsi chiacchierava con Sc’vèik di mete elevate e di nobili entusiasmi, e soprattutto delle pure gioie del pensiero. Qualche volta si provava perfino a parlare in versi e citava Heinrich Heine. Sc’vèik ebbe l’occasione di servire un’altra messa da campo col cappellano, dinanzi a un reparto di zappatori. A quella messa era stato invitato per sbaglio un altro cappellano, fin allora insegnante di catechismo, un uomo straordinariamente pio, e che fece le gran meraviglie a vedere che il suo confratello l’invitava a bere un sorso di cognac dal bottiglione ricolmo che Sc’vèik si portava dietro per ogni evenienza in ciascuna si simili cerimonie religiose. “È un’ottima marca”, disse il cappellano Katz, “bevetene e tornatevene a casa. Io mi sbrigherò da solo, tanto più che mi farà bene prendere un po’ d’aria fresca: anche oggi mi fa un po’ male la testa”. Il pio cappellano se n’andò scuotendo il capo, e Katz assolse perfettamente, come sempre, alla propria funzione. Quella volta a trasmutarsi nel sangue del Signore toccò a un vinello frizzante, e la predica durò più a lungo del solito, perché ogni tre parole intercalava un “certamente” e un “eccetera”. E come se non bastasse, il suo “certamente eccetera” echeggiò anche dall’altare, alternato col nome di Dio e con tutti i santi. Pieno di entusiasmo e di estro oratorio, il cappellano esaltò fra i santi perfino il principe Eugenio, che avrebbe protetto i soldati del genio mentre costruivano i loro ponti attraverso i fiumi. Ciò nonostante, la messa terminò senza ulteriori incidenti, fra l’allegria e il divertimento degli zappatori. Gli zappatori se la godettero magnificamente. Sulla via del ritorno non li volevano far salire sul tram col loro altare smontabile. “Ti tiro il santissimo in testa” dovette dire Sc’vèik al controllore. Quando finalmente giunsero a casa, s’accorsero d’aver perduto il tabernacolo per strada. “Non fa niente”, disse Sc’vèik, “gli antichi cristiani celebravan la messa anche senza tabernacolo. Se noi denunciamo lo smarrimento, l’onest’uomo che lo ritroverà ce lo restituirà certamente. [...] La sera essi ricevettero la visita di quel pio cappellano militare che era venuto la mattina a celebrare la messa da campo per gli zappatori. Era un fanatico che voleva accostare a Dio tutte le anime che gli capitavano sotto mano. Quando era stato insegnante di catechismo, ispirava il sentimento religioso nei ragazzi a furia di schiaffi, e di quando in quando se ne dava notizia sulle più svariate pubblicazioni periodiche: “Un bruto in veste di catechizzante”, “Un insegnante di religione schiaffeggiatore”. Costui era convinto che il catechismo si rivela ai fanciulli nel modo migliore col concorso del manganello. Il cappellano zoppicava da una gamba, in conseguenza della spiegazione che una volta aveva avuto col padre d’un alunno ch’era stato schiaffeggiato per aver espresso dei dubbi a proposito della Santissima Trinità. Il ragazzo s’ebbe tre schiaffi, il primo in nome del Padre, il secondo del Figlio e il terzo dello Spirito Santo. Costui era venuto dal collega Katz allo scopo di toccargli l’anima e di ricondurlo sul retto cammino, infatti cominciò il proprio discorso con la seguente osservazione: “Mi meraviglio di non vedere il crocifisso in casa vostra. Dove leggete il breviario? Non una sola immagine sacra adorna le pareti della vostra camera. Che cos’è quell’affare che tenete sopra il guanciale?” Katz sorrise e rispose: “«Susanna al bagno», e quella donna nuda lì sotto è una mia vecchia conoscenza. A destra, c’è una stampa giapponese che rappresenta il coito d’un vecchio samurai con una geisha. Molto originale, non vi pare? In quanto al breviario, uso tenerlo in cucina. Sc’vèik, portatemelo qui e apritelo alla pagina 3”. Sc’vèik uscì, e dalla cucina echeggiò per tre volte di seguito l’esplosione del tappo d’una bottiglia di vino spumante. Il pio curato restò addirittura di sasso quando scorse sul tavolo le tre bottiglie di vino. “È un vino da messa molto leggero, mio reverendo collega”, disse Katz, “un vino nostrale di prima qualità. Il suo sapore lo fa quasi sembrare vino della Mosella”. “Io non ne berrò”, dichiarò austeramente il pio curato, “io son venuto qui per toccarvi l’anima”. “Allora, reverendo collega, vi si seccherà l’ugola”, osservò Katz. “Bevete pure, ché io vi starò a sentire. Io sono un uomo straordinariamente tollerante e posso dare ascolto anche alle opinioni altrui”. Il pio curato bevve un sorso e sgranò gli occhi. “Un vino indiavolato, non è vero, reverendo? Il fanatico replicò con durezza: “Vi faccio osservare che voi bestemmiate”. “È un’abitudine”, spiegò Katz. “Qualche volta mi sorprendo io stesso a bestemmiare. Sc’vèik, versatene ancora al signor curato. Per di più vi posso assicurare che dico anche «per il Padreterno», «Gesù in croce» e «Sacramento». Ritengo che quando avrete servito nell’esercito quanto me, farete lo stesso anche voi. Non c’è niente di difficile né di complicato, e per noi religiosi è un affare di tutti i giorni: cielo, Dio, croce e santissimi sacramenti; non suona forte e bene in bocca nostra? Ma bevete, reverendo!” L’ex catechizzatore beveva macchinalmente, si vedeva bene che avrebbe voluto dir qualcosa, ma non era in grado di aprir bocca: stava raccogliendo i propri pensieri. “Reverendo”, riprese a dire Katz, “«sursum corda»: non statemi lì così imbronciato come uno che dev’essere impiccato fra cinque minuti. M’hanno raccontato che voi una volta, di venerdì, avete ordinato per sbaglio una costoletta di maiale, poiché credevate che fosse giovedì, e che siete andato in gabinetto per mettervi le dita in gola allo scopo di vomitare, temendo che il Signore v’incenerisse. Io non ho nessun timore né dell’inferno né di mangiare carne nei giorni di digiuno. Bevete ancora, vi prego. Dite un po’: non vi pare di star meglio così? A proposito dell’inferno: voi avete certamente idee progressiste e seguirete senza dubbio lo spirito dei nostri tempi e le opinioni dei riformisti... Laggiù, invece delle solite caldaie piene di zolfo, per i poveri peccatori ci sono delle vere e proprie pentole di paprika, delle caldaie sottomesse alla pressione di molte atmosfere, e i peccatori vi vengono arrostiti alla margarina, li friggono con la corrente elettrica, e per milioni di anni. I dentisti si occupano con macchine speciali del digrignamento dei denti, i gemiti vengono incisi al grammofono e i dischi vengon mandati lassù in paradiso per rallegrare i beati. In paradiso son continuamente in azione dei grandi spolverizzatori d’acqua di Colonia, e la Società filarmonica vi suona tanto e tanto di quel Brahms, da far dare la preferenza all’inferno e al purgatorio. Gli angioletti portano sul di dietro delle eliche d’aeroplano, per non stancar troppo le ali. Bevete, reverendo; e voi, Sc’vèik, versategli un po’ di cognac: non vedete che non sta troppo bene?” Quando il pio curato si fu un po’ rimesso, mormorò: “La religione non è altro che un problema di ragionamento. Chi non crede all’esistenza della Santissima Trinità...” “Sc’vèik”, lo interruppe Katz, “versate un altro cognacchino al signor cappellano, per vedere se si rimette. E ditegli qualcosa, Sc’vèik”. “Le fo umilmente notare, signor cappellano”, disse Sc’vèik, “che nei dintorni di Vlasim c’era un priore a cui era fuggita la vecchia perpetua con il loro ragazzo e i suoi soldi, e che ora teneva soltanto una donna di servizio. E questo priore in vecchiaia si dedicò tutto allo studio di Sant’Agostino, di cui si dice che faccia parte dei Santi Padri, e fu in Sant’Agostino che lesse che chi crede agli antipodi dev’essere senz’altro dannato. Allora chiamò la sua donna di servizio e le disse: «Statemi a sentire: una volta voi mi avete detto che vostro figlio è meccanico e che è emigrato in Australia. Ma allora si troverebbe agli antipodi, e Sant’Agostino ha detto che chiunque crede agli antipodi non può che esser dannato». «Reverendo», gli risponde la donna, «ma dall’Australia mio figlio m’invia lettere e soldi». «Ma è un inganno diabolico», le dice il priore, «secondo Sant’Agostino non esiste affatto un’Australia, e codeste non possono essere altro che tentazioni dell’Anticristo». E la domenica dopo la maledisse pubblicamente e dichiarò dal pubblico che l’Australia non esiste, cosicché lo condussero direttamente dalla chiesa al manicomio. E gente di questa specie ce ne dovrebbero rinchiudere ancora di più. Al convento delle Orsoline conservano una fiala col latte di Maria Vergine, quello con cui allevò il Bambino Gesù, e nell’orfanotrofio di Bénesciov, una volta che vi fecero venire l’acqua di Lourdes, gli orfanelli si beccarono una diarrea quale il mondo non ne ha mai vista”. Nel frattempo il pio cappellano vedeva formarsi dei grandi cerchi intorno agli occhi, e cercò di tornare in sé con l’aiuto di un altro cognac, che invece fu proprio quello che doveva andargli alla testa. Sbattendo le palpebre, domandò a Katz: “Voi non credete all’immacolata concezione della Vergine Maria? Voi non credete all’autenticità del dito di San Giovanni Battista conservato nel monastero dei Piaristi? Voi non credete affatto in Domineddio? E se non credete, perché vi siete fatto fare cappellano?” “Reverendo”, gli rispose il buon Katz battendogli familiarmente le mani sulle spalle, “finché lo Stato riterrà necessario che i soldati che manda a farsi ammazzare in battaglia ricevano a tale scopo la benedizione divina, quella del cappellano militare resterà sempre una professione convenientemente pagata, e neppure eccessivamente faticosa. Per me sarà sempre meglio che scorrazzare in piazza d’armi e dover prendere parte alle grandi manovre... Allora io non facevo che ricevere ordini dai superiori, mentre ora faccio invece quello che mi piace e pare. Rappresento uno che non esiste e recito da me solo la parte di Dio. Quando mi salta in testa di non perdonare a qualcuno i suoi peccati, non glieli perdono neanche se viene a supplicarmi in ginocchio. Del resto, di gente simile se ne trova diabolicamente di rado”. “Io voglio un gran bene a Domineddio”, esclamò il pio cappellano in mezzo ai singulti, “gli voglio un grandissimo bene. Datemi ancora un po’ di vino”. “Io lo tengo in gran conto, Domineddio”, riprese a dire, “lo tengo in gran conto e in grandissima stima. Non c’è nessuno che io veneri al pari di lui”. E tirò un pugno sul tavolo, in modo che le bottiglie tintinnarono. “Dio è una sostanza sublime, qualcosa di sovrumano. È onorabilissimo in tutte le sue relazioni. È come un’apparizione solare, nessuno me lo potrà mai negare. Io ho grande stima di San Giuseppe, e di tutti i santi in genere, eccettuato San Serapione, per il suo nome così ripugnante”. “Potrebbe fare una petizione perché glielo cambino” osservò Sc’vèik. “Ho grande stima anche di Santa Ludmilla e di San Bernardo”, riprese a dire l’ex catechizzatore, “colui che ha salvato tanti viandanti sul San Gottardo. Porta al collo una bottiglia di cognac e cerca la gente sepolta sotto la neve”. La conversazione cambiò improvvisamente di tono. Il pio cappellano faceva d’ogni erba un fascio. “Io ho grande stima anche degli Innocenti, che hanno il loro giorno festivo in data 28 dicembre. Odio soltanto il re Erode. Se la gallina dorme, non avrete mai un uovo fresco”. Dopodiché, scoppiò in una gran risata e intonò l’inno “Santo Dio, santo, portentoso”. Ma s’interruppe a un tratto, e si rivolse a Katz per domandargli severamente: “Voi forse non credete che il 15 agosto è la festa dell’Annunziata Maria Vergine?” Lo spasso era giunto al diapason. In tavola apparvero altre bottiglie, e ogni tanto si faceva sentire la voce di Katz che diceva: “Di’ che tu non credi più a Domineddio, altrimenti non ti verso più neanche un goccio di vino”. Pareva si fosse tornati all’epoca delle persecuzioni dei primi cristiani. L’ex catechizzatore aveva intonato un inno già cantato dai martiri nelle arene romane, e gridava: “Io credo in Domineddio, e non lo rinnegherò. Tienti pure il tuo vino. Posso farmelo comprare per conto mio”. Finalmente lo misero a letto. Prima d’addormentarsi dichiarò, con la mano alzata come per un giuramento: “Io credo in Dio Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Portatemi il mio breviario”. Sc’vèik gli pose in mano un libro che giaceva sul comodino, e così il pio cappellano s’addormentò col “Decamerone” di messer Boccaccio sul petto.
Sc’vèik somministra l’estrema unzione
Il cappellano militare Otto Katz stava assorto con aria meditabonda su una circolare che gli avevan recato allora allora dalla caserma. Era una comunicazione confidenziale del ministero della Guerra. “L’Imperiale e Reale Ministero della Guerra sopprime per tutta la durata del conflitto tutte le prescrizioni concernenti la somministrazione dell’estrema unzione ai soldati dell’esercito, e stabilisce le seguenti norme per tutti i cappellani militari: 1°. Al fronte, l’estrema unzione è abolita. 2°. Ai soldati gravemente feriti o ammalati non è permesso di allontanarsi dalla prima linea allo scopo di farsi somministrare l’estrema unzione. I cappellani militari sono tenuti a denunciare immediatamente simili casi alle autorità competenti per i necessari provvedimenti penali. 3°. Negli ospedali militari delle retrovie è permesso di somministrare l’estrema unzione collettivamente, previo nulla osta dei medici militari, sempre nel caso che la suddetta estrema unzione non rechi alcun nocumento al mantenimento della disciplina. 4°. In casi eccezionali la direzione degli ospedali militari delle retrovie può concedere anche ai singoli la somministrazione dell’estrema unzione. 5°. I cappellani militari, su invito della direzione degli ospedali militari delle retrovie, sono tenuti a somministrare l’estrema unzione agli individui designati dalla suddetta direzione”. Dopo la circolare il cappellano lesse ancora un allegato, dove gli si comunicava che il giorno seguente doveva recarsi all’ospedale presidiario, in piazza Carlo, per somministrare l’estrema unzione ai feriti gravi. “Dite un po’, Sc’vèik”, gemé il cappellano, “non è una porcheria? Come se in tutta Praga non ci fossero altri cappellani militari che il sottoscritto! Perché non ci mandano quel pio curato che l’altro ieri passò la notte da noi? Dunque bisogna andarsene a somministrare i sacramenti in piazza Carlo. Io non mi ricordo nemmeno come si fa”. “Compreremo sùbito un catechismo, signor cappellano: là ci dev’essere”, disse Sc’vèik, “si tratta di una specie di guida turistica per pastori spirituali. Nel monastero di Emmaus lavorava un aiuto giardiniere, e siccome costui voleva raggiungere il grado di frate laico e ottenere una tonaca allo scopo di non consumare i suoi abiti borghesi, così dovette comprarsi un catechismo e imparare in che modo si fa il segno della croce, chi è l’unica creatura scampata dal peccato originale, che cosa vuol dire aver la coscienza pulita e altre bagattelle di questa fatta, dopodiché si mise a vendere di nascosto una buona metà dei pomodori dell’orto conventuale e fu cacciato dal monastero con grande scandalo. Quando lo incontrai, ebbe a dirmi: «Avrei potuto vendere i pomodori anche senza rompermi il capo col catechismo»”. Quando Sc’vèik ebbe fatto ritorno col suo catechismo acquistato di fresco, il cappellano lo sfogliò un poco e poi disse: “Guarda un po’: l’estrema unzione non può essere somministrata che da un sacerdote, e soltanto con olio consacrato dall’arcivescovo. Voi, Sc’vèik, per esempio, non potrete mai somministrare questo sacramento. Leggetemi un po’ come si deve fare per somministrarlo”. Sc’vèik lesse: “Si somministra così: il sacerdote unge l’infermo sui singoli sensi mentre prega nel modo seguente: «Che per mezzo di questa santissima unzione e della sua clementissima misericordia, Iddio ti perdoni tutti i peccati che hai commesso con la vista, con l’udito, col gusto, con l’odorato, con la favella, col tatto e con la locomozione»”. “Mi piacerebbe sapere, caro Sc’vèik”, esclamò il cappellano, “quale peccato si può commettere per mezzo delle mani. Voi me lo sapreste spiegare?” “Parecchie cosette, signor cappellano: per esempio, ficcarle nelle tasche degli altri, o divertirsi mentre si balla... voi sapete meglio di me come vanno simili cose”. “E per mezzo della locomozione?” “Quando si fa finta di zoppicare per impietosire la gente che passa”. “E per mezzo dell’odorato?” “Quando si fiuta un sentore che non ci piace”. “E per mezzo del gusto, Sc’vèik?” “Quando ci vien voglia di mangiare qualcuno”. “E per mezzo della favella?” “Questo è un peccato che va insieme a quello dell’udito, signor cappellano, e la cosa avviene quando qualcuno non fa che ciarlare, e qualcun altro stare in orecchi”. Dopo queste filosofiche dissertazioni il cappellano rimase zitto per un po’, ma poi prese a dire: “Dunque ci occorre l’olio benedetto dall’arcivescovo. Eccovi dieci corone: compratene una bottiglietta. Nel deposito del commissariato militare non ce ne dev’esser punto”. Sc’vèik si mise sùbito in cammino alla ricerca dell’olio benedetto dall’arcivescovo. Ma la ricerca di un liquido siffatto è molto più difficile di quella dell’acqua vivificante nelle fiabe. Si recò nelle più svariate drogherie, ma non finiva di dire: “Vorrei una bottiglietta d’olio benedetto dall’arcivescovo”, che i commessi ridevano a crepapelle o si nascondevano sotto il banco. Eppure Sc’vèik faceva sempre la faccia più compunta possibile. Alla fine si decise a tentar la sorte nelle farmacie. Nella prima lo fecero cacciar fuori dall’inserviente. Nella seconda furono sul punto di telefonare a un posto di pronto soccorso. Ma il direttore della terza gli disse che non c’era altro che la ditta Polak di via Lunga, grande rivendita di colori e vernici, capace d’aver sicuramente in magazzino l’olio desiderato. La ditta Polak di via Lunga era davvero una ditta ben organizzata. Non c’era acquirente che essa lasciasse andar via senza averne accontentato i desideri. A chi chiedeva un balsamo di copaiva davano una bottiglia di trementina, e tutto andava per il meglio. Quando Sc’vèik fu entrato ed ebbe ordinato le sue dieci corone d’olio benedetto dall’arcivescovo, il direttore disse al commesso: “Signor Tauchen, versategli un decilitro d’olio di ricino, n. 3”. E il commesso, incartandogli la bottiglietta, disse a Sc’vèik con la dovuta cortesia commerciale: “È una merce di primissima qualità, e se avrete bisogno di pennelli, colori e vernici, favorite rivolgervi qui. Vi serviremo col massimo di convenienza”. Nel frattempo, il cappellano andava ristudiandosi sul catechismo quello che non gli era mai entrato in testa quand’era in seminario. Gli andavan moltissimo a genio varie frasi straordinariamente spirituali, ben atte a risvegliare la sua allegria, quali ad esempio le seguenti: “La denominazione «estrema unzione» proviene dal fatto che essa è normalmente l’ultimo dei sacramenti che la Chiesa somministra ai fedeli”. Oppure: “Può esser partecipe dell’estrema unzione ogni cristiano di religione cattolica che si trovi gravemente infermo e che sia giunto all’età della ragione”. O anche: “Il sacramento dev’essere somministrato, per quanto è possibile, quando l’infermo è in perfetta conoscenza”. Poco dopo giunse un’ordinanza con una missiva in cui si comunicava al signor cappellano Otto Katz che il giorno seguente, alla cerimonia dell’estrema unzione, nell’ospedale, avrebbe assistito anche l’Associazione fra Nobildonne pro Educazione Religiosa del Soldato. Questa associazione era composta di vecchie dame isteriche che andavano distribuendo per tutti gli ospedali militari immagini di santi e raccontini edificanti, il cui protagonista era sempre un soldato cattolico che si faceva ammazzare per Sua Maestà l’Imperatore. Quei raccontini consistevano in fascicoletti con una copertina colorata che rappresentava un campo di battaglia. Dovunque giacevano cadaveri umani e carogne di cavalli, e tutto un mucchio di carrette di munizioni rovesciate e di cannoni. Sullo sfondo si vedeva un villaggio in pianura e granate che scoppiavano, mentre in primo piano c’era un soldato disteso e moribondo, con una gamba fracassata, sul quale un angelo s’inchinava per porgergli una ghirlanda fornita d’un nastro con l’iscrizione: “Ancor oggi tu sarai con me in Paradiso”. E il moribondo sorrideva beatamente, come se gli avessero offerto un gelato. Quando Otto Katz si rese conto del contenuto della missiva, scaracchiò con forza mentre rifletteva tra sé: “Domani sarà un altro giorno”. Egli aveva imparato a conoscere quella “banda”, come la chiamava, qualche anno prima, nella chiesa di Sant’Ignazio, quando vi teneva le prediche per la truppa. A quei tempi egli predicava con gran fervore, e l’Associazione prendeva posto alle spalle del colonnello. Due lunghissime megere in abito nero, munite di rosario, gli si erano attaccate addosso sùbito dopo la predica, e per due ore non avevan fatto altro che parlargli dell’educazione religiosa del soldato, finché lui non era uscito dai gangheri e aveva detto: “Le signore mi scusino, ma il signor capitano mi aspetta per una partita a carte”. “Ora abbiamo anche l’olio”, esclamò trionfalmente Sc’vèik, reduce dalla ditta Polak, “olio di ricino n. 3 della migliore qualità, con cui potremo ungere tutto il battaglione. È una marca serissima, e vendono anche colori, pennelli e vernici. Ora non ci manca che il campanello”. “Il campanello? E per che farne, Sc’vèik?” “Dobbiamo farlo squillare per strada perché la gente si scopra al passaggio di Domineddio, signor cappellano, vale a dire dell’olio di ricino n. 3. Si fa sempre così, e c’è stata della gente a cui la cosa non è entrata in testa e che sono stati messi dentro per non essersi levato il cappello. Una volta, a Zizkov, un curato bastonò di santa ragione un povero cieco che aveva fatto a meno di scoprirsi in una simile occasione, e che per di più fu condannato, e al processo gli spiegarono che lui non era sordomuto, ma soltanto cieco, e che aveva potuto sentire il tintinnio del campanello e nondimeno aveva suscitato grande scandalo, benché il fatto fosse accaduto di notte. Lo stesso avviene durante le feste del Corpus Domini. Altrimenti la gente non ci farebbe nessuna attenzione, mentre così dovranno levarsi il cappello al nostro passaggio. Se voi non avete niente in contrario ve lo porto sùbito, signor cappellano”. Mezz’ora dopo aver ottenuto il permesso, Sc’vèik portò anche il campanello. “È quello della porta dell’Albergo della Crocetta” egli disse. “M’è costato cinque minuti di tremarella, e ho dovuto stare un bel pezzo in attesa, perché non faceva altro che passare gente”. [...] “San Giovanni Crisostomo”, osservò con un sorriso il cappellano, “ha detto: «Chi onora il prete, onora Cristo, chi fa offesa al prete, offende Nostro Signore, perché il sacerdote non è altro che il suo vicario». Ma dobbiamo prepararci il meglio possibile per domani. Fatemi una frittata al prosciutto, riscaldatemi un ponce al vino, e poi ci dedicheremo alla meditazione, così com’è detto nella preghiera serale: «Che la grazia divina tenga lontane da questa casa tutte le tentazioni del demonio»!” [...] Quella serata consacrata alla meditazione attraversò molte fasi diverse. Il cappellano s’accostò a Dio con tanta penetrazione e con tanto entusiasmo, che a mezzanotte dal suo appartamento echeggiava ancora il seguente cantico: «Quando i soldati marcian sulle piazze, ai davanzali piangon le ragazze...» E il buon soldato Sc’vèik l’accompagnava. Nell’ospedale militare erano due i soldati che avevan chiesto l’estrema unzione: un vecchio maggiore e un impiegato di banca, ufficiale di complemento. Tutt’e due s’eran buscati una palla nel ventre sui Carpazi e giacevano in due letti vicini. L’ufficiale di complemento aveva sentito l’obbligo di farsi somministrare il sacramento dei moribondi soltanto perché il suo superiore aveva domandato l’estrema unzione. Non farsela somministrare anche lui gli sarebbe parso un vero e proprio reato d’insubordinazione. Mentre il pio maggiore l’aveva fatto per furberia, credendo che una preghiera piena di fede fosse capace di risanare un infermo. Ma la notte prima morirono entrambi, e la mattina dopo, quando giunse il cappellano militare con Sc’vèik, essi giacevano sotto un lenzuolo col viso annerito, come tutti quelli che muoiono per soffocamento. “Ci siamo dati tanta pena per niente, signor cappellano” osservò Sc’vèik, corrucciato, quando in direzione appresero che i due pazienti non avevano più bisogno di niente. In quanto alla “pena”, Sc’vèik aveva detto la pura verità. Avevan preso una carrozza, e Sc’vèik scampanellava, mentre il cappellano brandiva la bottiglia con l’olio santo avvolta in un tovagliolo e benediceva con viso austero tutti i passanti che si scappellavano. A dire il vero non eran troppi, malgrado Sc’vèik si desse molto da fare allo scopo di produrre col campanello il più gran fracasso. Dietro la carrozza correva un branco di simpatici monelli, e quando uno di loro s’attaccava alla carrozza, gli altri gridavano in coro: “Dietro! Dietro!” Sc’vèik scampanellava con più forza e il vetturino dava una frustata all’indietro. In via dell’Acquetta una portinaia, iscritta alla Congregazione di Maria, raggiunse trottando la carrozza, si fece benedire, si segnò e infine sputò con spregio, dicendo: “Portan via Nostro Signore come se fossero diavoli. A rincorrerli c’è da buscarsi una polmonite” e, tutta affannata, fece ritorno al suo posto. Lo squillo del campanello eccitava in special modo il cavallo, ché doveva certo resuscitare in lui antiche reminiscenze, poiché volgeva continuamente il muso all’indietro e accennava, di quando in quando, il tentativo di fare un passo di danza sul selciato. Ecco in che cosa era consistita la gran “pena” di cui parlava Sc’vèik. Il cappellano colse l’occasione per farsi regolare il lato finanziario del suo incomodo, e rimise al sergente furiere un conto secondo il quale l’amministrazione militare gli doveva centocinquanta corone per spese di trasporto e olio santo. Ciò diede origine a una controversia fra il direttore dell’ospedale e il cappellano militare, nel corso della quale il cappellano batté più volte il pugno sul tavolo esclamando: “Non dovete credere, signor capitano, che l’estrema unzione si somministri gratuitamente. Quando un ufficiale di cavalleria è comandato ad assistere a un parto equino nelle scuderie, gli viene sempre pagata un’indennità. Mi rincresce sinceramente che i due pazienti non abbiano potuto fruire dell’estrema unzione. L’affare vi sarebbe costato un supplemento di prezzo di cinquanta corone”. Nel frattempo, Sc’vèik attendeva il suo padrone al corpo di guardia, dove la bottiglietta d’olio santo suscitava il più vivo interesse. Un tale fece notare che con un olio di quella fatta si sarebbero potuti ripulire ottimamente i fucili e le baionette. Un soldato dell’altipiano boemo-moravo, che credeva ancora in Domineddio, supplicò i compagni di non profanare le cose sacre con certi discorsi: “Perché noi cristiani dobbiamo aver fede”. Un anziano della Territoriale diede un’occhiata al coscritto e gli disse: “Bell’affare sperare che una granata ti spacchi la testa. Ci hanno messo in mezzo, hai capito? Una volta al nostro paese è venuto un deputato clericale e ci ha parlato d’una pace divina che si libra sulla terra, e ci ha detto che il Padreterno riprova la guerra e desidera che tutti gli uomini vivano in pace e si trattino come fratelli. Ed ecco, bestione, che appena scoppiata la guerra, in tutte le chiese si prega per il successo delle proprie armi, e del Padreterno si parla come d’un generale di stato maggiore che guida e dirige la guerra. In questo ospedale militare, di funerali ne ho già visti parecchi, e carrette che portan via carichi di gambe e di braccia spezzate!” “E i militari li seppelliscono nudi”, osservò un altro soldato, “le uniformi sono indossate da un altro, e così via”. “Fino a che non avremo riportato la vittoria” disse Sc’vèik. [...] Nel frattempo il cappellano s’era imbattuto al piano di sopra in una signora dell’Associazione fra Nobildonne pro Educazione Religiosa del Soldato, una vecchia e ripugnante megera che dalla mattina girava per l’ospedale distribuendo a tutti immagini sacre che i feriti e i malati scaraventavano immediatamente nelle sputacchiere. Nel corso della sua passeggiata, col suo stupido chiacchiericcio costei esortava tutti i soldati a pentirsi sinceramente dei propri peccati e a cercare di perfezionarsi, affinché nell’oltretomba Iddio misericordioso potesse conceder loro la salute eterna. Divenne pallida appena poté conversare col cappellano Katz e poté dirgli che quella guerra abbrutiva i soldati invece di nobilitarli. Al pianterreno i coscritti le mostravan la lingua e la chiamavano mascherona e vecchia bacchettona: “È terribile, reverendo: il popolo s’è guastato!” E si mise a spiegargli in che modo concepiva l’educazione religiosa del soldato. L’uomo del popolo avrebbe combattuto valorosamente per il proprio sovrano se avesse creduto in Dio e fosse fornito di sentimento religioso, in modo da non temere la morte sapendo di essere atteso in Paradiso. E la vecchia chiacchierona continuò a proferire altre simili stupidaggini, manifestando la decisa intenzione di trattenere il cappellano chissà per quanto, finché egli fu obbligato a congedarsi a costo di mancare ai più elementari doveri della galanteria. “Andiamo a casa, Sc’vèik!” gridò verso il corpo di guardia. E durante il percorso inverso non si diedero affatto la famosa “pena” di prima. “Un’altra volta vada pure chi vuole a somministrare l’estrema unzione” osservò il cappellano. “Per ogni anima che vogliamo salvare, bisogna sempre mercanteggiare sul prezzo. Non vedono che la loro contabilità, quelle canaglie!” Poi, vedendo in mano a Sc’vèik la bottiglietta dell’olio santo, corrugò le ciglia e disse: “Faremo meglio, caro Sc’vèik, a usar di codesto olio per la pulizia delle scarpe”. “Proverò anche a ungerci la serratura” soggiunse Sc’vèik. “Non fa che stridere, la notte, quando lei rientra in ritardo”.
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101. Hawthorne, Nathaniel: “La Lettera scarlatta”
“«Per le donne, anche le più felici, vale la pena di vivere?» è la domanda che si affaccia talvolta alla mente di Hester circa il genere femminile. Per quel che la riguarda, già da tempo ha risposto no [...]. In primo luogo, tutto il sistema della società dovrebbe essere abbattuto e ricostruito. Poi si dovrebbe modificare la natura maschile; o se non la natura, quella consuetudine ereditaria che è divenuta quasi una seconda natura. Solo allora le donne potrebbero conquistare umane condizioni di vita. Ma ne trarrebbero vantaggio, se non si costringessero a un radicale cambiamento in cui scomparirebbe quel qualcosa di etereo che rappresenta la loro sostanza più vera?” Qualche pagina dopo, è il bieco Roger Chillingworth a rispondere a modo suo a questa seconda domanda: “Donna, sento quasi pietà per te [...]. Tu hai molte ottime qualità, e forse, se avessi incontrato prima di me un uomo che avesse saputo amarti meglio di come ho fatto io, tutto questo non sarebbe avvenuto. Mi fai pietà per il buono che portavi in te, e che è stato sciupato”.
I sette capolavori letterari dell’800 ― tutti immensi, benché diversi l’uno dall’altro, ed eguagliati nel secolo successivo forse soltanto dalla “Metamorfosi” di Franz Kafka, ― sono, in ordine cronologico: “L’Orco Insabbia” (1817), di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776 ― 1822); “Lo Spiritato e il Patto col Fantasma” (1848), di Charles Dickens (1812 ― 1870); “La Lettera Scarlatta” (1850), di Nathaniel Hawthorne (1804 ― 1864); “La Mite” (1876), di Fëdor Dostoevskij (1821 ― 1881); “La Steppa” (1888), di Anton Čechov (1860 ― 1904); “Billy Budd” (1889-1891, ma ritrovato e pubblicato nel 1924), di Herman Melville (1819 ― 1891); “Giro di Vite” (1898), di Henry James (1843 ― 1916). Non saprei dire quale preferisca: ognuno di essi ha contribuito a rendermi quel che nel meglio sono. Ma “La Lettera Scarlatta” è forse il racconto che più coinvolge, che più commuove, e che nel cuore lascia infine una gioia duratura: la storia di una madre, Hester Prynne, e di una bambina, sua figlia Pearl, in lotta contro una società così disumana che perfino i migliori, in essa, non son capaci che di ferirle.
“Non tralasciano mai di ricordarle la sua posizione. Ogni gesto, ogni parola, perfino il silenzio di coloro con i quali viene in contatto le fanno capire che non è che un’esiliata, più sola che se abiti su un altro pianeta e comunichi con la natura con organi e sensi diversi da quelli degli altri”. Ma quelli ai quali appare mostruosa, a Hester appaiono simili a lei, umani come lei: infatti “le accade talvolta di immaginare, quasi spinta da una forza irresistibile, che la lettera scarlatta l’abbia dotata di un sesto senso: il solo pensiero la fa tremare, ma non può non sentire che quel simbolo le dà la capacità di scorgere le colpe nascoste nel segreto dei cuori altrui; [...] e talvolta, passando accanto a un venerabile sacerdote o a un magistrato, modelli di pietà e di giustizia che la reverenza dell’epoca considera quasi come angeli, il rosso segno d’infamia ha un guizzo come di simpatia”. Non trovate anche voi che sia immenso? Hester, già così umana da sfidare la società per non rinunciare ad amare ― come fanno gli altri, e vorrebbero imporre anche a lei ― si realizza ancora più umana rifiutando di credere alla propria stigmatizzazione e vivendola con orgoglio nonostante il dolore che le infligge.
“La sua Pearl! L’ha chiamata così non perché nel suo aspetto vi sia qualcosa dello splendore bianco, calmo e gelido delle perle, ma perché per lei, bandita da tutti, la bambina rappresenta l’unico tesoro [...] e quasi il pegno della sua umanità. [...] La natura di Pearl è tanto varia quanto profonda, ma, se Hester non s’inganna, non sa adattarsi all’ambiente in cui vive, si ribella a ogni legge. La sua nascita ha infranto l’ordine stabilito, ed ella è dotata di qualità buone, ma senza ordine, o meglio, con un ordine suo particolare di cui è difficile o impossibile scoprire il bandolo. [...] Pearl ubbidisce o non, secondo la fantasia del momento, [...] e la madre, dinanzi a lei, prova gli stessi sentimenti di chi, evocato uno spirito, abbia dimenticato la parola magica che dà potere su questo essere nuovo e imprevedibile. [...] Durante le passeggiate con la madre, Pearl vede, sui margini erbosi della via o sugli usci delle case, gli altri fanciulli della colonia intenti ai tetri giochi che l’educazione puritana permette: fingere d’essere in chiesa, fustigare i quaccheri, raccogliere scalpi in immaginari combattimenti con gli indiani, spaventarsi l’un l’altro con simulata stregoneria e via dicendo; ma, sebbene incuriosita, non mostra mai il desiderio di unirsi a loro. [...] La verità è che quei piccoli puritani, figli della società più intransigente che sia mai esistita, indovinano in quella madre e in quella figlia qualcosa di strano, di singolare, di dissimile, le detestano, e non si peritano di esprimere spesso ad alta voce il loro disprezzo”.
“Pearl prende la mano della madre e la guarda negli occhi con una serietà rara nel suo temperamento capriccioso e selvaggio. Nella mente di Hester affiora il pensiero che la bambina cerchi di conquistarla alla sua fanciullesca confidenza e faccia del suo meglio per trovare dove le loro nature discordanti possano incontrarsi, e Pearl le appare a un tratto da un punto di vista insospettato. Finora la madre, pur amando la figlia con tutto il suo affetto, si è abituata a non aspettarne altro che una caparbietà simile a quella di un vento d’aprile che turbina nell’aria, mobile e capriccioso, e che quando vi investe, più che accarezzarvi, vi fa tremare, ma talvolta, quasi in compenso delle passate stramberie, vi bacia le guance con dubbia tenerezza, vi gioca fra i capelli e poi se ne va, lasciandovi in cuore un amaro piacere. Ma ora alla mente di Hester si affaccia la speranza che Pearl, così precoce in tutto, possa presto diventare un’amica, per lei, capace di ricevere quel tanto di confidenza compatibile con i rapporti fra madre e figlia. Da quel piccolo caos che è il carattere di Pearl stanno forse emergendo i chiari segni di un coraggio inflessibile, di una forte volontà, di un orgoglio che solo il rispetto per sé stessa può mitigare, e di un disprezzo profondo per quello che ha in sé qualcosa di falso”. [...] In quel carattere, ciò che più colpisce la madre e la fa pensare a una forza innata è l’inesauribile vivacità della figlia: niente, in Pearl, ricorda la tetra serietà che gli altri bambini, in tempi come questi, ereditano come una malattia dalle pene degli antenati”.
In tempi come questi... cosa accade alle bambine e alle donne come Pearl e Hester?
Nel New England aspramente puritano del XVII secolo ― “gente per la quale religione e legge si identificano al punto che tanto il più mite quanto il più feroce atto della vita pubblica prendono lo stesso aspetto venerato e tremendo” ― Hester Prynne dà alla luce una bambina, Pearl, benché il marito, che ha sposato più di un anno fa in Inghilterra e che ha preceduto in America, non sia mai giunto a Salem. Solo per questo, perché egli potrebbe essere morto, la pena capitale le viene commutata nell’obbligo di portare per tutta la vita, cucita sul petto, una grande A del colore del sangue: la A di “Adultera”. Anche l’amante, del resto, qualora si scopra chi è, sarà condannato almeno al carcere. Ma Hester rifiuta di denunciarlo, e l’uomo ― Arthur Dimmesdale, giovane sacerdote e predicatore che tutti venerano ― per salvare la reputazione, la carriera ecclesiastica e forse la vita si guarda bene dal confessare, benché il senso di colpa e la consapevolezza della propria falsità inizino ben presto a logorargli la salute. Ed ecco apparire il marito di Hester, medico, che a Salem nessuno conosce. Si fa chiamare Roger Chillingworth (“Ruggero Agghiacciante”), è molto più anziano di Hester e, quando viene a sapere quel che è accaduto, si rivela diverso da lei come l’odio dall’amore accingendosi a una mostruosa vendetta: non contro Hester, a cui è stata inflitta una pena che egli crede peggiore di qualsiasi cosa possa farle lui, ma contro il suo amante (e padre di Pearl) che ben presto riesce a individuare, e del quale, fingendo di curarne il corpo, inizia a tormentare la psiche per farlo impazzire. E... basta, non dico altro: questo è solo l’inizio della storia di Hester, di Pearl, di Arthur Dimmesdale e di Roger Chillingworth.
Ad alcuni sembreranno quasi incomprensibili, ai giorni nostri, una donna marchiata per adulterio, un uomo distrutto dall’incapacità di confessare di averlo commesso con lei, e una collettività e un marito che si rendono mostruosi per annientarli tutt’e due. Ma incomprensibili non saranno, né tanto meno assurdi, per le donne e gli uomini che vengono perseguitati e si torturano perché non si uniformano a chi, intorno a loro (e talvolta in loro), li giudica e li condanna.
Sì: la folgorante intuizione di Hawthorne è che la “A” che Hester è condannata a portare ― e di cui è così fiera, nonostante la sofferenza che le arreca, da decorarla con un bellissimo ricamo ― non marchia il suo adulterio, ma la sua umanità. Nelle società che tendono a disumanizzarsi, quelli che restano umani vengono marchiati in maniera visibile o invisibile con i pretesti più vari, ma con l’immutabile scopo di identificarli, perseguitarli e distruggerli: Nathaniel Hawthorne lo intuisce un secolo prima che i nazisti impongano agli Ebrei la stella di David. E ne sconfigge l’orrore grazie alle due splendide protagoniste ― più possenti di tutti gli uomini che hanno intorno, ma anche più amorevoli e più geniali ― di un romanzo che io e molti altri consideriamo un capolavoro ineguagliato.
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102. Hemingway, Ernest: “Che ti dice la Patria” e “Il gran Fiume dai due Cuori”
Una domenica di primavera, verso la metà degli anni ’20 del Novecento, Ernest Hemingway, ventiseienne, scende verso La Spezia con un amico, Guido. Hanno una vecchia Ford coupé. Tornano in Francia. “Sono andati da Ventimiglia a Pisa e Firenze e attraverso la Romagna fino a Rimini, passando al ritorno per Forlì, Imola, Bologna, Parma, Piacenza e Genova e di nuovo Ventimiglia. La gita è durata solo dieci giorni, e in così poco tempo, naturalmente, Ernest e Guido non hanno avuto modo di farsi un’idea del paese e dei suoi abitanti”.
Non è vero. “Un’idea del paese e dei suoi abitanti” in quell’anno 1925, Ernest e Guido ce l’hanno, e molto precisa: più che sufficiente per decidere di scappare dall’Italia fascista, e a noi per capire che i fascisti di allora erano gli stessi di oggi, che la loro Italia era la stessa dei fascisti di oggi, e che il titolo di questo bellissimo e doloroso racconto, “Che ti dice la Patria?”, che Hemingway volle in italiano, è la stessa domanda che ci poniamo oggi dinanzi ai milioni di compatrioti che ubbidiscono infatuati a un richiamo d’oltretomba: “Che vi dice la Patria?” vorremmo chiedere loro. “È mai possibile che l’Italia “non-morta” che vi chiama a rifarvi fascisti e nazisti dopo quasi un secolo sia la stessa che parla ai nostri cuori e alle nostre menti?”
Da quell’Italia Ernest e Guido scappano perché non è il Paese dove sono nati, non è la Patria; a loro “dice” solo l’orrore che emana, che quasi li vince, che a ogni curva della ripida discesa verso La Spezia quasi li spinge a buttar giù dall’auto il giovane fascista sul predellino: perché paghi non solo per la folla che riempiva la piazza per lui, e muta, inguardabile, segretamente violenta, non li lasciava passare se non lo prendevano con sé, ma per tutto ciò che hanno visto e sentito nei nove giorni precedenti.
Un’Italia dove quel ch’è pubblico è in rovina ― le strade che un po’ di pioggia rende impraticabili, i fiumi che straripano dagli argini mal tenuti, i veicoli che schizzano fango sui pedoni come se non li guidino mani umane, i muri sbrecciati e imbrattati ― quel ch’è privato è sporco, o turpe, o rapace e imbroglione ― le trattoriole bisunte che invece sono bordelli, i locali pubblici senza gabinetti, gli appartamenti da cui spiano, torvi, occhi di ladri ai quali chiunque passi sembra un ladro ― ed è la stessa Italia che oggi riemerge non-morta dal passato, con le stesse facce, gli stessi sguardi maligni, le stesse truffe, le stesse minacce, la stessa ignoranza, lo stesso odio, lo stesso abbandono e spreco di esseri umani, la stessa infelicità, e che senza pudore, senza affetti, senza sapere quel che fa, impesta l’Italia che immaginavamo di poter amare, l’Italia che volevamo far bella e generosa per i nostri figli: Ernest e Guido, lasciandola, voltandosi a guardarla solo per il sollievo di vederla sparire, incontrano gli stessi uomini, le stesse donne, che di lì a vent’anni inducono Vittorini, e dopo un secolo noi, a chiederci senza poter credere a noi stessi: ma sono Uomini o No?
Il giovane fascista sul predellino, per esempio, è uomo o no? In quell’atto insensato, in quella cieca, furiosa tenacia, così diversa dall’umana morbidezza che Ernest e Guido non pèrdono neanche nella tensione della fuga, egli esibisce forse una “maschia, possente bellezza” (si esprime così la retorica omosessuale e insieme omofoba del fascismo) ed emana, forse, una vitalità irresistibile (e però disumana, nel suo fare a meno del rapporto), ma perché rischia la vita per arrivare a La Spezia a tutta velocità? Quale indegnità, quale abiezione si è radicata in lui, che lo fa correre a un comando come un cane senza alcun riguardo per sé? E all’arrivo non soltanto vuol pagare, per il passaggio che in fondo ha estorto, ma non capisce perché Ernest e Guido non vogliano che paghi, perché allontanandosi lo salutino con la mano, perché, insomma, tra gli esseri ancora umani come loro, si creino e resistano relazioni alla cui importanza essi tributano rispetto fin nei minimi gesti reciproci. Mentre lui, il giovane fascista, è al di là di un limite che non sapremmo definire, ma di cui sappiamo che non lo si può oltrepassare senza precipitarsi per una china in fondo alla quale non ci sono che mostruosità e catastrofi. Lui, il giovane fascista, di tutto ciò che “si diceva e si capiva un tempo in Italia”, la “Patria” fascista a poco a poco “gli ha detto altro”, gli ha versato nelle orecchie un veleno che ha reso la sua mente incomprensibile perfino e innanzi tutto a sé stessa: come una macchina, appunto, da cui non si vuol altro che funzioni come deve, quando la si mette in moto.
E la ragazza che invece è una prostituta, bella “dal suo lato migliore” e mostruosa dall’altro? Tutto ci parla di come sarebbero state, lei e l’Italia, se il fascismo non le avesse violentate entrambe: il suo star sulla porta come una donna libera, i sorrisi, il braccio al collo di Guido, l’atto di sedersi vicino ai due giovani, chiacchierare con loro, toccarsi il seno ― non sarebbe una donna bellissima, una giovane donna splendida da incontrare, se non fosse una giovane donna annientata e uccisa? Ma un “incidente” le ha spianato metà della faccia “come cera calda”: la sua tenera cera (l’affettività che l’odio religioso contro l’umano pietrifica nei bambini mentre le botte fasciste cambiano loro i connotati per sempre, e che in Ernest e Guido fu invece amata da madri e padri che chiamavano il ’900 agli inizi “il secolo dei bambini”), per far di lei una prostituta è stata riplasmata in una maschera mostruosa (era, da sempre, la “chirurgia plastica” dei poveri), e forse proprio da quel “giovane in blu, coi capelli lucidi di brillantina, elegantemente vestito, dall’aspetto impeccabile”, che a un tavolino scrive e fa i conti di quanto gli rende, giorno dopo giorno, la distruzione della sorella.
Paiono, le loro, le stesse facce delle ragazze e dei giovani “plastificati” che “decorano” oggi certe “convention”, che spiccano come prede in catene in certi cortei al séguito, che riempiono certi programmi televisivi di disperata fatuità, ma stando sempre attenti a mostrarsi alle telecamere “dal lato migliore” e a nascondere, dall’altro, le cicatrici dell’intervento (oggi non è più un “incidente”) che li ha tramutati in “ultracorpi”. E la vecchia, orrenda, che sorveglia le ragazze nella trattoria che invece è un bordello, è l’esatto presentimento di certi genitori di oggi che commerciano in figlie, e che perfino minacciano il suicidio ― straordinari venditori e venditrici senza più cuore né mente a intralciare la dedizione al profitto che da un essere umano si può trarre ― se per qualche contrattempo non riescono a venderle.
“Non vi piacciono le strade italiane?” dice il fascista in bicicletta, tutto rivoltella, “bel sorriso italiano”, corruzione e miserabile protervia. È quello che i fascisti insinuano sempre contro chi non riesce a celare la sofferenza per l’orrore di cui essi pervadono l’Italia: voi diffamate la Patria, dunque non l’amate; ed è proprio in ciò ― non amando, soffrendo, sentendo dolore per la Patria ― che vi rivelate ancora umani, non cristiani; ancora umani, non patrioti; ancora umani, non fascisti. Non riuscendo a nascondere che non vi piacciono il fango, la sporcizia, lo squallore ― come un giorno soffrirete per la cementificazione e l’istupidimento ― proprio in ciò rivelate di non essere fango e squallore, cemento e stupidità, ciechi ingranaggi di un meccanismo mostruoso: siete esseri umani, vi denuncia il vostro dolore, e proprio per questo si può e si deve farvi quel che non si farebbe neanche alle bestie.
Eppure, nell’Italia fascista da cui Ernest e Guido scappano voltandosi solo per vederla sparire, non tutti gli Italiani sono come il giovane sul predellino, o lo sfruttatore della sorella nella trattoria-bordello, o la guardia infame e pezzente che arranca in bicicletta in cerca di vittime: ci sono anche “l’uomo e la donna” che nella seconda trattoria “siedono all’estremità più lontana della sala”. Già dal loro isolarsi ― come, a La Spezia, dal tragico silenzio del marinaio seduto “con la testa fra le mani, senza mangiare, senza bere, e a cui nessuno rivolge la parola” ― capiamo che sono di un’Italia che si poteva amare e sognare, prima che fosse sconfitta e umiliata. E allora ci accorgiamo che hanno “vicino una valigia”, un’unica valigia, che “mangiano senza parlare”, che la donna “è bella” ma l’uomo guardandola “scuote la testa”, che “tutt’e due sembrano molto tristi”, e comprendiamo che non sono qui per il loro amore, ma come si è in un incubo finché l’incubo dura, e quindi per far sentire a noi, da personaggi di una storia quali essi sono, che è di un incubo che stiamo leggendo, che “quel che la Patria ti dice”, quando è una “Patria” fascista, te lo versa nelle orecchie mentre dormi, notte dopo notte, per far sì che un brutto mattino ti svegli uguale a loro, dai tuoi sonni agitati, ed “è arrivato l’invasor” poiché da quel mattino l’invasore sei anche tu. Per questo hanno l’aria stanca di chi non dorme da tempo, per questo scappano anche loro senza voltarsi indietro: non sopportano più neanche la vista degli Italiani, ormai li sentono tutti complici, tutti colpevoli anche soltanto perché non hanno il coraggio di sedersi in fondo alle sale per testimoniare che perfino trovarsi casualmente insieme a un fascista in un ristorante fa soffrire chi non è capace di rendersi disumano.
Ernest e Guido niente possono fare per loro: solo rattristarsi. Sentono e sanno che la salvezza dell’Italia non può venire dall’America, poiché sarebbe come se alla prima curva, scendendo verso La Spezia, si fossero scrollati di dosso come un insetto molesto il fascista sul predellino: “sarebbe la guerra”. Che è peggio, sempre, di ciò che tenta di combattere. Anzi: in un’Italia così ridotta, già la loro presenza, sia pure come giovani, inermi turisti, è un atto di guerra, e ben glielo fa capire la guardia vigliacca col suo odio a prima vista, e con la “grossa pistola” che da un momento all’altro potrebbe spianare contro di loro per, incredibile a dirsi, legittima difesa: poiché Ernest e Guido sono nemici in quanto diversi, irraggiungibili, impossibili da prendere pian piano nella notte versando loro nelle orecchie il veleno fascista; poiché a uno straniero come può la “Patria” fascista parlare se lui, ancora umano, “non capisce la lingua” fascista?
Possono solo scappare, Ernest e Guido, impedendo all’Italia un tempo amata di macchiarsi del crimine di assassinarli. Scappare e poi voltarsi, purché da così lontano che gli occhi non la vedano più, immaginando e sperando che stia concependo una nuova nascita: la venuta di un giorno in cui anche l’Italia, “come Mentone”, sarà di nuovo “allegra, pulita, deliziosa”.
“Uomini o No?” si chiede Vittorini vent’anni dopo, e noi dopo cento. Ma nessuno è “No”. Non è possibile non essere umani, se si nasce umani. La lotta è sempre tra umani, da ambo le parti. E non si può dubitarne, o vorrebbe dire che i fascisti, benché sconfitti, avrebbero vinto: avrebbero insinuato in noi l’idea che ci si possa riuscire, prima o poi, a non essere umani, e che per questo si venga al mondo: per preparare e forzare, per noi e per gli altri, l’avvento di un aldilà in cui dell’umano non vi sia più traccia.
Il testo completo del racconto, “Che ti dice la Patria?” (in italiano nell’originale) ― pubblicato per la prima volta in “New Republic” il 18 maggio 1927, col titolo “Italy”, e il 14 ottobre 1927 nella raccolta “Men Without Women” (“Uomini senza donne”) ― è qui.
Dieci anni prima, nell’estate del ‘14, Ernest Hemingway, chiamando sé stesso Nick Adams, va qualche giorno a pescare da solo sul “Gran fiume dai due cuori”. Scende dal treno, in un luogo dove una volta c’era un villaggio abbastanza grande per avere un albergo, e la prima cosa che vede è che ora è solo rovine, “pietra scheggiata e spezzata dal fuoco. Quello è tutto quanto resta del paese di Seney. Perfino la superficie è scomparsa dal terreno nell’incendio”. E la vista di tanta distruzione, all’inizio di un racconto apparentemente luminoso, felice, è come la faccia “spianata come cera calda” della bella e orribile ragazza della trattoria a La Spezia: un orrore segreto, mostrato per un attimo e poi sùbito nascosto, che non dobbiamo dimenticare ― noi lettori ― neanche se poi ci convinciamo che perfino lo scrittore se n’è dimenticato.
“Nick è felice. Accomoda le cinghie del sacco intorno al fagotto, tirandole bene, si getta il sacco sulla schiena, infila le braccia nelle bretelle, libera le spalle da una parte della tensione appoggiando la fronte contro una larga striscia di stoffa. [...] Ha in una mano l’astuccio delle canne da pesca, e chinato avanti per tenere in alto sulle spalle il peso del sacco, s’incammina lungo la strada che corre parallela ai binari, lasciandosi alle spalle nel sole il paese bruciato, e svolta poi intorno a una collina prendendo una strada che tra due colline alte e scarnite dal fuoco si spinge verso l’interno. Cammina lungo quella strada, sentendo male per la tensione delle cinghie del sacco sulle spalle. La strada si arrampica ripida. È faticoso camminare in salita. I muscoli gli dolgono e fa un gran caldo, ma Nick si sente felice. Sente di aver lasciato tutto dietro di sé, il bisogno di pensare, il bisogno di scrivere, gli altri bisogni. Tutto è dietro di lui”.
L’esattezza delle azioni di Nick, e quella con cui egli le descrive, rispecchia la struttura matematica del mondo. Come lui “tira bene” le cinghie del sacco, come lui sa cosa fare per “liberare le spalle da una parte della tensione”, come lui si “china in avanti per tenere in alto il peso”, così la “grossa trota” che vede poco prima dal ponte “scatta contro corrente con un forte angolo quando l’ombra dell’uccello pescatore passa sul fiume, e soltanto la sua ombra segna l’angolo; poi perde l’ombra quando compare alla superficie dell’acqua, nel sole; poi, quando torna sott’acqua, l’ombra sembra portata giù, sopraffatta dalla corrente, fino a ridursi di nuovo sotto il ponte, dove si ferma, stretta accanto al pilone, fronteggiando la corrente. E il cuore di Nick batte”, come se comunichi con il corpicino della trota.
Poiché il mondo e tutti gli esseri sono un’immensa unità immensamente complessa ed estremamente esatta, e da sé stessa esattamente regolata ― da sé stessa, certo, ché in questo mondo, per buona sorte, benché ci siano fascisti, almeno non ci sono dei ― e quindi totalmente comprensibile. E che Nick ne sia parte lo capiamo dal fatto che non commette sbagli rispetto al mondo: Nick è “bravo”, sa sempre il da farsi e lo fa: l’accuratezza ch’è segno che il mondo è sensato, e che sensato lo conserva, è anche di Nick e fa sì che egli è e sarà sempre uno degli “Uomini”, mai dei “No”.
Quando Nick fa una sosta e si siede, “appoggiandosi a un ceppo carbonizzato”, a fumarsi una sigaretta, il suo sacco “è piazzato su un ceppo, con le cinghie pronte e una cavità modellata dalla schiena”. Quando si rimette in cammino, “mantiene la direzione osservando il sole. Sa in quale punto vuol raggiungere il fiume”, e sarà lì e non altrove che lo raggiungerà. E intanto “coglie rami di felci selvatiche e li pone sotto la cinghia del sacco: lo sfregamento li schiaccia ed egli camminando ne sente il profumo”. Poi, quando arriva nel luogo prefissato, “Nick mette a terra il sacco e l’astuccio delle canne e cerca uno spazio di terreno pianeggiante. Ha molta fame, ma vuol piantare la tenda prima di far da mangiare. Fra due pini il terreno è quasi sgombro. Nick prende dal sacco un’accetta” ― immaginiamo la cura con cui l’avrà scelta, le discussioni tra amici su quale sia l’accetta migliore, l’attenzione con cui l’avrà riposta nel sacco in modo che sia sempre pronta e facile a tirarsi fuori ― “e recide due radici che sporgono. Ne risulta uno spazio di terreno abbastanza ampio per potervi dormire. Nick spiana con le mani il suolo sabbioso e strappa con le radici tutte le felci. Le mani hanno un buon odore di felci” ― ogni operazione esattamente compiuta ricava dal mondo un piccolo o grande premio ― “e Nick spiana il terreno dove ha tolto le radici. Non vuole punti duri sotto le coperte. Quando ha ben spianato il terreno distende le tre coperte. Ne piega una in due, la prima sul suolo, e vi distende sopra le altre due.
Con l’accetta stacca poi una grossa scheggia di pino da uno dei ceppi e ne fa paletti per la tenda. Li vuole lunghi e robusti perché si conficchino bene. Slegata e stesa a terra la tenda, il sacco appoggiato a un pino sembra molto più piccolo” ― c’è addirittura un che di autistico in questa osservazione: il sacco sembra più piccolo, a un tratto, come se Nick non sappia più che è stato lui a renderlo tale. Quindi “lega a un pino la corda che serve da sostegno alla tenda e ne lega l’altra estremità a un altro albero, sollevando così la tenda dal suolo. La tenda rimane sulla corda come un lenzuolo di tela messo ad asciugare. Nick mette sotto la tela un palo che ha tagliato e ne fa una tenda fissandone i lembi al suolo. Tira bene la stoffa e ficca in profondità nel terreno i paletti battendoli con la parte piatta dell’accetta finché gli anelli delle corde sono interrati e la tela tesa come un tamburo”.
La precisione, l’abilità, la bravura di Nick ― il suo saper stare al mondo ― sono quasi irresistibili per noi: ricordiamo le mille conversazioni, soprattutto fra maschi, a cui abbiamo assistito e partecipato, ritroviamo quella ricerca e quel vanto quasi ossessivi dell’accuratezza nel fare, checché si faccia, e sentiamo che sì, è vero, l’abbiamo sempre saputo: è così che si sta al mondo, perché il mondo è così ― implacabilmente esatto, e immancabilmente generoso con chi non perde il passo con la sua esattezza ― e dunque solo così si è “Uomini”, solo così non si diventa “No”, solo così non ci si sveglia un brutto mattino da sonni agitati per entrare in un incubo che da quel momento siamo anche noi a render tale anche se non vogliamo. E solo così si ottiene quel poco di felicità che la vita può dare, purché i “No” non vengano a sfregiarla: la medesima felicità per ogni essere, umano o non umano (come la piccola trota di cui, il mattino dopo, Nick sentirà, sfiorandola con la mano, “il senso di tranquillità e di freschezza sott’acqua”), che del mondo riesca a rimanere parte:
“Nell’interno della tenda la luce filtra attraverso la tela scura. C’è un buon odore di tela. Già c’è un che di domestico e di misterioso. Muovendosi carponi sotto la tenda Nick si sente felice. Non è mai stato infelice, durante tutta la giornata. Questo però è diverso. Ora la cosa è fatta. C’era questa cosa da fare e ora è fatta. È stata una marcia dura. È molto stanco ma la cosa è fatta. Si è fatta la tenda. Si è piazzato. Niente può più toccarlo. Quello è un posto buono per piantare la tenda. È lì, nel posto buono. È in casa sua dove se l’è costruita”.
C’è voluto tempo per diventare così bravo da essere così esattamente nel mondo da ricavarne quel po’ di felicità che se ne può trarre. Mentre si prepara da mangiare, per esempio, Nick a un certo momento resiste alla fame poiché “sa che i fagioli e gli spaghetti sono ancora troppo caldi. Guarda il fuoco, poi la tenda, non vuole rovinare tutto scottandosi la lingua. E ricorda che per anni non ha potuto gustare le banane fritte perché non è mai stato capace di aspettare che si raffreddino. La sua è una lingua molto delicata”. C’è voluto tempo, sì, ma oggi è così bravo che la delicatezza della realtà, la delicatezza dell’organismo del mondo, di cui la sua lingua fa parte come tutto il resto, più niente ha da temere dalle sue azioni, dai suoi gesti, perfino dai suoi pensieri: Nick è degli “Uomini”, ora, il che vuol dire che è quello che è non con la mente, non col corpo, né con la mente e col corpo, ma semplicemente come una lingua è una lingua e una trota è una trota. Come ogni ente, che per essere nel mondo ha da essere sé stesso e non un “No”, così Nick è Nick, un essere umano.
Più tardi, “attraverso l’imboccatura della tenda, Nick osserva il bagliore del fuoco quando il vento della notte vi soffia sopra. È una notte calma. La palude è silenziosa. Nick si distende comodamente sotto le coperte. Una zanzara gli ronza vicino a un orecchio. Nick si siede e accende un fiammifero. La zanzara è sulla tela sopra la sua testa. La zanzara nella fiamma produce un sibilo soddisfacente. Il fiammifero si spegne. Nick si sdraia di nuovo sotto la coperta. Si volta sul fianco e chiude gli occhi. Ha sonno. Sente il sonno arrivare. Si rannicchia sotto la coperta e si addormenta”.
“Il gran fiume dai due cuori” conta venti pagine: il doppio di “Che ti dice la Patria?” ma non lunghissimo. Tuttavia, poiché il sonno di Nick non deve essere disturbato, “Il gran fiume dai due cuori” è diviso in due parti: si interrompe la sera e riprende il mattino dopo. Quando “il sole è alto e la tenda inizia a riscaldarsi, Nick esce fuori a osservare il mattino”. Poi fa colazione, si prepara, prende ciò che gli serve, cattura una cinquantina di cavallette, le chiude in una bottiglia “con una scheggia di pino come turacciolo, in modo da non farle scappare ma da lasciare spazio per il passaggio dell’aria” (insomma: fa ogni cosa nel modo più esatto, come la sera prima, e con la contentezza, col pieno sentimento di sé nel mondo che l’esattezza nell’agire gli dà) e finalmente, “sentendosi professionalmente felice”, va a pescare.
Si dà prova di saper stare al mondo non solo in quel che si fa per sé stessi, ma anche, e forse soprattutto, in ciò che si fa nei confronti degli altri. Il giorno prima, per esempio, durante il cammino, Nick a un certo momento “ha allungato una mano e ha afferrato una cavalletta per le ali. L’ha rovesciata, con le zampine che si muovevano nell’aria, e ha osservato l’addome segmentato. Poi: «Vai, insetto» ha detto. «Vola via in qualche posto»”. Ciò non vuol dire che Nick sia san Francesco. La zanzara infatti l’ha uccisa, non l’ha invitata affabilmente, sorella zanzara, a uscire dalla tenda. E ucciderla non ha significato escludersi, mettersi fuori e contro l’ordine delle cose, poiché è stata piuttosto la zanzara a mettersi fuori e contro il mondo disturbando il sonno di Nick.
Ma come, si dirà, Nick può cibarsi delle trote ma le zanzare non possono cibarsi del suo sangue? Proprio così, poiché è così che il mondo è: fra tutti gli esseri, solo Nick è dotato di ragione, solo Nick può ricostruire l’ordine del mondo e apprendere a rispettarlo, e perciò solo Nick è in grado di decidere, per non infrangerlo, cosa si possa fare o no. Si può uccidere la zanzara, dunque ― anzi: si deve farlo, o privati del sonno non si sarà presenti a sé stessi l’indomani ― ma non si può togliere la vita alla cavalletta quand’è ancora lontano il momento in cui si avrà bisogno di essa come esca.
Lo stesso, naturalmente, vale per le trote: “Nick sente uno strappo al filo. Tira. È il primo colpo. Tenendo contro corrente la canna ora viva, ritira il filo con la mano sinistra. La canna si curva a scatti, come la trota punta contro corrente. Nick capisce che è una trota piccola. Solleva diritta la canna, che si curva per la tensione. Vede nell’acqua la trota puntare a scatti col muso e col corpo contro la mutevole tangente del filo nel fiume. Nick prende con la sinistra il filo e tira alla superficie la trota che si dibatte estenuata contro corrente. Ha il dorso colore chiaro dell’acqua tra i sassi, i fianchi luccicano al sole. Con la canna sottobraccio Nick immerge nell’acqua la mano destra. Tiene con la mano bagnata la trota che guizza e stacca l’amo dalla bocca del pesce e lo lascia ricadere nel fiume. La trota oscilla nella corrente, poi si ferma sul fondo dietro un sasso. Nick allunga la mano per toccarla, infila nell’acqua il braccio fino al gomito. La trota è immobile nel fiume in movimento, se ne sta sulla ghiaia dietro un sasso. Quando le dita di Nick la toccano, toccano il suo senso di tranquillità e di freschezza sott’acqua, la trota guizza e scompare, veloce come un’ombra sul fondo del fiume. Sta benone, Nick pensa. Era soltanto stanca. Si è bagnato la mano prima di toccare la trota in modo da non rovinare il muco delicato che la copre. Se si tocca una trota con la mano asciutta, un fungo bianco attacca il punto rimasto senza protezione. Anni prima, quando pescava su fiumi frequentati, con pescatori a monte e a valle di lui, a Nick è capitato moltissime volte di trovare trote morte, pelose di fungo bianco, portate alla deriva contro una roccia oppure galleggianti col ventre in aria in qualche stagno. A Nick non piace pescare quando c’è altra gente sul fiume. A meno che siano della vostra comitiva, rovinano tutto”.
Insomma: la piena validità di ogni azione di Nick nel “Gran fiume dei due cuori” è come la danza esattissima del torero dinanzi al toro: entrare “in risonanza” col toro, muoversi ― il torero e il toro ― come se siano un unico essere, è il solo modo per vincerlo degnamente: entrare nel mondo del toro, essere con lui in esso.
Ma le “comitive”, è chiaro, sono due: la comitiva di chi sa stare al mondo, con gli esseri umani e con gli altri esseri, e la comitiva di chi non sa. Quelli che non sanno stare al mondo sono quelli che non hanno voluto imparare, che volontariamente (fortuna e sfortuna non esistono nel mondo di Nick: o si vuole essere bravi, e prima o poi vi si riesce, o non lo si vuole, e prima o poi lo si ottiene) si sono esclusi, messi fuori e contro l’ordine delle cose. Essi, pertanto, non sono semplicemente sgradevoli: sono pericolosi. Non solo per le trote, ma per il mondo intero. Rinunciando al posto ch’è solo dell’Uomo nell’Universo, cioè a essere Dio ― poiché non c’è altro Dio che l’Uomo, nel mondo di Nick ― si sono resi simili a demoni: se dispettosi o malvagi, se attaccabrighe o feroci, se pasticcioni o devastatori, dipende solo dalle circostanze. E dunque può accadere che Nick ― il cui saper stare al mondo lo rende capace di battersi con assoluta efficienza, invariabilmente fa di lui il vincitore, e soprattutto gli conferisce il diritto di uccidere (stavo per scrivere “la licenza”, in fondo James Bond gli è fratello minore) ― si trovi un giorno a entrare in guerra contro di essi dopo aver visto e sentito, in Italia, “cos’ha detto loro la Patria”. E che in guerra, come a pesca ― nella piena capacità e legittimità, che il suo saper stare al mondo gli conferisce, di stabilire chi possa sopravvivere e chi debba morire ― uccida quanti più fascisti gli è possibile. Poiché Nick è “Adams”: Nick, “figlio di Adamo”, è l’Uomo, custode dell’Universo. Mentre i fascisti sono “l’altra comitiva”: quelli che uccidono fin la più piccola delle trote, pur di sentirsi non umani.
Ma se le cose stanno così, se Nick è così bravo, se la sua bravura, lungamente e duramente appresa, lo rende così infallibile nel capire e nel fare, se la sua battaglia come la sua pesca, sempre esattamente condotte, sono anche sempre vincenti, come mai al mondo ci sono ancora ― non trote, che a pieno titolo sono parte dell’ordine del mondo e lo saranno per sempre, finché vi sarà Nick a restituire al fiume le troppo piccole e a bagnarsi le mani prima di toccarle ― ma come mai al mondo ci sono ancora tanti cattivi pescatori, tanti che delle trote distruggono perfino le uova e mutano i fiumi in deserti d’acqua? Sì, come mai al mondo ci sono ancora tanti fascisti anche se Nick li ha sconfitti settantacinque anni fa? Peggio: come può accadere che anche Nick sia talvolta un fascista, in Vietnam o in Irak?
E ponendoci questa terribile domanda (per quanto sia doloroso entrare in conflitto con uno come Nick, che sul “Gran fiume dai due cuori” ci ha insegnato a stare al mondo, in “Che ti dice la Patria?” a riconoscere i fascisti d’allora e di oggi, e ne “Il Vecchio e il Mare”, se vogliamo, perfino a star al mondo da vecchi) come possiamo non rammentare che questo racconto inizia in un luogo “dove non c’è più paese, ci son solo i binari e la campagna bruciata”? Dunque è accaduto qualcosa, prima, che ha devastato il punto di partenza, l’origine, dell’avventura di Nick sul “Gran fiume dai due cuori”. Ma cosa? Perché proprio in un luogo di distruzione e di morte egli è venuto al mondo nel quale poi ha imparato a stare così esattamente? È per la sua nascita disgraziata, allora, che il tempo tramuta sempre in fallimenti i suoi invariabili successi?
Tre racconti precedenti, ma anch’essi del ‘25 ― “La fine di qualcosa”, “Tre giorni di burrasca” e “Neve fra due paesi” ― dicono che no, Nick non è nato disgraziato. Niente può non andare nell’origine, nessuna storia può iniziare in un paese distrutto: Nick è nato, come ognuno, perfettamente umano. Ma poi, un giorno, ha fatto qualcosa per cercare di esserlo meno. Non per non esserlo più, o non saremmo qui a parlare con lui, ma per essere meno umano quanto basta (ammesso che nella diminuzione di sé ci si possa fermare dove si vuol fermarsi) per incardinarsi in un ordine del mondo che in sé non è umano: è della Natura. (Non per niente l’uomo di Hemingway non esce mai dalla preistoria: cacciatore, pescatore e raccoglitore, ancora non immagina di trasformare il mondo. Grande narratore, certo, ma del mondo com’è, non di mondi immaginari).
Come “Il gran fiume dai due cuori”, “La fine di qualcosa” inizia con un paese che non c’è più: Hortons Bay, che “molti anni fa era un paese rumoroso”, è morto quando “non vi furono più tronchi: le case dormitorio a un piano, la mensa, il magazzino della compagnia, gli uffici del mulino e il mulino stesso rimasero abbandonati in mezzo alla distesa di segatura che copriva il terreno paludoso presso la spiaggia della baia”. E tuttavia ne “La fine di qualcosa” l’inizio non è nella rovina, ma nell’unico suo opposto possibile: nel rapporto uomo-donna. Con Nick, infatti, all’inizio c’è Marjorie. E Nick e Marjorie vanno a pescare insieme, e lei non è meno brava di lui, anzi: lo è almeno altrettanto. “Sta sempre attenta alla canna, anche mentre parla. Le piace pescare. Le piace pescare con Nick”. Ed è brava anche in amore: dopo, “Marjorie va a prendere nella barca una coperta; e poiché la brezza della sera porta il fumo del fuoco verso la punta, Marjorie distende la coperta tra il fuoco e il lago”.
Ma allora, se Marjorie non è meno brava di Nick, perché Nick deve lasciarla? Perché non resta con lei per sempre? Perché non va con lei a pescare sul “Gran fiume dei due cuori”? Perché non viene con lei in Italia nel 1925 a riconoscere l’orrore fascista (“con lei aveva parlato di andare in Italia insieme”, dirà Nick in “Tre giorni di burrasca”)? Non potrebbe, Nick, vincere “con lei”, nel 1945, in modo che i fascisti non tornino mai più?
“«Che cos’hai, insomma?» dice Marjorie. «Non lo so». «Invece lo sai». «No, io no». «Avanti, dillo». Nick guarda la luna, che sale in alto sopra le colline. «Non è più divertente» dice. Ma ha paura di guardare Marjorie. E poi ammette: «Mi pare come se tutto dentro di me sia andato al diavolo»”.
Marjorie non sta lì a pregarlo. Brava anche in questo, semplicemente prende la barca e se ne va. Ma Nick non la chiama. “Rimane disteso per molto tempo. È ancora disteso quando sente Bill giungere allo scoperto dal bosco. Sente Bill avvicinarsi al fuoco. Non si muove, non gli importa di Bill. «Allora è andata via?» dice Bill. «Sì» Nick dice, disteso, con la faccia sulla coperta. «Successe scene?» «No, nessuna scena». «Come ti senti?» «Oh, va’ via, Bill! Va’ via per un po’». Bill sceglie un sandwich dal cestino della cena e si muove per andare a dare un’occhiata alle canne”.
Sembra proprio che non vi sia alcun motivo per lasciare Marjorie. Niente non va, in lei. Niente importa a Nick di Bill. E Nick, dopo, è infelice per averla lasciata. Ma allora perché lasciarla? E perché “sostituirla” con Bill, perché pescare con lui invece che con Marjorie, se di Bill non gli importa?
In “Tre giorni di burrasca”, Nick e Bill, soli in casa di Bill mentre il padre di Bill è a caccia, si ubriacano “con estrema bravura”, mantenendo il controllo e vantandosi per questo con sé stessi e reciprocamente. Ma il whisky in qualche modo riesce lo stesso a farli star male, pur senza che se ne accorgano e che alcun segno esteriore lo manifesti, e star male li spinge a parlare di quella che è stata, per tutt’e due, “la fine di qualcosa”: la cacciata di Marjorie dal mondo.
“Dice Bill: «Hai fatto proprio bene». «A far cosa?» chiede Nick. «A piantarla con quella faccenda di Marge» dice Bill. «Credo anch’io» dice Nick. «Era l’unica cosa da fare. Se non l’avessi fatto, adesso saresti a casa a cercar di far soldi per sposarti». Nick non dice niente. «Quando un uomo si sposa è fregato per sempre» Bill continua. «Non gli resta altro. Niente. Un accidente di niente. È fregato. Forse è stato poco bello piantar tutto» Bill dice. «Ma si finisce sempre per prendere un’altra cotta e tutto si aggiusta. Va bene prender le cotte, ma non bisogna farsi rovinare dalle donne». «Sì» dice Nick. Il whisky è passato, l’ha lasciato solo. Bill non è presente. Egli non è più seduto davanti al fuoco. Non andrà a pescare il giorno dopo con Bill o suo padre o chi altro. Non è ubriaco: è tutto finito. Tutto quel che sa è che una volta aveva Marjorie e che ora l’ha perduta. Ora lei se n’è andata, è stato lui a mandarla via. Questo soltanto conta. Probabilmente mai più la rivedrà. Finito. È finito tutto”.
(Anni dopo, in “Neve fra due paesi”, Nick si sposerà. Con una certa Helen, in Europa. Eppure incredibilmente si rammaricherà, quando lei aspetterà un bambino e dovranno tornare negli States, di dover per questo interrompere l’amata consuetudine di recarsi a sciare con l’amico George).
Non “le donne”, dunque, sono sparite dalla vita di Nick, quando ha lasciato Marjorie. Non con “le donne” è finito tutto, quella sera sul lago. È sparita LA donna. Finita con la donna. E non per altro che per questo: poiché Marjorie è la donna. Poiché con la donna non si può stare, nel mondo di Nick.
Questa è la fine di Hortons Bay, questo l’incendio che rade al suolo Seney “e perfino la superficie” del suolo: imparare a star al mondo con assoluta esattezza, alla maniera di Nick e dell’America di Hemingway (e del mondo ch’è il nostro, che dall’America viene) semplicemente non si può, se c’è Marjorie. Non perché in lei ci sia qualche difetto ― Bill pagherebbe per pescare come lei, George per sciare, e Helen, probabilmente, per saper posizionare una coperta in modo che niente disturbi, mentre si fa l’amore ― ma proprio perché Marjorie è donna. Soltanto perché è donna. (E tanto più quanto più lo è, poiché non tutte le donne ― poche, forse ― son riuscite a rimanere così donne che sia impossibile stare con loro, se si vuole stare al mondo e andare a pesca e a caccia di fascisti “bene” come lo fa Nick.
Allora dobbiamo chiederci: cosa, nel-la donna, la rende incompatibile con un saper del mondo e un saperci stare che pure è talmente esatto che non solo non commette alcun errore, nel rapporto col mondo e coi viventi e con gli umani, ma soprattutto riconosce i fascisti per quelli che sono?
“Va bene prendere le cotte”, dice Bill, “ma non bisogna farsi rovinare dalle donne”. Quel che manda in “rovina”, dunque, non è stare con la donna, e nemmeno prendersi una cotta per lei. È stare con la donna in un modo che va oltre lo stare con lei, che va oltre il prendersi una cotta per lei: è stare con la donna, e la donna con l’uomo, in un modo che per il suo andare oltre li porta su un piano che non è compatibile con lo stare al mondo come vi stanno tutti gli altri esseri (non umani) e tutte le cose (non umane); e dunque alla rovina, al fallimento dell’esatto rapporto col mondo.
Con tutto quel che esiste, Nick può e deve stare interamente e totalmente, con tutto sé stesso, se vuole essere un uomo, se vuol restare umano, se non vuole ― come quelli dell’“altra comitiva” ― render sé stesso disumano. Solo con la donna, fra tutti gli esseri e le cose del mondo, invece è il contrario: solo con la donna, per saper stare al mondo, si deve stare non del tutto, non con tutto sé stesso, ma solo fino a un certo punto. E questo (se addirittura non insinua che quelli dell’“altra comitiva” ne siano entrati a far parte proprio per essere andati oltre nel rapporto con la donna: ma che insinui ciò come pensarlo, senza che il conflitto con Nick diventi totale?) significa che Marjorie, la donna, per Nick, per Hemingway, per l’America (e per noi che anche da quell’America veniamo) non sarebbe nel mondo, sarebbe estranea al mondo, introdurrebbe nel mondo un disordine che, per quanto sia doloroso perderla, non averla più ― poter prendersi d’ora in poi solo cotte, ma non poter più essere del tutto con lei ― ciò nondimeno renderebbe impossibile portarla nel mondo con sé senza perdere sé stessi.
La chiave è proprio in quell’oltre, in quello stare troppo intensamente con la donna, del quale non si sa dire la misura, del quale si può parlare solo vagamente, come di un troppo, ma senza poter dire esattamente quanto. Andare oltre con la donna, cioè ― ma soltanto con lei, poiché con tutto il resto, l’abbiamo visto, l’esattezza è possibile ed è il massimo della sintonia ― significa entrare in una realtà di cui non sono possibili misurazioni, dove non valgono le leggi della fisica deterministica (ma di un’altra fisica forse sì...) e dove quindi il rapporto col mondo si perde, poiché il mondo è misurabile, esattamente conoscibile, razionale, mentre con la donna, se vai oltre, vai nell'irrazionale. E nell’irrazionale rischi di distrarti e di dimenticare, una volta o l’altra, di bagnare la mano nell’acqua prima di toccare una piccola trota.
O è vero l’opposto? O forse proprio il continuo, ossessivo controllo razionale della realtà è il mostro che ci opprime, ci soffoca, ci aliena dall’irrazionale nostra natura umana e prima o poi innesca e fa esplodere la ribellione del pazzo, fascista e nazista, di non esser più umani e sterminare tutti?
Il fallimento, l’impotenza (non tanto di Nick o di Hemingway, quanto di un’intera Società maschile) non a riconoscere i fascisti, non a combatterli e sconfiggerli (quasi) ogni volta, ma a distinguersi da essi fino a far sì che non ci siano più, ha qui la sua vera origine: nell’idea insensata di poter essere uomo, umano, non dell’“altra comitiva”, solo se ci si preclude, oltre l’esattezza tenacemente perseguita dello stare al mondo, la completezza irrazionale dello stare insieme l’uomo con la donna e la donna con l’uomo. Come se l’essere umano, al contrario di ogni altro vivente, trovi sé stesso nel... non essere pienamente sé stesso, non essere fin in fondo con sé stesso, l’uomo con la donna e la donna con l’uomo. Come se quel che ci rende umani ― poter immaginare e realizzare di andare oltre insieme ― sia un subdolo nemico da tenere a bada l’uno nell’altro: l’uomo nella donna, la donna nell’uomo, e tutti contro tutti.
Dunque nessuna zanzara, se dipendesse da me, Nick troverebbe in tenda al momento di coricarsi. Bravo com’è, non può aver commesso lo sbaglio di farla entrare fissando male o troppo tardi la zanzariera. Un errore di Hemingway? No. Quella zanzara è lì per un motivo preciso: distrarre Nick ― e noi ― dal ricordo di Marjorie, dal pensiero, dal dolore di averla scacciata dal mondo e perduta per sempre. Questo sì che non lo farebbe dormire, altro che la zanzara! La zanzara non avrebbe alcun potere sulla stanchezza di un giovane che ha marciato tutto il giorno nei boschi. Ma Hemingway non vuole che Nick ― e noi, che poche pagine fa abbiamo letto “La fine di qualcosa” ― pensiamo più a Marjorie, altrimenti... altrimenti cosa? La pesca domani andrebbe male? Nick perderebbe la Seconda guerra mondiale? L’America dovrebbe dire addio al proprio posto nel mondo? O piuttosto entrerebbe in crisi, in Nick e in noi, il “pensiero” millenario ― che anche Nick si è rassegnato a far proprio dimezzandosi la complessità, la profondità, l’intensità, la bellezza della vita ― che per stare al mondo da umani, per non piombare nell’orrore fascista e nazista di non voler esserlo più, si debba riuscire... a non essere umani del tutto, fin in quell’irrazionale oltre che umani ci rende? E perciò si debba tenere a bada, lontano da sé, l’altro essere umano, la donna per l’uomo, l’uomo per la donna, che è il solo al mondo con cui non si può stare senza essere umani del tutto? E si debba rinunciare, dunque, la donna con l’uomo, l’uomo con la donna, ad attingere l’assoluta estraneità dal fascismo e nazismo di non voler essere umani che senza guerra, senz’armi, senza vittime, sradicherebbe per sempre il fascismo e il nazismo dalla faccia della Terra?
Nella notte, sul “Gran fiume dai due cuori”, Nick potrebbe capire tutto questo, se il dolore per la perdita di Marjorie si facesse così intenso da non lasciarlo dormire. Ma Ernest Hemingway, che veglia su di lui, gli manda una zanzara da uccidere per poi addormentarsi tranquillo. E fa sparire la notte, dividendo la prima dalla seconda parte del “Gran fiume dei due cuori”, non per proteggere i sogni di Nick dai nostri sguardi indiscreti, ma per non ammettere che invece sono incubi. Gli incubi che versa la Patria ― la Terra dei Padri ― nelle orecchie degli uomini senza donne.
Poi, certo, molta acqua è passata sotto i ponti sul “Gran fiume dai due cuori”. Si è capito che qualcosa non andava. Si è inventato perfino il cosiddetto “antieroe”. Ma a chi va oltre, guarda caso ― un uomo con una donna, una donna con un uomo ― si continua disumanamente a minacciare sfracelli, se appena osa.
Il testo completo del racconto “Il gran fiume dai due cuori” (“Big two-hearted River”) ― pubblicato per la prima volta in “This Quarter” nel maggio 1925, e nell’ottobre dello stesso anno nella raccolta “Nel nostro tempo” (“In our time”) ― è qui.
ErnestHemingway (1898 ― 1961).
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103. Hemingway, Ernest: “Il Vecchio e il Mare”
Un vecchio ed esperto pescatore, solo al mondo, “da ottantaquattro giorni non prende un pesce”. Gli altri pescatori lo canzonano, tranne i più vecchi, che “lo guardano e si sentono tristi”, e un ragazzo che lo stima ― “ci sono molti pescatori bravi e alcuni grandi,” gli dice, “ma come te ci sei soltanto tu”. E con il ragazzo il vecchio parla e si confida, e ne accetta con discrezione l’aiuto poiché, quantunque sia “troppo semplice per chiedersi quando abbia raggiunto l’umiltà, sa di averla raggiunta e sa che questo non è indecoroso e non comporta la perdita del vero orgoglio”.
Una notte il vecchio “si addormenta presto e sogna l’Africa quand’era ragazzo e le lunghe spiagge dorate e le spiagge bianche, così bianche da far male agli occhi, e i promontori alti e le grandi montagne brune. Ora vive tutte le notti lungo quella costa e nel sogno sente il fragore dei marosi e vede le barche indigene che li fendono. Mentre dorme sente l’odore del catrame e della stoppa del ponte e sente l’odore dell’Africa recato al mattino dal vento di terra. [...] Non sogna più tempeste, né donne, né grandi avvenimenti, né grossi pesci, né zuffe, né gare di forza e neanche di sua moglie. Ora sogna soltanto luoghi, e i leoni sulla spiaggia. Giocano come gattini nel crepuscolo e gli piacciono come gli piace il ragazzo. Non sogna mai il ragazzo”.
Poi il vecchio si sveglia e si mette in mare ― quel mare a cui egli “pensa sempre come a ‘la mar’, come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlino di una donna. Alcuni [...] ne parlano come di ‘el mar’, al maschile. Ma il vecchio lo pensa sempre al femminile e come qualcosa che concede o rifiuta grandi favori e se fa cose strane o feroci è perché non può evitarle. La luna lo fa reagire come una donna, pensa il vecchio”. E finalmente all’amo del vecchio abbocca un pesce gigantesco e molto forte, che lo impegna in un durissimo e terribile combattimento. E alla fine il vecchio trionfa sul pesce, che nel frattempo è arrivato a stimare come un avversario valoroso e leale.
(“Comincia ad avere pena del grande pesce che ha abboccato. È meraviglioso e strano e chissà quanti anni ha, pensa. Non mi è mai capitato un pesce così forte e che si sia comportato in modo così strano. Forse è troppo saggio per saltare. Potrebbe uccidermi se saltasse o si mettesse a correre forte. Ma forse ha già abboccato molte volte e sa che la sua battaglia va combattuta in questo modo. Non può sapere che c’è solo un uomo contro di lui, e che quest’uomo è un vecchio. [...] Chissà se ha qualche piano o se è disperato come me? [...] Aveva scelto di restare nell’acqua profonda e scura a largo, fuori di tutte le trappole e le reti e gli inganni. La scelta mia, pensò il vecchio, è stata quella di andare laggiù a scoprirlo al di là di tutta la gente. Al di là di tutta la gente del mondo. Ora siamo legati l’uno all’altro e lo siamo da mezzogiorno. E nessuno dei due ha qualcuno ad aiutarlo” [...]. “Ricorda una volta che era rimasta presa all’amo la femmina di una coppia di marlin che procedevano insieme. Il maschio lascia sempre nutrire prima la femmina, e la femmina quando abboccò si gettò in una lotta folle, disperata di panico, che presto la ridusse senza forze, e tutto il tempo il maschio le era rimasto accanto incrociando la lenza e roteando con lei sulla superficie. [...] Era bello, il vecchio lo ricorda, e non era scappato. È stata la cosa più triste che abbia mai visto, pensa il vecchio”. [...] “Vorrei poter dar da mangiare al pesce, pensa. È mio fratello. Ma devo ucciderlo e mantenermi forte per farlo”. [...] “‘Lo ucciderò’ dice. ‘In tutta la sua grandezza e il suo splendore’. Anche se è ingiusto, pensa. Ma gli farò vedere cosa sa fare un uomo e cosa sopporta un uomo. [...] Le mille volte che già lo ha dimostrato non hanno importanza. Ora lo sta dimostrando di nuovo. Ogni volta è una volta nuova, e non pensa mai al passato, quando lo fa” [...]. “Spuntano le prime stelle. Non sa che si chiama Rigel, ma la vede e sa che presto spunteranno tutte e ci saranno tutti i suoi amici lontani. ‘Anche il pesce è mio amico’ dice ad alta voce. ‘Non ho mai visto e non ho mai sentito parlare di un pesce simile. Ma devo ucciderlo. Sono contento che non dobbiamo cercar di uccidere le stelle’. [...] Poi gli dispiace che il grosso pesce non abbia niente da mangiare, ma il dispiacere non indebolisce mai la decisione di ucciderlo. A quanta gente farà da cibo, pensa. Ma sono degni di mangiarlo? No, no di certo. Non c’è nessuno degno di mangiarlo, con questo suo nobile contegno e questa sua grande dignità. Non capisco queste cose, pensa. Ma è una fortuna che non dobbiamo cercar di uccidere il sole o la luna o le stelle. Basta già vivere sul mare e uccidere i nostri veri fratelli” [...]. “Allora il pesce torna in vita, recando in sé la sua morte, e si libra alto fuori dell’acqua mostrando tutta la grande lunghezza e larghezza e tutta la sua forza e la sua bellezza” [...]. “Sono un vecchio stanco. Ho ucciso questo pesce che è mio fratello e ora devo fare il lavoro da schiavo”).
Ma la sua lotta e le sue sofferenze non sono finite: deve portarlo a terra, e gli squali (né leali né valorosi) tenteranno di lasciargliene solo lo scheletro.
Una storia semplice come il viaggio che racconta e il suo obiettivo: andare in mare, prendere un pesce e tornare a casa. Ma il pesce non è un pesce qualsiasi: è quello che salverà il vecchio dalla morte per fame, confermerà la sua immagine di sé e lo farà sentire ancora degno della stima e dell’affetto del solo essere umano con cui è in rapporto: il ragazzo. E perciò neanche il viaggio è un viaggio qualsiasi, ma quello che ogni volta è di nuovo il più importante della vita: il successo che prova, non tanto agli altri quanto soprattutto a chi lo ottiene, che è riuscito (non solo nelle ambizioni, ma nella realtà) a realizzarsi come desidera essere. Come una conchiglia, o un leone, o una stella, o l’Universo tutto: solo che per loro è facile, è “automatico”, poiché per diventare come l’evoluzione li ha resi debbono solo nascere, crescere, svilupparsi; mentre per noi è infinitamente più difficile, poiché si tratta di riuscire a corrispondere degnamente ai nostri sogni, ai desideri, al nostro mondo interiore. Alla bellezza della nostra umanità.
Il vecchio, per esempio, è uno che sogna i leoni (“spero che si addormenti” dice del pesce durante la lotta, “e che anch’io possa dormire e sognare i leoni. Come mai sono i leoni la cosa più importante che mi è rimasta?”). E un uomo che sogna i leoni, quando poi si sveglia non può assomigliare neanche per un attimo a qualcosa di meno forte, di meno fiero, di meno nobile: non può essere insetto, o iena, o squalo. Deve arrivare a essere come un leone, un giorno o l’altro, e poi deve rimanerlo: continuare, sempre, a essere all’altezza di quel sogno, o sarà un fallito.
Il vecchio ci riesce, ancora una volta: non solo trionfa sul pesce, ma su un pesce degno di lui, grande e forte ed esperto come lui. E lo fa senza mai smettere, neanche per un attimo, di esser degno della sua preda e, appunto, dell’umanità che rende bella la sua immagine di sé. Per questo gli squali non possono sconfiggerlo: gli squali arrivano sempre, non lo si può impedire, fanno parte delle condizioni ineliminabili dell’esistenza allo stesso modo dell’avanzare dell’età che tra non molto fermerà il vecchio per sempre. Ma essi, benché abbiano il potere di derubarlo, di ferirlo, di ucciderlo, non possono rovinarne e distruggerne la bellezza e la dignità: la realizzazione conseguita dal vecchio può non essere premiata, è vero, ma niente al mondo può annullarla nel suo cuore. Egli, ancora una volta, sdraiandosi sul suo letto a riposare e dormire, ha la possibilità e il diritto di sognare i leoni. E il ragazzo, venuto a vederlo con incertezza e trepidazione, ha la gioia di constatare una volta di più che il vecchio è vivo, e che potrà ancora rispondergli.
“L’uomo non è fatto per la sconfitta. L’uomo può essere ucciso, ma non sconfitto”. “Il ragazzo vede che il vecchio respira e poi vede le mani del vecchio e si mette a piangere. Esce senza fare rumore per andare a prendere un po’ di caffè e lungo tutta la strada continua a piangere. [...] ‘Mi hanno battuto, Manolin’ dice. ‘Mi hanno proprio battuto’. ‘Ma non ti ha battuto lui. Il pesce’. ‘No. Davvero. È stato dopo’”. “In cima alla strada, nella capanna, il vecchio si è riaddormentato. Dorme ancora bocconi e il ragazzo gli siede accanto e lo guarda. Il vecchio sogna i leoni”.
Ernest Hemingway (1898 ― 1961). “Il Vecchio e il Mare” (1952).
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104. Hesse, Hermann: “Demian”
Conosco solo “Demian” (1919), e mi basta. Sembrerà presuntuoso, lo so: MAI ho voluto leggere Hermann Hesse (1877 ― 1962), benché legioni di sessantottini, quando ero fra i venti e i trenta, impazzissero e tentassero di farmi impazzire per “Siddharta” (1922), “Il Lupo della Steppa” (1927), “Narciso e Boccadoro” (1930) e “Il gioco delle perle di vetro” (1944). Titoli che ancora oggi mi danno i brividi, al ricordo delle mille volte in cui avrei voluto (e ovviamente non potevo) strapparli dalle mani dei ragazzi e (purtroppo) delle ragazze per i quali erano sacri. Neppure “Demian” avrei mai letto, se nel 1984 non avessi deciso di documentarmi su Hesse per poter contrastare il suo fascino sugli studenti di un Liceo privato in cui “facevo pratica” come insegnante.
Avrete capito, da quanto sopra, che ne diffidavo e lo detestavo fin da prima di averne letto una riga, e vi sarete domandati perché. Semplice: ero comunista, e sapendo che i romanzi di Hesse erano stati accolti con immenso favore da centinaia di migliaia di giovani tedeschi, studenti o reduci dalla Grande Guerra, che di lì a poco si sarebbero schierati con Hitler, temevo che nell’immenso favore di centinaia di migliaia di sessantottini covassero pericoli analoghi.
La lettura di “Demian” confermò, ricordo, la mia avversione. Come la confermarono le svastiche e gli altri scarabocchi fascisti e nazisti con cui alcuni ammiratori di Hesse di quel Liceo privato vennero una notte a imbrattare la mia casa.
Oggi, certo ― dopo che tanta acqua è passata sotto i ponti, e dopo tutto quello che mi è toccato vedere mentre passava ― comprendo meglio la “Hesse-mania” dei giovani che in quel periodo erano fra i diciott’anni (l’età di quegli studenti) e i trentatré anni (l’età mia). Quasi tutti, allora, cercavano Maestri di vita. Io compreso. (Ancora non avevano troncato quella ricerca le televisioni private, “maestre” d’idiozia e fatuità). E Hermann Hesse non fu il più subdolo, tra i “maître à penser” vivi o defunti in cui i “cercatori” credevano di aver trovato l’agognata “illuminazione”.
Nei giorni scorsi, dunque, ho riletto “Demian” per confrontarlo col me stesso di oggi. E be’, non dico a trentatré anni, o a venticinque, o a diciotto: nemmeno a quattordici mi avrebbe abbindolato uno che a pag. 2 cerca di catturarmi scrivendo che “ogni uomo è un tentativo prezioso e unico della natura” (sperando che io non dia peso a quella furba paroletta, “tentativo”, che significa che nessun uomo nasce unico e prezioso) e a pag. 3, stoltamente sicuro di avermi già catturato, scrive che “certuni non diventano mai uomini, rimangono rane, lucertole, formiche”. Uno che dice che “diventano sé stessi” soltanto coloro che tutti odiano e temono perché, come Caino, hanno in faccia “qualcosa”, un “marchio”, che “incute paura”. Uno che in una stessa pagina lega la morte di un cavallo (“sanguinante da una ferita invisibile che tinge di scuro la bianca polvere della strada”) all’incontro decisivo del protagonista col giovane che gli cambia la vita: Demian, l’adoratore di Caino, il cui viso “non è un viso d’uomo, ma qualcosa di diverso, con un che di femminile, non maschile e non puerile, non vecchio e non giovane, ma millenario, fuori del tempo”. Uno che sostiene che in tutti gli esseri umani si oppongano fin dalla nascita un “mondo chiaro” e un “mondo oscuro” (straordinaria scoperta di Hesse, già vecchia quando Platone credeva che fosse sua). Uno che afferma che “il bene, la nobiltà, il bello, son tutte belle cose, ma nel mondo c’è dell’altro, che viene attribuito al diavolo, e questa parte del mondo, questa metà [il “mondo oscuro”, appunto] viene uccisa, mentre dobbiamo venerare il mondo intero, e accanto al servizio di Dio mettere il servizio del diavolo”. Uno, cioè, che crede che per non rimanere “rane, lucertole, formiche”, “diventare uomini”, “diventare sé stessi”, si debba accettare e aver sacro l’“orrendo”, il “feroce”, il “violento” che per natura sarebbe presente in ognuno, e mai lo sfiora l’idea che la violenza, la ferocia, l’orrore, non siano affatto naturali, ma l’esito di una processo patologico attraverso il quale ci si è resi disumani, e dal quale si deve e si può recedere non per “annientare il mondo oscuro”, ma per guarire e tornare a essere umani.
E gli “insegnamenti” di Demian dove portano il protagonista, infine quasi adulto senza che mai abbia amato una ragazza? Grottescamente, ad andare a vivere con Demian e sua madre, la cui “fronte libera e sovrana reca lo stesso marchio” del figlio: “Mi diventi madre, amante, dea, purché ci sia!” pensa il protagonista, come se “madre”, “amante” e “dea” si equivalgano. E che combinano di bello, questi tre, nella casa in cui vivono insieme? Come “diventano sé stessi”? Be’, è chiaro: “hanno il compito di rappresentare nel mondo un’isola, forse un modello, in ogni caso l’annuncio di un diverso modo di vita”. E come lo rappresentano? “Tendendo a una vita da svegli sempre più perfetta”. Sì, ma... “più perfetta” come, in che cosa? “Rappresentando la volontà della natura, l’aspirazione della natura al nuovo, al singolo, al futuro, mentre gli altri vivono in una volontà di stasi”. Ok, ma... in che consiste questo “nuovo”? Be’, ci crediate o no, Hesse scrive, nero su bianco, che “il suo aspetto non è noto a nessuno” e che “i segnati non hanno alcun obbligo di pensare alla forma dell’avvenire”. Ma allora come “diventano sé stessi” i “segnati”, l’amico e l’amico e la madre dell’amico? Per la signora è abbastanza facile: le basta essere, per i due giovanotti, “l’uditorio e l’eco, piena di fiducia e di comprensione”. E per l’amico e l’amico? Ecco: siccome “il nostro mondo è marcio” (sì, così, tutto quanto in blocco”), debbono solo aspettare, senza impegnarsi in alcunché, la buona notizia che è scoppiata la guerra. E che tutti, allora, “con piena dedizione al fatto mostruoso”, “siano trascinati nel grande gorgo”. Non, si badi, perché “odino il nemico”, ma perché la loro “opera cruenta, infuriare, uccidere, distruggere, morire, mandi in frantumi il mondo dal quale un gigantesco sparviero lotta per uscire come da un uovo”. Quale “gigantesco sparviero”? Quale che sia. E se poi fosse il fascismo e il nazismo? Ah, be’, sia quel che sia. Parola di Hermann Hesse, compagni a amici: uno dei massimi fenomeni editoriali del ’900, insignito nel 1946 del premio Nobel per la Letteratura.
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105. Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus: “L’Orco Insabbia” e “Schiaccianoci e il Re dei Topi”
Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776 ― 1822) è celebre ancora oggi per la bellissima, terribile favola “L’Orco Insabbia” (“Sandmann”, 1817).
“Certe serate”, quando Nataniele è bambino, “la mamma è molto triste, e appena l’orologio batte le nove comincia a dire: «Sù, bambini, a letto, a letto! Viene l’Orco Insabbia, l’ho bell’e visto». E Nataniele, allora, “sente qualcosa che sale sù per le scale con un passo lento e pesante, che rimbomba: non può essere che l’orco...” Così, “una volta che quei passi lenti, quel rimbombo, sono particolarmente orribili”, Nataniele chiede alla mamma, “mentre li porta via: «Oh, mamma, chi è questo cattivo Orco Insabbia che ci fa sempre andare via dal babbo? Com’è fatto?» «Ma non c’è nessun orco, piccolo mio» risponde la mamma; «quando dico: viene l’Orco Insabbia, vuol dire solo che vi è venuto il sonno e non potete tener più gli occhi aperti, come se qualcuno vi abbia buttato la sabbia in viso»”.
Invece l’Orco Insabbia esiste davvero, “è il vecchio avvocato Coppelius”. E chi lo ha introdotto in quella casa altrimenti felice è proprio il padre di Nataniele, che lo crede “un essere superiore” benché la moglie e i figli ne siano disgustati e atterriti. Finché, una sera, Nataniele si nasconde nello studio in cui il padre riceve Coppelius e scopre, con indicibile angoscia, che essi conducono misteriosi “esperimenti” durante i quali “un dolore tremendo, convulso, sconvolge i dolci lineamenti sinceri del padre tramutandoli in una spaventosa maschera diabolica”. Atterrito, Nataniele ruzzola fuori, Coppelius lo minaccia di cavargli gli occhi, lo malmena senza che il padre riesca a impedirglielo; e da quel momento, scriverà Nataniele molti anni dopo all’amico Lotario, «tutto mi sembra senza colore: un’oscura fatalità ha teso sopra la mia vita un fosco velo di nubi».
Una notte, un’esplosione interrompe per sempre gli “esperimenti” uccidendo il padre di Nataniele, e Coppelius si dilegua. Ma Nataniele non riesce mai più a togliersi dagli occhi il “fosco velo” che Coppelius ha lanciato su di lui: neanche nell’amore per Clara, sorella di Lotario, trova il coraggio e la generosità, verso sé stesso e lei, di dissolvere “la forza oscura che a tradimento tenta di trascinare il suo cuore su strade pericolose e fatali”. Anzi: finisce per scordare Clara innamorandosi di “una figura di donna alta e snella, di proporzioni armoniose, vestita splendidamente, con le mani giunte, il viso angelico, e negli occhi una strana fissità, quasi non abbiano forza visiva”: Olimpia, la “figlia” del professor Spallanzani, una “ragazza” che agli occhi velati di Nataniele pare così bella che egli non può più vivere senza di lei...
Quando ho scoperto “L’Orco Insabbia” ero adulto. Da bambino, invece, a sei-sette anni, incontrai Hoffmann in un’altra celebre fiaba: non così bella, non così significativa come “L’Orco Insabbia”, ma così strana e inquietante che ai miei occhi non velati cambiò per sempre il mio mondo in un universo in cui realtà e fantasia sono da allora indissolubili: “Schiaccianoci e il Re dei Topi” (“Nußknacker und Mausekönig”, 1816). Era un libro per bambini, un librone pieno di illustrazioni, non le “Opera omnia” di Hoffmann di cui vedete la foto qui sotto; ma era un’edizione integrale, non edulcorava in alcun modo quel racconto irrealmente realistico, e con l’aiuto di quelle illustrazioni (ne ho postata una nel primo commento, così vi fate un’idea) mi stregò, mi sconcertò, mi spaventò, m’innamorò della sua piccola protagonista, Maria Stahlbaum, mi colmò di disapprovazione e di stima per il suo marziale fratellino Fritz, di ammirazione e gelosia per Schiaccianoci, alias Cristiano Elia Drosselmeier, anche lui innamorato di Maria, di odio per il padrino Drosselmeier, crudele artefice di giganteschi giocattoli automatici senza vita, di paura per il violento e crudele Re dei Topi dalle sette teste, di inorridita compassione per la bellissima principessa Pirlipat, che ancora in culla viene tramutata in un mostro da un morso di topo, di meraviglia per l’inscalfibile durezza della noce Krakatuk, e perfino di dolore fisico (sì, ai bambini che leggono succede anche questo) per la ferita di Maria quando cade svenuta contro l’armadio di cristallo dei giocattoli e col gomito ne rompe una vetrina... Guardate, guardate l’illustrazione che ho postato nel primo commento, e poi provate a immaginare “Schiaccianoci e il Re dei Topi” sul comodino di un bimbo di sei-sette anni!
"Schiaccianoci e il Re dei Topi", testo integrale con illustrazioni "L'Orco Insabbia", testo integrale
106. Hofmannsthal, Hugo von: “Andrea o i Ricongiunti”
Non è facile amare la “psicologia religiosa e alchimica” (Gabriella Bemporad) di Hugo von Hofmannsthal (1874 ― 1929). Ma leggendo “Andrea o i Ricongiunti” (1912-13, incompiuto, e ripensato e riscritto dall’autore fino alla morte) non si può non amarne pagine come queste...
“Nel sogno di quella notte c’era il sole; egli si addentrava sempre più nel folto del bosco e trovò Romana. Più fondo era il bosco e più luceva, e nel mezzo, dove tutto era più scuro e più luminoso, la trovò che sedeva su un’isoletta erbosa, che un’acqua lucente circondava. Si era addormentata facendo l’erba, falce e rastrello in terra accanto a lei. Quando egli passò l’acqua, alzò gli occhi e lo guardò, ma come non lo conoscesse. Le gridò: «Romana, mi vedi?» ― tanto lo sguardo errava nel vuoto. «Ma certo» disse lei, con uno sguardo singolare. [...] Si ritraeva timorosa davanti a lui, inciampò nel fieno ammonticchiato e si abbandonò a terra come un capriolo ferito. Egli le era accosto e sentì che lo prendeva per il cattivo Gotthilff eppure non proprio per Gotthilff. Tanto sicuro di chi fosse non era nemmeno lui. Lo supplicò che non la legasse al letto nuda davanti a tutti e non scappasse via sul cavallo rubato. Egli la prese per le spalle, la chiamò dolcemente per nome, il terrore di lei era atroce. La lasciò andare e lei si trascinò dietro a lui sui ginocchi. «Ritorna» gridava, supplicando, «io vengo con te, fosse anche sotto la forca. Il babbo mi vuole rinchiudere, la mamma mi tiene stretta, i fratellini e le sorelline morte si vogliono attaccare anche loro, ma io mi sciolgo, lascio tutti e vengo da te». Egli volle avvicinarsi, ma era scomparsa. Disperato si precipitò nel bosco, ed ecco gli venne incontro, tra due begli aceri, ridente e serena come se non fosse accaduto niente. I suoi occhi lucevano stranamente, i piedi nudi splendevano sul muschio e l’orlo della gonna era molle. «Ma che donna sei?» le gridò incontro, stupito. «Una fatta così» dice lei, e gli porge la bocca. «Ma che uomo» grida, quando lui vuole abbracciarla, e gli dà col rastrello. Lo colse alla fronte, un colpo tagliente e chiaro come contro una lastra di vetro ― egli sobbalzò e fu sveglio. Sapeva di aver sognato, ma la verità ch’era nel sogno lo penetrò di felicità in ogni vena. Tutto l’essere di Romana gli era apparso con una vita che era al di sopra della realtà. Ogni gravezza era svanita in un soffio. Dentro di lui o fuori di lui, non la poteva perdere. Aveva la coscienza, no, più, aveva la fede che essa viveva per lui. Rientrava nel mondo come un beato. Forse era giù, aveva gettato un sasso contro il vetro e così l’aveva svegliato. Corse alla finestra, c’era un’incrinatura nel vetro, nella cornice un uccello morto. Tornò indietro lentamente con l’uccello e lo posò sul guanciale. Il cadaverino inondò il suo polso di dolcezza, gli parve che facilmente avrebbe potuto rendere la vita alla bestiola se solo l’avesse stretta al suo cuore. Era seduto sul letto in mille pensieri fluenti: era felice. Il suo corpo era un tempio, in cui dimorava Romana, e il tempo che scorreva lo circondava dei suoi flutti e giocava sui gradini del tempio”.
O certi brani...
“Tra loro c’era qualcosa. [...] Tutti questi fili correvano in sù e in giù, ed era la trama di un mondo dietro a quello vero, e non come quello vuoto e desolato”. “Tutto avveniva nel mondo e nello stesso tempo in mezzo al suo cuore, trafitto per la prima volta da qualcosa d’ignoto”. “Posso tornare, pensava, e presto, insieme il medesimo e un altro”. “L’impossibile è il vero e proprio dominio della poesia. [...] Poesia come presente ― l’elemento mistico della poesia: il superamento del tempo”.
Ah, dimenticavo: i “ricongiunti” del titolo sono coloro che nei rapporti con gli altri si sono riuniti a sé stessi.
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107. Hughes, Richard: “Un Ciclone sulla Giamaica”
Immaginate quattro bambine e tre bambini fra i tre e i tredici anni in viaggio da soli da Giamaica all’Inghilterra, affidati al capitano di una nave (tenete presente che la storia, scritta nel 1929, si svolge poco oltre la metà dell’800); immaginate che i pirati attacchino e depredino la nave, e che intanto, senza che nessuno se ne accorga, i bambini finiscano sulla nave pirata; e immaginate che una totale, devastante incomprensione si instauri fra i bambini, da un lato (che senza genitori o altre figure-guida si ritrovano, è la tesi dell’autore, allo stato di natura e in una situazione del tutto ignota) e dall’altro quegli adulti, anch’essi selvaggi ma in modo sottilmente e terribilmente diverso: è la storia di “Un Ciclone sulla Giamaica” (“A High Wind in Jamaica”), di Richard Hughes (1900 ― 1976), e non è una storia per bambini. Solo un pazzo o un pedofilo la darebbe da leggere a un minore, e forse solo un pazzo o un pedofilo la scriverebbe.
Non vi racconterò come i pirati si rivelino più umani, meno mostruosi dei bambini, e in particolare della bambina Emily. Emily, dieci anni, che “guarda fisso negli occhi” un piccolo alligatore, “e anche l’alligatore guarda fisso nei suoi, e a vederli così, gli occhi negli occhi, chiunque avrebbe rabbrividito”; Emily i cui occhi, a suo padre, “mentre la guarda, comunicano una sensazione che non è di pietà, né di piacere; e con un tonfo al cuore egli si accorge invece di aver paura, sì, paura di lei. Forse è la luce della candela che gli fa quel brutto scherzo? o forse un malessere passeggero dà alla faccia di Emily quell’espressione disumana, dura come la pietra, e quello sguardo da basilisco?”... Vi dico soltanto che non siamo in un romanzo di fantascienza ― benché “Un Ciclone sulla Giamaica” discenda da “Peter Pan” e “Alice nel Paese delle Meraviglie” e a sua volta abbia generato “Il Signore delle Mosche” e “Il Villaggio dei Dannati”, i pilastri dell’estesa e multiforme corrente “letteraria” che nel ’900 e oltre, seguendo Freud, ha ripristinato l’immagine mostruosa dei bambini che l’800 aveva cercato di dissipare seguendo il dottor Itard del bambino “selvaggio” dell’Aveyron ― no, Hughes crede che proprio qui sulla Terra, nella realtà in cui tutti viviamo, gli “infanti” e i bambini... non siano umani:
“Quanto a Laura [la sorellina più piccola di Emily], aveva quasi quattro anni e quindi era decisamente una bambina, e i bambini sono esseri umani (se si concede alla parola ‘umano’ un senso un po’ largo); ma non aveva ancora finito di essere un’infante e gli infanti naturalmente non sono umani. Sono degli animali con una cultura del tutto atavica, assai ramificata, come quella dei gatti, dei pesci e anche dei serpenti: identica alla loro per qualità, ma molto più complessa e più viva, perché gli infanti sono, dopo tutto, una delle specie più evolute tra i vertebrati inferiori. In breve: il loro cervello si serve di termini e categorie sue proprie, che non si possono tradurre nei termini e nelle categorie del cervello umano. È vero che hanno aspetto umano, ma neppur tanto, a essere giusti, quanto le scimmie. Tutti, del resto, senza rendersene ben conto, riconoscono che non sono nient’altro che animali, altrimenti perché la gente ride, quando un bimbo fa un’azione che assomiglia a un’azione umana, come riderebbe vedendo una mantide religiosa che prega? Se il piccino fosse un essere umano in via di sviluppo non ci sarebbe niente da ridere: è evidentissimo. Forse si riuscirebbe a scoprire dei casi in cui neanche i ragazzi sono umani; ma questo non lo concederei facilmente. Anche ammettendo che il loro spirito non sia soltanto più ignorante e più stupido del nostro, ma differisca nel meccanismo stesso del pensiero (che infatti è folle), noi possiamo però sempre, con uno sforzo di immaginazione e di volontà, riuscire a pensare come un ragazzo, almeno in una certa misura [...]; mentre è impossibile, sotto qualsiasi rapporto, riuscire a pensare come un infante: come chi dica di riuscire a pensare come un’ape”.
Dunque è Emily, in realtà ― e con lei, ma in ruoli gregari, le sorelline e i fratellini ― il “terremoto” e l’“uragano” che all’inizio del romanzo sconvolgono le vite dei loro genitori e di tutti gli adulti di “Un Ciclone sulla Giamaica” e soprattutto le vite dei "poveri" pirati che senza volerlo li portano via con sé. Emily, di dieci anni, che “nel silenzio si sente a volte tremare di un intimo terrore non per la tempesta [che ha distrutto la sua casa], ma per la morte di Tabby [...]; per la prima volta ha conosciuto la morte; e la morte violenta, per di più; però quella del vecchio Sam non le ha fatto tanto effetto: dopo tutto c’è pur sempre un’enorme differenza tra un servo negro e il micio favorito”. Emily e i suoi fratellini e sorelline, che “credono come in un articolo di fede di amare soprattutto e in ugual misura il padre e la madre, ma in realtà hanno amato il loro Tabby prima e più di ogni altro essere al mondo, poi l’uno o l’altro di loro, ma della presenza della madre si accorgono, sì e no, una volta alla settimana; forse al padre sono un po’ più affezionati, per il rito del suo quotidiano ritorno a cavallo e per il fascino degli speroni”. Emily, che dopo la morte del fratello in un incidente, “al mattino avrebbe potuto credere di aver fatto un sogno se il pagliericcio di John non fosse stato, cosa strana, vuoto”; e gli altri fratellini e sorelline che “come per una muta intesa non commentano la sua assenza [...]: né allora né poi fecero più il nome di John; e anche se li aveste conosciuti intimamente non certo loro vi avrebbero fatto sospettare che egli fosse mai esistito”.
Emily, dieci anni, che per il suo autore, per Richard Hughes, è talmente disumana ― e lo è non in quanto Emily, ma in quanto “infante” non ancora del tutto bambina ― che egli riesce a metterla “dalla parte del torto” perfino quando il capo dei pirati, Jonsen, si avvicina a lei con l’intenzione neppure inconscia di violentarla:
“Quella notte, a bordo, tutti sono ubriachi, e schiamazzano così tanto che non si può dormire. [...] Una folla di marinai viene giù per la scaletta, lentamente e con molte discussioni [che i bambini non capiscono perché i pirati, tranne il “comandante” e il “secondo”, sono spagnoli]. Si fermano in fondo alla stiva, formano un gruppo un po’ traballante intorno a uno di loro (è così buio che non si distingue chi sia) e lo spingono a fare qualcosa, mentre quello esita. «Oh, dannazione!» grida alfine una voce rauca. «Datemi un lume, non riesco a vedere dove sono!» È la voce del comandante, ma quanto diversa dal solito! Gonfia di eccitazione repressa. Qualcuno porta una lanterna e la tiene alzata nel mezzo. Il comandante Jonsen incerto sulle gambe ora fa pensare a un sacco di farina, ora ha l’aria di una tigre in agguato. «Che cosa desiderate?» chiede Emily, cordialmente. [...] Jonsen avanza verso di lei e, passandole una mano sotto il mento, comincia ad accarezzarle i capelli. Una specie di cieca vertigine si impadronisce di lei: gli afferra il pollice, e morde con tutte le forze; poi, atterrita dalla sua follia, si precipita attraverso la stiva verso gli altri ragazzi raccolti in un gruppo spaventato. «Che hai fatto?» grida Laura, respingendola con collera. «Cattiva! Gli hai fatto male!» [...] Da allora in poi, Jonsen ed Emily si evitano di comune accordo. Emily viene anche messa in quarantena da tutti per averlo morso: l’indomani nessuno dei ragazzi vuole giocare con lei, e lei per prima riconosce di meritarlo: ha fatto una pazzia. Però Jonsen, pur evitandola, ha anche lui un’aria più vergognosa che irritata... il che le è del tutto incomprensibile”.
Fra pochi giorni, quando parleremo di“Giro di Vite” (1898), di Henry James (1843 ― 1916), non devo dimenticare di dirvi che l’istitutrice psicopatica di quel mirabile racconto rappresenta anche i vari Barrie, Carroll, Golding, Wyndham, Kinnan Rawlings, e appunto Hughes: gli “scrittori” nei quali l’odio per la propria e l’altrui umanità è così violento, che in ogni piccolo essere umano delirano di vedere uno spettro mostruoso in combutta con altri spettri mostruosi.
(P.s.: di “Un Ciclone sulla Giamaica” c’è anche un film, non migliore del libro ― e purtroppo con Anthony Quinn e James Coburn nelle parti di Jonsen e del suo secondo ― diretto nel 1965 da Alexander Mackendrick: lo trovate su YouTube).
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108. Hugo, Victor: “I Miserabili”
“I Thénardier appartenevano a quella classe bastarda, composta di gente grossolana arricchita e di intelligenti decaduti, che sta fra la cosiddetta classe media e la cosiddetta inferiore e riunisce taluni difetti della seconda con quasi tutti i vizi della prima, senza avere lo slancio generoso dell’operaio né l’ordine onesto del borghese. Erano di quelle nature nane che, se qualche fuoco sinistro le riscalda, per caso, diventan facilmente mostruose. C’era nella donna il fondo di un bruto e nell’uomo quello d’un pezzente; tutt’e due all’apice di quella specie di lurido progresso che si compie nel senso del male. Esistono anime gamberi, che rinculano continuamente verso le tenebre, e impiegano l’esperienza per aumentare la deformità, peggiorando sempre e impregnandosi ognor più d’infamia. Ebbene, quell’uomo e quella donna erano di queste anime” (p.145).
Le opere di Victor Hugo (1802 ― 1885) furono definite da Baudelaire “una singolare mescolanza di genio e di stupidaggini”. E Gide, quando gli domandarono quale fosse il maggior poeta francese, rispose: “Hugo, ahimé”. Eppure alla sua morte, il 1° giugno 1885 ― traggo queste notizie dall’introduzione di Giuseppe Anceschi ― “dopo una notte durante la quale tutta Parigi senza distinzione di ceti vegliò le spoglie del gran vecchio collocate su un enorme catafalco sotto l’Arco di Trionfo, una marea di gente, evitando la chiesa per espressa volontà di Hugo, accompagnò la bara al Panthéon e continuò a scorrere fino alla sei di sera tra due sponde di folla stipata sui marciapiedi, su tavole, su scale, su impalcature e fino ai tetti”.
Il romanzo “I Miserabili”, considerato il suo capolavoro ― lo aveva impegnato per trent’anni ― era uscito nel 1862 con questa epigrafe, in cui c’è già la “mescolanza di genio e stupidaggini” di cui parlò Baudelaire e, aggiungo io, un’analoga mescolanza di umanissima sensibilità e insulsaggine mistica:
“Finché esisterà, a causa delle leggi e dei costumi, una dannazione sociale che in piena civiltà crea artificialmente degli inferni e complica con una fatalità umana il destino che è divino; finché i tre problemi del secolo, l’abbrutimento dell’uomo per colpa dell’indigenza, l’avvilimento della donna per colpa della fame, e l’avvilimento del fanciullo per colpa delle tenebre, non saranno risolti; finché, in certe regioni, sarà possibile l’asfissia sociale; in altre parole, e da un punto di vista ancora più esteso, finché si avranno, sulla terra, ignoranza e miseria, i libri del genere di questo potranno non essere inutili”.
L’incipit della prima parte, sessanta pagine il cui titolo è “Un giusto”, è dedicato al vescovo Bienvenu Myriel, che è davvero (e davvero si comporta) come nessun altro prete o prelato. La seconda, “La caduta”, altre cinquanta pagine, egli la condivide invece col protagonista del romanzo, l’ex galeotto Jean Valjean, che ha scontato vent’anni per il furto di un pezzo di pane. È il sacerdote il primo motore dell’intera vicenda, il “giusto” che risveglia in Jean Valjean l’umanità (“a partire da quel momento, Jean Valjean fu un altr’uomo: eseguì quello che il vescovo aveva voluto fare di lui; fu più che una trasformazione, una trasfigurazione”, p. 205). E non diverse sono le altre mille e trecento pagine: il “divino” è sempre presente, nella massima opera di questo scrittore che non volle un funerale religioso, un “divino” che vive nei cuori e nelle menti dei “giusti”, non nella Chiesa come istituzione e nelle chiese come luoghi di culto. E tuttavia... tuttavia non vi sto sconsigliando di leggere “I Miserabili”, se ancora non l’avete fatto: è una grande, avventurosa, indimenticabile esperienza! Ma siate preparati a scontare ogni volta con le sue stupidaggini il piacere e talora la gioia che vi darà il suo genio...
Ecco qualche esempio:
“Quella Thénardier era una donna rossa, grossa e massiccia, il tipo della donna soldato in tutta la sua mala grazia; ma, cosa bizzarra, con un’aria leziosa, ch’ella doveva a letture romantiche. Era una virago smorfiosa; i vecchi romanzi, finendo di logorarsi nelle immaginazioni delle bettoliere, producono questi effetti” (p. 142).
“La bontà della madre sta scritta nell’allegria del marmocchio” (p. 143).
“I due primi funzionari dello Stato sono la nutrice e il maestro di scuola” (p. 152).
“Che cos’è, in fondo, questa storia di Fantine? È la società che compera una schiava. Da chi? Dalla miseria. Dalla fame, dal freddo, dall’isolamento, dall’abbandono, dallo squallore. Doloroso mercato! Un’anima per un pezzo di pane: la miseria offre, la società accetta. La santa legge di Gesù Cristo governa la nostra civiltà, ma non la compenetra ancora. S’è detto che la schiavitù è sparita dalla civiltà europea: errore! Esiste sempre, ma pesa soltanto sulla donna e si chiama prostituzione” (p. 175).
“Vincenzo da Paola [notate che Victor Hugo, credendosi ateo, non lo chiama “santo”] ha divinamente tracciato la figura della suora di carità in quelle mirabili parole in cui riunisce tanta libertà e tanta servitù: «Esse avranno per monastero solo la casa dei malati, per cella solo una stanza a pigione, per cappella solo la chiesa della loro parrocchia, per chiostro solo le vie della città o le sale degli ospedali, per clausura la sola obbedienza, per inferriata il solo timor di Dio, per velo la sola modestia». Questo ideale era incarnato in suor Simplicia” (pp 198-199).
“In tal modo quell’anima [Jean Valjean, nei drammatici momenti in cui deve decidere di denunciarsi, annientando tutto ciò che ha fatto di buono dopo l’incontro col vescovo, per salvare un innocente scambiato per lui] andava dibattendosi nell’angoscia. Mille e ottocento anni prima di quel disgraziato, l’essere misterioso in cui si riassumono tutte le santità e i dolori del genere umano, aveva anch’egli, mentre gli ulivi fremevano al vento selvaggio dell’infinito, allontanato a lungo con la mano lo spaventoso calice che gli appariva, grondante ombra e traboccante di tenebre, nelle profondità piene di stelle” (p. 220)... “Il vento selvaggio dell’infinito”, “lo spaventoso calice grondante ombra e traboccante di tenebre”: ah, Victor Hugo, sublime marpione!
Nondimeno è immenso il sogno di Jean Valjean di quella stessa notte, nel capitolo intitolato “Forme del dolore durante il sonno”: il sogno in cui egli perde la donna, “la vicina d’un tempo che lavorava con la finestra aperta”, e allora lui e il fratello “sentono freddo per via di quella finestra aperta”, ed egli perde anche il fratello, e vaga in una città spettrale finché qualcuno gli dice: “Dove andate? Non lo sapete, dunque, che siete morto da tanto tempo?” (pp 221-222).
E poco dopo arriva il momento in cui più viene voglia di abbandonare la lettura de “I Miserabili”: il momento, dico, in cui si apprende che non si incontrerà più la splendida Fantine, “la cui tomba nella fossa pubblica assomiglia al suo letto”. E nel bianco ormai ingiallito di quella pagina, sotto quelle parole, con cui si conclude la prima parte del romanzo, ritrovo questo mio vecchio appunto a matita: “Fu davvero Javert [l’orrendo sbirro nel quale la legge si identifica con l’odio contro l’Umanità] a uccidere Fantine? O fu Tholomyes [il primo amante di Fantine]? O fu Victor Hugo?”
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109. Hunter, Evan: “Il Seme della Violenza”
Guai all’insegnante che dà le spalle alla classe...
“Ogni tanto ricorda la metafora del secchio della spazzatura di cui ha parlato Solly, e inizia a sentirsi sempre di più uno di quei tizi dal culo pesante che se ne stanno seduti sul coperchio. Fa di tutto per non iniziare a ragionare in quel modo, perché sa che [...] se ammette che i ragazzi sono immondizia e che lui è il netturbino, non cercherà più un contatto con loro... [Ma] perché dovrebbe provare ad avvicinarli? Perché non dovrebbe gettare la spugna e sedersi con il suo culo pesante sul coperchio del bidone della spazzatura?”
“Non dare mai le spalle alla classe!” ammoniscono i colleghi più “esperti” di Rick Dadier il giorno in cui prende servizio. Ma non intendono, comprende Rick, non VOLTARE le spalle ai ragazzi, non abbandonarli, non trattarli come se non siano umani – anche tu, definitivamente tu – come già hanno fatto la Società e i genitori. Quel che vogliono dire è solo ciò che letteralmente dicono: che quei ragazzi non sono più umani, se mai lo sono stati: sono belve, e alle belve non si voltano le spalle. Mai. Neanche per un attimo.
“Il Seme della Violenza”, di Evan Hunter (1926 ― 2005), è del 1953: ha settant’anni, e qua e là si sente. Ma l’amore e la sincerità che lo pervadono sono innegabili, e il problema che affronta ― come si fa a insegnare o anche solo comunicare qualcosa a ragazzi il cui desiderio di apprendere fu impoverito e distorto orribilmente? ― non solo non è stato ancora risolto, ma neppure è stato mai posto in termini nuovi, diversi da quelli entro i quali lo si vedeva nel 1953, nel 1853 e fors’anche nel 353 prima dell’Era comune. Non dai pedagogisti, quanto meno. E men che meno dagli inetti o dai vandali che un anno sì e l’altro pure sfornano “riforme” della Scuola con il solo (e mai confessato) scopo di rapinarla delle sue già modeste risorse.
I ragazzi, già quasi distrutti a quindici anni o anche meno, che ne “Il Seme della Violenza” sono i ragazzi delle scuole professionali, oggi sono ovunque, ne trovi in tutte le classi “d’ogni ordine e grado”, e la fatua idiozia di chi li compatisce e li promuove per lavarsene le mani (e dissimulare la propria insensibilità) continua a spartirsi il campo con l’idiozia violenta di chi ne fa un problema securitario e vuol militarizzare le scuole: in ambedue c’è la medesima incapacità (che non è incapacità, è odio e disprezzo) di sentire nel bambino o nel ragazzo “sperduto” il bambino e il ragazzo che la madre, il padre, l’insegnante, la società hanno cercato di togliersi di torno fin dalla nascita in ogni modo possibile (tranne quelli che avrebbero rivelato il loro disprezzo e il loro odio a loro stessi). È il bambino e il ragazzo odiato che poiché ama la madre e il padre (e ora l’insegnante) si rende “belva” per essere come loro lo vedono e lo trattano: per non dar loro torto, per non scoprire che le belve sono loro.
“Buonismo”? “Cattivismo”? Ardua“scelta” fra due facce della stessa medaglia: fare i “buoni” per non vederli, per non sentire che i bambini e i ragazzi “sperduti” stanno soffrendo e chiedendo aiuto, o fare i cattivi per obbligarli a non farsi vedere né sentire? Con nauseante leggerezza, certi insegnanti passano dall’uno all’altro atteggiamento a ogni stormir di ministro.
“Il Seme della Violenza” non ha soluzioni. Non ha neanche l’intero problema, in fondo, se è vero che non esce mai dai confini della scuola, delle classi, dell’anno scolastico, per dare almeno una sbirciatina all’orrenda produzione familiare, sociale e scolastica dei bambini e dei ragazzi sperduti. Ma almeno ha IL DOLORE che tormenta chi non si rende indifferente ai piccoli umani scempiati e sprecati, e alla propria trasformazione in “grosso culo pesante seduto sul coperchio del secchio dell’immondizia”. Per questo è un libro ancora molto attuale, oltre che appassionante, per chi non ne può più di sentir parlare di Scuola idioti “buonisti” e idioti “cattivisti”, ambedue più o meno insensibili, e mai chi coi bambini e i ragazzi, “sperduti” o non, entra davvero in rapporto con tutto sé stesso e soffre e gioisce per le loro preziose vite mai facili come soffre e gioisce per la propria.
“Sono ragazzi con cui Rick non riesce proprio a stabilire un contatto, e sono quelli che più vorrebbe raggiungere. È una situazione quasi irreale. È come stare all’angolo di una strada a distribuire banconote da cinquanta dollari, senza trovare nessuno che le voglia prendere. Perché non vogliono prendere quel che ha da dare? Lui ha qualcosa da dare, ha tanto da dare, se solo volessero accettarlo. Così Rick prova a entrare in contatto con loro. [...] Talvolta gli viene voglia di urlare: “Non vedete che sto cercando di aiutarvi? Non lo vedete?” Altre volte gli alunni lo irritano così tanto che pensa di mollare tutto e cercarsi un lavoro come commesso in un negozio di scarpe. E infine ci sono volte in cui semplicemente non capisce. Come un pomeriggio in cui, finita l’ottava ora, quattro allievi della settima classe rimangono di loro spontanea volontà ad aiutarlo a pulire le lavagne e a riordinare i libri nell’armadio. Gli chiedono se ha un’automobile, gli dicono che sarebbero contenti di fargli tutte le riparazioni di cui abbia bisogno. Ma quando risponde che non ha una macchina sembrano delusi. Parlano con lui delle loro avventure e Rick si ritrova a parlare di Anne e del bambino che sta per nascere, conversando con loro come farebbe con chiunque, trattandoli come gli adulti che pensa che siani. Andandosene lo salutano dicendo: “Arrivederci, signor Dadier. Ci vediamo domani.” Quando se ne vanno, Rick prova una strana pace interiore, la sensazione di aver fatto breccia in qualche modo, di aver fatto un primo passo verso il giorno in cui supererà il guscio che li avvolge. Gli è piaciuto stare con quei ragazzi, e non vede l’ora di tornare a casa per raccontare ad Anne quanto sono stati simpatici. Ma il giorno dopo, gli stessi quattro ragazzi scatenano un inferno durante la lezione, provocando un caos che non ha mai visto in quella classe. Gli stessi quattro ragazzi, gli stessi che l’hanno ascoltato con partecipazione mentre parlava del bambino, gli stessi che si sono offerti di riparargli la macchina, quegli stessi quattro si comportano come i peggiori bastardi che si possano immaginare, gridano e urlano tutto il tempo senza curarsi di quel che Rick dice e senza badare alle sue minacce. Non riesce a capire. Non riesce davvero a capire. Non sembrano nemmeno gli stessi del giorno prima. Che può fare dinanzi a un simile cambiamento? Perché non ingannare il sistema, i ragazzi, sé stesso? Perché non continuare a prendere lo stipendio da professore, a mettersi in tasca le vacanze estive e intanto fare l’impiegato della nettezza urbana? Sarebbe come smettere di essere umano. Oh, ma che diavolo? Devo continuare a sbattere la testa contro il muro? Sì. Debbo davvero continuare a insegnare a dei ragazzi che non vogliono imparare e che non hanno la minima intenzione di farlo? Sì. Okay, ma come? Come? Non lo sa”.
110. Huxley, Aldous: “Il Mondo Nuovo”
Perché “Il Mondo Nuovo” (1932), di Aldous Huxley (1894 ― 1963), il cui successo come “distopia” (o “antiutopia”) fu all’inizio notevole, venne poi quasi del tutto oscurato da “1984” (1949) di George Orwell? La risposta è abbastanza semplice, e non è che Orwell fosse più grande come scrittore: Orwell fu un grandissimo intellettuale (di sinistra vera e ateo sul serio, non il servo di un’ideologia o di un partito), un eroico combattente antifascista e antinazista ― cose che Huxley non fu ― ma non uno scrittore più bravo. No, è che “1984” descrive una dittatura che rende gli esseri umani mostruosamente infelici, mentre la dittatura de “Il Mondo Nuovo” li rende... mostruosamente felici. E la maggioranza dei lettori, a quanto pare ― poiché sono i lettori, non i critici né tanto meno gli editori o le case cinematografiche, a decretare il successo di un’opera nel lungo periodo ― non tollera che si tenti di farle detestare la felicità.
In altre parole ― mentre per Orwell il maggior pericolo che l’Umanità ha di fronte è la bramosia di potere, l’odio di tutti contro tutti che ne consegue, l’onnipotente controllo fisico che ne è lo strumento, e ancor più il controllo del pensiero e degli affetti per mezzo del controllo del linguaggio ― per Huxley il maggior pericolo è l’idea che si possa realizzare una società perfetta, e i mezzi che la tecnologia le fornisce. Per questo l’incipit de “Il Mondo Nuovo” è una citazione dagli scritti dell’“anarco-cristiano” Nikolaj Berdjaev:
“Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo, e noi ci troviamo davanti all’angosciosa questione di come evitare che si realizzino... Ma forse un secolo nuovo comincia [cioè il ’900]: un secolo nel quale gli intellettuali e le classi colte penseranno ai mezzi per evitare le utopie e per tornare a una società non utopistica, meno ‘perfetta’ e più libera”.
Solo “1984”, dunque, può essere definito una distopia. “Il Mondo Nuovo” no: “Il Mondo Nuovo” è disumano proprio perché è un’utopia che è riuscita a realizzarsi. Mostruosa è la felicità, proclama “Il Mondo Nuovo”, non l’infelicità.
Può sembrare, leggendolo un po’ superficialmente, che la “felicità” di cui parla consista nel benessere solo materiale, nella stabilità economica per tutta la vita, nella pace e nella sicurezza individuale e collettiva, nella libertà sessuale anaffettiva, e nel piacere fornito da una nuova droga, il “soma”, del tutto priva di effetti negativi. Ma Huxley non è così sciocco! La felicità de “Il Mondo Nuovo” ― ottenuta modificando gli embrioni e condizionando i bambini durante il sonno, ma senza ricorrere né allora né dopo ad alcuna violenza ― non è solo soddisfazione dei bisogni materiali: è anche una felicità psichica, anzi, lo è soprattutto, poiché l’ottundimento degli affetti e dei desideri, come dice il Governatore mondiale, si unisce al benessere fisico nel rendere impossibili le delusioni. Ed è quello di cui anche Huxley è convinto: tant’è vero che per dimostrare che “Il Mondo Nuovo” è mostruoso finisce per asserire che le uniche, vere gioie della vita umana scaturiscano dall’infelicità.
Quali forze, nel nostro mondo, si oppongono al “Mondo Nuovo” e forse impediranno che si realizzi? Le elenca il Governatore mondiale impartendo a un gruppo di studenti una lezione di Storia: “C’era una cosa chiamata Cristianesimo, per cui le donne erano costrette a continuare a essere vivipare. [...] C’era una cosa chiamata liberalismo, per cui il Parlamento approvò una legge contro l’insegnamento durante il sonno. C’era una cosa chiamata democrazia, come se gli esseri umani non siano uguali solo fisicamente e chimicamente. E c’era una cosa chiamata anima e una cosa chiamata immortalità”.
“«Essenzialmente» concluse il Direttore, «il processo di bokanovskificazione è una serie di arresti dello sviluppo. Noi arrestiamo lo sviluppo normale e, benché possa sembrare paradossale, l’ovulo reagisce germogliando». [...] Uomini e donne tipificati; a infornate uniformi. [...] Citò il motto planetario: ‘Comunità, Identità, Stabilità’. Il principio della produzione di massa applicato alla biologia. Oltre agli individui Alfa e Beta, individui Gamma tipificati ed Epsilon uniformi: milioni di gemelli identici. [...] «Ma noi non ci accontentiamo di covare semplicemente degli embrioni: qualsiasi vacca è in grado di farlo. Noi li predestiniamo e li condizioniamo [modificando gli embrioni chimicamente e i neonati e i bambini per mezzo dell’‘ipnopedia’ durante il sonno] come tipi Alfa o tipi Epsilon, futuri vuotatori di fogne o futuri...» Stava per dire: Governatori mondiali, ma correggendosi disse: «Futuri Direttori di incubatori [...] Questo è il segreto della felicità e della virtù: amare ciò che SI DEVE amare. Ogni condizionamento mira a ciò: fare in modo che la gente ami la sua inevitabile destinazione sociale»”.
“Mustafà Mond, Governatore mondiale, si piegò in avanti e agitò un dito sotto i loro occhi: «Cercate di rendervi conto» disse, e la sua voce procurò uno strano brivido ai loro diaframmi, «di che cosa voleva dire avere una madre vivipara». Ancora quella parola oscena. Ma questa volta nessuno ebbe voglia di sorridere. «Cercate di immaginare che cosa significasse ‘vivere con la propria famiglia’». Cercarono; ma ovviamente senza il minimo risultato. «E sapete che cos’era il ‘focolare domestico’?» Scossero la testa. «Non c’è da stupirsi che quei poveri premoderni fossero pazzi e malvagi e miserabili. Il loro mondo non permetteva di prendere le cose per la via più semplice, di essere sani di spirito, virtuosi, felici. E con le madri, con gli amanti, con le proibizioni a cui però non erano condizionati a ubbidire, con le tentazioni e i rimorsi solitari, con tutte le malattie e il dolore che li isolavano senza fine, con le incertezze e la povertà, essi erano costretti a sentire fortemente. E sentendo fortemente (fortemente, oltre tutto, in solitudine, in un disperato isolamento individuale) come potevano essere stabili? [...] Voi siete giovani fortunati!» disse il Governatore. «Non è stata risparmiata nessuna fatica per rendere le vostre vite facili dal punto di vista emotivo; per preservarvi, nei limiti del possibile, dal provare qualsiasi emozione»”.
Non vi racconto altro. Non vi parlerò del Dio Ford (sì, proprio quel Ford), non vi dirò come un giovane Selvaggio (esistono delle Riserve per i “primitivi”, ne “Il Mondo Nuovo”) sia trasferito in quel mondo, e come egli trovi un conforto a questo impatto sconvolgente (ma anche un tragico impulso a rifiutarlo) nel “mondo vecchio” di Shakespeare (la cui lettura è ovviamente proibita) in un libro trovato nella Riserva. Ma soprattutto non vi parlerò delle pagine più commoventi del romanzo: l’amore tra il Selvaggio e Lenina.
“«Come sarebbe bello» rifletté il Governatore, «se non si dovesse pensare alla felicità!» [...] «Ebbene» disse il Selvaggio, «io preferirei essere infelice piuttosto che avere questa specie di falsa, ingannevole felicità che avete qui». [...] «Si capisce» disse il Governatore. «La felicità effettiva sembra sempre squallida in confronto ai grandi compensi che la miseria trova. E si capisce anche che la stabilità non è emozionante come l’instabilità. Ed essere contenti non ha nulla di affascinante a paragone di una buona lotta contro la sventura, nulla del pittoresco di una lotta contro la tentazione, o di una fatale sconfitta a causa della passione o del dubbio. La felicità non è mai grandiosa». [...] «Ebbene sì» disse il Selvaggio, in tono di sfida. «Io reclamo il diritto di essere infelice».
111. Jackson, Shirley: “Abbiamo sempre vissuto nel castello”
“Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi son dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti”.
È l’incipit di “Abbiamo sempre vissuto nel castello” (1962), di Shirley Jackson (1916 ― 1965), un’autrice che sarebbe superficiale classificare “horror”. Sì, c’è dell’orrore nei suoi romanzi, e molto ― Stephen King le dedicò “L’Incendiaria” (1980) ― ma non nei protagonisti, narrati con affetto e con affettuosa ironia: è l’orrore della “normale” perdita, nella società in cui vivono, della capacità di amare o almeno di provare simpatia, l’orrore del gelo interumano, e dei cambiamenti, sempre in peggio, che lo rendono perenne: mentre nei protagonisti ― nonostante quel che hanno fatto nel corso delle loro vite, e l’odio di cui quel che hanno fatto è stato il pretesto ― più forte dell’orrore è la magia, mai nera, anzi, in qualche modo naturale, con cui, aiutandosi a vicenda, lo tengono a bada.
“Gli abitanti del paese ― i maschi che si mantenevano giovani spettegolando, e le femmine che invecchiavano aspettando in silenzio che figli e mariti tornassero a casa, mentre una grigia stanchezza malevola s’impadroniva di loro ― ci hanno sempre odiati. [...] Distinguevo le macchine del posto dall’occhiataccia che mi rivolgeva il conducente, e mi domandavo sempre cosa sarebbe successo se fossi scesa dal marciapiedi: ci sarebbe stata una brusca, quasi involontaria sterzata nella mia direzione? Solo per spaventarmi, forse, solo per farmi fare un salto? [...] Il paese era tutto uguale, costruito nello stesso periodo in un unico stile; sembrava che gli abitanti non potessero fare a meno di quella bruttezza, che se ne nutrissero. Era come se le abitazioni e i negozi fossero stati fabbricati in fretta e con spregio, per fornire riparo a tutto ciò che è scialbo e sgradevole, e la casa dei Rochester, quella dei Blackwood e anche il municipio fossero stati trasportati lì, forse per sbaglio, da qualche luogo meraviglioso e remoto dove regnava l’eleganza. Forse quelle belle dimore erano state catturate ― magari per punire i Rochester e i Blackwood della loro segreta malvagità? ― e ora il paese le teneva prigioniere; forse il marciume che pian piano le stava divorando era espressione dei laidi paesani. [...] Qualsiasi cosa sia per natura colorata, in paese si perdeva presto d’animo. No, non furono certo i Blackwood a portare il luogo al degrado: gli abitanti ci stavano come topi nel formaggio, pareva concepito apposta per loro”.
“La domenica mattina controllavo i miei baluardi, la cassetta di dollari d’argento che avevo sotterrato vicino al ruscello, la bambola seppellita nel campo d’erba alta e il libriccino inchiodato all’albero nella pineta; finché rimanevano dove li avevo messi, niente poteva nuocerci. Fin da piccola avevo preso l’abitudine di sotterrare le cose; ricordo che una volta divisi in quarti il campo e in ciascun quarto sotterrai qualcosa per far sì che l’erba crescesse più alta a mano a mano che crescevo anch’io, così avrei potuto continuare a nascondermi. [...] «Ecco qua un tesoro da sotterrare» mi diceva Constance, quand’ero piccola, dandomi una monetina o un nastro colorato; avevo sotterrato uno per uno tutti i miei denti da latte via via che cadevano, e forse un giorno da quei dentini sarebbero nati dei draghi. Tutta la nostra terra, arricchita dai tesori che avevo sepolto, era abitata, appena sotto la superficie, dalle miei biglie e dai miei denti e dalle mie pietre colorate, che forse adesso si erano trasformate in gioielli; e tutto era tenuto insieme come una potente rete sotterranea che non si allentava mai ed era sempre lì, pronta a proteggerci”.
112. James, Henry: “Giro di vite”
“Giro di Vite” (“The Turn of the Screw”,1898), di Henry James (1843 ― 1916), uno dei più avvincenti, significativi ed enigmatici racconti mai scritti, è la storia di due orfani, Flora e Miles, affidati da uno zio che non li ama a un’istitutrice (il cui nome non viene mai pronunciato) che li sospetta di intrattenere ambigui rapporti con i fantasmi di una precedente bambinaia e del cameriere che ne era stato l’amante.
I piccoli negano, sembrano anzi non riuscire neanche a capire quelle accuse dapprima velate e poi sempre più esplicite, ma l’istitutrice ― giovane, figlia di un sacerdote, e alla sua prima esperienza lavorativa ― è atterrita da sinistre apparizioni e scorge nel comportamento dei bambini sempre nuovi indizi di un’orribile consapevolezza. Finché, tentando con ogni sorta di insistenze di indurli a una confessione che confermi le sue visioni, li spinge sull’orlo della follia. E la vicenda si conclude, così, senza che al lettore sia fornito alcun elemento per decidere se quei fantasmi esistano davvero o solo nella mente malata della ragazza.
Da oltre un secolo, su questo dilemma, si scontrano due “tifoserie”: quella che crede i bambini, se non alieni, certamente non del tutto umani ― non solo Miles e Flora, ma, poiché essi sono personaggi letterari, cioè universali, TUTTI i bambini di ogni luogo e tempo ― e quella che è sicura del contrario. L’arte di Henry James è tale ― essa sì “mostruosa” ― che nell’intero racconto non un paragrafo, non una riga, convalidano l’una o l’altra idea in modo certo e indubitabile: il lettore deve decidere soltanto dalle proprie impressioni come schierarsi, e la scelta che gli viene spontanea gli svela se egli ami l’Umanità o se invece la odi.
Io propendo per la seconda interpretazione: solo nel delirio dell’istitutrice i bambini intrattengono rapporti con quell’Aldilà come loro imperfetto, in cui più o meno a lungo soggiornano gli spiriti che l’Aldilà “vero”, per un motivo o per l’altro, non può o non vuole accogliere: spettri malvagi, o disperati, e in ogni caso funesti finché non si saranno liberati di questa loro forma incompleta. Con i quali, dunque, chi può mettersi in contatto, e attrarli, ed esserne a propria volta attratto, se non l’ambigua creatura che dall’Aldilà è appena giunta, quasi ne sia stata scacciata, e che inoltre, non essendo ancora compiutamente umana, è anche lei sospesa tra questo mondo e l’altro? Chi più di un bambino, insomma, può attrarre i fantasmi ed esserne attratto?
So di aver delineato un quadro così ripugnante che si può giudicarlo eccessivo delle fantasticherie che albergano nelle menti come quella dell’istitutrice di “Giro di Vite”. Ma eccessivo non è: c’è davvero chi “vede” i bambini come piccoli mostri e ha paura di loro. Abbandoni e infanticidi sgorgano e sono “motivati” (nell’oscuro, lento, silenzioso lavorio a cui la follia si dedica per anni e per decenni prima dell’azione) da costruzioni mentali analoghe a quelle. Che a loro volta si basano (oltre che su vicende esistenziali tremende che però non condurrebbero alla follia senza un qualche insensato dimenarsi della mente su di esse) su teorizzazioni dell’incompleta umanità del piccolo umano che vengono “dall’alto” della “filosofia” e della “pedagogia”.
Chi non ha avuto una o più istitutrici ― effettive o di complemento ― come quella di “Giro di Vite”? Ne ebbi molte anch’io... A nessuna mente bambina vengono risparmiati gli spettri, i vampiri, gli zombi, dei e diavoli e ogni sorta di mostri: c’è sempre chi gliene parla (al giorno d’oggi specialmente dagli schermi) e spesso come se davvero esistano. Ma sapere di quei mostri, per un bambino, è temerli; temerli non è altro che temere di attrarne l’attenzione; e l’attrazione dei mostri per lui da cosa può dipendere, se non da una sua oscura affinità con essi? Ed ecco dunque che il modo che tanti prediligono, “in buona fede”, per dire ai bambini “voi non siete umani”, è appunto quello di introdurre ombre malefiche nel loro mondo interiore con l’assurdo pretesto di dover metterli in guardia contro i mostri che incontreranno nella realtà.
Alleviai la paura, lo ricordo con gioia, facendo amicizia con loro: non soltanto, infatti, accettai le loro visite, ma arrivai ad accoglierli nella mia stanza tutti quanti e per sempre. Non solo, cioè, accettai l’idea che i fantasmi avessero qualche buon motivo, noto solo a essi, per desiderare di frequentarmi, ma decisi addirittura che il mio letto doveva essere la capitale del loro regno notturno. Così potei raffigurarmeli minuscoli, altrimenti non ci sarebbero entrati a milioni (e che fossero minuscoli, per la mia mente bambina, voleva dire che in qualche modo erano bambini come me) e in cambio non fui tenuto che a rallegrarli, nei pochi minuti che ci mettevo a addormentarmi, inventando delle buone storie di cui il loro re fosse il protagonista, ed essi i comprimari.
Ma “Giro di Vite” non racconta solo i pazzi che credono i bambini mostri e tentano di convincerne i bambini stessi con storie orrende, o non sarebbe uno dei sette capolavori assoluti dell’800 di cui vi ho parlato qualche volta fa. No, l’istitutrice di “Giro di Vite” sono TUTTI coloro (pensate alle religioni, alle “filosofie”, alle ideologie, alle televisioni, ai media, alle fanaticherie sportive, giù giù sino al più infimo dei ciarlatani di cui si può cader preda anche solo individualmente ― pensate a un’intera società psicopatica, ma anche ai singoli folli che si “accontentano” di dominare piccole cerchie) che rendono mostruosi bambini e adulti attraendoli in mondi disumani che fanno loro credere veri, più veri del mondo reale, e in cui essi debbano tornare come da un esilio.
È molto difficile trovare una lancia da spezzare per quella povera ragazza senza nome, vista l’orrenda catastrofe di cui... stavo per dire “di cui è la causa”, ma lo è poi davvero? La tragedia non avverrebbe, se l’unico parente di Miles e Flora se ne prendesse cura o almeno non vietasse all’istitutrice di “seccarlo”, e per di più camuffando l’abbandono da lusinghiero conferimento di “pieni poteri”. Ecco: questa è già un’ottima lancia, e io l’ho spezzata. Ma c’è di più... Come mai, dobbiamo chiederci, Henry James le ha negato un nome? Tutti lo hanno, in questa storia ― perfino Peter Quint e miss Jessel, gli spettri ― tranne lo zio e la ragazza... La risposta non è difficile: non hanno nome poiché, quasi siano loro i veri spettri, umanamente non esistono più. Ma non esistono in modo molto diverso: lo zio è uno spettro disumano perché tale ha voluto e vuole essere; l’infelice ragazza, al contrario, perché le vicende della sua breve, misera vita l’hanno distrutta. In tutt’e due c’è un vuoto spaventoso, che violentemente si contrappone al “pieno” d’amore, di tenerezza e d’intelligenza di Miles e Flora, ma nello zio è un vuoto in cui si libra come uno spirito, mentre nella ragazza è ancora un vuoto che la fa soffrire, che ancora immagina di poter colmare.
Come non commuoversi per lei, quando all’inizio, prima che la tragedia cominci, vede apparire una figura maschile in cima alla torre del castello e vuole illudersi che lo zio dei bambini ― che le è parso affascinante perché non ha sentito ripugnanza per la sua anaffettività ― abbia improvvisamente cambiato idea e deciso di raggiungerla perché... la ama? Soltanto dopo, sentendosi in colpa, da quella religiosa figliola che è, per questa fantasticheria insensata, sì, ma piena di desiderio, la ragazza riformula l’apparizione attribuendola invece allo spettro di Peter Quint e costruisce il delirio che costui e la sua amante siano tornati dall’oltretomba per... per che cosa? È chiaro: per impadronirsi dei bambini, rapirli a lei, e così determinare il fallimento del suo estremo tentativo di trasformare la propria vita. E allora l’aiuto che non può chiedere allo zio né ad alcun altro ― è sola al mondo, o è come se lo sia ― le diventa, nella disperazione, l’aiuto che pretende dai bambini: loro, Miles e Flora, debbono attestare che è sana di mente certificando che quel che “vede” è reale, loro debbono schierarsi con lei contro gli spettri, loro debbono sancire il successo della sua nuova vita.
Del tutto pazza? Sì. Orribilmente violenta contro i due piccini? Sì. Ma anche lei così vittima, che temo di essere stato insensibile paragonandole gli spettri di gran lunga più mostruosi che criminalmente ― e tuttavia tanto vilmente da credersi in “buona fede” ― vivono intessendo ragnatele di menzogne per far impazzire chiunque vi cada e renderlo disumano come loro.
Molti romanzi e racconti di Henry James sono indimenticabili, purché si possa leggerli in inglese o si riesca ― e non è affatto facile ― a trovarli tradotti da qualcuno che abbia almeno CERCATO di capire il suo periodare all'estremo limite delle possibilità del linguaggio. Vi ricordo “Ritratto di Signora” (1881), “Le Bostoniane (1886), “Principessa Casamassima” (1886), “Quel che sapeva Maisie” (1897), “L’allievo” (1891-1892, del quale vi parlerò domani), e “Gli Ambasciatori (1903). Ma “Giro di Vite” è tra le rarissime opere che cambiano per sempre il mondo del lettore. Proprio come l’istitutrice tenta di cambiare il mondo di Miles e Flora?... Be’, tutto sta a intendersi su quel “come”: sì, anche i romanzi e i racconti sono mondi immaginari che vogliono che li crediamo veri, ma... solo finché siamo immersi nella lettura, poi ci lasciano liberi: non sono testi “sacri” religiosi, o ideologici, o filosofici, non fondano chiese, o “scuole di pensiero”, o partiti, non tentano di farci ingoiare l’esca mortale di una fede!
113. James, Henry: “Lo Scolaro”
Lo scolaro che padre e madre odiavano...
“Lo Scolaro” (“The Pupil, 1891) è uno dei più bei racconti di Henry James. Narra di un giovane insegnante, Pemberton, cui la ricca famiglia Moreen offre il posto di precettore del figlio Morgan, che non può andare a scuola poiché il padre è sempre in viaggio per affari e la famiglia non vuole dividersi. Pemberton sarà ospite dei Moreen, girerà l’Europa a loro spese, riceverà un ottimo stipendio e avrà un allievo che ― dice la madre ― “non potrete non amare... è un genio!”
Il professore è incerto. L’offerta gli sembra un po’ strana, forse rischiosa. Ma è conquistato dalla simpatia del piccolo Morgan, e dalla richiesta d’aiuto che intuisce in lui fin da quando, lasciando la villa dopo l’intervista, alza gli occhi verso il balcone, vede il bambino affacciato e: “Ne faremo di tutti i colori!” gli grida. E Morgan, dopo aver esitato, risponde allegramente: “Per quando tornerete avrò trovato una risposta spiritosa!” Questo fa sì che Pemberton dica a sé stesso: “È piuttosto simpatico, dopo tutto”.
Accetta dunque l’incarico, il giovane insegnante ― tanto povero quanto disinteressato ― e si mette in viaggio con i datori di lavoro mettendosi al contempo in loro potere, poiché di proprio, oltre a non avere un soldo in tasca, non ha neanche un amico al mondo. Ma presto inizia ad accorgersi che i Moreen ― sebbene abbiano un figlio eccezionale per l’intelligenza, la sensibilità, la gentilezza, la simpatia e la gradevole vivacità di cui dà prova ― non solo non ne sono all’altezza né lo apprezzano, ma non si comportano con lui come se davvero lo amino, né tanto meno come egli merita.
Intendiamoci: non lo maltrattano. A prima vista, al contrario, si direbbe addirittura che lo adorino, come un piccolo dio. E tuttavia è strano ― riflette Pemberton ― come riescano a conciliare la loro adorazione per lui con l’ansia di lavarsene le mani...
Pian piano Pemberton, con la sua sensibilità d’insegnante appassionato resa ancora più attenta dalla simpatia per Morgan, si accorge che ai Moreen, del figlio, non importa niente. Che non solo lo trascurano, ma la loro noncuranza nei suoi confronti si va facendo sempre più grossolana. La signora Moreen, addirittura, come se si prepari a disfarsi di lui, a cederlo all’insegnante, trascura con sottile abilità, a mano a mano che il ragazzo cerca sempre più solo la compagnia del precettore, perfino di rinnovargli il guardaroba. E quanto più evidenti sono l’impegno e l’affetto di Pemberton, tanto più difficile diventa per lui non solo ricevere lo stipendio che gli spetta, che ancora non gli è stato mai pagato, ma perfino indurli a parlare di questo argomento. Finché, quando si fa coraggio e avvisa la signora Moreen che, se non avrà almeno un acconto, li lascerà per sempre: “Non lo farete,” risponde lei, “sapete benissimo che non lo farete: il ragazzo v’interessa troppo”.
Pemberton comprende così che i Moreen “sono degli avventurieri non solo perché [...] vivono alle spalle della società, ma perché la loro visione della vita, [...], simile a quella di scaltri animali incapaci di distinguere i colori, è profittatrice e rapace e ignobile”. Però non se ne va, gli sfruttatori hanno fatto bene i propri conti. E non solo continua a “toglier loro dai piedi” quel figlio che non meritano, ma si occupa di lui con tutta la serietà di cui è capace. Tanto che si impone, da buon insegnante, di non parlargli mai contro il padre e la madre, ed è Morgan, un giorno, da onesto e intelligente figlio abbandonato che vuol bene all’insegnante che lo soccorre, a consigliargli di non pensare a lui e di licenziarsi. Ma il professore lo rimprovera, per aver giudicato i genitori, e gli chiede di non preoccuparsi poiché lui sta benissimo. Non lo fa per difendere loro, ma per proteggere il bambino dalla scoperta dolorosa e sconvolgente di non valere niente per chi lo ha messo al mondo. E tra sé pensa: “Non sono soprattutto pagato dal dolce rapporto stabilito con Morgan, rapporto davvero ideale fra maestro e scolaro, e dal solo privilegio di conoscere un ragazzo così stupendamente dotato e di far vita comune con lui”?
Non vi dirò altro de “Lo Scolaro” di Henry James, per non togliervi il piacere e la gioia di scoprire da voi le meravigliose e struggenti finezze psicologiche e formali di cui il racconto è talmente ricco, che lo si deve leggere più e più volte prima di cominciare ad apprezzarle come meritano.
Vi ricordo, invece, che il 25 agosto 2006 ci commosse la notizia che la maestra Ilia Pierantoni, morta a ottantaquattro anni senza eredi, aveva lasciato tutto il suo denaro, venticinquemila euro, a una prima elementare del 1971 che ricordava con particolare affetto. A condizione, però, che i suoi ex-allievi si ritrovassero e avviassero insieme un’attività benefica.
Michele Serra scrisse su “La Repubblica” che “ai beneficiati era toccato un ultimo compito in classe da una maestra che si era permessa di scomodare gli scolari ben oltre i limiti del suo incarico, oltre la pensione e perfino oltre la morte. Un compito difficile: non tanto spendere bene le poche migliaia di euro loro affidati, quanto piuttosto essere all’altezza di una maestra tanto intelligente”.
Ed è proprio così. Dei maestri e professori come la signora Pierantoni e il Pemberton di Henry James ― dei maestri e professori veri, non degli sfaccendati che fanno solo finta d’insegnare (o di dirigere una scuola) ― non è tanto facile liberarsi. Continuano a far lezione per tutta la vita, anche dopo morti. Come grilli parlanti che non si riesce, per quanto impegno ci si metta, a spiaccicare contro il muro. Li si paga poco, li si umilia ― le famiglie Moreen (di destra o di finta sinistra) che si avvicendano al governo delle nazioni sono in ciò molto simili ― e loro non solo non “se ne vanno” ― non si rendono, cioè, inesistenti perdendo ogni interesse per gli allievi ― ma anzi si appassionano sempre più, moltiplicano l’impegno e gli sforzi, arrivano a pagare di tasca propria, pur di restituire almeno in parte ai bambini ciò che viene loro sottratto ogni giorno dalle anaffettive famiglie Moreen e dai governi ladri. E continuano a farlo anche dopo morti ― certo! ― lasciando in eredità agli allievi uno di quei ricordi che aiutano a resistere, a rimanere umani a dispetto di una società che vuole disumanizzarsi.
Perché lo fanno? Perché la loro è una missione, come dice chi vorrebbe convincerli che sono poveri pazzi che si spogliano di tutto per avvicinarsi al cielo? No. Lo fanno poiché insegnare così è divertente, è impegnativo, è interessante, è avventuroso, è bello, dà gioia e fa sentire vivi perfino quando fa star male. Poiché il solo modo per fare “come si deve” questo mestiere è conservare e rafforzare la propria umanità e metterla in rapporto con quella degli allievi, e ciò giova molto agli altri affetti che si hanno, alla creatività, all’autostima, alla salute e perfino alla qualità del sonno e della digestione.
Ma tutto questo fa rabbia a chi non solo non lo ha (cosa che non sarebbe grave, quel che non si ha lo si può cercare e trovare) ma stupidamente si è convinto che non lo potrà mai avere.
Gli insegnanti come Pemberton e la signora Pierantoni, dunque (fantasia e realtà unite nella lotta) sono, con le madri e i padri come loro, una barriera alla svalutazione e alla commercializzazione degli esseri umani. Una barriera non di parole (“dobbiamo esser buoni, cari fratelli”, detto con voce e in pose più o meno ieratiche) ma della realtà di donne e uomini che ogni giorno fanno sentire gli allievi così preziosi, da rendere ricchissimo un mestiere sottopagato e disprezzato. Che ogni giorno fanno sentire ai bambini (che una parte della Società, dei media e dei genitori trattano come deficienti) che essi sono invece così interessanti da valere almeno quanto un secondo stipendio.
Non so se mi sono spiegato: i veri insegnanti amano il proprio lavoro (e sono, da esso, resi così ricchi da poter fare regali alla Società) non perché sono missionari, ma perché hanno a che fare con esseri umani, e gli esseri umani sono immensamente interessanti. E gli alunni lo sentono, magari senza saperlo, e ne traggono la gioia rara di essere trattati da esseri umani e sentirsi preziosi per sé stessi. E da grandi, perciò, renderanno difficile la vita di chi invece vorrà trattarli come numeri.
Agli affaristi e agli schiavisti, tutto questo fa rabbia due volte. Poiché sono dei miserabili, nonostante le loro ricchezze, e quindi odiano chi è felice malgrado sia un pezzente. E poiché i veri insegnanti ― e con loro, lo ripeto, tutte le famiglie che resistono ― continuano a “sfornare” futuri adulti che non si lasceranno facilmente tramutare in schiavi delle tirannie finanziarie globali.
Ecco perché vogliono distruggere la Scuola pubblica e noi insegnanti personalmente: poiché è uno dei pochi luoghi dove gli esseri umani non sono limoni da spremere, ma ancora “solo” esseri umani.
114. Jerome, Jerome Klapka: “Cura e Manutenzione della Donna”
Ho postato “Cura e Manutenzione della Donna” per il suo titolo esilarante, ma di Jerome Klapka Jerome (1859 ― 1927) vi propongo invece (la mia vecchia copia, del Club degli Editori, non era fotografabile) “Tre Uomini in Barca (per non dir del cane)” [“Three Men in a Boat (To Say Nothing of the Dog)”, 1889], che gli diede il successo ed è ancora oggi un capolavoro d’umorismo capace in più punti di far sbellicare perfino chi non ama i cani. Umorismo non stupido, non denigratorio, non violento, s’intende, cioè quell’umorismo che viene chiamato “inglese” benché sia universale (mica erano inglesi Cervantes, Goldoni, Moliere, Achille Campanile e altri, no?). Universale ma raro: da quando fu inventata la scrittura, gli scrittori capaci di ridere scrivendo ― e quindi di muovere i lettori al riso, che come sapete è contagioso ― si contano sulle dita delle mani senza che si debba ricorrere anche a quelle dei piedi. Forse perché non c’è scrittore che non creda di far qualcosa di sacro e onnipotente, mentre scrive, invece di riconoscere che lo fa perché altrimenti si ammalerebbe e morirebbe?
Celebre l’incipit (a proposito di malattie), ispirato forse a quello ancor più celebre di un altro che decise anche lui di trasferirsi su una barca a beneficio della propria salute (“Ogni volta che mi accorgo di mettere il muso; ogni volta che sulla mia mente e sul mio cuore cala un piovoso e umido novembre; ogni volta che mi sorprendo a fermarmi senza volerlo davanti alle agenzie di pompe funebri, o pronto a far da coda al primo funerale che incontro; e specialmente ogni volta che l’umor nero m’invade a tal punto che solo un saldo principio morale mi trattiene dall’andare per le vie col deliberato e metodico proposito di togliere il cappello di testa alla gente ― allora reputo sia giunto, per me, il momento di prendere al più presto il mare”):
“Eravamo in quattro: George, William Samuel Harris, io e Montmorency. Seduti nella mia camera, fumavamo e parlavamo delle nostre cattive condizioni... cattive dal punto di vista medico, s’intende. Ci sentivamo tutti depressi, e cominciavamo a innervosirci. Harris disse che, in certi momenti, gli venivano degli attacchi di vertigini tali, da togliergli la cognizione di quel che stava facendo; allora George disse che anche lui andava soggetto ad attacchi di vertigini e che, anche lui, in quei momenti sapeva a malapena quel che faceva. E per quanto riguardava me, avevo il fegato in disordine. Sapevo che si trattava del fegato perché avevo appena letto nella pubblicità di certe pillole per il fegato la descrizione dei vari sintomi dai quali chiunque può accorgersi che il suo fegato si è ammalato. Io li avevo tutti. È una cosa straordinaria: mai mi succede di leggere la pubblicità di un farmaco senza essere portato a concludere che soffro proprio del malanno che la pubblicità descrive, e nella sua forma più virulenta. In ogni singolo caso, la diagnosi sembra corrispondere con esattezza a tutte le sensazioni da me provate. Ricordo di essere andato, un giorno, alla biblioteca del Museo Britannico per documentarmi sulla cura di non so quale lieve disturbo di cui soffrivo... febbre del fieno, se ben ricordo. Presi un trattato di medicina e lessi tutto ciò che mi riguardava. Poi, senza riflettere, voltai le pagine e cominciai a scorrere distrattamente altre malattie. Non so più quale fosse il primo malanno sul quale mi soffermai... qualcosa di terribile, di micidiale, però... ma prima di essere arrivato a metà dell’elenco dei ‘sintomi premonitori’ ero fermamente convinto di avere quella malattia. Rimasi a lungo paralizzato dal terrore; poi, con l’indifferenza della disperazione, cominciai a voltare le pagine. Giunsi al tifo, lessi i sintomi, constatai che avevo il tifo, che senza saperlo dovevo averlo da mesi e mesi, e... mi domandai che altro potevo avere addosso: passai al ballo di san Vito e scoprii, come prevedevo, di avere anche quello. Allora iniziai a interessarmi del mio caso e, deciso ad andare fino in fondo, ricominciai da capo in ordine alfabetico. Lessi la descrizione della malaria e seppi che l’avevo in pieno: lo stadio acuto sarebbe cominciato di lì a una quindicina di giorni. Quanto al morbo di Bright, constatai con sollievo che l’avevo in forma attenuata e che, se fosse stato solo per quella, avrei potuto vivere ancora qualche anno. Il colera l’avevo, e con gravi complicazioni. Quanto poi alla difterite, sembrava addirittura che l’avessi dalla nascita. Esaminai coscienziosamente tutte le voci, dalla prima all’ultima lettera dell’alfabeto, e potei concludere che l’unica malattia dalla quale non ero affetto era il ‘ginocchio della lavandaia’. Mi sentii quasi offeso, sulle prime; in certo qual modo, mi pareva un affronto. Perché non avevo il ginocchio della lavandaia? Perché quella menomazione?”
Il protagonista va dal medico. Ma se volete continuare a ridere ― suppongo che stiate ridendo, o vi consiglierei di domandarvi di che cosa sia sintomo la vostra malinconia ― se volete, dicevo, continuare a ridere su quel che gli prescrive il medico e su quello che poi gli dice il farmacista, be’, non vi resta che leggerlo.
115. Jones, James: “Da Qui all’Eternità”
“Ci dev’essere di più, ci dev’essere, diceva Karen Holmes a sé stessa, in qualche luogo, chissà dove, ci dev’essere un’altra ragione, in alto, al di là, in qualche luogo, un’altra equazione all’infuori di questo matrimonio + maternità + diventare nonna = onore, giustificazione, morte. Ci dev’essere un altro linguaggio, dimenticato inaudito non detto, che non il possesso di una cucina casalinga americana completa di zona pranzo, angolino per la prima colazione e illuminazione fluorescente. Tra gli oggetti rotti dell’arredamento del bagno e le appiccicose variopinte slavate etichette sulle scatolette vuote, Karen Holmes frugava il deposito d’immondizia della civiltà cercando disperatamente la sua vita, e il pattume che le insudiciava le mani non aveva importanza. Ne aveva addosso già tanto, Karen, e lo sentiva”.
“Il capitano Holmes stava salendo insieme al colonnello Delbert la scala esterna del quartier generale del reggimento: due uomini di mezza età che chiacchieravano tra loro, comandanti di altri uomini, che si davano pacche sulle spalle cercando disperatamente qualcuno a cui dare ordini. [...] Warden aveva una teoria sugli ufficiali: essere ufficiale farebbe diventar peccatore perfino Cristo. Nessun uomo può ingoiare così tanti privilegi e autorità fatti d’aria fritta senza poi scorreggiare. [...] In ogni guerra ci sono state due guerre: la guerra degli ufficiali e la guerra dei soldati semplici. E tutti gli sbarbatelli sottotenenti hanno potuto diventare il ‘severo disciplinatore’ o anche ‘il più amato dai suoi uomini che li ama come fratelli’. Di recente sono arrivati gli Holmes, che come schizofrenici hanno provato a recitare entrambi i ruoli, per ritrovarsi alla fine cornuti”.
“Lei si voltò con partecipazione, insonne, e Prew si chiese a che stesse pensando sdraiata lì sveglia. Mentre si spostava sopra di lei, si rese conto ancora una volta di non conoscerne viso o nome, che lì in quell’atto che avvicina come nessun altro due mondi umani fatti di sogno tanto da farli muovere l’uno dentro l’altro, lui non la conosceva ancora, né lei conosceva lui, né potevano toccarsi. Per un uomo che passa la vita tra le piatte spigolosità pelose di altri uomini, tutte le donne sono tonde e soffici, e tutte sono imperscrutabili e sconosciute”.
“Ma questo non è amore, rifletté, questo non è ciò che lei vuole né ciò che vogliono le altre, le donne non vogliono che tu ti ritrovi in loro, vogliono invece che tu ti perda in loro. Eppure, pensò, tentano sempre di ritrovarsi in te. [...] E gli parve, allora, che ogni essere umano non faccia altro che cercare sé stesso, nei bar, sui treni, negli uffici, negli specchi, nell’amore, specialmente nell’amore, cercare il proprio io che è lì, da qualche parte, in ogni altro essere umano. L’amore non è darsi, ma trovarsi”.
“Aveva imparato a credere nella lotta per i derelitti contro il bastardo prepotente. [...] Se i comunisti erano gli sfigati in Spagna, allora lui credeva nella lotta per i comunisti in Spagna; ma se i comunisti erano i bastardi prepotenti a casa loro, in Russia, e (come li chiameresti in Russia? I traditori, immagino) i traditori erano i più deboli, allora lui credeva nella lotta per i traditori contro i comunisti. Credeva nella lotta per gli ebrei in Germania e contro gli ebrei a Wall Street e a Hollywood. E se in America i capitalisti erano i dirigenti e i proletari erano i poveri cristi, allora lui credeva nella lotta per i proletari contro i capitalisti. Questa filosofia di vita, troppo radicata per essere dimenticata, lo aveva portato, lui ragazzo del sud, a credere nella lotta per i negri contro i bianchi ovunque, perché i negri non facevano in nessun posto la parte dei bastardi, almeno per ora”.
“From Here to Eternity” (1951), di James Jones (1921 ― 1977), che quando apparve fu tagliuzzato dalla censura maccartista per il suo antimilitarismo e la sua “oscenità”, e che da qualche anno è finalmente leggibile in versione integrale (in Italia solo dal 2012), nonostante l’amarezza che lo pervade ― non antiumana, però, ma sempre suscitata dal disgusto per individui ben precisi: i sopraffattori ― è un inno contro le gerarchie (non solo militari, anche se è l’esercito che qui le rappresenta), cioè contro il potere, e al contempo (quasi unico, tra i romanzi pacifisti) una grande storia d’amore. Una sua versione cinematografica (l'immagine di copertina è tratta da essa) vinse otto Oscar ― “Da Qui all’Eternità”, 1953, di Fred Zinnemann ― ma non la consiglio perché è ancor più censurata di quanto lo fu all’epoca il libro, e soprattutto perché nessun film può rendere anche solo alla lontana una passione che non si attenua mai per ben mille pagine.
116. Jovine, Francesco: “Le Terre del Sacramento”
“Clelia, la sera nella quale abbandonò per sempre il suo domicilio, sapeva la sorte che inevitabilmente le sarebbe toccata. In città si parlava degli amori di Enrico Cannavale con giovani cameriere, con le contadine dei suoi poderi, con le figlie degli artigiani; gli si era attribuita come amante una equivoca segretaria che s’era portata a casa dalla città. I suoi sperperi, durante lunghe assenze in luoghi famosi per la dissolutezza dei costumi, erano stati materia di chiacchiere senza fine. Quest’uomo irrequieto, chiamato ‘la Capra del Diavolo’, di pelo rossigno, dagli occhi furibondi o dolci, a seconda del moto interno dell’anima, noto per le brighe coi suoi concittadini, o per la sua generosità, ritenuta dabbenaggine da molti, aveva messo in subbuglio l’anima di Clelia nelle rare volte che le era capitato di vederlo. Tutte le volte che Clelia, la sera al buio, nel segreto del letto pregava ardentemente il suo angelo, al mattino compariva in visita Enrico Cannavale. Si tratteneva in genere pochi minuti e faceva delle chiacchiere convenzionali con la vecchia zia che, sapendo in anticipo il carattere benefico della visita, cercava di ripagarlo con un diluvio d’inutili consigli. Le visite di Enrico alle due donne avvenivano sempre in momenti di particolare difficoltà per il loro meschino bilancio domestico. Clelia lo sogguardava rimanendo silenziosa, con le mani intrecciate sul grembo, respirando appena come se il respiro profondo potesse rivelare la forma del seno. Sedeva ripiegata su sé stessa con lo scopo inconsapevole di cancellare quanto di femminile potesse apparire nella sua persona, come se nella sua pelle vivesse sepolto lo sgomento di una prossima violazione”.
“Molti anni prima, quando don Settimio, parlandole della docile indole di Luca e della sua mente pronta, le aveva proposto di avviarlo al sacerdozio, Immacolata si era sentita felice all’idea di avere un figlio prete che le offriva garanzia di tranquillo benessere per il suo viaggio terreno, e quella della beatitudine per la vita eterna. [...] Immacolata mostrava al suo prossimo un viso triste, compunto, per non risvegliare nelle streghe, di cui Morutri formicolava, il desiderio di spegnere, con un terribile sortilegio, la fiamma della sua gioia. Per precauzione, tutti gli angoli della casa erano costellati d’immagini, di reliquie, di vasetti contenenti la muffa della grotta di San Michele del Gargano. La sera di venerdì appoggiava le scope a tutti gli usci e metteva un pizzico di sale sulla brace, prima di seppellirla con la cenere. Quando Luca, una sera d’estate, a tavola, mentre erano riuniti per la cena, disse che avrebbe smesso l’abito e rinunziato al sacerdozio, Immacolata era stata presa da un tremito in tutta la persona. Aveva lasciato la forchetta sul tavolo e aveva appoggiato la testa sulla spalla di Beata, sentendo il sangue che le andava tutto al cuore. Poi, d’un tratto, era balzata in piedi e aveva fatto l’atto di scagliarsi contro il figlio. Il marito la trattenne e le disse con voce calma: «Ehi, adesso che combini, Immacolata. Porta ancora l’abito santo. Ti acceca il demonio, Immacolata». La donna si era svincolata dal marito e girava per la cucina con le mani intrecciate sulla testa, mugolando: «Ti ha tentato il demonio! Ti ha tentato il demonio!»”
Natalia Ginzburg: “Provincia e villaggi dell’Abruzzo sono l’ambiente preferito dei romanzi di Jovine. Morte paludi, dove ristagnano le pratiche burocratiche, dove s’aggrovigliano gli’intrighi, le superstizioni, i rancori: dove il giogo dei forti sui deboli può farsi spietato, tanto gli uni sono inermi, ottenebrati dall’ignoranza, da mille strane paure che si tramandano di secolo in secolo; tanto gli altri sono resi cinici dalla noia, dall’ozio, dall’ansia d’una vita libera, lontano da quel torpore. E tuttavia il vento della rivolta si leva a volte su queste torbide acque, e scorre il sangue. L’avvocato Cannavale, proprietario terriero: precocemente invecchiato da una vita vuota e rischiosa, e inetto ormai a cercare di vedere chiaro nel caos delle sue proprietà, della sua casa e della sua stessa esistenza; la giovane moglie di lui ambiziosa e scaltra; e Luca Marano, un ragazzo, figlio di poveri, avviato agli studi, che gode della fiducia dei contadini, e sarà quindi lo strumento inconsapevole d’un ignobile raggiro. Questi i personaggi principali de “Le Terre del Sacramento”, ma attorno a essi si muovono i contadini: coro e insieme nucleo della vicenda”.
Francesco Jovine (1902 ― 1950) fu, oltre che scrittore e insegnante, antifascista e partigiano. “Le Terre del Sacramento” uscì poco dopo la sua morte per un attacco cardiaco.
117. Joyce, James: “Ulisse”
La storia di James Joyce (1882 ― 1941), la verità su di lui e la sua opera, è già tutta in “Dedalus ― Ritratto dell’Artista da Giovane” (1904 ― 1914). Che settanta pagine dopo l’incipit, d’un tratto, ha un soprassalto di speranza per un’“immagine” che, sebbene egli la dica “incorporea”, è un’immagine di donna:
“Desidera incontrare nel mondo reale l’immagine incorporea che la sua anima contempla tanto costantemente. Non sa dove cercarla o come, ma un preannuncio che lo guida gli dice che questa immagine, senza nessun atto aperto da parte sua, gli verrà incontro. Si incontreranno tranquillamente, come se si conoscano e abbiano fissato il loro convegno, forse a uno di quei cancelli o in qualche luogo più segreto. Saranno soli, circondati dall’oscurità e dal silenzio: e in quell’attimo di tenerezza suprema Stephen si trasfigurerà” (p. 115).
Ma poi, nel corso dell’adolescenza e della giovinezza, desiderio e speranza si capovolgono in qualcosa ― il cui nome non viene detto ― che è l’opposto di essi:
“Stephen vede i tre bicchieri alzarsi dal banco, mentre suo padre e i due vecchi amici bevono alla memoria del passato. Un abisso di fortuna e temperamento lo divide da loro. La sua mente pare più vecchia: brilla di un freddo splendore sulle loro lotte, sulle felicità, sui rimpianti, come una luna sopra una terra più giovane. In lui non si agitano la vita e la giovinezza che si agitarono in loro. Non conosce né il piacere delle amicizie, né il vigore della salute maschia e violenta, né la pietà filiale. Nulla si muove nella sua anima tranne una libidine fredda, crudele, senza amore. La sua infanzia è morta o perduta e, con essa, l’anima capace di semplici gioie, ed egli erra abbandonato a caso per la vita, come il guscio sterile della luna” (p. 151).
E allora l’incontro con la donna fallisce miseramente:
“Una ragazza gli sta davanti, sola, immobile, guardando verso il mare. Pare una creatura trasformata per incanto nell’aspetto di un bizzarro e bell’uccello marino. Le sue lunghe gambe nude, sottili, sono delicate come quelle di un airone e intatte, tranne dove una traccia smeraldina di alga è rimasta come un segno sulla carne. Le cosce, più piene e sfumate come l’avorio, sono nude fin quasi alle anche, dove gli orli bianchi dei calzoncini sono come un piumaggio di soffice peluria candida. Le sottane color ardesia, audacemente rimboccate alla vita, le pendono dietro a coda di colombo. Il seno è come quello di un uccello, morbido, delicato, delicato e morbido come il petto di una colomba dalle piume scure. Ma i suoi lunghi capelli biondi sono infantili: e infantile, toccato dal miracolo della bellezza mortale, è il suo viso. È sola e immobile a guardare il mare: e quando sente la presenza di Stephen e dei suoi sguardi adoranti, gli volge gli occhi in una tranquilla tolleranza del suo sguardo, senza mostrare né vergogna né civetteria. Per molto, molto tempo sopporta il suo sguardo e poi con calma ritrae gli occhi da quelli di Stephen e li piega alla corrente, agitando qua e là leggermente l’acqua col piede. [...] «Gran Dio!» grida l’anima di Stephen in uno scoppio di gioia profana. Bruscamente le volge le spalle, incamminandosi attraverso la spiaggia” (pp 244-245).
Se ne va. Ma ha il “coraggio” di concludere che “lui, nessuno sguardo di donna lo ha mai cercato” (p. 324)!
E l’“Ulisse” (1914 ― 1922), malgrado l’apparente splendore formale che ha abbagliato tanti critici e creduli lettori, purtroppo conferma ― come “La Veglia Di Finnegan” (1923 ― 1939), con cui Joyce si congedò dalla vita ― il fallimento esistenziale narrato in “Ritratto dell’Artista da Giovane”.
L’ho letto due volte, a diciassette anni e a sessantasette, e la seconda ho capito quel che la prima sentii senza saperlo: che non rinuncerei, per l’“Ulisse”, a una sola pagina degli scrittori che amo.
Qualcuno dirà: “Vaneggi? E la ricerca?” Ma proprio per questo. Proprio per la ricerca. Che dev’essere sincera. E sincera significa che quel che cerca, il linguaggio nuovo, non lo può razionalmente ri-cercare “con fredda e crudele libidine senza amore”, ma deve scaturire dalla passione per quel che di nuovo ha da dire: questa è la vera ricerca, non il fatuo esibizionismo di affastellata cultura che furbastri o disperati del tutto privi non dico di passioni, ma perfino di sensazioni e impressioni, per un secolo hanno mistificato come ricerca con immensa delusione di decine di milioni di lettori e immensa sofferenza dei veri scrittori.
Di sincero, nell’“Ulisse” ― non di sentito, ma almeno di sincero ― c’è solo l’odio (in parte nazionalista-irlandese, ma soprattutto cattolico), che la freddezza della ragione non riesce a dissimulare, con cui “interpreta” Shakespeare e in particolare “Amleto” nell’episodio detto “di Scilla e Cariddi”.
L’unica opera di Joyce che mi sento di includere tra le poche del secolo scorso che resteranno è “I Morti”, che egli scrisse a ventitré anni nel 1904 ― ben prima del “capovolgimento” esistenziale del “Ritratto dell’Artista da Giovane”. E chi sono “i morti”? Sono i personaggi che morirono in lui quando morì “Michael Furey”.
“Come morì così giovane? Di tisi, forse?” domanda Gabriel, che ne ha circa quaranta. “Credo che sia morto per me” risponde Gretta, sua moglie. E Gabriel ― in una camera in penombra, nella vaga luce dell’alba dalla finestra, nello spettrale chiarore della neve “leggera leggera” caduta per tutto il giorno e per tutta la notte tra la fine di un anno e l’inizio di un altro ― comprende che “mentre lui si saziava dei ricordi della loro vita intima, pieno di tenerezza e di desiderio, lei lo confrontava con un altro”. Allora “un’umiliante consapevolezza del proprio essere lo aggredisce” e ripensando alla festa da cui sono usciti “si vede come una figura ridicola, una specie di galoppino delle zie, un sentimentale nervoso e pieno di buone intenzioni che fa discorsi a gente volgare, che idealizza i propri bassi appetiti, un uomo, insomma, pietoso e fatuo...” “Immagino che ne eri innamorata, di questo Michael Furey” dice. “Credo che sia morto per me” dice Gretta. E “un vago terrore afferra Gabriel come se un essere invisibile sia venuto dal suo mondo oscuro raccogliendo le sue forze contro di lui”. “Era inverno appena cominciato” racconta Gretta “e io stavo per lasciare la nonna ed entrare in collegio. Lui era ammalato, nella sua camera in affitto. Gli era stato proibito di uscire e già avevano scritto ai suoi. Era sul declinare, dicevano, o qualcosa di simile. Non l’ho mai saputo bene”. Si ferma un istante, sospira. “Poveretto” continua. “Mi amava tanto, ed era un ragazzo così buono. Andavamo a fare delle passeggiate insieme, sai, Gabriel, come si fa in campagna. Avrebbe studiato canto, se non fosse stato ammalato. Aveva una bellissima voce. Povero Michael!” “E allora?” chiede Gabriel. “E allora, quando venne il momento che dovevo partire, lui stava molto peggio e non si poteva nemmeno andare a trovarlo. Così gli scrissi una lettera dicendo che sarei tornata in estate e che speravo che sarebbe stato meglio”. Si ferma un istante, per dominare la voce. Poi continua: “Allora, la notte prima della mia partenza, stavo preparando i bagagli e sentii un rumore di sassolini contro la finestra. La finestra era così bagnata dalla pioggia che non potevo vedere, e allora corsi giù, così com’ero, e uscii in giardino, e là, in fondo, c’era il povero ragazzo che tremava tutto dal freddo”. “Non gli dicesti di tornare a casa?” chiede Gabriel. “Lo implorai che tornasse a casa. Ma disse che non desiderava più vivere. Vedo ancora i suoi occhi... Oh, come li vedo! Prima che passasse una settimana dacché ero in collegio, egli morì. Oh, il giorno che ho saputo che era morto!” Dopo, mentre lei dorme, Gabriel “quasi quasi si sente addolorato dalla meschina parte che lui, il marito, ha avuto nella sua vita. La osserva, mentre lei dorme, come se non abbiano mai vissuto insieme come moglie e marito [...]; e mentre pensa a quella che doveva essere allora, all’epoca della sua prima bellezza di fanciulla, una strana, intima pietà per lei gli penetra nell’anima. Non vuol pensare, nemmeno tra sé, che il suo viso non sia ancora bello, ma certo non è più il viso per il quale Michael Furey sfidò la morte”. Perché sente “strana”, Gabriel, la pietà che prova per Gretta? Perché si accorge che è morta. Perché si accorge che non c’è più. Perché si accorge che non può vedere, in Gretta, la fanciulla che non ha conosciuto ― anzi, peggio, che non ha mai neppure immaginato ― perché non sa guardarla, lui, con gli occhi del morto Michael Furey. Cosa rimane di lei? “Gli occhi di Gabriel si portano verso la sedia ove ella ha buttato alcuni dei suoi indumenti”. E cosa vede? “Vede il nastro di un corpetto che pende fino a terra. E uno stivaletto che sta ritto, con la parte superiore floscia ripiegata, mentre il suo compagno giace sul fianco”. Di Gretta non restano che oggetti inanimati, e di Gabriel nemmeno quelli, ora che ha capito che né lui né lei “hanno mai provato per nessuno” un sentimento come quello che Michael Furey provò per Gretta. E “tutti”, allora, tutti gli esseri umani, “a uno a uno diventano ombre”. Gabriel “è cosciente della loro vana e vacillante esistenza, ma non può afferrarle. La sua stessa identità si dilegua in un mondo grigio e implacabile; la terra stessa, che quei morti avevano un tempo governata, e su cui avevano vissuto, si dissolve e si disperde [...]. E la sua anima lentamente svanisce sentendo la neve cadere leggera leggera su tutto l’Universo: cadere leggera, leggera come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi, su tutti i morti”.
Michael Furey, morto a diciassette anni, e Gretta, viva ma morta per non aver più amato, all’alba di un nuovo anno e di un nuovo secolo si son portati via l’intera Umanità. Non perché avessero il potere di distruggerla, ma perché così è sempre, quando muore l’amore che si poteva salvare: non restano che oggetti inanimati, e ad arrabattarsi per essi non restano che dei sopravvissuti che non sanno ― ma talvolta scoprono, o sospettano ― di essere morti anche loro.
Gli “oggetti inanimati” ― vuoto esibizionismo pseudoculturale, vuoti arzigogoli ― di cui sono pieni fino all’orlo gli scatoloni dell’“Ulisse” e de “La Veglia di Finnegan”, opere di uno scrittore che a diciassette anni era forse stato Michael Furey, o almeno aveva intravisto la possibilità di esserlo, e poi ― non sappiamo perché ― è morto.
“«È curioso» dice Cranly, spassionatamente, «come la tua mente sia soprassatura della religione in cui dici di non credere»” (Dedalus ― Ritratto dell’Artista da Giovane”, p. 326).
118. Kafka, Franz: “La Metamorfosi”
Gregor Samsa diventa davvero un enorme scarafaggio? O crede di diventarlo perché impazzisce? Non so se questa domanda sia mai stata posta seriamente. Francesco Orlando la troverebbe assurda: “L’inizio è come un pugno sul tavolo” scrive ne “Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme”. “Il soprannaturale è gettato davanti al lettore, subito e tutto, con tale violenza e nella sua integralità, che il lettore deve accettarlo, perché se rifiutasse il patto dovrebbe interrompere la lettura. [...] Il fatto soprannaturale è indubitabile ed è tutto nella prima frase. [...] Sino alla fine, tutto quello che capita [...] non è che uno sviluppo assolutamente realistico e necessario di quella prima e unica deroga al verosimile, imposta subito con prepotenza inaudita”.
Be', è vero che Gregor, a un certo momento, “prende l’abitudine di strisciare in ogni senso lungo il soffitto e le pareti, e in modo particolare gode a sospendersi al soffitto”. È vero che un giorno lo sguardo di Grete, “incontra quello del fratello sulla parete”, e che la mamma sviene “vedendo quell’enorme macchia bruna”. Ed è vero che una mela, che il padre gli tira addosso con estrema violenza, gli rimane incastrata nel dorso fino alla morte. “Se tutto ciò non ti persuade che Gregor è davvero diventato un enorme scarafaggio, quali altre prove vorresti?” starete pensando.
Ecco: vorrei che qualcuno dei suoi dica a Gregor (o su Gregor) qualcosa che attesti con certezza che crede di rivolgersi o di riferirsi a un essere il cui aspetto è quello di un enorme insetto. Ma nessuno lo fa. Solo lui si riferisce (col pensiero) a sé stesso in tal guisa. Uniche eccezioni: l’epiteto di “vecchio stercorario” (“alter Mistkäfer”) con cui una volta gli si rivolge l’ultima domestica dei Samsa, quella che toglierà ai suoi il disturbo di dover disfarsi del cadavere; e la parola “bestia” (“tier”) di cui Grete si serve quando alla fine vuol convincere il padre a liberarsi di lui: “Devi solo cercare di sbarazzarti del pensiero che sia Gregor. Che ci abbiamo creduto per così tanto tempo è la nostra vera disgrazia. Come può essere Gregor? Se fosse Gregor, avrebbe capito da tempo che gli esseri umani non possono vivere con una bestia del genere e se ne sarebbe andato volontariamente”. Ma nel primo caso è forse un titolo burberamente scherzoso (una sorta di “vecchio porco”), e nel secondo ― in accordo con l’improvvisa spietatezza di Grete, che fino a quel momento era stata, o si era fatta credere, la più comprensiva e tenera della famiglia ― un insulto pieno d’odio.
Abbiamo, anzi, una prova testuale impressionante del fatto che la mostruosità di Gregor NON È entomologica né tanto meno “soprannaturale”: quando egli, manovrando la chiave con la bocca, riesce ad aprire la porta, e lo vede il “procuratore” (mandato dall’ufficio a ordinargli di presentarsi subito al lavoro), costui non grida “al mostro!” o qualcosa di analogo, ma “indietreggia lentamente come se sia spinto, con pressione costante, da una forza INVISIBILE”. E lo stesso accade, subito dopo, alla mamma e al padre. Segno, mi sembra, che la “metamorfosi” di Gregor non è davvero fisica, materiale, o non sarebbe “invisibile”, ma un fatto psichico di cui gli altri, senza poter vederlo, percepiscono la devastante potenza provando un senso di invincibile repulsione. Un fatto che solo lui, Gregor, per motivi di cui vi parlerò fra poco, “interpreta” come trasformazione in un essere fisicamente non umano.
Sì: per tutto il tempo, lo ripeto, Gregor Samsa appare con certezza un enorme insetto soltanto a lui. E nemmeno, visto che una volta ne dubita: “Sono un animale, se la musica mi prende a questo modo?” si chiede, ammaliato dal violino della sorella e ignaro che proprio quell’incanto sta per condurlo alla catastrofe definitiva. Anzi: addirittura “gli sembra che [la musica] gli indichi una via verso un sentimento sconosciuto e sempre anelato”!
Ma questo suo estremo desiderio di umanità, mentre da un lato incoraggia in me l’idea che il “soprannaturale” non abbia alcun ruolo nella tragica storia di Gregor Samsa, che egli sia in realtà un folle, e che forse poteva ancora guarire, d’altro canto mi spinge a chiedermi quale folle continuerebbe a provare, lungo tutta la sua malattia e perfino in punto di morte, sentimenti così amorevoli: “Pensava alla famiglia con tenero affetto. La sua decisione di sparire era, se possibile, ancora più ferma di quella della sorella”.
La risposta non è difficile: un uomo che impazzisce annientando l’amore per sé stesso, l’affettività e ogni autentico rapporto con gli altri nella convinzione suicida di “amare” i suoi aguzzini.
Gregor non vive che per loro, per quelli che lo sfruttano senza curarsi di lui, e si è così convinto di “amarli”, cioè di essere ancora umano grazie a loro, che non vede la propria follia nemmeno dov’è più manifesta: nella rinuncia alla donna. “La cameriera di un albergo di provincia, caro, fugace ricordo, la cassiera d’un negozio di cappelli, che aveva corteggiato seriamente, ma prendendo le cose troppo alla larga”, per lui sono ormai “estranee”, “dimenticate”, “fantasmi”. L’unica immagine femminile che gli rimane “è appesa sopra il tavolo, ritagliata, non molto tempo fa, da una rivista e racchiusa in una bella cornice dorata: raffigura una signora che, in boa e berretto di pelle, siede eretta alzando verso l’osservatore un pesante manicotto di pelliccia che le cela tutto l’avambraccio”. Anche la notte ha perduto, Gregor Samsa, perdendo l’essere umano che un tempo era: dopo la metamorfosi non dorme più ― tranne, solo una volta, un tormentoso “dormiveglia” ― e i “sogni inquieti” dai quali “si desta” credendosi trasformato “in un enorme insetto nocivo” sono gli ultimi; poi è sempre giorno, per lui: un giorno sempre plumbeo, fosco, che la sua vista sempre più debole non riesce più a penetrare, e sul quale il sole tornerà a splendere soltanto dopo la sua morte.
L’altro scritto di Franz Kafka che ricorda “La Metamorfosi” è (e non mi sorprende) la lettera che scrisse al padre quattro anni dopo. Una lettera sconvolgente sia per le pesanti accuse che gli rivolge, sia e soprattutto perché quasi a ogni riga, con immenso amore, da quelle stesse accuse lo assolve o almeno le attenua con ogni sorta di giustificazioni, accusando anche sé stesso proprio come fa Gregor. Ebbene: in quella lettera Franz Kafka dice che suo padre, ogni volta che “seppelliva di insulti, calunnie e denigrazioni” coloro per i quali lui aveva “manifestato interesse”, si compiaceva tra l’altro di “paragonarli a insetti immondi” e di citare il proverbio “chi si corica coi cani si desta con le pulci”. Be’, non pare anche a voi che a Gregor succeda qualcosa di simile? Che “si corichi coi cani”, voglio dire ― cioè nella casa dei suoi, in quella stanza con tre usci sempre vigilati ― e poi “si desti con le pulci” benché per una volta, come per un presentimento, li abbia chiusi a chiave tutti e tre?
Molti hanno notato che il padre, la madre e la sorella si comportano orribilmente con Gregor. Non solo dopo la metamorfosi: si comportavano così da anni, forse da sempre. E io, da parte mia, aggiungo che se la traduzione letterale di “Ungeziefer” è “insetto nocivo”, il termine si addice ben più a loro che a lui. Al padre soprattutto, per il quale ― mentre Gregor si sveglia alle quattro per mantenere la famiglia in una condizione relativamente agiata e mandare la sorella al Conservatorio ― “la prima colazione è il pasto più importante, ed egli lo protrae per ore leggendo diversi giornali”.
Per i genitori e la sorella, che come “insetti nocivi” vivono alle sue spalle senza amarlo, Gregor fatica come uno schiavo: “ogni giorno in cammino”, “ansie” continue, “il tormento del viaggiare: l’affanno delle coincidenze, i pasti irregolari, poco buoni, i rapporti sociali sempre mutevoli, instabili, che mai si fanno cordiali”, “levatacce” che “finiscono col rimbecillire”... “Non fosse per i genitori, mi sarei licenziato da un pezzo” pensa. “Però non è detta l’ultima parola: appena avrò messo da parte tanto denaro da pagare i loro debiti, accidenti se non lo faccio”.
Ma intanto è il padre che grazie ai sacrifici di Gregor ha messo da parte un gruzzolo (di cui non gli ha mai parlato). E la sorella, ormai diciassettenne, continua a vivere tranquilla con i suoi “abitini eleganti”, i “lunghi sonni”, “aiutando in casa, concedendosi qualche modesto divertimento e, soprattutto, suonando il violino”. Ma forse lei era troppo inetta e i genitori troppo vecchi e infermi per lavorare? No: ora che Gregor non porta più soldi a casa ― e benché pazzo non fa che disperarsene, poiché quella del “sostegno della famiglia” era la sua (falsa) identità ― il padre è diventato “commesso di banca” (e la cosa gli aggrada così tanto che “non si toglie l’uniforme neanche in casa”), la mamma “cuce biancheria fine per un negozio di mode” e la sorella “si è impiegata come commessa, e studia stenografia e francese nella speranza di ottenere un giorno un posto migliore”.
Si commuovono almeno ora? Cercano di aiutarlo? No. Il padre, in un primo momento, dice a Grete: “Corri subito dal dottore. Gregor sta male. Svelta, dal dottore”. Ma poi non se ne fa niente: “Gregor non poté mai sapere con quali pretesti, la prima mattina, il medico era stato allontanato”. Lo abbandonano a sé stesso, la stanza in cui è recluso viene pulita sempre meno e ne tolgono tutto ciò che gli ricordava la vita precedente; la sorella, che all’inizio sembra voler assisterlo, a poco a poco se ne disinteressa quasi del tutto. E il padre lo ferisce gravemente due volte, affrettando la sua morte: al termine della prima parte “gli mena il colpo di grazia, e Gregor, perdendo molto sangue, finisce in camera”; e al termine della seconda lo bersaglia di mele, e una “gli affonda nel dorso”, “nessuno la estrae, rimane conficcata nella sua carne, e la ferita danneggia per sempre i suoi movimenti” finché, al termine della terza parte, Gregor muore.
Sì: benché gli “insetti nocivi” che infestano, divorano e distruggono la vita di Gregor siano il padre, la sorella e la madre, è lui a credersi uno scarafaggio. Trattato come se non sia un essere umano, ed egli stesso riducendosi volutamente ad animale da soma, Gregor finisce col prendere su di sé anche quest’ultimo, pesantissimo carico, li libera anche di questo: è lui il parassita, non sono loro. Ed essi, come sempre hanno fatto, non soltanto glielo lasciano addosso senza troppo affliggersene, ma si lamentano di dover loro sopportare lui!
Novanta centimentri è lungo l’“enorme scarafaggio” ― calcola Nabokov, entomologo oltre che scrittore, e convinto che Gregor sia invece forse uno scarabeo ― ed è logico, se si pensa che drizzandosi sulle zampine posteriori arriva con la bocca alla chiave di uno dei tre usci della sua stanza (tre, sissignori: Gregor, le rare volte che il lavoro gli permette di rincasare, dorme, come vi dicevo poco fa, letteralmente assediato dai famigliari). E io, allora, riflettendo su quei novanta centimetri, mi chiedo: ma non è l’altezza di un bambino di tre-quattro anni?... Forse sì. Forse Gregor Samsa fu un bambino, un tempo, che madre e padre credettero un mostriciattolo e allevarono come tale. E oggi, ormai convinto anche lui di essere un mostriciattolo, un parassita, un insetto nocivo, forse in fondo è ancora un bambino in quel consegnarsi ai propri aguzzini dicendo loro: “Fate di me quello che volete”.
I quali aguzzini, raggianti di sollievo per la sua morte, se ne vanno a passeggio, finalmente, godendosi la prima bella giornata primaverile dopo tanto tempo, e come se niente fosse si ripropongono di licenziare la domestica (forse perché ormai sa troppo?) e di trovare un buon marito per Grete. Un altro schiavo che prenda il posto di Gregor?
Il testo de “La Metamorfosi” (1916), di Franz Kafka (1883 ― 1924) è in pdf qui ― ma se ancora non li avete letti non dimenticate gli altri suoi capolavori: “Il Processo”, “Il Castello” e “America”.
119. Kawabata, Yasunari: “La Casa delle Belle Addormentate”
“«Scherzi di cattivo genere non ne faccia; non sta bene neppure infilare le dita nella bocca delle ragazze che dormono» raccomandò la donna della locanda al vecchio Eguchi. [...] «Non cerchi di svegliare la ragazza. Per quanto possa tentare, non si sveglierebbe... È profondamente addormentata e ignara di tutto» ribadì la donna. «Continua a dormire dal principio alla fine e non si rende conto di niente, capisce? Non sa neppure con chi abbia riposato... Di questo non deve preoccuparsi». Il vecchio Eguchi non diede voce ai dubbi che cominciavano a germogliare nella sua mente. «È una ragazza pulita. E noi riceviamo unicamente ospiti di cui si può essere tranquilli...»”
“Accesa una sigaretta con la mano in cui teneva la chiave, Eguchi l’aveva spenta nella ceneriera dopo appena un paio di boccate; ne accese subito un’altra e la fumò con calma. Invece di ridere della propria leggera agitazione, si lasciò prendere da una sgradevole sensazione di vuoto. Di solito, Eguchi per addormentarsi beveva un po’ di brandy: era di sonno leggero e predisposto agli incubi. Non poteva fare a meno di ricordare i versi scritti da una poetessa, morta giovane di cancro, sulle notti insonni: «Ciò che mi prepara la notte / rospi, neri cani, annegati e altri tormenti». Anche adesso se ne rammentò: quella che dormiva ― o meglio, che era stata costretta a dormire ― nella camera accanto, non rientrava in un certo senso nella categoria degli «annegati»? Questo pensiero non lo faceva decidere neppure ad alzarsi. Non aveva domandato con che cosa avessero fatto dormire la ragazza, comunque sembrava piombata in un sonno d’innaturale incoscienza, e forse aveva una pelle plumbea rovinata dalla droga, le occhiaie profonde, le costole sporgenti, ed era vizza e rinsecchita. O forse era una ragazza gonfia e molle, che mostrava le gengive sgradevolmente macchiate di viola e ronfava. Naturalmente anche il vecchio Eguchi, nei suoi sessantasette anni di vita, aveva trascorso con le donne delle notti squallide. Anzi, erano proprio quelle le più difficili da dimenticare. La bruttezza non stava nel volto, ma in qualcosa che veniva dall’infelice difformità della vita stessa di quelle donne. Alla sua età, Eguchi non voleva aggiungere un altro squallido incontro: a questo pensava, in quella casa, nel momento decisivo. C’è qualcosa di più brutto di un vecchio che si accinge a trascorrere la notte disteso accanto a una ragazza immersa nel sonno al punto da non poter aprire gli occhi nemmeno un momento? Eguchi era forse in quella casa per scoprire fino in fondo la bruttezza della vecchiaia?”
Yasunari Kawabata (1899 ― 1972), oltre all’intrigantissimo, sensuale (ma tenero) “La Casa delle Belle addormentate” (1960), ha scritto molti altri bellissimi romanzi brevi. I miei preferiti sono “La Danzatrice di Izu” (1926), “Il Paese delle Nevi” (1937), “Il Suono della Montagna” (1949), “Mille Gru” (1952).
120. Kazan, Elia: “Il Compromesso”
La sera di mercoledì 2 febbraio 1977 vidi in televisione “Il Compromesso”, un film di Elia Kazan (1909 ― 2003) del 1969. Abitavo ancora coi genitori (li lasciai alla fine di quell’anno), avevo ventisei anni, ero in uno dei periodi più appassionanti e difficili della mia vita, e quel film, anche se il protagonista era invece un quarantenne, mi sembrò pieno di assonanze con quel che stavo vivendo. Fu imbarazzante vederlo coi miei, da un lato per il rapporto del protagonista col padre e la madre ― molto diverso dal mio, ma non meno intenso e difficile ― dall’altro per il suo rapporto con la moglie, che a tutti e tre ricordò il loro benché, naturalmente, facessimo finta di niente. Ma quel che più mi colpì e mi coinvolse fu il rapporto del protagonista con le donne. Solo qualche anno dopo scoprii che Elia Kazan aveva tratto il film da un suo romanzo del 1967 e comprai il libro che vedete nella foto.
Quella sera scrissi: “In questo film le donne hanno quasi tutte un ruolo negativo nella vita di Eddie Anderson: la moglie, Florence, che per mantenere la sua posizione sociale e il benessere economico si finge amorevole e disponibile nei suoi confronti (e forse crede davvero di esserlo) mentre le importa soltanto di continuare a dominarlo; la figlia, identica alla madre; la madre di Eddie, tenera e indulgente ma del tutto passiva, e della quale egli ricorda con angoscia il gesto con cui lo implorava silenziosamente di tacere quando il padre trattava lei e i figli con volgare durezza. Oggi, come l’ha voluto la madre e come lo vogliono Florence ed Ellen, Eddie è un marito, un padre e un dirigente d’azienda così integrato che non si accorge neanche più della propria ipocrisia. Ma incontra una donna, Gwen, che pretende che lui sia sé stesso, non quello che gli altri vogliono che sia, e si innamora di lei. Allora, ben presto, non riesce più a sopportare né il matrimonio né la sua professione di pubblicitario, insincera come tutta la sua vita. Sconvolto, dopo un incidente d’auto che forse è un tentativo di suicidio si riavvicina al padre morente, scoprendo così che quell’uomo, che fino all’ultimo accudisce con affetto, altro non ha saputo trasmettergli che la mancanza d’amore e di rispetto per le donne”.
Fin qui ciò che scrissi nel ’77. Ma nel romanzo c’è qualcosa di più che nel film andò completamente perduto, benché il regista ne fosse anche l’autore, ed è la tendenza al “compromesso” che il protagonista ha ereditato dalla madre: l’incapacità di dire di no, di rifiutare, di andarsene, di togliersi, anche a costo di rimanere solo, dall’unanimità che invece deve sempre essere respinta poiché sempre è fasulla, sempre è distruttiva, sempre conduce a una solitudine ancora peggiore, in cui non si ha più con sé nemmeno sé stessi.
Elia Kazan diresse film come “Un Tram chiamato Desiderio” (“A Streetcar Named Desire”, 1951), “Fronte del Porto” (“On the Waterfront”, 1954), “La Valle dell’Eden” (“East of Eden”, 1955), “Splendore nell’Erba” (“Splendor in the Grass”, 1961) e “Il Ribelle dell’Anatolia” (“America, America”, 1963). “Nel 1952, accusato dal senatore Joseph McCarthy di essere stato un simpatizzante comunista, fece numerosi nomi (undici dei quali erano attori o registi di primo piano, tra cui alcuni dei suoi più stretti collaboratori): tutti finirono nella cosiddetta lista nera di Hollywood, e qualcuno ne ebbe la carriera distrutta o notevolmente rallentata” (Wikipedia). Ma penso che sia giusto ricordare che Kazan, come il protagonista de “Il Compromesso”, era figlio di immigrati greci dall’Impero Ottomano, e che McCarthy potrebbe averlo ricattato minacciandolo di espellerlo dagli Stati Uniti.
121. King, Stephen: “Stand by Me”
“La Nebbia” (1980) è in una raccolta di ventidue racconti di Stephen King (1947 ― vivente) intitolata “Scheletri”, e sùbito mi fa arrabbiare: “Steff era sul sentiero di cemento che porta all’orto all’estremità occidentale della nostra proprietà. Aveva un paio di cesoie in una mano e il rastrello nell’altra. Si era messa in testa il suo vecchio cappello da sole, che gettava una striscia d’ombra sul suo viso. Toccai due volte il clacson, leggermente, e lei alzò la mano con le cesoie in risposta. Ci allontanammo. Da allora non ho mai più rivisto mia moglie”.
Perché Steff, la moglie del protagonista, DEVE morire? Di più: perché deve non “solo” morire, ma la sua morte dev’essere annunciata fin dalle prime pagine? A costo, cioè, di annullare le potenzialità drammatiche che l’incertezza del lettore su quel che le accadrà lascerebbe aperte?
Forse deve morire perché il protagonista resti solo col figlioletto tanto amato, possa incontrare Amanda, far l’amore con lei durante una pausa della mostruosa catastrofe che sta per travolgerli, e infine con Amanda e col figlio salvarsi e rifarsi una vita altrove, lontano da “La Nebbia”? O c’è di più? O STEFF DEVE MORIRE PERCHÉ STEPHEN KING POSSA SCRIVERE?
Detto in altre parole: i romanzi e i racconti di Stephen King (come molta “letteratura” e moltissimo “cinema”) sono forse resi possibili dalle morti che raccontano? Senza di esse non esisterebbero? E, se ciò è vero, sono per i lettori una sorta di equivalente moderno dei “Trionfi della Morte” medioevali?
Poiché, vedete, non è che muoia “solo” Steff. Se morisse “solo” lei, l’unico a ricavarne un mostruoso vantaggio sarebbe il marito. Ma no: nei romanzi e nei racconti di Stephen King muoiono centinaia, migliaia, a volte milioni di donne, di bambini, di uomini. Accade addirittura che muoiano ancor prima che la storia inizi, come se i protagonisti non possano neanche nascere se altri non muoiono. E a molti va bene così. Ormai ci sono abituati. Anzi: se in un romanzo o in un film non muore nessuno, lo trovano ingenuo.
“«Signora, ascolti...» Il ragazzo che aveva gridato contro la signora Carmody la prese per un braccio. Lei abbassò lo sguardo sulla mano e lui la lasciò andare, imbarazzato. Lei entrò nella nebbia. La guardammo andare E NESSUNO DI NOI DISSE NULLA. Guardammo la foschia che la avvolgeva e la rendeva inconsistente, non più un essere umano, ma uno schizzo a inchiostro di un essere umano fatto sulla più bianca carta del mondo, e nessuno disse nulla. Per un momento fu come le lettere del cartello “tenere la destra” che c’erano sembrate galleggiare nel nulla; le braccia e le gambe e i capelli biondi della donna erano tutti scomparsi e rimanevano solo i resti nebbiosi del suo abito estivo rosso, a danzare in un bianco limbo. Poi anche il vestito rosso scomparve, e nessuno disse nulla”.
Io di questo mi sono stancato: di DIRE NULLA mentre donne e bambini e uomini muoiono perché Stephen King e altri come lui possano scrivere libri e girare film per... far trionfare la morte. Lo facessero per soldi, pazienza: ci son sistemi ben peggiori per arricchirsi. Ma lo fanno per il trionfo della morte nelle menti dei lettori e degli spettatori, cioè nel mondo. E io mi sono stancato che nessuno dica nulla. Voglio dire qualcosa, lo sto dicendo. E d’ora in poi lo dirò, forte e chiaro, ogni volta che potrò.
Qualcuno mi trova infantile?... Be’, in tal caso gli dico che ne “La Nebbia” è prevista questa sua adulta reazione: “Da allora quella voce di aspettativa delusa, quella voce di bambino ingannato che non può mai essere soddisfatto da un aggettivo mediocre come «buono», se n’è stata sostanzialmente zitta. E tranne qualche brontolio, come i rumori di quelle creature non viste da qualche parte nella notte nebbiosa, è rimasta così. Forse potete dirmelo voi: perché il silenzio di quella infantile voce esigente deve sembrarmi così simile alla morte?”.
Sì, forse posso dirtelo io, Stephen: poiché le “infantili voci esigenti”, se non ascoltate ― se lasciate sparire “nella notte nebbiosa” come se “notte” e “nebbia assassina” fossero sinonimi ― poi, crescendo, diventano mostruose. Poiché quello che hai ucciso dentro di te, dentro di te continuerà poi sempre a chiederti di uccidere ancora. E di uccidere sempre più.
Possibile?, mi chiedo. Ma io amavo Stephen King. Leggevo agli alunni “Stand by Me” (“Il Corpo”, 1982). Eppure... non è forse da una morte ― e quale morte: quella di un bambino scappato da casa ― che anche “Stand by Me” trae la storia che narra, e sviluppa le vite ― e, di nuovo, le morti ― dei suoi protagonisti?
Non è che Stephen King ce l’abbia coi bambini ― alcuni dei suoi bambini e ragazzi, come Chris e Gordie e Vern e Teddy di “Stand by Me”, sono davvero indimenticabili. E nemmeno con le donne: vi sono donne meravigliose, nei suoi romanzi, e quasi mai sono proprio loro che muoiono. Né si può dire che ce l’abbia coi tipi in gamba, o viceversa con gli inetti, o coi malvagi... No. Stephen King non ce l’ha con alcuno: ha solo bisogno, perché una storia possa dipanarsi dalla sua penna, che tantissima gente ne muoia, e che alcune morti (non importa di chi) siano molto... significative?... foriere di chissà quali conseguenze?... No, anzi: molto casuali, inopinate, “ingiuste”. Nei romanzi di King, come nei campi di sterminio, si muore quasi sempre “a caso”, tanto per morire. Per fare quel tot di morti quotidiane (narrate in ogni minimo dettaglio, affinché si imprimano nelle nostre menti) senza le quali... la vita potrebbe sembrarci bella.
Senza le quali, LA VITA POTREBBE SEMBRARCI FONDATA SULLA VITA DEGLI ALTRI.
La vita di ognuno, o rimane umana fondandosi sulla vita e sull’umanità di ogni altro, oppure si fa disumana sulla disumanizzazione e la morte altrui, diventando una vita che “viene” da chi le morti le causa, dalle “divinità” assassine che decidono chi muore e chi sopravvive.
Prendo un altro romanzo che un tempo mi piacque, “Cose preziose” (1991-1992), mi immergo nella lettura in cerca di conferme o smentite e... anche qui, puntualmente, la storia non potrebbe nemmeno iniziare se Annie e Todd, la moglie e il figlio dello sceriffo Alan Pangborn, non fossero morti in un incidente automobilistico. Poiché, se non fossero morti, Polly Chalmers non potrebbe dire ad Alan Pangborn (che due anni dopo si sta innamorando di lei): “Mi impedirò di allentare anche minimamente le briglie, Alan, finché non imparerai a lasciare Annie e Todd riposare in pace”.
Vi sembra ovvio? State pensando che i morti debbono essere lasciati... be’, “riposare in pace” è una scemenza superstiziosa, diciamo che debbono essere lasciati e basta? Lo penso anch’io. Ma allora perché scrivere storie in cui gli amori non potrebbero neanche iniziare, se prima non ci fossero morti da imparare a lasciare?... E notate quell’“imparare”, appunto. I morti, nei romanzi e nei racconti di Stephen King come in tanti altri dell’ultimo secolo, come in tanti film, e come nei “Trionfi della Morte” medioevali, hanno una funzione pedagogica, didattica. Quei morti servono, sono utili: non tanto a costruire storie coi loro cadaveri (benché anche a questo, certo, ed è già una gran vergogna), quanto soprattutto a costruire nelle nostre menti un edificio di “pensiero” patologico fondato sulle morti altrui: il “pensiero” patologico, folle, che noi ci siamo, esistiamo, siamo vivi, e che le nostre storie vanno avanti, “grazie” al fatto che i morti sono altri e non noi.
Ma i morti non dovrebbero servire. Non dovrebbero avere alcuna utilità pratica o ideologica (né “sentimentale”: l’utile malinconia che fa sentire vivo chi di malinconia crede di poter vivere). No, niente che serva: solo il rito, solo umano, che rappresenta la memoria ch’è solo umana.
Mentre qui, in King e non solo, i morti servono. E come. Tanto che ci stiamo abituando a credere che senza morti non ci sia letteratura, né cinema, né arte... Per arrivare a credere che senza morti non ci sia vita? Che senza morti non ci siamo noi? E questo “senza che nessuno dica nulla”? No, basta: io dico qualcosa.
Dico che questo, nella “letteratura” e nel “cinema” contemporanei (tra virgolette poiché, se quel che sostengo è vero, non di arte stiamo parlando, ma di pubblicistica antiumana) è NAZISMO. Uccidere tanto per uccidere? Non precisamente. Uccidere, io dico, allo scopo (nazista) di “unire” i sopravvissuti con un vincolo che non sia più quello umano, che unisce l’un l’altro tutti i nati di donna, ma col vincolo mostruoso, appunto, di essere i sopravvissuti. Non i nati di donna, ma i lasciati vivere. Uccidere affinché il “vincolo” dei sopravvissuti prenda il posto del vincolo umano e lo snaturi, tramutandolo in un mostruoso tirare avanti “insieme” come scarafaggi. Uccidere affinché i sopravvissuti diventino creature di Dio. Affinché il Dio sia l’Assassino che (per ora) non li ha uccisi. Affinché i sopravvissuti non siano più i figli di una donna e di un uomo, ma le creature di un Dio assassino che (per ora) li preferisce agli uccisi.
Dico, cioè, che le morti ALTRUI sono la base e il fondamento non solo dei romanzi di Stephen King, ma di tutte le fedi religiose e dei nazismi che da esse derivano. E la base e il fondamento di quella “letteratura” e di quel “cinema”, horror o d’altro genere, che mirano a persuaderci che siamo vivi poiché i morti sono altri. Poiché i morti sono loro. Poiché LORO sono morti, mica noi.
122. Krakauer, Jon: “Nelle Terre Estreme” e “Aria Sottile”
LA BIBLIOTECA FA UNA PAUSA DI UNA DECINA DI GIORNI per darmi modo di finire di rileggere David Herbert Lawrence. Ma prima voglio completare la lettera K...
“Nelle Terre Estreme” (“Into the Wild”, 1996) e “Aria Sottile” (“Into Thin Air”, 1997), di Jon Krakauer (1954 ― vivente), non sono romanzi: sono storie vere. Tuttavia, poiché non si limitano a raccontarle ma cercano con passione e intelligenza di comprendere la realtà umana dei loro infelici protagonisti, attingono ― mi sembra ― quel significato universale che è proprio delle opere d’arte. Si rivolgono, cioè, a tutti noi, e inducono a pensare che ci riguardino anche se noi, diversamente dai protagonisti, non le abbiamo realmente vissute.
“Nelle Terre Estreme” si basa sul diario di Chris McCandless, che nell’aprile del 1992 “s’incamminò nell’immensità dell’Alaska, deciso a lasciare la civiltà per abbracciare la natura”, e perì nel tentativo. In uno dei libri trovati vicino a lui era evidenziato questo brano di Tolstoj: “Volevo il movimento, non un’esistenza quieta. Volevo l’emozione, il pericolo, la possibilità di sacrificare qualcosa al mio amore. Avvertivo dentro di me una sovrabbondanza di energia che non trovava sfogo in una vita tranquilla”.
Un altro passaggio evidenziato era in “Walden, ovvero la Vita nei Boschi”, di Thoreau: “Nessun uomo seguì mai il suo genio tanto da esserne sviato. Sebbene l’esito fosse la debolezza fisica, nessuno può dire che ciò fosse da compiangere, poiché conseguiva da una vita condotta secondo princìpi più alti. Se il giorno e la notte sono tali che voi li salutate con gioia, e la vita umana emana una fragranza come fiori ed erbe profumate, il vostro successo sarà più agile, colmo di stelle e immortale. La natura si congratula con voi, e voi, momentaneamente, avete occasione di benedirvi. I guadagni e i valori più grandi sono ben lungi dall’essere apprezzati. Facilmente giungiamo a dubitare che essi esistano. Essi sono la realtà più alta. [...] Il vero raccolto della mia vita quotidiana è qualcosa di non meno intangibile e indescrivibile dei colori del mattino e della sera. È un po’ di polvere di stelle afferrata ― un segmento di arcobaleno che ho preso con una mano”.
E un terzo da “Il Dottor Zivago”, di Pasternak: “D’un colpo, ogni cosa è mutata, il tono, l’aria, non si sa che pensare, chi ascoltare. Quasi che per tutta la vita ti abbiano condotto per mano come una bambina [è Lara che parla] e a un tratto ti abbiano lasciato: impara a camminare da sola. E non c’è nessuno intorno, né amici né autorità costituite. Allora ci si vorrebbe poter affidare all’essenziale, alla forza della vita o alla bellezza o alla verità, perché esse, e non le autorità umane ormai travolte, ti dirigano in modo sicuro e senza riserve più di quanto avveniva nella solita vita di sempre, ora tramontata e lontana”.
“Aria sottile” inizia invece con un’epigrafe da José Ortega y Gasset che sarebbe stata forse inappropriata per Chris McCandless (“Gli uomini mettono in scena delle tragedie perché non credono nella realtà di quella rappresentata nel mondo civile”), ma non per coloro che muoiono scalando l’Everest. Dall’introduzione di Krakauer: “Nel marzo del 1996, la rivista ‘Outside’ mi inviò in Nepal per partecipare a una spedizione guidata che doveva scalare il monte Everest e per scrivere un servizio sull’impresa. Ero uno degli otto clienti del gruppo condotto da Rob Hall, una nota guida neozelandese. Il 10 maggio raggiunsi la cima della montagna, ma la conquista della vetta richiese un prezzo terribile: fra i miei cinque compagni di spedizione che riuscirono ad arrivare in cima, quattro, compreso Hall, morirono nel corso di una tormenta insidiosa che ci investì senza preavviso mentre eravamo ancora nella parte alta della montagna. [...] C’erano parecchie ragioni per non andare lassù, ma tentare di scalare l’Everest è un atto irrazionale di per sé, un trionfo sul buonsenso. Chiunque consideri seriamente questa idea si colloca quasi per definizione al di fuori della possibilità di valutarla razionalmente. La verità pura e semplice è che sono salito sull’Everest pur sapendo di sbagliare, e così facendo ho contribuito alla morte di tante brave persone, cosa che probabilmente mi peserà sul cuore per molto, moltissimo tempo”.
123. Lawrence, David Herbert: “Romanzi e Racconti”
1.
Il primo e il terzo romanzo di David Herbert Lawrence (1885-1930), “Il Pavone Bianco”, del 1911, e “Figli e Amanti”, del 1913 (il secondo, “Il Trasgressore”, non ho ancora potuto leggerlo), e i più belli tra i racconti che egli scrive tra il 1907 e il 1914, contengono, “cifrata” ma ben riconoscibile, l’epoca più vivida della storia immaginaria e reale che egli narrerà, in forme diverse, per tutta la sua breve vita: il rapporto col padre e soprattutto con la madre, l’adolescenza e la giovinezza, i due grandi amori che precedono il dirompente incontro con Frieda von Richtofen, le profonde amicizie maschili, e frattanto la nascita delle sue idee sugli esseri umani e sul rapporto uomo-donna: le idee che attraverso il rapporto con Frieda e la Grande Guerra diventeranno in lui così potenti da tramutarsi in una fede.
Parlando dei suoi primi venticinque anni è difficile sopravvalutare l’importanza della madre di Lawrence, Lydia Beardsall (1851-1910), nella sua formazione. “È per un insolito desiderio della madre, che prima del matrimonio è stata maestra elementare, che Lawrence evita di seguire la strada comunemente presa dai figli dei minatori” (Ornella De Zordo). Dalla madre, forse ancor più che dall’amata sorella Lettice e dalle ragazze di cui s’innamora, egli attinge la femminilità ― la sensibilità, la delicatezza, l’attenzione, la forza d’animo, la resistenza al dolore ― che lo rende così speciale come uomo. Il periodo che va dal primo racconto, “Un Preludio”, del 1907, fino a “Figli e Amanti”, del 1913, diviso esattamente a metà dall’immenso lutto della sua morte, è il periodo in cui il rapporto con lei è uno dei temi fondamentali delle sue opere non meno del rapporto con la sorella e le ragazze; e allo stesso tempo è il periodo in cui egli si sottrae definitivamente alla profonda religiosità materna convertendola in una “religione” dell’umanità.
In quegli stessi anni, insieme alla convinzione che il romanzo sia “l’unico strumento in suo possesso atto a promuovere il radicale rinnovamento dei modi dell’esistere e del sentire che è per lui il fine ultimo della creazione letteraria” (De Zordo), prende forma in Lawrence il pessimismo (rafforzato dalla capitolazione del socialismo europeo alla Grande Guerra, che egli considera la maggiore colpevole della disumanizzazione novecentesca) riguardo alla possibilità di rendere il mondo migliore con l’azione sociale e politica (come nel racconto “La Mosca nel Miele”, il cui protagonista riconosce con amarezza la propria impotenza di fronte al potere della realtà sociale di cambiare lui in peggio e di allontanarlo dalla donna contaminando, come una mosca nel miele, l’intrinseca dolcezza della vita). La lotta di classe ― il conflitto, per esempio, tra i rozzi minatori come suo padre e i padroni delle miniere ― non ha evitato né la guerra né la definitiva vittoria postbellica della bramosia di denaro su ogni sentimento umano: solo il rapporto uomo-donna può cambiare il mondo in meglio (o in peggio, se fallisce). Ma esso è così conflittuale ― benché sia irrinunciabile, o la vita non avrebbe alcun senso ― che è destinato a fallire, se l’uomo non si sottomette alla donna e la donna all’uomo in modo quasi mistico, benché del tutto umanamente fisico e psichico.
Dal racconto “Un Amante moderno”: “«La vita, vedi, non è buona che per viverla... Ma non la si può vivere da soli. Si deve avere una pietra focaia e un acciarino perché ne escano delle scintille. Supponiamo che tu sia la mia pietra focaia, la mia pura pietra focaia, che sprizzi rosso fuoco per me». [...] «La vita [...] è bella finché consuma. Quando scorre dentro, distruggendo, la vita è magnifica. È meglio consumarsi dando una bella fiamma, come un fuoco che arde violento fino all’ultimo. Quando si produce solo una piccola fiamma e si risparmia il combustibile, la vita non merita di essere vissuta»”. Attenzione, però: non sta parlando di chissà quali eccessi e sfrenatezze, ma soltanto del sesso ― il cosiddetto “amore” non lo convince, almeno nell’accezione comune ― tra la femmina e il maschio della specie umana. A condizione che sia umano davvero: puro desiderio il cui solo fine è il gioioso piacere che dà! Soltanto dal rapporto sessuale, e soltanto se vissuto “religiosamente” fin quasi a perdersi l’uno nell’altro, può scaturire una reciproca comprensione autentica, non astratta, non intellettuale; e poi autentica poesia, autentica arte, autentica bellezza, autentica socialità.
Ma è una realizzazione lunga e difficile, e le forze che le si oppongono, nell’uomo, nella donna e intorno a loro, sono tanto più potenti quanto più fanno leva sulla tendenza di ambedue ad adeguarsi e rassegnarsi al modo di vita dei più.
Ne “Il vecchio Adamo”, bellissimo e tristissimo racconto, un gioioso rapporto uomo-donna potrebbe iniziare tra il giovane Severn ― “un uomo che dava tenerezza, ma per sé non la chiedeva” ― e Kate, la cameriera dei coniugi dai quali Severn è a pensione ― “i suoi begli occhi grigi guardano provocanti, quel colorito caldo, i capelli neri annodati mollemente all’insù, accrescono la sensualità della sua bocca”, e dopo aver scambiato con lui poche parole “rimane per qualche attimo coi pugni stretti, dominando la sua ribellione”. Ma Severn è invece attratto dalla padrona di casa, la signora Thomas, che ha licenziato Kate (“è l’ultima sera che sta qui”) perché la sente superiore a lei come donna: così attratto che per compiacerla le dice, in privato, che Kate “è una megera”. La signora Thomas accetta la sua corte, gli fa capire che il marito è per lei solo un tormento ― “fa con la mano un gesto disperato; Severn la osserva con attenzione; gli sembra pateticamente depressa e stordita; ha otto anni più di lui” ― e il giovane, poco dopo, quando il signor Thomas rincasa, finisce per avere con lui uno scontro fisico violento e tuttavia grottesco, in capo al quale, non riuscendo a fermarsi, giunge quasi a strangolarlo. Ma chi evita la tragedia non è la moglie ― che impietrita guarda la scena “attraversando l’amaro terreno del pentimento” [...]: d’ora in poi è morta, per quel che concerne il desiderio, e da questa tortura trae una gioia feroce” ― bensì è Kate, che si era ritirata per la notte: “«Cosa vuol fare?» grida a Severn, sconvolta dall’indignazione, in camicia da notte, le trecce nere che pendono perpendicolari, curva sui due uomini”. E Severn “lascia la presa, nasconde la faccia”. Ma niente cambia: “Fino alla fine di questo periodo, lui e Thomas si comportano da intimi amici, estremamente gentili l’uno con l’altro. La signora Thomas, con Severn, è solo educata, convenzionale: lo tratta come un estraneo. E Kate, il cui destino è stato deciso dai suoi «superiori», esce dalle loro tre vite”.
È già evidente, ne “Il vecchio Adamo”, e lo sarà in ogni altra opera di Lawrence, che per lui non c’è umanità nell’uomo senza la donna (purché sia come Kate e non come la signora Thomas). Ed è evidente, già in questi primi racconti, la sua comprensione del rapporto uomo-donna, tanto più notevole se si considera che la psicologia del tempo è dominata dal positivismo meccanicistico, dall’hegelismo di Freud e dal misticismo di Jung, cioè da una corale incomprensione della sessualità umana.
Ne “La Strega alla Moda” il giovane Bernard, diviso tra due ragazze ― Winifred, da cui è attratto irresistibilmente e che però non lo vuole, e Constance, che lo vuole ma non lo attrae ― cerca di lasciar decidere il proprio inconscio: di non avere, contro l’inconscio, il benché minimo “libero arbitrio” (sì, questo bellissimo racconto risolve definitivamente la millenaria disputa tra chi afferma che siamo liberi e chi lo nega, oggi rinverdita ― si fa per dire ― dalla cosiddetta “scoperta” che le nostre decisioni sono già prese qualche decimo di secondo prima che ce ne rendiamo conto): “Tutte queste concessioni ai propri desideri Bernard le fa contro coscienza. Ma il suo cuore, sotto il senso di vergogna, esulta”. In ritardo all’appuntamento con Constance, la fidanzata, “lo addolora darle questo dispiacere. E tuttavia lo fa, e intenzionalmente”. Ma di fatto non riesce ad abbandonarsi al desiderio per Winifred... abbandonando Constance: “Si va avanti... si resta in carica, per così dire; la vita va avanti...” dice a Winifred. “Solo che non c’è più niente che abbia importanza. [...] Dico a me stesso: «Desidero...», ma qualcosa mi dice: «Non desidero proprio niente». Dico di nuovo: «Desidera, sciocco», ma quanto a desideri sono muto come una lucertola. E allora, siccome la cosa mi spaventa alquanto, mi sbrigo a cavarmela con un «Desidero un milione»”.
Non vi dico come va a finire. Vi dico solo che Bernard, involontariamente, per un soffio non le dà fuoco, alla “strega alla moda” che lo attrae ma non lo vuole: “Winifred lo angoscia, lo ferisce in modo mortale; con la fidanzata, però, è falso...”
A poco a poco, di racconto in racconto e poi di romanzo in romanzo, capiremo che il conflitto tra l’uomo e la donna e tra la donna e l’uomo, e tuttavia l’impossibilità, per ambedue, di vivere come se la donna non sia tutto per l’uomo e l’uomo non sia tutto per la donna, è per Lawrence non “solo” la suprema realtà della condizione umana, ma né più né meno quel che rende umani sia la donna sia l’uomo.
Da “Nuova Eva e vecchio Adamo”: “«Non scacciarmi, Peter, quando vengo a te». «Tu non vieni a me» risponde lui, con ostinazione. «E cosa faccio, allora?» chiede lei. «Mi tratti come se io sia un pezzo di torta, che puoi mangiare quando ne hai voglia. Conosco la curiosa piccola inquietudine nei tuoi occhi che vuol dire che stai cercando di sottomettermi per poi scacciarmi di nuovo: ogni volta che appare, devo resisterti. «Tu... non sai amare» ribatte lei. «Io mi riverso tutta verso di te, ma in quel momento... non trovo niente... semplicemente, tu non ci sei»”.
E da “Una volta”: “Resto là a giacere domandandomi se anch’io non finirò per trovarmi in balìa di Anita, a sua disposizione come il borsellino e il profumo e i piccoli dolciumi che predilige, ficcati in una delle sue tasche. Sarebbe quasi delizioso se così accadesse. Una sorta di voluttà mi incalza a lasciarmi possedere da lei, a consentirle di fare di me quello che vuole. Sarebbe così bello. Ma io l’amo: non sarebbe leale nei suoi confronti. Voglio fare anche qualcos’altro, e di più, che darle soltanto piacere”.
Contemporaneamente emerge, ne “L’ufficiale prussiano”, l’avversione di Lawrence per l’omosessualità. Non per moralismo, ma appunto perché la vede come una rinuncia al rapporto uomo-donna, cioè all’umanità. In questo terribile, angoscioso racconto, per esempio ― che si direbbe ispirato dall’immortale “Billy Budd” di Melville e ispiratore, a propria volta, di “Riflessi in un occhio d’oro”, della scrittrice Carson McCullers ― la violenta attrazione dell’ufficiale per l’attendente non è amore, è odio: l’odio di un uomo, troppo razionale e controllato per poter amare, contro un ragazzo che “sembra vivere pienamente la sua natura calda e piena, esprimerla in ogni suo gesto, che come la corsa di un animale selvaggio non manca mai di un certo slancio”, e che per questo è immensamente amato da una ragazza che vive in una vicina fattoria: “Suo malgrado, il Capitano non riesce a ritrovare l’imparzialità di sentimento verso l’attendente né a lasciarlo in pace. Suo malgrado lo guarda, gli dà ordini secchi, tenta di impegnarlo quanto più possibile. A volte viene preso da un accesso di rabbia e gli fa subire ogni sorta di vessazioni: allora l’attendente si chiude in sé, come se non senta, e aspetta, con volto cupo e accaldato, che la sfuriata passi”. [...] Il soldato e la fidanzata, “una ragazza di montagna, primitiva e indipendente, fanno lunghe passeggiate, spesso in silenzio: lui va con lei non per parlare, ma per tenerla abbracciata, per il contatto fisico. Questo lo calma, gli rende più facile ignorare il Capitano: quando la tiene stretta a sé riesce a calmarsi. [...] Il Capitano lo ha intuìto, ed è folle di rabbia. [...] Tenta disperatamente di negare la passione di cui è preda. Non ammette che il sentimento verso l’attendente sia altro che il sentimento di un uomo provocato da un servo stupido e perverso...”
Simile, benché eterosessuale, è l’attrazione del signor Massy per la ventitreenne Mary, una delle “Figlie del Vicario”. “Il signor Massy non ha normali capacità di percezione. Ben presto tutti si accorgono che manca dell’intera gamma dei sentimenti umani e si affida unicamente al pensiero, forte e filosofico. Il suo corpo è qualcosa di irrilevante, mentre l’intelletto è qualcosa di ben definito. La conversazione, quando vi partecipa, prende subito un tono equilibrato ma astratto. Mai un’esclamazione spontanea, una asserzione decisa, un’espressione di personale convincimento: solo affermazioni fredde e piene di raziocinio”. [...] “La sua cortesia, le sue attenzioni, quasi spaventano Mary. Se ne sente onorata, ma allo stesso tempo vorrebbe rifuggirne. Poiché il signor Massy sembra non rendersi conto dell’essere umano a cui le sta rivolgendo: lo fa come per una specie di risoluzione matematica, partendo da una situazione data e arrivando alla soluzione più corretta. [...] La sua religiosità consiste in ciò che approva la sua mente scrupolosamente astratta”. [...] “Sposandolo, Mary cerca di diventare puro raziocinio, come lui, senza sentimenti o impulsi. [...] Decide di non provar più sentimenti, e non li prova più. È pura volontà sottomessa a lui. [...] Si è liberata del corpo. Ha barattato qualcosa di vile, il corpo, per qualcosa di più nobile, la libertà dalle cose materiali”. [...] Ma il maschio che c’è in lui è freddo, chiuso e totalmente tirannico. Mary non se lo sarebbe aspettato, da un essere così debole e misero. [...] E si rende conto che si sta assassinando: dopo tutto non è così semplice sbarazzarsi del corpo...”
Da “La Spira mortale”: “«La mia carriera è la mia vita» dice lui. «Oh, davvero? Allora non sei un UOMO, sei solo una carriera» ribatte lei.”
Nessun altro scrittore precedente o contemporaneo vede il rapporto tra l’uomo e la donna e tra la donna e l’uomo come un’intesa e un conflitto che sia per lui sia per lei è l’unica alternativa all’insensatezza e alla disumanità.
E veniamo ai primi romanzi.
Vi accennavo che la bellezza de “Il Pavone bianco” (1911) e di “Figli e Amanti” (1913) scaturisce dal fatto che l’uomo-e-scrittore Lawrence (in lui son la stessa cosa, e proprio questo è il suo fascino umano-letterario) è ancora in formazione: sono ancora di là da venire le asprezze che lo renderanno più forte e insieme più fragile nella seconda metà della sua vita. In ambedue i romanzi, perciò, il giovane che vediamo immerso nel bel paesaggio dell’Inghilterra rurale dei primi anni del ’900 e in un’età della vita non meno bella, l’adolescenza di ragazze e ragazzi che credono finite per sempre le guerre in Europa, è un giovane che sente nei rapporti umani quel ch’è più importante nella vita, che ama ardentemente i famigliari, gli amici, le amiche, e che cerca di capirli e di descriverli come se essi rappresentino... tutti, cioè la condizione umana.
I personaggi principali de “Il Pavone bianco” sono: l’indimenticabile Lettie, sorella del narratore (quale miglior occasione per dirvi che le protagoniste di Lawrence sono tra le più amate della storia della Letteratura dal loro autore, e che di esse è impossibile non innamorarsi?); George, amico carissimo del narratore; Emily, sorella di George, amata dal narratore; e Cyril, il narratore. Sentite qualche riga e fatevi un’idea:
“Lettie esegue per George ‘Bevi per me solo con i tuoi occhi’ [‘Drink to me only with thine eyes’, è una canzone del XVII secolo ma potete trovarla su YouTube cantata da Johnny Cash: quasi tutte le canzoni citate da Lawrence nei primi romanzi sono sul web]. Poi si volta e gli chiede se gli piacciano le parole. Egli risponde che le trova piuttosto sciocche. Ma la guarda, con i suoi scintillanti occhi castani, quasi in una sfida titubante. «Questo perché non hai negli occhi alcun vino per brindare» ribatte lei, rispondendo a quella sfida col fulgore azzurro dei propri occhi. Poi le sue ciglia calano sulle guance. Egli ride, ma con una vaga nota di imbarazzo, e le domanda come faccia a saperlo. «Perché» gli dice, adagio, alzando gli occhi verso di lui con ostentato disprezzo, «nulla muta nei tuoi occhi quando ti guardo»”.
In realtà George, contadino benestante ma non ricco, è innamoratissimo di Lettie. Ma non riesce a conquistarla. E lei VORREBBE che la conquisti, ma non sa come imporgli di riuscirci. Sposerà lui o Leslie, che anch’egli l’ama ed è ricchissimo? E Cyril riuscirà ad avere con George un rapporto di amicizia così profondo da aiutarlo a non perdersi? E corrisponderà o non l’amore di Emily? Lascerò che lo scopriate da soli...
Lettori maschi, vi siete innamorati di Lettie? No? Allora sentitela dire a George anche questo: “Solo quando tu sia fanciullesco potrai essere un uomo degno di rispetto. Chi è soltanto uomo non s’arrischia a essere fanciullo per paura di precipitare dalla propria dignità virile e di diventare quindi uno sciocco, poveraccio”.
George è innamoratissimo, dicevo, ed è quel tipo di maschio del tutto “naturale” ― quasi rozzo nelle idee e nel modo di vivere, e però sensibile, generoso e acuto nei rapporti umani ― che per Lawrence è l’uomo ideale, l’uomo che la sua femminilità profonda ama, e che perciò non può non far conoscere alle sue protagoniste. Ma non è colto (diversamente da protagonisti simili, come il guardiacaccia Mellors amante di Lady Chatterley). Mentre Lettie lo vorrebbe tale, e gli parla di musica, di poesia, di pittura, di scultura, e cerca di fargli vedere quanta poesia c’è in ogni cosa, se la si guarda con occhi “fanciulleschi”, nei quali vi sia “del vino con cui brindare”. E George non rimane affatto insensibile: “Sono idee nuovissime, per lui: sono quasi una scossa, per la sua immaginazione”...
“«Per Giove, Ciryl, non sai che significhi essere innamorati. Non pensavo mai... non avrei creduto di diventare così. Quando non l’hai a fior di sangue, la hai nel profondo: ‘la Ragazza, la Ragazza!’». Fissa il fuoco. «Te ne senti incalzato, incalzato di continuo. Non ti lascia mai un momento di requie». Di nuovo scivola nella riflessione. «Poi a un tratto ti ricordi come lei ti ha baciato, e tutto il sangue ti ribolle e t’avvampa»”.
“Tutta la nostra vita l’abbiamo vissuta tra i boschi e l’acqua, Lettie e io” racconta suo fratello, “e lei ha sempre cercato la nota gioiosa di ogni cosa. [...] Ma poi ha cominciato ad accorgersi dei gridi crudeli e miserevoli del riccio preso in una tagliola, si è accorta delle trappole [...]. Il sole ama Lettie, ed è restio a lasciarla. [...] Pian piano lei scivola nel sonno. Allora ridiventa meravigliosamente infantile: la ragazza di diciassette anni, appena socchiuse le labbra piene e imbronciate, lieve lo scorrere del respiro. E io sento il vecchio senso di responsabilità: debbo proteggerla, e aver cura di lei”.
Troppi sentimenti, troppa ingenuità? Ma se il ’900 non li avesse perduti, come sarebbe il mondo di oggi?
George e Cyril, e in fondo anche Leslie, sono ragazzi che ascoltano le ragazze. Lettie ed Emily sono ragazze che hanno moltissimo da dire. E noi sentiamo, pagina dopo pagina, con gioia e profonda inquietudine, che da questo tempo della vita di ognuno e dal non farne scempio dipende, pur tra i mille problemi che le ragazze creano ai ragazzi e i ragazzi alle ragazze, la sopravvivenza dell’umanità: “Penso a quando il mio amico non seguirà più l’erpice sul fianco della nostra valle appartata, a quando la stanza di Lettie accanto alla mia sarà chiusa per nascondere il proprio vuoto, non la propria gioia, e il mio cuore si lega con passione alla conca che ci racchiude tutti: non potrei sopportarne l’abbandono!”
Perché “Il Pavone bianco”? Cosa significa questo titolo?
Racconta Cyril: “È all’incirca il tempo in cui coltivo la conoscenza del guardacaccia, Annable. Tutti lo odiano: per la gente dei villaggi è come un diavolo dei boschi. [...] Su di me, però, egli esercita una grande attrattiva: il suo fisico magnifico, la sua vigoria e vitalità intensissime, il suo viso bruno, cupo, mi attirano. È uomo di un’unica idea: ogni forma di civilizzazione non è che un colorato fungo di marciume. [...] È un materialista assoluto: si fa beffe della religione e di ogni misticismo. [...] Quando pensa, riflette sulla decadenza dell’umanità; sul declino della specie umana che affonda nella stupidità e nella fiacchezza e nella corruzione. «Sii un buon animale, conforme al tuo istinto animale» è il suo motto. Ciò nonostante è in fondo assai infelice: e rende afflitto anche me”. Quando Cyril vede il pavone bianco, Annable, sopraggiunto allora, dice una cosa orribile: “È l’anima di una donna... o il demonio. [...] Dannata bestia, avrei voglia di torcerle il collo. [...] Donna fino al midollo, te lo dico io, tutta vanità e gracchii e sozzura”. C’è una tremenda storia d’amore infelice, dietro queste parole. Una storia da cui il guardacaccia non si è mai ripreso: “Adesso è morta” dice. “E in certo qual modo mi sento come se sia finito anch’io. Credevo di essermi trasformato in un uomo maturo, solido, ed ecco che soffro come quando avevo ventisei anni, e parlo come allora”. [...] “Così non c’è più...” mormora Cyril. “Il tuo povero pavone!” “Credo” dice Annable “che non sia stata tutta colpa sua”. “Chiamiamola un pavone bianco” suggerisce Cyril.
Un romanzo così bello fin quasi all’ultima pagina, addirittura intollerabilmente bello, e invece alla fine intollerabilmente disperato: le donne, Lettie, Emily, “trionfano”, ma attraverso dei matrimoni che mettono fine alla loro realizzazione; e gli uomini, se non si rassegnano anche loro a una vita convenzionale, hanno due possibilità: una lenta distruzione o una totale solitudine. È la devastante rottura del ’900 con le speranze create dall’800: la devastazione che anche Lawrence, sebbene continui a resisterle fino alla morte, subisce ne “Il Pavone bianco” e in “Figli e Amanti” finendo per convincersi che le ragazze come Lettie ed Emily siano state un sogno meraviglioso da cui non si può che svegliarsi per... che cosa? Come saranno l’amore e il conflitto uomo-donna, pur sempre irrinunciabili, nel tempo orrendo del ’900?
Lo vedremo. Ma prima parliamo ancora un po’, leggendo “Figli e Amanti” (1913), di quel che il ’900 ci ha tolto...
In “Figli e Amanti” (1913), che torna indietro nel tempo de “Il Pavone bianco” e ne fa un racconto diverso, Cyril si chiama Paul, Emily si chiama Miriam, e il romanzo è la storia (intrapresa, questa volta, fin da ben prima delle loro nascite) della loro infanzia, della loro adolescenza e del loro amore.
Quel che fa di Paul il ragazzo che s’innamora di Miriam e di cui Miriam si innamora, è la lotta piena d’amore e d’odio tra il mondo della madre e il mondo del padre, cioè tra il ’900 e l’800, e il suo rapporto con loro.
“Morel [il padre di Paul e dei suoi fratelli] mangia da solo come una bestia; bevendo e masticando fa più rumore di quel che sia necessario. Nessuno gli rivolge la parola. Al suo avvicinarsi pare che la vita della famiglia si ritragga, irrigidendosi nel silenzio. Ma egli non si cura di questa sua solitudine. Appena ha finito si alza, mostrando una gran fretta di andarsene. Ed è appunto questa fretta che urta la signora Morel. Sentendolo sguazzare con foga nell’acqua fredda e udendo stridere frettoloso il pettine d’acciaio contro la catinella mentre si inumidisce i capelli, chiude gli occhi disgustata. Perfino il gesto con cui si china ad allacciarsi gli stivali denota in lui una volgarità che lo rende estraneo al resto della famiglia, seri come sono tutti e riservati”
“Egli agisce sulla sensibilità dei figli come un corrosivo, nel periodo critico della loro adolescenza. Si comporta a casa nello stesso modo che fra i minatori, giù nel pozzo. [...] Ma talora pare accorgersi dell’odio sprezzante che i figli nutrono per lui: «Non c’è uomo che lavori più duro per la sua famiglia» grida, «e per tutta ricompensa sono trattato come un cane!»” Alla moglie “viene da ridere, guardandolo; ma sente dentro un’amarezza, perché l’ha amato”. “Egli non si rende conto che lei è più indulgente perché lo ama meno”. “E quel che più le duole è appunto l’impossibilità di amarlo anche quando egli le ridesta le più forti emozioni”. “Tutti i figli, e soprattutto Paul, tengono dalla parte della madre contro il padre”. “Egli è ormai un estraneo fra loro. Ha rinnegato il Dio che era in lui”. “E l’ambizione infantile di Paul era di rendere felice la madre”. Ma “il ballo è sempre causa di grandi contrasti fra madre e figlio. [...] Il timore ch’egli segua la china paterna l’angustia”.
Quando Paul conosce Miriam (che, ricordiamolo, ne “Il Pavone bianco” era Emily) è naturale che s’innamori di una ragazza di cui i fratelli dicono: “Non sa far nulla, lei. Recita le poesie, ecco”.
Miriam che “teme che Paul veda in lei solo la contadina e non s’accorga della principessa”. Che “inorridisce per la volgarità delle altre ragazze”. Che “trema d’angoscia, ogni volta che qualcosa viene a turbare la sua perenne fantasticheria”. Miriam, sicura che “il sapere sia l’unica distinzione a cui aspirare”.
Miriam, però, è simile alla madre di Paul (o del resto non gli piacerebbe così tanto): “si accorge che potrebbe amarlo quando, saputo che è malato, lo immagina debole, fiacco, e che allora sarà lei la più forte. Quanto lo amerebbe se potesse dominarlo nella sua debolezza, se potesse prodigargli tutte le cure in modo che egli dipenda soltanto da lei; se potesse, insomma, tenerselo fra le braccia!” È l’eterno spauracchio dei protagonisti di Lawrence: le donne che s’innamorano perdutamente solo degli uomini che possono plasmare, cambiare, e dei quali sentono di poter fare quel che vogliono.
Per questo la signora Morel spera che Paul si disamori di Miriam (benché si guardi dal premere su di lui in tal senso, forse perché lo ama con generosità o forse perché è certa che il figlio sentirà lo stesso la sua disapprovazione ): poiché Miriam è come lei, e come lei vorrebbe Paul completamente suo. E poi perché si accorge, la signora Morel, che in casa di Miriam si respira un’aria del tutto diversa da quella di cui lei ha permeato la propria, e che Paul è attratto da quella ragazza non solo perché le somiglia, ma anche e forse soprattutto perché NON le somiglia. “La madre di Paul è rigorosamente logica. Lì, invece, tutto assume un valore quasi mistico, c’è un che di strano, di diverso, che lo penetra di un fascino sottile e che allo stesso tempo, talvolta, gli ripugna”.
“Gradatamente, la ragazza cerca di attirarlo a sé. Quando Paul porta il suo album di disegni, è sempre Miriam che medita di più sull’ultimo lavoro. Poi alza lo sguardo su di lui e improvvisamente, i grandi occhi scuri accesi come acqua che rifletta una lama di luce d’oro nel buio, domanda: «Perché mi piace tanto?» E in lui, sempre, qualcosa si ritrae davanti a quello sguardo incantato così intimo e vicino”. “Dovresti sposare un uomo che ti adori, tu!” le dice. “Non posso DARMI a te” le dice. Ma con la madre si lamenta che le donne che s’innamorano di lui non vogliono mai essere sue.
Miriam è passionale e intensa come più non si potrebbe ed è quasi asessuata: “Quella intensità che non lascia alcun sentimento su un piano normale lo irrita fino alla frenesia; in mille minime occasioni quel contatto nudo, intimo e timoroso con lei, lo rivolta. È avvezzo al riserbo della madre, e in quelle circostanze è felice d’aver avuto una madre così equilibrata. Tutta la vita fisica di Miriam è negli occhi. [...] Non c’è né flessuosità né vita nel suo corpo. Cammina con una certa pesantezza, dondolandosi, la testa china, assorta. Non è goffa, ma non uno dei suoi movimenti dà l’impressione di essere quello giusto”. Però “con Miriam egli vede più a fondo entro e fuori di sé. Dalla madre attinge l’energia creatrice, il calore della vita, e Miriam tramuta quel calore in luce incandescente”. Ed è poi davvero così asessuata? Quando Paul dice: “Sono sempre così dannatamente spirituale con te...” lei ribatte: “E allora perché non sei diverso?”
La signora Morel “sente che quella ragazza le porta via Paul, e Miriam non le piace: «È una di quelle che succhiano un uomo fin nell’anima, fino a non lasciargli niente di suo» dice, tra sé, «e lui è tanto debole da farsi assorbire completamente. Non gli permetterà mai di diventare un uomo. Mai». “Miriam è il vaglio di ogni sua idea: solo passandole e ripassandola su quell’anima egli trova la verità”. E “comincia a diventare scettico in fatto di religione”! Per tutto questo sua madre “quando lo sa con Miriam si angustia”.
“L’interesse alle questioni religiose sta passando in secondo piano, in lui, e liberandosi delle dottrine che lo intralciavano è venuto più o meno alla convinzione che ognuno debba sentire entro di sé il giusto e l’ingiusto, cercando di realizzare a grado a grado e con pazienza il PROPRIO Dio. Lo interessa più la vita, ora”. “È Miriam che, anche senza accorgersene, non più di quanto s’accorga una donna di concepire un figlio, accende immagini in lui. Ed è vita questa, per tutt’e due”.
Non vi dirò altro. Se non leggerete “Figli e Amanti” non saprete se il rapporto fra Paul e Miriam diventi o non l’ideale, perfetto, irrinunciabile rapporto uomo-donna che tutt’e due desiderano. E se ne leggerete il sunto su Wikipedia non saprete mai PERCHÈ l’una o l’altra cosa accada... Ma prima di concludere (per oggi), lasciate che attragga la vostra attenzione anche sul conflitto quasi mortale e sulla profonda amicizia tra Paul e Baxter Davies, marito di una certa Clara (di cui non vi ho parlato). Il rapporto tra Paul e Baxter ― che riecheggia quella tra il giovane Severn e il marito della signora Thomas ne “Il vecchio Adamo”, ma ne capovolge l’esito ― è di una bellezza quasi insopportabile, poiché descrive la reale e immediata possibilità che abbia fine l’odio fra uomo e uomo che in realtà è alleanza nell’odio contro la donna.
Nel prossimo post parleremo delle opere che ruotano come pianeti intorno alla doppia stella di Ursula e Gudrun, le sorelle de “L’Arcobaleno” e di “Donne innamorate”. E nel post successivo de “Il Serpente piumato” e de “L’Amante di Lady Chatterley”.
2.
“C’è una differenza profonda tra essere veramente sensuale e il libertinaggio voluto, cerebrale, a cui si sta abbandonando la nostra specie. Nella nostra notte c’è sempre la lampada accesa: noi ci guardiamo agire, facciamo tutto con la testa. Ci si deve lasciar andare prima di sapere in che consiste veramente la realtà dei sensi. Si deve scivolare nell’incoscienza, rinunciare al volere. Questo si deve fare. Imparare il non-essere, prima di poter giungere all’essere” (David Herbert Lawrence, “Women in love”).
Vi ho parlato di quel che Lawrence scrisse prima della catastrofe della Grande Guerra. Ora, invece, vi parlerò dei due romanzi (inizialmente dovevano essere uno, intitolato “Le Sorelle”) che la Grande Guerra divise insieme alla vita del loro autore: “L’Arcobaleno” (1913-1915) e “Donne innamorate” (1915-1920).
“Gli uomini si siedono accanto al fuoco, nella casa ove le donne si muovono sicure, e le membra e i corpi degli uomini sono impregnati degli odori della giornata, di bestiame, di terra, di vegetazione, di cielo. Siedono accanto al fuoco, la mente inerte, mentre il sangue scorre denso per le opere accumulate nella giornata. Le donne sono diverse: anche su loro agisce il torpore dell’intimità con il sangue ― vitelli che succhiano, galline che accorrono in frotta, piccole oche che palpitano tra le mani che le ingozzano di mangime ― ; ma distolgono lo sguardo dalle vicende calde e materiali della fattoria per volgerlo al mondo della parola, che si stende lontano da lì, al mondo che formula parole e pensieri; ne avvertono il brusio distante, si tendono per udirlo”. È la seconda pagina de “L’Arcobaleno”.
“Alla fattoria, nella stretta intimità della cucina, la donna ha la posizione suprema; gli uomini si rivolgono a lei, in casa, non solo su qualsiasi questione domestica, ma anche su quelle di morale e di buone maniere. La donna è il simbolo di quella vita più alta che comprende religione, amore e morale; nelle sue mani gli uomini affidano la coscienza, dicendole: sii la mia custode, l’angelo guardiano della porta che vigila sulle mie uscite e le mie entrate. E la donna adempie l’incarico; gli uomini confidano in lei totalmente, ne ricevono lode o biasimo con piacere o con risentimento, ribellandosi, a volte, e prorompendo in qualche scoppio d’ira, ma senza mai sottrarsi neppure per un istante, in cuor loro, alle prerogative di lei; da lei dipende la loro stabilità; senza di lei, si sentirebbero come fuscelli di paglia al vento, sballottati di qua e di là, a caso. È lei l’àncora di salvezza, la mano di Dio, repressiva e, a volte, cupamente detestabile”.
“L’Arcobaleno” ha inizio, cioè, nel mondo ancora quasi intatto della fine dell’800, che la Grande Guerra annienterà come se fosse già da tempo una mera parvenza.
La prima parte, completamente immersa in quel mondo, racconta l’incontro, la sofferta passione e il non meno arduo matrimonio d’amore fra Tom Brangwen e Lydia, patriota polacca rifugiata in Inghilterra, meno giovane di lui e madre di una bambina, Anna. E poi l’infanzia e l’adolescenza di Anna, amata dal patrigno come se sia sua figlia.
Tom e Lydia saranno i nonni materni di Ursula e Gudrun. Anna e Will i genitori.
All’amore e al matrimonio tra Anna e il cugino Will, dapprima osteggiato dal padre di lei, sono dedicati parecchi capitoli, il terzo dei quali s’intitola ― e vedremo perché ― “Anna victrix”, “Anna trionfa”. Per molte, bellissime pagine è un amore così felice da commuovere e conquistare perfino il geloso Tom Brangwen: “Viene il padre e li trova radiosi come due fiori aperti. Gli piace restare un poco con loro: dove l’amore esala il suo profumo, chiunque può aspirarlo”. Poiché la vita di Anna è un’isola del “tempo di prima” che come per magia, ma in realtà per la sua forza d’animo, resiste al “tempo nuovo”, al fascino della speranza dietro la quale il “tempo nuovo” nasconde, come l’arcobaleno nasconde la tempesta, le traversie che porterà con sé.
Anna è “victrix”, trionfa, perché costringe Will, suo marito, a sottomettersi al “tempo di prima” in cui “la donna, nella fattoria, ha la posizione suprema”. “Sono appaiati bene; il conflitto è destinato a durare” commenta Lawrence.
Già tra il padre e la madre di Anna, Tom e Lydia, il rapporto era stato tutt’altro che facile: “Erano due estranei, lo sarebbero rimasti per sempre; la passione per lei diventava una tortura lancinante: tanto vicina nell’abbraccio, e tanto distante! Era intollerabile. Non riusciva a starle accanto senza percepire l’abisso che li separava e accorgersi che erano del tutto estranei l’uno all’altro”. Ma “sentiva, con una stretta dolorosa, che quella donna apparteneva a lui, e lui a lei; che da lei attingeva la vita”. “Se riusciva ad abbandonare il controllo di sé, se si lasciava andare, avvertiva la potenza sotterranea del desiderio che lo sospingeva verso di lei, a fondersi con lei, a perdere sé stesso per trovare lei, a ritrovare sé stesso in lei”. Come Tom Brangwen si era sottomesso a Lydia, così Will si sottomette ad Anna Brangwen: non in tutto, non dovunque, solo “nella casa, ove le donne si muovono sicure”, ma deve sottomettersi.
È una lotta durissima, lunga, soprattutto contro la religiosità di cui Will riempie il suo rapporto con l’arte. Sebbene Anna ne senta il fascino, poiché lo ama, anche quando egli le parla di quelle che per lei sono sciocchezze e menzogne, come la Resurrezione: “Ella rimane un attimo esitante, delusa, percorsa da un brivido di paura: che cos’è dunque tutto questo? Le pare che le si spalanchi davanti un orizzonte buio e sconfinato, ma non sa se sia meraviglioso. E in ogni caso, si ostina a respingerlo”. Anche se, quando infine “sa d’aver vinto, è sopraffatta da uno sconforto che sa di cenere”.
Nasce Ursula, la loro prima figlia. Entra, a più di duecento pagine dall’inizio, in un romanzo che è la sua storia. Ma senza di esse non capiremmo la sua diversità dalla madre e dalla nonna. Non capiremmo a cosa rinuncia e cosa cerca, arrendendosi, al contrario di loro, al fascino della speranza dietro la quale il “tempo nuovo” nasconde, come l’arcobaleno la tempesta, le traversie che le porterà.
Perché “L’Arcobaleno”? Cosa significa questo titolo?
“D’inverno, [Anna] si alza all’alba; dalla finestra, sul retro della casa, scorge la luce giallo arancio del levante, sull’erba verde e brillante di brina; nel mezzo campeggia, nero e solenne come un idolo, il grosso pero, e, sotto, lembi d’acqua immobile riflettono quel chiarore incandescente. Allora ella dice: «È là». E quando, a sera, squarciando le nubi, appare il bagliore purpureo del tramonto, ella ripete: «È laggiù». L’alba e il tramonto sono i due pilastri dell’arcobaleno, la cui campata sormonta il cielo, ed ella vi scorge la speranza, la promessa: dovrebbe forse oltrepassarlo? [...] Del marito si sente sicura: conosce quel viso bruno, l’intensità della sua passione. Quel corpo sottile ma vigoroso, sa che è suo. Nulla le si rifiuta: è una donna colma di ricchezze, e gode i propri beni. Non passa molto tempo che s’accorge di aspettare un secondo figlio [che sarà Gudrun, sorella minore di Ursula]. La cosa la riempie di soddisfazione e spazza via le inquietudini. Dimentica le meditazioni di fronte al sorgere e al percorso del sole, splendido viaggiatore in ascesa. Dimentica che la luna talvolta guarda giù, attraverso uno spiraglio altissimo, nella notte oscura, e le fa un cenno d’assenso, quasi per una magica intesa, invitandola a seguirla. Ora, sole e luna proseguono il cammino e le passano accanto; ma ella è una donna fortunata, che gode i propri beni. Dovrebbe seguirli, ma non può rispondere al loro appello: deve rimanere a casa, rinuncia senza rimpianti a esplorare l’ignoto. Ha da generare i suoi figli. Ora che aspetta il secondo bambino, ricade nello stato di beato languore [della prima gravidanza]; anche se non tocca a lei avventurarsi nell’ignoto, anche se è giunta a destinazione, nella sua casa, le sue porte si spalancano pur sempre sotto la campata dell’arcobaleno, la sua soglia riflette i grandi viandanti, luna e sole, al loro passaggio, e la sua casa è tutta sonora dell’eco di quel viaggio” [corsivi miei].
Anna non ignora “la speranza, la promessa” che intravede oltre la soglia immensa del “tempo nuovo”: non si avventurerà nell’ignoto, ma è contenta che la casa in cui le sue figlie cresceranno sia “tutta sonora dell’eco di quel viaggio”. Esse, invece ― dapprima Ursula, poi, in “Donne innamorate”, Gudrun ― andranno oltre l’arcobaleno. Ma non senza soffrire, per il distacco dal “tempo di prima”. E, almeno Ursula, non senza che esso le resti nel cuore per tutta la vita.
Dice Lydia, la nonna di Ursula: “Certo, bambina mia: ci sarà un uomo che ti amerà, poiché è nella tua natura; e spero che sarà qualcuno che ti amerà per quella che sei, non per quella che vorrà che tu sia. Anche se, d’altra parte, tutti abbiamo diritto a cercar di ottenere quello che vogliamo”.
La prima traversia che Ursula, adolescente, deve affrontare nel “tempo nuovo” “al di là dell’arcobaleno” è la sofferenza della propria diversità: “La strana convinzione che la crudeltà e le brutture le incombano sempre, pronte a balzarle addosso, e che una plebe invidiosa la insidi perché è diversa dagli altri, è uno dei fattori determinanti della sua vita. Ovunque si trovi, a scuola, per la strada, in treno, d’istinto fa di tutto per passare inosservata, si finge più piccola e più modesta di quella che è, per timore che l’Essere Comune, l’Individuo Medio, possano balzare sul suo vero io segreto per aggredirlo”.
È il prezzo che debbono pagare i primi ― e soprattutto le prime ― che si avventurano nel “tempo nuovo”: l’incomprensione, talvolta feroce, di chi percepisce come strana e pericolosa la loro diversità, il loro coraggio di rifiutare, o almeno di criticare, il modo di vita convenzionale. Le coetanee di Lawrence, le figlie e le nipoti del “tempo di prima”, si avventurano “al di là dell’arcobaleno”, ed egli le segue con amore e con inquietudine.
“Via via che da giovinetta diventa donna, sente addensarsi sulla sua testa l’ombra della responsabilità; prendendo coscienza del proprio modo di essere, si accorge che ella è un’entità singola nel mezzo di una massa confusa e indistinta, e di dover andare in una direzione determinata, diventare qualche cosa. È impaurita, turbata: perché dover crescere e portare la responsabilità pesante, paralizzante, di vivere una vita ancora inesplorata?, far di sé stessa un che di determinato, emergere dal nulla e dalla moltitudine indifferenziata, scegliere una strada nell’oscurità su un terreno privo di piste tracciate?, in quale direzione e come muovere il primo passo?, ma, del resto, come restar fermi? È veramente pesante la responsabilità della propria vita”.
È l’opposto di quel che ha fatto Anna, sua madre. Assomiglia a quel che aveva cercato di fare e di essere Will, suo padre, dedicandosi all’arte, e a cui dopo una lunga lotta aveva rinunciato per amore di Anna. Ma lui non aveva voluto rinunciare alla religione, mentre Ursula, come la madre, se ne allontana: “La religione ora svanisce dalla sua realtà, diventa un racconto, un mito, un’illusione che, per quanto la si asserisca vera, si sa benissimo che non lo è, almeno per quel che riguarda la nostra vita attuale. [...] Ursula è giunta a ritenere che le cose che non si possono sperimentare sul piano della vita quotidiana non siano vere per noi”.
(Lo dico qui ma vale per tutte le opere di Lawrence, per i romanzi come per i racconti: nelle sue protagoniste c’è sempre anche lui. C’è in loro la sua femminilità profonda, di cui vi ho parlato la volta scorsa, ed è con essa che egli le comprende ― se vi sembra che le comprenda ― o al contrario le travisa se vi sembra che le travisi...)
Quando Ursula s’innamora del giovane Anton, egli le piace per la sua autonomia. Le appare eccezionale “per la sua natura eletta, dai contorni precisi, nettamente definita, tutta chiusa in sé e sufficiente a sé stessa [...]: gli altri non potrebbero dargli nulla, né ricevere nulla da lui”. Ma da lei che cosa si aspetta, un giovane così “autonomo” e “bastante a sé stesso”? Che sorta di “amore” le propone?
“È una splendida autoaffermazione da parte di tutt’e due: Anton afferma sé stesso, sentendosi infinitamente virile e irresistibile, e la ragazza del pari, poiché sa di essere immensamente desiderabile e, di conseguenza, immensamente forte”. “Quella passione deve far conoscere a Ursula la sua identità suprema, che, nel contrapporsi a lui, delinea e definisce sé stessa; in contrasto con il maschio, ella riesce ad attuare il proprio io nella sua forma più alta, quella della femminilità, che trionfa un istante, quando afferma squisitamente sé stessa ergendosi contro il maschio, nel conflitto supremo contro il maschio”.
Il conflitto tra l’uomo e la donna e tra la donna e l’uomo, che per Lawrence è non solo insopprimibile, ma una “conditio sine qua non” del loro rapporto reciproco, non c’è solo qui, “al di là dell’arcobaleno”. C’era anche nel “tempo di prima”. Ma nel “tempo nuovo” è diventato un conflitto estremamente duro, forse insopportabile, e il trionfo di Ursula su Anton, sul suo primo amore, non lascia pietra su pietra, di lui. Uno scontro decisivo di cui non posso non citare i momenti più drammatici:
1. “Egli le grava addosso come un contrappeso, la sua presenza la trattiene; lo sente come un fardello, cieco, insistente, inerte. Sospira di sofferenza, agognando la frescura, la libertà totale, la fredda luminosità lunare, la fredda libertà d’esser sé stessa, di fare interamente quel che vuole. Si sente tentata di andarsene, come un lucido metallo trattenuto da una forza magnetica scura, impura; lui, e la gente, rappresentano le scorie; ed ella aspira a fuggire verso la pura, libera luce lunare. «Non ti piaccio, stasera?» le domanda il giovane, a voce bassa. [...] «Lasciami in pace» risponde lei. [...]
2. La musica e la danza ricominciano, e Anton non lascia che Ursula gli sfugga. Ma nel cuore della ragazza arde un furore freddo e feroce. [...] Le piace danzare [...], ma, nel fondo dell’essere, è fredda, irremovibile come una colonna di sale. Egli tende al massimo la propria volontà, al fine di dominarla; ma si sente annientato, di fronte alla freddezza rigida e compatta di lei, che è lucida come la luna, e altrettanto inafferrabile, e al di sopra della portata di lui, e perfino della possibilità che egli ha di comprenderla. [...] Si direbbe che egli tenga stretta tra le mani la lucida lama che lo ferisce; la stringerà, quella lama, anche se è destinata a ucciderlo.
3. E Ursula accetta il suo bacio, ma glielo restituisce impadronendosi di lui in una morsa tremenda, bruciante, distruttiva come la luce della luna. Anton barcolla, chiama a raccolta tutte le proprie forze [...], ma è lei, fredda come la luna, bruciante come un acido corrosivo, assetata di distruzione, ardente e crudele, ad annientarlo col suo bacio. E mentre l’animo di lui si dissolve dolorosamente, fino all’annientamento, quello di lei si cristallizza nel trionfo ed è lui la vittima, logorata nella stretta distruttiva, e lei la trionfatrice”.
Una scena di spaventosa violenza? Urla, insulti, minacce? No: solo un bacio! Un bacio appassionato! Ma tra nemici, oltre che fra amanti, e in un “tempo nuovo” in cui, al di là dell’arcobaleno, il trionfo della donna sull’uomo, della “luna” sul “sole”, che è sempre stato necessario alla vita del rapporto, ora sembra diventato mortale. E Ursula se ne accorge, e “rinnega quell’istante, si distacca da quell’altro io: no, no, ella è buona, è innamorata, arde d’amore, il suo sangue è dolce e caldo! [...] Mette in opera tutto l’ardore della sua natura, gli fa omaggio della sua amorosa attenzione e, pian piano, egli torna a lei. Ma è un altro uomo. Tenera, avvincente, carezzevole, ella è la sua serva, la sua schiava adorante, e riesce a ricostruire l’involucro esterno, la forma, l’aspetto di Anton, ma non la sostanza. Essa è andata distrutta. Il suo orgoglio è salvo, il suo sangue ricomincia a scorrere fieramente, ma, dentro di lui, non c’è più nulla. La sua identità singola di uomo non ha più sostanza; il cuore trionfante, fiammeggiante, arrogante, tipico del maschio, non pulserà mai più; [...] non sarà mai più indomito, acceso da una fiamma inestinguibile; quella fiamma, Ursula l’ha soffocata; lo ha schiantato”.
Allora la ragazza ha una relazione con una delle sue insegnanti, Winifred Inger. Ma in questa relazione, che all’inizio le sembra affascinante, a poco a poco scopre qualcosa in comune col disumano materialismo della miniera e della fabbrica, che si nutrono di vite umane annientandole o tramutandole in ingranaggi. Anche Winifred “tributa un culto a quell’astrazione sordida, al meccanismo della materia. Facendo parte della macchina, o servendola, ella è libera dalle pastoie e dalla degradazione del sentire umano; facendo parte dell’ingranaggio mostruoso che padroneggia tutta la materia, viva o morta, e lavorando al suo servizio, ella pure raggiungerà l’attuazione di sé, l’accordo con sé stessa, l’immortalità”. È come se il “tempo nuovo”, nella relazione con Winifred, giunga a un culmine che Ursula accetta di sperimentare, ma dal quale sente di dover tornare indietro: “La sua fiamma pura e inestinguibile non consente più a mescolarsi alla vita perversa di quella donna”. Ursula l’abbandona per sempre, non avrà mai più esperienze simili, ma... è ancora in tempo? Può ancora realizzare la sua vita? “L’amore per Winifred ha strappato violentemente la sua vita dalle sue radici [che affondavano nel “tempo di prima”], dal suolo ov’era nata, al quale apparteneva anche Anton. Ora si sente trapiantata su un terreno arido, nel quale egli è soltanto un ricordo. [...] Tutto è morto, dopo Winifred; conosce il cadavere della fanciulla giovane e innamorata che era stata, ne conosce la tomba, e quella ragazza innamorata le strappa lacrime di rimpianto, poiché quasi non è esistita, se non nella sua immaginazione. [...] Dopo Winifred, la sostanza stessa dell’amore è stata soppressa, in lei, ed è come se ne porti dentro di sé il cadavere”.
“Dallo spazio lontano le s’insinua lentamente uno struggimento appassionato, indefinibile: quante aurore non ancora spuntate! le pare che dalla linea dell’orizzonte tutte le albe non sorte la chiamino e l’anima sua non ancora venuta alla luce pianga su di esse”.
Amara (sebbene ricca di pagine indimenticabili) è anche l’esperienza di Ursula come insegnante. Il mondo del lavoro, perfino nella Scuola, è “il mondo dell’uomo”. Lo era anche nel “tempo di prima”, ma nel “tempo nuovo” ― in cui Ursula non vuol più avere la “posizione suprema in casa”, il matrimonio con un uomo vinto e sottomesso ― è per lei insopportabile, e dopo l’esperienza con Winifred quasi la finisce.
Non del tutto, però. La sua storia continuerà in “Donne innamorate” insieme a quella di sua sorella Gudrun...
“La invade la nausea, così profonda che si sente venir meno. Poi, tra le nubi gonfie d’aria, scorge una fascia d’iridescenza lieve che riflette tenui colori su una parte del colle; trasale, contempla i colori librati in cielo, e si accorge che è l’arcobaleno. In un punto esso arde vivido, e Ursula, il cuore dolente di speranza, cerca l’ombra dell’iride là dove deve trovarsi l’arco: e pian piano, misteriosamente, dal nulla, i colori appaiono, si profila in cielo un arcobaleno tenue, ampio, si curva, si fa intenso, disegna il suo semicerchio indomabile, traccia un’architettura immensa di luce e di colore sullo spazio del cielo, poggiando le sue basi luminose tra la bruttura delle case, ai piedi del colle, ma toccando con l’apice la sommità del cielo. E l’arcobaleno sta, sospeso sopra la terra; ed ella sente che le persone sordide che formicolano isolate e insensibili sulla putredine del mondo sono ancora esseri vivi, che l’arcobaleno estende la sua campata anche su di loro e accenderà una favilla di vita nei loro spiriti, e che essi getteranno via l’involucro corneo della loro disintegrazione, e nuovi corpi nudi emergeranno a nuova crescita, a nuova fioritura, ergendosi alla luce, al vento, alla pura pioggia celeste; e ravvisa nell’arcobaleno l’architettura nuova della terra: l’antica materia decomposta e cadente delle case e delle officine spazzata via, il mondo edificato in una viva costruzione di Verità, su misura della vòlta del cielo”.
“Donne innamorate” è soprattutto la storia dell’amore tra Gudrun e Gerald: la storia affascinante e terribile del mortale pericolo che Lawrence vede incombere sul rapporto uomo-donna nel “tempo nuovo” (nel tempo, cioè, che noi tutti stiamo ancora vivendo). Ma è anche il “séguito” della storia di Ursula, che sebbene la sua prima esperienza come insegnante sia stata drammatica continua a fare la maestra e s’innamora di (Rupert) Birkin, ispettore alle scuole (e “alter ego” di David Herbert Lawrence).
La prima impressione di Gudrun su Gerald: “Quella sua bellezza luminosa, quella virilità che lo fa assomigliare a un lupacchiotto ridente e gioviale non le nasconde però la calma significativa e sinistra del portamento, l’insidia che si cela in quel carattere indòmo: «Il suo totem è il lupo» ripete a sé stessa”.
Birkin a Ursula: “«C’è una differenza profonda» dice «tra essere veramente sensuale e il libertinaggio voluto, cerebrale, a cui si sta abbandonando la nostra specie. Nella nostra notte c’è sempre la lampada accesa, noi ci guardiamo agire, facciamo tutto con la testa. Ci si deve lasciar andare prima di sapere in che consiste veramente la realtà dei sensi. Si deve scivolare nell’incoscienza, rinunciare al volere. È questo che si deve fare. Si deve imparare il non-essere, prima di poter giungere all’essere»”. E Ursula, dopo che Birkin è uscito, “rimane alcuni istanti con gli occhi fissi sulla porta; poi spegne le luci [della scuola], ricade a sedere sulla sua sedia, smarrita, assorta, e finalmente comincia a piangere. È un pianto di dolore o di gioia? Non lo saprà mai”.
L’amore di Birkin ci tranquillizza fin dalle prime pagine sul futuro di Ursula, sia pure nel “tempo nuovo”. Ed era ora!, pensiamo, poiché leggendo “L’Arcobaleno” siamo stati in pena per Ursula come di rado ci è capitato con altre eroine. Ma Gerald, l’uomo che Gudrun farà innamorare e di cui s’innamorerà, che tipo è? Birkin (che come vi ho detto è Lawrence) “vede in lui una gioconda insensibilità e, dietro l’etica accettabile della produttività [poiché Gerald è un industriale: è nel “tempo nuovo” come maschio e come capitalista, e in ambedue lo è in modo del tutto acritico] gli pare che traspaia una perversione singolare”.
Dice Gerald a Birkin: “«Io non credo che una donna, nient’altro che una donna, possa mai riempirmi la vita». «Non credi che l’amore tra te e una donna... possa costituirne il centro, il nucleo?» «Io non ho mai provato un sentimento di questo genere» risponde Gerald. «No? e in che cosa consiste il centro della vita, per te?» «Non lo so... Alle volte vorrei che qualcuno me lo dica. Per quel che risulta a me, non ha centro affatto, si tiene su artificialmente per opera del meccanismo sociale». «Lo so»” dice Birkin (riferendosi chiaramente al “tempo nuovo”) “«i vecchi ideali sono caduti, non c’è rimasto più nulla. E allora proprio per questo a me sembra che ci sia rimasta solo la perfetta unione con una donna, una specie di matrimonio definitivo. E che non ci sia altro». «Vuoi dire che, se non c’è la donna, non c’è altro?» domanda Gerald. «Più o meno: dato che non c’è Dio»”. “Una semplice verità, applicare alla propria vita una semplice verità senza esitazioni, ecco quel che il cuore invoca senza posa” pensa Birkin.
E Gerald comincia a innamorarsi di Gudrun. O piuttosto della totale autosufficienza femminile ― la novità assoluta del “tempo nuovo”: una donna che non ha alcun bisogno dell’uomo, e che tuttavia lo vuole ― che vede in Gudrun: “Lo voglia o no, ella significa il mondo reale, per lui, e gli piacerebbe adeguarsi ai tipi che lo sono familiari, appagare le aspettative di lei. Sente che il suo criterio di giudizio è il solo che gli stia a cuore; [...] deve far di tutto per adeguarsi al giudizio di lei, per adempiere all’ideale di uomo e di essere umano che ella si è proposto”.
La differenza tra le due sorelle è chiara nella scena tremenda in cui Gerald si rivela disumano spronando una cavalla fino a farla sanguinare perché non tollera che abbia paura di una locomotiva che sta passando:
“Sciocco!” grida Ursula. Ma “Gudrun si sente venir meno dalle vertigini: lo guarda con occhi dilatati, quasi subisca un incantesimo, mentre egli, ostinato, sforza l’animale. [...] «No! no! la lasci, la lasci!» grida Ursula, fuori di sé, con quanta voce ha, e Gudrun deplora con tutto il cuore la sua mancanza di controllo: la voce di Ursula, così nuda, così forte, le dà un fastidio intollerabile. [...] «Sanguina! sanguina!» grida Ursula, travolta da un odio frenetico per Gerald: lei sola, tutta tesa nel contrasto, lo comprende a pieno”. Vedendo il sangue, anche Gudrun impallidisce. Ma poi “il mondo turbina, le scompare davanti, e lei non sente, non vede più nulla. Adesso è fredda, calma, senza più alcun sentimento; i vagoni rombano ancora, l’uomo e il cavallo lottano ancora, ma Gudrun è fredda, distante, non prova più nulla per loro. È frigida, dura, indifferente”.
La ricerca di Ursula ― che in “Donne innamorate” trova finalmente risposta in Rupert Birkin sebbene non manchi nemmeno tra loro il conflitto che per Lawrence è parte irrinunciabile del rapporto uomo-donna ― era ed è una ricerca della sua realizzazione nel “tempo nuovo”, ma senza annullare il “tempo di prima”. Per Gudrun, invece ― e per Gerald, che è il suo tremendo “alter ego” maschile ― il “tempo nuovo” dev’essere il tempo in cui rendersi disumani credendo di rendersi sovraumani. E questo ci dice che Lawrence, diversamente dal pur immenso Orwell e da Huxley, ha capito fino in fondo, nonostante il suo apparente disinteresse per la dimensione sociale e politica, che tutto ciò che renderà il ’900 un secolo mostruoso e splendido trae la propria origine, come un figlio meraviglioso e un figlio orribile, dal rapporto uomo-donna.
“Gerald è l’unico mezzo, per Gudrun, di evadere dal pantano dei minatori pallidi, automatici, sub-umani. Egli si differenzia dal fango. È il padrone. [...] Gerald la osserva con un intùito che rasenta la chiaroveggenza, ne vede lo spirito pericoloso, ostile, capace di resistenza incrollabile, e tuttavia completo e perfetto nell’agire”. E Gudrun capisce che “essi sono affini, che c’è tra loro una specie di solidarietà diabolica: ovunque s’incontreranno, saranno segretamente legati. Ma nell’alleanza con lei sarà lui il più debole. E l’anima di lei esulta”.
“Non smette di guardarlo con i suoi larghi occhi neri; si protende verso di lui e, con un gesto ampio del braccio, gli dà in viso un leggero manrovescio. [...] E sente una volontà invincibile di violenza contro di lui: caccia dalla mente la paura, lo smarrimento che la riempiono. Farà come le piace, non avrà paura. Egli si ritrae, al colpo, si fa d’un pallore mortale e una fiamma pericolosa gli incupisce gli occhi; per qualche istante è incapace di proferir parola, i polmoni invasi di sangue, il cuore teso fino a scoppiare per l’impeto dell’emozione infrenabile. È come se entro di lui si siano infrante le dighe di un bacino di emozioni oscure, che ora lo sommergono. Finalmente, cacciando a forza le parole dai polmoni, a voce così lenta e sommessa che a Gudrun pare di udirla in sogno, non come suoni pronunciati nell’aria: «Hai dato tu il primo colpo» dice Gerald. «E sarò io a dare l’ultimo»”.
“«Siete contenti di essere qui?» domanda Gudrun. «La neve è meravigliosa. Avete notato come tutto prende rilievo? È straordinario: ci si sente übermenschlich, più che umani!»” “Mentre Ursula, invece, quel biancore abbagliante pare colpirla fino a farle male, e sente che il gelo lentamente le soffoca l’anima...”
Dovrei parlarvi de “L’Arcobaleno” e di “Donne innamorate” per decine di pagine, o al limite trascriverli dalla prima all’ultima, per darvi un’idea della cura con cui Lawrence ― certo che se il rapporto uomo-donna fallisce, fallisce il genere umano ― ne descrive con appassionata attenzione la difficoltà. Il “tempo nuovo” ha portato questa difficoltà al culmine. Ma Lawrence, che deplora ogni aspetto del “tempo nuovo”, tuttavia non lo deplora perché ha reso più difficile il rapporto uomo-donna: ama troppo le donne, e si sente troppo simile a loro, per non amarle anche “al di là dell’arcobaleno”. Vuole solo che si sappia che amarsi, l’uomo la donna e la donna l’uomo, è così fondamentale ― per ognuno e per l’Umanità ― che il conflitto deve essere vissuto. Per tutta la vita. Pur senza mai rinunciare né a sé né all’altro.
“Sono appaiati bene; il conflitto è destinato a durare”.
“Il corpo della notte misteriosa sopra il corpo della notte misteriosa, la notte mascolina e femminile, non destinata a occhio umano, né a mente umana, nota soltanto come palpabile rivelazione dell’altro essere vivo”.
Nel prossimo post, “Il Serpente piumato” e “L’Amante di Lady Chatterley”.
3.
“Siamo esseri che strappano la propria creazione palmo a palmo ai dragoni del cosmo. O che a palmo a palmo la perdiamo, e andiamo in pezzi”.
Gli ultimi tre romanzi di Lawrence sono “La Ragazza perduta” (1920), “Il Serpente piumato” (1926) e il celeberrimo (ma in quegli anni famigerato, e fino ai primi anni ’60 leggibile soltanto di nascosto) “L’Amante di Lady Chatterley” (1928), pubblicato due anni prima della sua morte): i romanzi che il lettore che ha amato i precedenti trova più difficili e talvolta repulsivi, benché le idee di Lawrence sugli esseri umani e sul rapporto uomo-donna vi raggiungano quella che dovette sembrargli una dolorosa perfezione. Ve ne parlerò tra poco, ma prima vi dirò qualcosa sui racconti e i romanzi brevi di quel periodo.
Tra i romanzi brevi, il più bello in assoluto è “Amore tra i mucchi di fieno” (non a caso, dato che non è di questi anni ma del 1913, benché sia uscito postumo nel 1930), e belli sono anche il famoso “La Volpe” (1922-’23), storia della fine di un amore tra due donne (che riecheggia in modo più drammatico quella della relazione tra Ursula Brangwen e Winifred Inger in “Donne innamorate”), “La Vergine e lo Zingaro” (1925-’26) e “L’Uomo ch’era morto” (1929). Fra i racconti “Sansone e Dalila”, “Due uccelli azzurri”, “Linea di Confine”, “Jimmy e la Donna disperata”, “Innamorato”, “Fantasmi felici” e soprattutto “La Figlia del Mercante di Cavalli”.
“Amore tra i mucchi di fieno”: “La donna si china verso di lui e lo stringe forte intorno al collo, serrandolo al petto in una frenesia lieve ma dolorosa. L’amarezza, lo sconforto della vita, la profonda vergogna e la degradazione degli ultimi quattro anni l’hanno isolata nella solitudine e inaridita al punto che gran parte della sua natura si è fatta sterile e grumosa. Ora si è di nuovo raddolcita, e questa primavera potrebbe essere splendida. È stata sul punto di diventare, ancora giovane, vecchia e brutta”. “Si stringe al petto la testa di Geoffrey, sollevandolo e riabbassandolo pesantemente. Il giovane è stupito, pieno di meraviglia, e lascia che la donna faccia di lui tutto quello che vuole. Le lacrime di lei gli cadono sui capelli: piange in silenzio, e Geoffrey respira profondamente seguendo il ritmo del suo respiro. Alla fine la donna allenta la stretta, ed egli l’abbraccia. «Vieni, ché ti scaldo» dice, stringendola con braccia pesanti. È piccola e carezzevole. La stringe, riscaldandola, e la donna fa scivolare le braccia intorno al corpo di lui. «Sei davvero grosso» bisbiglia. Geoffrey la stringe forte, ha un fremito e poi, alla cieca, con la bocca cerca la sua. Le labbra si posano sulle tempie, e la donna, lentamente e deliberatamente, volge la bocca verso la sua e con le labbra schiuse la incontra nel primo bacio d’amore di Geoffrey”.
Yvette, la protagonista de “La Vergine e lo Zingaro”, è figlia di un vicario “dal pensiero sterile” che “deve mostrare un’apparenza d’amore e di fiducia perché non oserebbe mai affrontare il bavoso verme della diffidenza che gli striscia intorno al cuore. [...] Lui sa che il suo cuore è un grosso e viscido verme. E teme che qualcuno se ne accorga. Prova angosciose ventate d’odio contro coloro che se ne accorgono e si allontanano da lui. [...] I suoi pensieri segreti sono tali da spaventarlo. Per questo ha una paranoica paura di ciò che non è convenzionale. [...] In un angolo della mente sta pensando a inenarrabili depravazioni della figlia. È impotente contro le basse insinuazioni della propria mente. E le depravazioni che imputa a quella indomita ma spaventata ragazza di fronte a lui lo fanno inorridire, costringendolo a mostrarle i denti”. Ma è lo zingaro dal quale Yvette è attratta, non il padre, a salvarla dall’alluvione. E poi le scrive (poiché da bravo zingaro è sempre in giro): “«Cara signorina, leggo sul giornale che sta bene, dopo il suo tuffo, e così anch’io. Spero di rivederla, magari alla fiera del bestiame di Tideswell, o magari torneremo noi dalle sue parti. Quel giorno ero venuto per dirle arrivederci! e non gliel’ho mai detto, l’acqua me l’ha impedito, ma vivo nella speranza. Il suo obbediente servitore, Joe Boswell». E solo allora Yvette scopre che egli ha un nome”.
“L’Uomo che era Morto”, del 1929, è forse l’ultima cosa che Lawrence scrisse in vita sua. È un romanzo breve, il cui protagonista, come il titolo annuncia, era morto e poi ha smesso di esserlo, ed è la storia della sua vita appassionata dopo la resurrezione.
“Maddalena vacilla come se debba cadere perché lo riconosce, ed egli le dice: «Maddalena! Non avere paura. Sono vivo. Mi hanno tirato giù troppo presto, per cui sono tornato in vita. Poi sono stato accolto in una casa». Lei non sa cosa dire, ma cade ai suoi piedi per baciarglieli. «Non toccarmi, Maddalena» egli dice. «Non ancora! Non sono ancora guarito del tutto e in contatto con gli altri». [...] «Non so cosa farò» egli dice. «Quando sarò guarito lo saprò. Ma la mia missione è finita e il mio insegnamento è finito: la morte mi ha salvato dalla mia stessa salvezza. Oh, Maddalena, voglio prendere la mia strada nella vita: è quello che mi spetta. La mia vita pubblica, la vita della mia superbia, è finita. Ora posso essere al servizio della mia vita, senza dir niente e senza nessuno che mi tradisca. Volevo essere più grande dei limiti delle mie mani e dei miei piedi: così mi son tirato addosso il tradimento. E so di aver fatto un torto a Giuda, il mio povero Giuda. Poiché sono morto e ora conosco i miei limiti. Ora posso vivere senza più sforzarmi di influenzare gli altri. Poiché le mie possibilità finiscono alla punta delle dita delle mani e i miei sforzi alla punta delle dita dei piedi. Volevo abbracciare moltitudini, io che mai ho davvero abbracciato qualcuno. Ma Giuda e gli alti sacerdoti m’hanno salvato dalla salvezza, e presto potrò volgermi al mio destino come un naufrago appena arrivato, all’alba, alla spiaggia da solo». [...] «La vita gorgoglia in modo così vario. Perché volevo che tutto lo facesse nello stesso modo? Quale peccato ho predicato loro! È molto più probabile che un sermone, piuttosto che un salmo o una canzone, si indurisca in fango e tappi le fontane»”.
E il destino a cui desidera volgersi si avvera quando incontra la sacerdotessa di Iside: “Quanto è diversa da me” dice l’uomo che era morto. “Quanto stranamente diversa! Ha paura di me e della mia diversità di uomo. Ma si sta liberando e purificando della sua paura. Quanto sensibile e delicatamente viva è, con una vita così diversa dalla mia! Quanto è bella con il suo strano e delicato coraggio di vita così diverso dal mio coraggio di morte! Che bella creatura, come il cuore di una rosa, come l’anima di una fiamma!”. Molte cose importantissime gli rivela il loro amore... “«Una volta» le dice «una donna mi bagnò i piedi con le lacrime, li asciugò con i suoi capelli e vi versò del prezioso unguento». La donna di Iside lo guarda: «Anche allora erano feriti?» dice. «No, no! Fu quando erano sani». «E la amavi?» «L’amore era morto, in lei. Voleva solo servire» dice l’uomo. «Era stata una prostituta». «E lasciasti che ti servisse?» chiede la donna. «Sì». «Lasciasti che ti servisse con il cadavere del suo amore?» «Sì!» Ogni cosa, improvvisamente, comincia ad apparirgli chiara: ho chiesto a tutti loro di servirmi con il cadavere del loro amore, e alla fine ho offerto loro solo il cadavere del mio amore. Questo è il mio corpo... prendi e mangia... il mio cadavere... Una vivida vergogna lo coglie. «Volevo che mi amassero con i corpi morti» pensa. «Se avessi baciato Giuda con vivo amore, forse lui non mi avrebbe baciato mortalmente. Forse mi amava nella carne, mentre io volevo che mi amasse in modo non fisico, con il cadavere dell’amore»”.
“La Ragazza perduta” (1920) ― storia di “una ragazza che aspira ostinatamente all’autonomia, alla sufficienza a sé medesima, e condotta gradualmente dalla sua stessa natura di donna, dall’esigenza primordiale del sesso, ad abdicare a ogni velleità di emancipazione” (Piero Nardi) ― è, insieme a “Il Serpente piumato”, il romanzo di Lawrence più difficile da accettare.
“Sposate o no, c’è sempre, nelle donne, la medesima angoscia ― compresa in tutta la sua tragicità solo dopo i cinquant’anni ― per l’irrimediabile perdita di non aver mai saputo cedere e sottomettersi” avverte Lawrence la protagonista, Alvina Houghton, mentre lei, nelle prime pagine del romanzo, osserva che “tutti i giovanotti” del suo paese “hanno una strana aria scialba e superficiale; o, se pure annunciano qualche riposta potenza di suggestione, si tratta di una cosa un po’ abietta e umiliante, meschina, insomma, e volgare. Sì, sono tutti vuoti, o volgari”.
Uomini che “le posano in viso la luce smorta di occhi che sorridono pallidamente a quelli di lei, ma senza vederla”. Poiché, sebbene “secondo natura ognuno dovrebbe avere le sue caratteristiche straordinarie, oggi ci tocca farne ricerca col microscopio, tanto gli uomini son logori per l’azione livellatrice delle nostre giornate meccanizzate”.
A ventisei anni, quando “il terrore della verginità” supera in lei “la paura di rimanere zitella”, Alvina pensa che “del matrimonio non si curerebbe, se solo avesse un amante. [...] Piuttosto che avvizzire lentamente, ignominiosamente e laidamente sull’albero, si darà alla vita licenziosa, diventerà una prostituta, pensa. Ma per la vita licenziosa e per la prostituzione [...] la sola volontà non basta. [...] La sua indole è infatti talmente selettiva ed esclusiva, che è l’opposto assoluto della licenziosità e della prostituzione. Perciò gli uomini la temono, temono quello che sarebbe il suo potere, una volta che si compromettessero con lei. Sarebbe capace di avviluppare un uomo e trascinarlo via con sé, di distruggerlo, piuttosto che rassegnarsi a non ottenere da lui quel che desidera. E il suo desiderio è rivolto a qualcosa di davvero serio e rischioso, per gli uomini. Non si tratta solo del matrimonio, no! Ma di una pericolosa, profonda relazione reciproca”.
Alvina si intrufola in uno strano gruppo di giovanotti che fanno avanspettacolo guidati da una carismatica attrice: tra loro conosce Ciccio, contadino emigrato in Inghilterra da Picinisco ― villaggio in provincia di Frosinone che Lawrence chiama Pescocalascio ― ed è talmente attratta da lui che se ne innamora combattendo con tutte le sue forze la repulsione che la sua rozza virilità le incute. “Se per un attimo potesse sfuggire al tenebroso incantesimo di quella bellezza, riuscirebbe ancora a liberarsi. Se un attimo riuscisse a vederlo brutto, non avverrebbe che egli la uccida facendola sua schiava. Ma è su lei l’incantesimo di quel mistero, di quella insondabile bellezza. Ed egli la uccide. Non fa che prenderla, semplicemente, assassinandola. Nessuno può immaginare come Alvina ne soffra. E tuttavia senza mai perdere coscienza di quell’abbagliante bellezza tenebrosa e insopportabile. [...] Ma non è ancora sconfitta a morte. Non fosse per quel fatale intorpidimento del suo amore per lui, riuscirebbe ancora a sfuggirgli. E invece rimane lì, inerte, come avvelenata”.
E lo sposa, e lo segue a Pescocalascio. “Oscuro e insidioso egli è; non ha alcun riguardo per lei. Come possono essere così morbidi e dolci i gesti di un uomo e pur così spietati? Egli non ha alcun riguardo per lei? Perché non gli si rivolta contro? È come stregata. Non può lottare contro quell’incantesimo. E perché? Perché egli le appare bello, così bello. E perciò rimane inerte, sottomessa. Perché deve vederlo tanto bello? Perché non ha più ombra di volontà? Si sente simile a una prostituta sacra del tempo antico: una sacra prostituta. [...] Ciccio le parla, ma solo di cose comuni. Non si è stabilita tra loro quella meravigliosa intimità di parola che ha sempre immaginata e tanto desiderata. No. Egli l’ama, ma in un modo tenebroso e ipnotico che non le permette di essere sé stessa”.
Bellissimo e commovente, per il lettore italiano, il viaggio di Alvina e Ciccio verso l’Italia e in Italia nell’inverno 1914-’15, narrato nel capitolo XIV. Durante il quale Alvina “comprende per la prima volta che cosa significhi sfuggire alla minuscola perfezione dell’Inghilterra per immergersi nella grandiosa imperfezione di un grande continente”. Ma su quel che accade loro quando giungono a Pescocalascio non vi dico nulla, naturalmente. Soltanto che sono pagine memorabili, non “solo” sul loro amore ma anche sul meridione d’Italia di cent’anni fa.
Poi, deluso dall’Italia, che si era data a Mussolini un po’ come Alvina si era data a Ciccio, David Herbert Lawrence va a cercare in Messico una gente ancora capace di non scindersi tra anima e corpo. E scrive “Il Serpente piumato” (1926, tradotto in italiano ― non a caso ― da Elio Vittorini): storia di una donna irlandese, Kate ― una delle sue più splendide protagoniste ― che pian piano viene conquistata, come Alvina dall’italiano Ciccio, dalla sensualità del generale Cipriano Viedma, luogotenente “indio” di Ramón Carrasco. Il quale ha fondato una religione che, sebbene voglia essere “umanistica”, per diffondersi tra i nativi professa il ritorno agli Dei precolombiani.
(Ma perché fondare una religione dell’umanità? Poiché “oggi, nel mondo, ci sono due grandi specie di epidemie: bolscevismo e americanismo. E quella dell’americanismo è la peggiore, perché il bolscevismo vi distrugge la casa, gli affari, o magari il cervello, ma l’americanismo vi divora l’anima”. E l’“anima” di un essere umano, per Lawrence, è la sua umanità).
Kate odia “gli uomini dell’ultima generazione [...] che trovano in tutto di che eccitarsi freddamente, scientificamente, senza commuoversi, ma concentratissimi. Odia codesto americanismo che, senza scrupoli e con tanta freddezza, va a caccia di sensazioni”. Lo pensa mentre fugge da una corrida che dei conoscenti “a caccia di sensazioni” l’hanno portata a vedere: “Si sente umiliata, schiacciata da dall’indecenza, dalla codardia dei toreri. Esala codardia, da quello spettacolo di bravura. Nella sua educazione, e nel suo orgoglio di essere umano, Kate se ne sente offesa”.
È una scena in cui tutte le nazionalità presenti nell’arena e intorno a essa “offendono” l’“orgoglio di essere umano” di Kate: messicani di origine spagnola, spagnoli, “indios”, americani, europei. E noi, fin dalle prime pagine de “Il Serpente piumato”, ci troviamo dunque a dover chiederci se la ricerca di umanità ancora intatta IN UN POPOLO, anziché negli esseri umani ovunque siano nati ― ricerca che ha portato Lawrence, disgustato dall’Inghilterra del “tempo nuovo”, ai suoi lunghi viaggi in Italia e ora in Messico ― stia sprigionando in lui una sorta di razzismo.
Una parola-chiave de “Il Serpente piumato”, infatti, è la parola “sangue”. L’idea di Ramón Carrasco e del suo luogotenente don Cipriano è che solo gli “indios”, i nativi americani, poiché “di sangue puro”, possono restituire al Messico l’intatta umanità originaria. E lungo tutto il romanzo si ha l’impressione che Lawrence condivida tale idea. Ma come intende egli la parola “sangue”? L’illustrazione del suo significato, che Lawrence affida a un personaggio che appare in un’unica scena durante una riunione in casa di don Ramón, è fortemente ambigua. “Finché si mescola sangue della stessa razza” dice costui, “si può sempre sperar bene. Gli europei sono tutti di stirpe ariana, [rammentate che siamo nel 1926], tutti d’una razza. Ma se unite l’europeo all’indiano d’America, mescolate sangue di razze diverse, ed ecco i meticci. E i meticci sono una calamità. Poiché il meticcio non è né una cosa né l’altra, ed è diviso dentro sé stesso”.
Un discorso che in me, che diversamente da Lawrence vengo dopo il razzismo nazista e fascista, suscita una ripugnanza di gran lunga più forte di quella di Kate dinanzi alla corrida, poiché il significato del termine “sangue”, in esso, unito per di più al termine “razza”, mi appare una negazione totale della nascita umana, che è la medesima per tutti. Ma il discorso prosegue così: “Voglio dir questo: tutto dipende da come avviene la procreazione. Al momento dell’accoppiamento, o lo spirito del padre si fonde con quello della madre per creare un nuovo essere che avrà una sua anima, [ricordiamo ancora che “spirito”, o “anima”, in Lawrence significa psiche e storia e cultura individuale], oppure si fondono solo i germi della procreazione. E dunque considerate un po’. In che modo, da secoli, vengono concepiti codesti indiani di sangue misto? In quale unione di spiriti? Come credete che sia stato l’istante dell’accoppiamento? [...] In quale unione di spiriti gli spagnoli e gli altri stranieri hanno procreato dei figli, accoppiandosi alle donne indiane? Quale specie di unione è stata la loro? Con quale spirito l’hanno fatto? E dunque quale specie di razza se ne può pretendere? [...] Scusatemi, ma torno a dire che tutto dipende dall’atto dell’accoppiamento, proprio tutto. Ci sono tante cose che in quel momento raggiungono il loro massimo, tutta la speranza di un uomo, il suo senso d’onore, la sua fede, la sua fiducia, la sua concezione della vita e di Dio. Tutte queste cose possono raggiungere il loro massimo all’atto dell’accoppiamento. Ed è così che vengono ereditate dal bambino. Vi sembrerà una mia fissazione, ma è così, credetemi”.
Kate conosce per caso il generale Cipriano Viedma, e sùbito nota il colore scuro della sua pelle e il suo modo di “aprirsi il cammino con una calma timidezza silenziosa e al contempo con lo speciale impeto pesante degli indiani”. Egli “ha occhi neri, vivi, oscuri d’una vitrea oscurità che per lei è insostenibile. E stranamente obliqui, sotto gli archi neri delle sopracciglia”. Cosicché, tornando a casa, Kate “prova sollievo di allontanarsi da quell’uomo così simpatico. Straordinariamente simpatico. Ma le ha messo voglia di scappar via anche da lui. C’è in lui quella tetra, pesante fatalità messicana da cui Kate si sente oppressa. [...] Sente, e non è la prima volta, che il Messico entra nel suo destino come una condanna. È qualcosa di pesante e opprimente come le spire di un enorme serpe che sembri incapace perfino di sollevarsi”.
Quando incontra di nuovo Cipriano, Kate “avverte in lui una specie di teso ardore per lei. È come se le venga un richiamo da lui, da quel cuore fisico dentro quel petto. [...] «Proprio ogni cosa vi opprime nel Messico?» le chiede il generale. «Pressappoco tutto! E tutto mi dà una stretta al cuore. Come gli occhi degli uomini dai grandi cappelli ― i peones, dico. Sono occhi senza centro. Sono magnifici uomini, sotto quei loro grandi cappelli, eppure non sono veramente là. Non hanno centro, non hanno un vero IO [maiuscolo di Lawrence]. Hanno un tempestoso abisso nero, al centro, come il vortice di un ‘maelström’. [...] Penso alle rivoluzioni messicane e vedo uno scheletro camminare alla testa di una enorme massa di gente, sventolando una bandiera nera sulla quale è scritto ‘Viva la muerte!’ a grandi lettere bianche. ‘Viva la morte!’ Non ‘Viva Cristo Rey!’ ma ‘Viva Muerte Rey!’»”
“Ma si deve rinascere” pensa Kate. “E vincere la battaglia con la piovra, col dragone della vita degenerata e informe, per giungere alla dolce fioritura dell’essere che il minimo contatto contamina”.
“È stanca, Kate, nella sua anima d’irlandese, stanca da morire dei significati definiti e di un Dio dallo scopo preciso. Debbono essere iridescenti gli Dei, come l’arcobaleno nella tempesta. L’uomo si crea un Dio a sua propria immagine, e ogni Dio invecchia insieme agli uomini che lo hanno creato”.
E don Ramón come parla? Come spiega la fede a cui vorrebbe convertire il Messico? E come cerca di attrarre Kate a diventarne la “dea”? “La libertà non esiste” dice. “I più grandi liberatori sono quasi sempre gli schiavi di un’idea. I popoli più liberi sono schiavi delle convenzioni e dell’opinione pubblica, e della macchina industriale anche più. La libertà non esiste. Esiste solo la possibilità di cambiare il genere di schiavitù”. Il che è abbastanza ambiguo. Ma poi aggiunge: “Non c’è altra libertà per l’uomo, se non il Dio della propria umanità”. Ed egli non ambisce al potere? “Per un po’ può essere divertente affermare la propria volontà e resistere a quella che gli altri cercano d’imporvi. Ma a un certo punto sopraggiunge la nausea; si ha l’animo invaso dalla nausea. [...] Io cerco qualcos’altro”. “E cosa trovate?” domanda Kate. “La mia umanità!” risponde don Ramón. “Che cosa vuol dire?” “Se voi voleste cercare e trovare la vostra femminilità, capireste che cosa vuol dire”. “Ma io ce l’ho, la mia femminilità!”
La risposta di don Ramón è il brano in cui Lawrence distingue meglio il termine “Dio”, inteso nel senso consueto, dal termine “Dio” (o “divinità”) nel senso a lui caro di quel che distingue gli esseri umani dagli altri animali: “E quando l’aveste trovata, la vostra umanità ― dico la vostra femminilità ― allora sapreste che è vostra non per disporne come vi pare. Non dipende dalla vostra volontà. Viene dal centro di voi, dalla divinità che è in voi. Oltre a noi stessi, dentro, c’è la divinità. Ed essa ci dà la nostra umanità e poi ci abbandona a questa. E noi non abbiamo altro che la nostra umanità. Dio ce la dà, e poi lascia che ce la sbrighiamo da noi” conclude don Ramón.
È forse di qualche interesse notare che Elio Vittorini traduce “Il Serpente piumato” nel 1935, a ventisette anni, mentre sta scrivendo “Il garofano rosso” e medita di smettere, una volta per sempre, di definirsi un “fascista di sinistra”...
A Kate sembra di capirla, la “divinità-umanità” predicata da don Ramón, ascoltando un indio che si è convertito alla nuova fede “cantare come i vecchi Pellerossa [dei quali Lawrence, altrove, ha ammirato i riti in cui danzano “come uccelli”, non volti al cielo ma chini verso il centro della Terra], intensi e contenuti, come cantando tra sé, alla propria anima, non al mondo esterno, né a Dio come cantano i cristiani. Cantare entro il proprio mistero, con una specie di estatica e soffocata intensità, non nello spazio ma nell’altra dimensione dove l’uomo trova sé stesso, nell’estensione infinita che è l’asse dello spazio rotante. [...] Riavviando l’anima al centro del tempo ch’è più antico di ogni epoca”.
È per questa ambiguità che Lawrence può servirsi della parola “Dio” per quel che si oppone, in noi, alla volontà di annientamento propria del materialismo anti-umano. Come, per esempio, quando Kate s’interroga sull’America:
“Talvolta Kate si chiede se l’America non sia davvero un immenso continente di morte, la suprema negazione opposta al ‘sì’ dell’Europa, dell’Asia e perfino dell’Africa. È forse il grande crogiolo in cui gli uomini dei continenti positivi vengono di nuovo posti a fondere, e non per una nuova creazione, ma per uniformarsi nell’omogeneità della morte? È il gran continente del disfacimento, e quelli che vi abitano sono gli operai della distruzione? Scavare, scavare dentro l’anima dell’uomo fino ad asportarne il germe della crescita riducendola a un meccanismo automatico senz’altra aspirazione né desiderio che di estirpare il nucleo vitale da ogni vivente? È questa la chiave del significato dell’America?, si chiede Kate. È il grande continente della morte, che distrugge tutto ciò che gli altri continenti hanno costruito? È abitato da uno spirito che vuol cavare gli occhi dal volto di Dio? È questa l’America? E tutti coloro che ci vengono, d’ogni colore siano, sono gli esauriti, a cui è venuto a mancare l’impulso di Dio, che accorrono al grande continente della negazione, dove la volontà umana si dichiara ‘libera’ per opprimere e annientare l’anima del mondo? È così? È così che si spiega l’esodo immane verso il Nuovo Mondo di tutte le anime esaurite verso il regno della democrazia senza Dio, e della brutale negazione che è l’alito del materialismo? E questa grande spinta negativa finirà per spezzare il cuore del mondo?”
“C’è uno sguardo rovesciato negli occhi di tanti uomini bianchi, uno sguardo di nullità, di vita che scorre all’incontrario”.
“Ma Kate ha conosciuto Ramón Carrasco e Cipriano. E quelli sì, sono uomini. Vogliono qualcosa ch’è al di là... E lei vorrebbe credere in loro: in tutto ciò che vorrebbero farle credere, pur di uscire dalla sterile nullità del mondo in cui la sua vita ristagna. [...] Dopo tutto, una volta liberi dal tocco nefasto del socialismo e degli agitatori, e malgrado l’orrore sempre latente nel Messico, questi uomini dalle facce scure le fanno sentire la paurosa grandezza della vita e l’impenetrabilità della morte. [...] «Devo, devo, devo ancora credere a qualcosa di umano! Non dev’essere tutto finito, per me! [...] Datemi il mistero, fate che il mondo sia di nuovo vivo, per me! E salvatemi dall’automatismo dell’uomo!» grida Kate, dal fondo della sua anima”.
“Quetzalcoatl è una parola viva, per questa gente; ecco cos’è, nient’altro che una parola viva” spiega don Ramón per chiarire il senso del suo predicare agli indios il ritorno agli antichi Dei. “E quello che voglio è indurli a trovare la strada della femminilità e della virilità. Gli uomini non sono ancora completamente uomini, e le donne non son ancora completamente donne. Sono esseri incompleti, fatti d’un’accozzaglia di elementi, buoni solo in parte, e in parte malinconici, in parte nefandi. Si sono fermati a metà”.
“Con una donna, l’uomo ha sempre voglia di lasciarsi andare. E invece è precisamente con una donna che non dovrebbe mai lasciarsi andare. È precisamente con una donna, dico, che dovrebbe piuttosto attaccarsi alla propria fede più profonda [ricordiamo l’idea di “divinità-umanità” di cui abbiamo parlato poc’anzi] per incontrarla in essa. Poiché, se la fede più profonda coincide in tutt’e due e diventa fisica, è proprio in essa, soltanto in essa, che possono incontrarsi. Non è buono se non c’è incontro, se l’uomo rapisce la donna e la donna rapisce l’uomo...” “Invece gli uomini disprezzano le donne e vivono soltanto per esse, e questo è un vero suicidio” dice Ramón.
Lascerò che scopriate da soli se Kate sposerà Cipriano Viedma, e se con lui e con don Ramón accetterà di impersonare la Dea Malintzin [sulla quale vi invito a una piccola ricerca su Wikipedia e su YouTube] nella triade divina della nuova religione da essi predicata per la rinascita del Messico e dell’Umanità. Aggiungo soltanto quel che ella dice a sé stessa mentre cerca di prendere una decisione: “Come sono falsa! So bene di essere io a non avere un’assoluta necessità di loro. E che voglio solo me, per me stessa. E tuttavia li inganno perché non se ne accorgano”.
“Il Serpente piumato”, sebbene la sua splendida protagonista lo renda dolorosamente affascinante, è un romanzo troppo ideologico ― sia pure di un’ideologia che Lawrence non trovò altrove che in sé stesso, nella propria storia, nei propri sentimenti sempre sinceri, nelle proprie opere ― perché lo si possa considerare riuscito. Anche lui se ne accorse, e per questo scrisse “L’Amante di Lady Chatterley” (1928): poiché, spiega il suo incipit, “il cataclisma s’è abbattuto, siamo tra le rovine; cominciamo a ricostruire nuovi piccoli centri di vita, a nutrire nuove piccole speranze. È un lavoro piuttosto duro; la strada verso l’avvenire non è agevole: dobbiamo aggirare gli ostacoli o cercare di scavalcarli. Per quanto sia grande il numero dei cieli che ci sono crollati sulla testa, dobbiamo pur vivere... E tale, più o meno, è la situazione di Constance Chatterley”, moglie ancora giovane di un giovane nobile che la guerra le ha restituito paralizzato dalla vita in giù: un uomo “in cui qualcosa è morto, la sua capacità di sentire lo ha, fino a un certo punto, abbandonato, c’è in lui come una lacuna, un difetto di percezione”... Un uomo, insomma, che si è reso del tutto anaffettivo, e accanto al quale Constance dovrà vivere il resto della sua vita in una ricca ma solitaria dimora di campagna.
La vicenda è troppo nota perché la si debba raccontare: tutti, o quasi, sanno che Lady Chatterley incontra il guardacaccia del marito e, nonostante li divida una distanza sociale enorme (nel 1929, ma oggi incomprensibile) se ne innamora con tutta sé stessa. Poiché lei, oltre che Constance Chatterley, è anche la donna che vive da sempre in David Herbert Lawrence, e lui, Oliver Mellors, è l’uomo che Lawrence ha cercato per tutta la vita di essere e, soprattutto, di trovare per le sue protagoniste immensamente amate... Non racconto, dunque, ma vi do soltanto un’idea dei tre personaggi principali attraverso le loro parole e quelle del loro autore.
Clifford, il marito, è uno scrittore. Anzi: è la quintessenza di quel che uno scrittore, per Lawrence, non deve essere: in lui, “forse, in definitiva, non c’è niente da avvicinare o capire; egli rappresenta la negazione di ogni contatto umano”. I suoi racconti, benché lo rendano in poco tempo piuttosto celebre, sono “intelligenti, piuttosto maligni, eppure misteriosamente sprovvisti di significato. Lo spirito di osservazione è caratteristico e straordinario, ma senza sostanza, senza vero contatto umano; tutto sembra svolgersi nel vuoto. E come oggi la vita è in gran parte una scena illuminata artificialmente, quei racconti sono curiosamente fedeli allo spirito della vita o, meglio, della psicologia del tempo”. Quando Clifford “guarda fisso Connie in quello strano modo, dandole le sue informazioni così minute e precise, lei sente il fondo del suo spirito riempirsi di nebbia, di niente. E ha paura. Egli appare così impersonale, quasi vicino all’idiozia. E come si diffonde in lui, Connie la sente riversarsi in lei. Un timore interiore, un vuoto, una terribile indifferenza per ogni cosa si impadroniscono a poco a poco della sua anima. [...] La sola realtà [di Clifford] è il nulla, e sopra di esso l’ipocrisia delle parole”. “Come per molti insensati, si può misurare la sua demenza dalla quantità di cose di cui NON si rende conto, dai grandi spazi deserti della sua mente”.
(Mentre, a proposito di scrittori e di romanzi, “prestare orecchio alle storie più intime degli altri è lecito, ma soltanto in uno spirito di rispetto, in uno spirito di simpatia delicata e perspicace per quella cosa che lotta e soffre, che è l’anima umana. Perfino la satira è una forma di simpatia. Non altro che il modo in cui la nostra simpatia si effonde o si ritrae determina in realtà la nostra vita. Di qui l’immensa importanza del romanzo, se usato a buon fine. Può regolare la corrente della nostra simpatia verso nuovi oggetti e distrarla da cose ormai morte. Perciò il romanzo, se usato a buon fine, può svelare i motivi più segreti della vita; poiché la corrente delle conoscenze sensitive deve scorrere e penetrare, purificatrice e corroborante, soprattutto nelle passioni segrete della vita. Ma il romanzo, come il pettegolezzo, può eccitare anche simpatie e sdegni senza sincerità, meccanici, e mortali per l’anima. [...] Per questa ragione la maggior parte dei romanzi, soprattutto quelli che tutti leggono, sono umilianti”).
Connie incontra di nuovo Mellors quando lo vede, nella sua qualità di guardacaccia, sparare a un gatto davanti alla figlia di nove anni, (egli infatti è sposato: la moglie se n’è andata e la bambina vive con la madre di lui). È una scena, badate, che l’autore ha espressamente voluto per suscitare nella protagonista e in noi la massima ripugnanza compatibile con la necessità che sia lei sia noi ce ne innamoriamo, in séguito, così come di Mellors è “innamorato” lui. E perché vuole che prima lo detestiamo? Per due motivi: per immedesimarci nell’avversione di Connie non solo in un’epoca di distanze sociali insormontabili, ma in qualsiasi epoca il romanzo sarà letto; e per dirci che dinanzi a quel che il ’900 ha fatto al mondo e all’Umanità, non si può fare gli schizzinosi: solo i Mellors possono salvarci da un’epoca in cui “tutte le grandi parole sono diventate vane: amore, gioia, felicità, casa, padre, madre, marito, moglie, tutte le grandi parole sono pressoché morte, ora, e vanno morendo di giorno in giorno. La casa non è che un luogo dove si vive; l’amore una cosa che non inganna più; la gioia una parola da applicarsi a un bel charleston; la felicità un termine ipocrita usato per ingannare gli altri; il padre una persona che si gode la vita; il marito un uomo con cui si vive e che si cerca di tener di buon umore. E quanto al sesso, l’ultima gran parola, non è che un nome da cocktail applicato a un’eccitazione fugace che diverte un istante e lascia più flaccidi di prima. Tutto logoro! È come se la materia di cui si è fatti sia una stoffa di poco valore che si va riducendo a nulla. [...] Si ha solo bisogno di soldi per far muovere il meccanismo della vita. E nient’altro, in fondo. Tutto qui!”
(Però “potrebbero perfino esserci veri uomini, in futuro” dice l’amico Tommy, un alter ego di Lawrence. “Veri uomini, intelligenti e sani, e donne belle e sane! Non sarebbe un cambiamento enorme? Noi non siamo uomini, e le donne non sono donne. Non troviamo che espedienti cerebrali, espedienti meccanici e intellettuali. Ma può anche venire una civiltà di veri uomini e di vere donne”).
In questa realtà, Connie “sta perdendo ogni valore: un corpo che sta diventando opaco e vano, niente più che materia insignificante. Si sente infinitamente depressa e senza speranza. Che speranza ha? È vecchia, vecchia a ventisette anni, senza splendore, senza luce nella carne. Vecchia per negligenza e rinuncia; sì: rinuncia”.
Mellors, dal canto suo, dinanzi all’evidente interesse che Connie prova per lui, “è risentito di veder violata quella solitudine che ama come l’unica, ultima libertà della sua vita. È triste. Quale violazione della sua intimità, e quanto pericolosa! Una donna! Egli è giunto a quello stato d’animo in cui tutto ciò che si vuole sulla terra è di star soli.”. Ma poi, un giorno, accoccolato vicino a Connie a guardare “un animaletto coraggioso”, un pulcino che ella tiene in mano, “vede una lacrima caderle sul polso”. E allora il suo viso si fa “pallido, inespressivo, simile a quello di un uomo che si arrende al destino”. “La vita” dice a Connie, “non c’è mezzo di eluderla. Se la si elude, tanto vale morire, quasi. Così sono tornato da capo”. “Ella lo ha riunito all’umanità, mentre voleva rimanere solo. Ha rinunciato per lei all’amara indipendenza dell’uomo che non voleva, infine, che rimanere solo”. “Pensa alla donna con tenerezza infinita [e oltre che Mellors è naturalmente anche Lawrence che pensa alla sua protagonista, alla donna che da sempre è in lui]. Povero essere smarrito, è molto più bella che non sappia; di gran lunga troppo bella per la volgare accozzaglia di gente con la quale vive gomito a gomito! Povera piccola, ha anche lei un po’ della delicatezza dei giacinti selvaggi, non è un impasto di gomma e platino come la donna moderna. [...] Ed egli “ha paura per lei. Non di sé stesso, ma della società, che intuisce essere una bestia malevola, pressoché pazza”. “«Ah! Che cos’è toccarti!» dice, accarezzando col dito la sua pelle delicata, segreta, del busto e delle anche. Abbassa la testa e strofina la guancia sul ventre di lei, e sulle cosce, ancora e ancora. E di nuovo ella si meraviglia un poco di quella sorta di estasi che egli vi prova. Non comprende la bellezza che egli trova in lei, toccando il suo corpo vivo e segreto, quasi l’estasi della bellezza. Solo la passione può comprenderla. E se la passione è assente o morta, allora il palpito magnifico della bellezza è incomprensibile e anche un po’ spregevole: calda, viva bellezza del contatto, tanto più profonda della bellezza goduta dagli occhi”. “«Tiemmi! Tiemmi forte!» mormora Connie, in preda alla frenesia, senza sapere quel che dice, stringendosi a lui con forza quasi sovraumana. È da sé stessa che vuol essere salvata, da quel rancore, da quella resistenza che sente in sé stessa. Eppure, quale forza in quella resistenza intima che la possiede!” Mellors: “Per me è l’essenza della vita avere con una donna una relazione quale si conviene”. “Sì, credo in qualche cosa. Credo nella necessità di avere un cuore caldo. Credo soprattutto nella necessità di avere un cuore caldo in amore, nel prendere con cuore caldo una donna. Credo che se gli uomini amassero con cuore caldo, e le donne ricambiassero con cuore caldo il loro amore, tutto andrebbe bene. Ma tutto questo amoreggiare a freddo e senza cuore non è che morte e idiozia”. “Oh, «divertirsi»! È la malattia del secolo”. “E mentre il suo seme sprizza in lei, anche l’anima sua sgorga verso di lei, in quell’atto di crezione che è ben più della procreazione”. “John Thomas augura buona notte a Lady Jane, un po’ a capo chino ma col cuore pieno di speranze”. “Tutti VOGLIONO dividere una donna e un uomo che stanno insieme così”.
124. Ledda, Gavino: “Padre padrone”
Ho visto dei padri “padroni”, insegnando nella Scuola media di un piccolo paese del Lazio. Esistono ancora. E anche senza bastonare i figli riescono ancora a renderli schiavi per tutta la vita; e a rendere le figlie le repliche delle madri che vedevo accanto a quei padri: simili ai mariti ma più scaltre, capaci, anche se spente come donne, di farsi credere dai figli attente e sollecite verso i loro studi, il loro futuro, mentre in realtà ― odiando anch’esse, fino a non poter neppure immaginarla, l’idea che diversamente dai genitori restassero umani ― insieme ai mariti li avevano segregati fin dalla nascita in una dimensione famigliare talmente incentrata solo sui bisogni materiali, talmente immersa nella fatuità delle forme più basse di “divertimento”, talmente insensibile a quel che ci distingue dagli altri animali, da precludere loro ogni possibilità di scorgere nella scuola e nello studio vie di realizzazione diverse, migliori, opposte al fallimento del padre e della madre come esseri umani. A meno che...
A meno che come Gavino Ledda (1938 ― vivente) riuscissero a resistere, a continuare a cercare quel che i genitori volevano far loro credere inesistente.
Raccontando del padre che l’aveva tolto da scuola mentre ancora imparava a “far bene le aste, a scrivere e a leggere le vocali e le consonanti ― “Sono venuto a riprendermi il ragazzo. Mi serve a governare le pecore e a custodirle... È mio. E io sono solo. Non posso lasciare il gregge incustodito...” ― Gavino Ledda, che nel 1975 aveva trentasette anni, era stato analfabeta fino a venti, e con la nuda forza della sua volontà solitaria era poi arrivato a laurearsi in glottologia, scrisse che quello del padre alla maestra e a lui era stato il “terribile discorso della realtà”, di una “verità giunta troppo in fretta”.
Nella foto vedete la prima copertina del suo libro. Mi colpì la recensione de “l’Unità” e lo comprai. Perciò il film dei fratelli Taviani, che uscì due anni dopo, sulla mia lettura non poté avere altro influsso che quello di affievolirne la memoria e la comprensione. Avevo tredici anni meno di Gavino Ledda, e da quattro studiavo Storia e Filosofia.
Non ero il figlio di un pastore. E mio padre era tutto meno che un padrone. Ma anche la mia infanzia e adolescenza, anche i mei studi si erano scontrati col “discorso della realtà” nella quale ora, a ventiquattro anni, nonostante i privilegi di cui avevo goduto, cominciavo a capire di dover scavarmi un cunicolo come un sepolto vivo cercando di arrivare a una qualche realizzazione prima che umanamente mi soffocasse. Il “discorso della realtà”, solo chi non gli sopravvisse può illudersi di non aver dovuto affrontarlo.
Non mi paragono a Gavino: per lui fu tutto immensamente più arduo. Quel che voglio dire è che quasi nessuno ha un’infanzia e un’adolescenza facili, dinanzi al discorso che la realtà vuol fargli credere eterno benché stia cambiando fin dal momento in cui ha iniziato a farlo.
Neanche la realtà in cui il padre di Gavino aveva sempre vissuto era immutabile come lui credeva. E il suo discorso su di essa cominciava già, sotto i suoi stessi, ciechi occhi, a rivelarsi del tutto vano: un discorso sul nulla.
Eppure all’inizio poté sembrare suggestivo: “Ascoltavo attentamente le sue descrizioni e la sua ‘matematica naturale’, come rapito, quasi la sua bocca fosse la fucina in cui le cose divenivano realtà e io le vedessi nascere per incanto” racconta Gavino. “Mio padre mi appariva il creatore di quel mondo che lui per me creava con le parole”. Ma poi, quando il padre comincia a lasciarlo solo col gregge nella campagna deserta, l’unico modo di sentire ancora di esistere è scoprire, a meno di dieci anni, la masturbazione: “Quando non avevo null’altro da fare, entravo nei cespugli prediletti e le mie trenta quaranta seghettine al giorno non me le toglieva nessuno”.
È allora che per Gavino la solitudine comincia a essere “un silenzio interminabile” che ad ascoltarlo gli “stordisce l’esistenza” (e lui lo “rompe con urla, prodotte dalla paura, che gli danno coraggio, cosìcché “è la paura stessa a generare il coraggio”). È allora che una serpe lo terrorizza “fin quasi al delirio”. Ed è allora che il padre, ancora capace di rendersi talvolta affascinante, per dimostrargli che le serpi sono innocue (in Sardegna non ci sono vipere) inscena per lui, “come una forza della natura scatenata”, un grande spettacolo di caccia, di lotta e di morte.
Non è che non condividesse col figlio tutto quel che sapeva, insomma, il padre padrone. Il “terribile discorso della realtà” glielo recitò e insegnò per filo e per segno meglio di tanti altri padri e maestri dai discorsi (apparentemente) meno terribili. Ma allo stesso tempo, oltre a isolarlo come una bestia dal mondo umano, talvolta lo ridusse fin quasi in fin di vita dalle botte, pur di dissuaderlo per sempre anche solo dalla speranza di poter liberarsi.
Guarito da una broncopolmonite che quasi lo uccide, “i giochi con i compagni non mi dicevano più nulla. Essi avevano un’altra fantasia. Io ero già diverso da loro. Un solo anno di campagna mi aveva maturato di almeno dieci anni rispetto a loro. Alla scuola del babbo si imparavano cose ben più profonde di quelle aste e di quelle consonanti che loro ora sapevano a memoria. I loro giochi non me li ricordavo più e non mi attiravano. Solo il silenzio della campagna e scoprire la natura mi incuriosiva”. Quel silenzio, adesso, non lo spaventava più. “Avevo superato [...] il primo anno di svezzamento che molti pastorelli non finivano, [...] morivano come agnelli invernali”. Col silenzio ora parlava, dava del “tu” alla natura, dava nomi alle cose; e quando le nominava al padre, egli “s’immedesimava nella [sua] fantasia creatrice senza difficoltà” perché “non aveva ancora dimenticato quella della sua infanzia solitaria vissuta negli stessi luoghi e nelle stesse condizioni”. Ma non per questo il “discorso della realtà” che era il suo rapporto col padre diventò meno “terribile”, anzi: lo diventò sempre più. Poiché “i patriarchi [...] esigono che i loro bambini divengano uomini contro il tempo. Devono produrre da uomini. Le bagatelle non trovano giustificazione. Tutto deve essere saggezza e maturità”. Per il padre quel che rende la vita umana affettuosa, tenera, sensibile, bella ― la musica, per esempio, che Gavino voleva imparare ― non era altro che “bagatelle”, sciocchezze, qualcosa che attenuava la concentrazione violenta con cui la guerra contro la “terribile realtà” doveva essere combattuta, giorno e notte, senza mai darsi tregua. “Poiché un giorno i frutti di tutto questo lavoro saranno tuoi e dei tuoi fratelli” tentava di giustificarsi. Mentre Gavino, a poco a poco, comprendeva che il padre mentiva, e lo sapeva: il figlio, gli altri figli, la madre, erano per lui solo gli schiavi che per tutta la vita, senza mai poter vederlo appagato, avrebbero dovuto soddisfare la sua bramosia di possesso, di denaro, di potere.
“Per potermi usare meglio, il babbo allora mi comprò i buoi. Così a me ora toccava fare di giorno l’agricoltore e di notte il pastore. Posseduto dal demone del peculio e del potere patriarcale, poteva [...] sezionarmi in due, pretendere che lavorassi in continuazione come lo scorrere del tempo: che oscillassi come un pendolo tra le due attività fuori dalle leggi biologiche. [...] La stanchezza mi faceva dimenticare quello che stavo facendo e ancora un po’ e sarei morto. La vita cessata. Ero un pendolo che oscillava tra la vita e la morte senza saperlo. E nulla è più dolente di questa tragica oscillazione”.
Nel 1962, a ventiquattro anni ― la stessa età che avrei avuto io quando avrei letto il suo libro ― Gavino torna a Siligo, il suo paese, dopo quattro anni di servizio militare. Durante i quali, con la forza della volontà e l’aiuto di alcuni commilitoni, ha imparato a parlare in italiano, ha studiato fino alla licenza media, si sta preparando all’esame per la quinta ginnasio. Ora ha un suo “discorso”, una sua “realtà”, da opporre a quelli del padre: “Tu mi hai rovinato fino a ventun anni” gli dice. Mi hai sfruttato e usato fino a ventun anni, e hai fatto lo stesso con i miei fratelli. Cosa, naturalmente, che hanno fatto tutti i pastori. Ma se guardi bene tu hai allevato forse la famiglia più ignorante di Siligo. [...] Nessuno mette in dubbio che tu abbia lavorato, anzi, si può dire che tu abbia lavorato anche troppo, ma non per sostentarci, come dici tu, [...] ma [...] con la smania di arricchirti. E questo non lo puoi negare. Hai prestato e presti soldi a tutto il parentado con alti interessi”. [...] “Io sono il padrone, qui. Sono tuo padre”. “Tu non sei padrone di niente e del padre me ne sbatto. Io di padre non ne voglio, del sangue me ne frego. Io sono al di sopra della parentela. Molti, senza che il sangue c’entrasse, mi hanno aiutato più di te in questi ultimi anni e altri sono pronti a farlo. Ti rispetto solo come uomo. Ma se cerchi di assalirmi te lo impedisco con questi artigli”.
Si chiamava Abramo, il “padre padrone” di Gavino Ledda (morto a novantanove anni nel 2007). Abramo, come il padre di Isacco. E, come Abramo, ossessionato fino a far di sé un mostro: quasi l’assassino del figlio. Ossessionato, però, non da Dio onnipotente, come il patriarca biblico, ma dalla “smania di arricchirsi”: dal Dio Denaro.
Guardate di nuovo, ora, la copertina della prima edizione di “Padre padrone”, datata 18 aprile 1975. Non vi sembra troppo “bonaccione”, quel padre, a paragone di quel che accade nelle pagine che quella copertina racchiude? E quel figlio non vi sembra troppo sereno? Non credo che Silvio Coppola (architetto, designer, grafico, accademico, 1920 ― 1985) non abbia letto il libro: penso, piuttosto, che non sia riuscito ad adeguarsi alla “terribile realtà” di quel discorso. Per i grafici delle edizioni successive fu più facile: si servirono delle foto di scena del film dei Taviani. Che però è come la prima copertina: di gran lunga meno terribile della realtà che contiene e del suo discorso. Ma se ne rende conto, e allude a essa con la sequenza in cui Gavino, adulto, si dondola su sé stesso in una tremenda, perdurante solitudine non diversa, purtroppo, da quella di Baddevrustana.
18 aprile 1975. Io, dunque, lessi “Padre padrone” all’inizio dell’anno più appassionato e avventuroso della mia giovinezza. Nella stessa primavera ― forse negli stessi giorni ― in cui rientravo in rapporto con mio padre dopo un tempo lunghissimo in cui mi era dapprima diventato estraneo e poi, dai sedici anni, un nemico con cui dovevo convivere e che perciò fingevo di tollerare. Cosa mi aveva fatto? Quasi niente. Fra noi c’erano stati solo equivoci, incomprensioni, incapacità di comunicare; e in più, da parte sua, una debolezza che lo rendeva incapace di difendermi dai “discorsi della realtà” e di istruirmi su di essi, benché non fosse lui a farmeli. Per anni, fino a quei giorni del ’75, la lettura di “Padre padrone” mi avrebbe indurito ancora di più nei suoi confronti. Non mi sarei lasciato sfuggire l’occasione di identificarlo con Abramo. Anche perché quello era il tempo in cui milioni di figli, non solo io, nel cosiddetto Occidente, ci ribellavamo ai padri che non volevano o non riuscivano a staccarsi da una realtà che per noi era irrimediabilmente malata, morente, forse morta. E invece no: in quei giorni io rientrai in rapporto col mio, quasi diventammo affettuosi, come non lo eravamo più stati da quando avevo sei anni, e qualche mese dopo, verso la fine dell’estate (a riprova del fatto che alla sua visione del mondo non stavo però facendo alcuna concessione) lo convinsi ad andare insieme per qualche giorno a Firenze ― cinquantacinque anni lui, ventiquattro io ― a una Festa nazionale de “l’Unità” con cui, a parte me, niente aveva a che spartire. Mentre altri “sessantottini” ribelli, in altri luoghi, cominciavano invece a pianificare il rapimento e l’assassinio di un padre della Repubblica italiana.
18 aprile 1975. La stessa primavera ― forse gli stessi giorni ― in cui leggevo in “Istinto di morte e conoscenza”, di Massimo Fagioli (1931 ― 2017) la storia di un ragazzo che aveva “realizzato la sua virilità e il piacere sessuale insieme alla fantasia di aver fatto sparire suo padre. Si [era] realizzato vuoto, aggressivo nel senso di totalmente aggressivo perché non rimaneva nulla in [lui], come in fantasia non rimaneva nulla di suo padre” (Massimo Fagioli, “Istinto di morte e conoscenza”, Roma, 1972, p. 31 ― oggi pubblicato da L’asino d’oro edizioni).
18 aprile 1975. Nel pieno della più grande storia d’amore della mia vita.
Quel che rende “Padre padrone” irreparabilmente triste, almeno per me, è proprio la differenza tra la primavera del 1975 del suo protagonista e la mia. Una differenza che scaturisce dal fatto che nelle sue 226 pagine la presenza femminile è inesistente: alla madre, alle sorelle, alla maestra perduta, non sono dedicate più di alcune righe. Nella campagna deserta, le uniche femmine sono capre, galline, asine. Durante i quattro anni di naia, solo qualche prostituta. E il “terribile discorso della realtà”, pensando a questa terribile differenza tra le nostre due primavere, mi sembra che soltanto su di me non abbia trionfato.
125. Lee, Harper: “Il Buio oltre la Siepe”
C’è, ne “Il Buio oltre la Siepe” (buon titolo italiano di “To Kill a Mockingbird” ― “Uccidere un Usignuolo”), l’immenso lavoro di ricerca che i bambini fanno, struggente, spesso inconsapevole, talvolta drammatico, per capire il mondo sconcertante degli adulti, bellissimo e atroce, e non esserne distrutti fisicamente e mentalmente.
In questo, il romanzo di Harper Lee (1926 ― 2016) continua la grande e incompresa novità ottocentesca e della prima metà del Novecento della riapparizione dei piccoli umani da un buio millenario (gli abbandoni e i ritrovamenti, le fughe e i ritorni, le scomparse e ricomparse di Hänsel e Gretel, di Maria Stahlbaum, di Tom Sawyer, di Huckleberry Finn, di Jim Hawkins, di Pinocchio, di Egòruška, di Holden e Phoebe Caulfield). E la arricchisce e la completa immaginando una bambina nel “luogo” in cui i bambini spariscono, a un passo dalla siepe che divide la luce dal buio, e narrando il suo diventare grande senza mai mettere in dubbio il suo essere, dalla nascita, la protagonista della propria vita.
Una bambina ― Jean Louise Finch, detta Scout ― che fin quasi alla fine del libro comprende poco di quel che accade e mette tutti in imbarazzo con le sue gaffe, e intanto è però inconsapevolmente in rapporto con gli altri a un livello di cui solo lei è capace (Atticus: “C’è voluta nientemeno che una bambina di otto anni per farli rientrare in sé! Ciò dimostra che anche una banda di bruti può essere fermata, semplicemente perché son pur sempre esseri umani. Chissà, forse avremmo bisogno di una polizia composta di bambini... Voi ragazzi stanotte siete riusciti [ma è stata solo Scout, n.d.r.] a far sì che Walther Cunningham si mettesse nei miei panni per un attimo, ed è bastato”) e sa intuire, o sentire, quel che nessun altro intuisce né sente: “Perfino i neonati stavan tranquilli, e per un attimo mi chiesi se fossero stati soffocati al petto dalle loro madri” pensa, al processo, quando si rende conto che Mayella Ewell sta mentendo perché Tom Robinson muoia: una bambina capace di sentire il mondo capovolgersi e l’umano farsi disumano, anche se un attimo dopo, quando “Jem si volge a Dill spiegandogli [...] i punti più interessanti del dibattito”, si chiede ingenuamente “quali possano essere”.
C’è, poi, ne “Il buio oltre la siepe”, il rapporto di Scout e Jem e del loro amico Dill con un adulto, Atticus Finch ― avvocato integerrimo quanto abile e padre amorevole e saggio: un giusto che “non può vivere in città in un modo e a casa sua in un altro” ― che è l’uomo migliore che si possa immaginare, poiché ha il coraggio di entrare in conflitto con i suoi concittadini (“prima di vivere con gli altri, bisogna che viva con me stesso”) per difendere i diritti fondamentali di ogni essere umano e per meritarsi il rispetto dei figli (“se non lo facessi [...] non potrei dire a te o a Jem: fa’ questo e non far quello”) e che lotta, diversamente dai suoi nemici e dagli avversari, senza tentare di rendersi anaffettivo nemmeno quando la sua sensibilità per la sventurata condizione di Mayella Ewell rischia di indebolirlo nella difesa della giustizia che per lui è tutto.
Poiché Mayella è una “strega”, certo, ma è figlia anche lei, come Scout e Jem. E anche in lei, dunque, Atticus vede quell’umanità meno forte, e perciò “a rischio”, i bambini, le donne, i neri, i “diversi”, che egli è al mondo per difendere, perché non cadano in quel buio oltre la siepe che a Maycomb non è notte, né sonno, né tanto meno l’irrazionale profondo ch’è solo umano, ma il “luogo” spaventoso della segregazione e tortura di chi non è tollerato ― poiché bambino, o poiché donna, o poiché di un altro colore, o poiché “diverso” ― dall’ordine implacabile dei maschi adulti bianchi e delle loro signore. Ordine di cui anche Atticus, perfino Atticus, è parte, e che egli si ostina invece a credere il “luogo” della luce, l’unico in cui si può vivere con giustizia e umanamente e rispettando i diritti di tutti. E perciò non comprende, Atticus, come sia possibile che altri vi siano invece così pieni d’odio, violenti, stupidi ― lo dice più di una volta: “non capisco”; e lo dice in particolare a Scout, perché è con la figlia che Atticus arriva QUASI a superare sé stesso e a vedere... che vi è qualcosa che lui non vede, nella luce e nel buio al di qua e al di là della siepe.
Dinanzi ai piccoli e ai deboli, vittime “predestinate” dell’ordine di Maycomb, Atticus si erge a impersonare quello stesso ordine da uomo giusto, buono, amorevole, ed è con loro gentile, dolce, paziente, affettuoso, sempre presente, equo, severo solo quando è necessario (e anche allora soffrendo) ― tutto, insomma: Atticus è tutto quel che si può desiderare. Meno una cosa: nel buio non si arrischia, non entra, non va a vedere. E mai vi si fermerebbe a vivere. Perciò Tom Robinson, rinchiuso nella cella della morte dalla stessa Maycomb “della luce” da cui Atticus non può uscire, tenta la fuga da solo. E perciò soccombe.
Ha un solo difetto, infatti, Atticus: non ha una donna. Ve ne sono diverse, intorno a lui, che più o meno validamente lo aiutano a prendersi cura dei figli: Calpurnia, la zia Alexandra, miss Maudie Atkinson, miss Dubose, miss Stephanie Crawford. Ma nessuna che gli stia “appresso” o a cui stia dietro lui. Egli, certo, vive nel ricordo incancellabile della moglie e in un luogo e un’epoca in cui i vedovi che si risposano non sono apprezzati... Ma è uomo che non avrebbe alcun timore di andare anche contro questa convenzione, se la ritenesse ingiusta, insopportabile o anche solo irrilevante: perché non s’innamora, dunque?
E come Atticus non ha donna, i figli non hanno madri, a Maycomb: né Scout e Jem, né Dill (in pratica), né Arthur Boo Radley, né Mayella Ewell... Che l’ordine costituito, la “luce” al di qua della siepe, faccia morire le donne prima del tempo? E perfino accanto a un uomo come Atticus Finch?
Niente, ne “Il buio oltre la siepe”, lascia sospettare che Atticus odi le donne. Per chi ama questo libro (e soprattutto per chi, come me, ha sempre cercato di essere uomo “alla sua altezza”), l’idea è ripugnante: la si rifiuta come una sorta di sacrilegio nel momento stesso in cui la si pensa. Nondimeno le sue difficoltà di rapporto con le donne debbono essere spiegate, e ne “Il buio oltre la siepe” c’è qualcosa che forse può spiegarle: Atticus non ha alcun rapporto con l’irrazionale. Non una volta, negli anni d’infanzia che Harper Lee ci narra di Scout e Jem, i bambini raccontano al padre un sogno. Poiché a Maycomb, anche per Atticus, nel buio oltre la siepe non ci sono che mostri.
Ma non per Scout e Jem. Per loro, nel buio oltre la siepe c’è anche Arthur “Boo” Radley. Riguardo al quale, soltanto Scout e Jem non sono così sicuri che sia un mostro da non voler andare “oltre la siepe” a vedere se lo è o non. Mentre nella “luce” al di qua della siepe non c’è nessuno, purtroppo, con cui parlarne davvero. Nemmeno Atticus.
Bambino e poi adolescente e poi uomo che da quindici anni non vede il sole, pallido come la cera, quasi trasparente, quasi senza più capelli, “incerto in ogni suo movimento come se non sia sicuro che le sue mani e i suoi piedi possano stabilire un contatto solido con le cose che tocca”, “Boo” Radley, anzi: Arthur Radley, è ancora del tutto umano. A dispetto di quel che gli è stato fatto, dell’orrore che ha subìto, della prigionia, della tortura, il piccolo Arthur è diventato adulto rimanendo perfettamente umano.
Difficile? Impossibile? No. Al contrario: è l’unica possibilità. Disumani non si può esserlo che volendolo, e insieme agli aguzzini infierendo su di sé per diventarlo. “Non si uccide un usignolo” non è un divieto: è la constatazione che l’umanità può essere annientata solo in chi acconsente. E pertanto è del tutto naturale che Arthur, a dispetto degli aguzzini, sia ancora l’usignolo umano che è impossibile uccidere poiché non lo si può privare del suo “not to do one thing but just sing his heart out for us”, “non saper fare altro che cantare il proprio cuore per noi”.
Nessun adulto, a Maycomb, neanche Atticus, è umanamente intatto come Arthur Radley, “Boo”, bambino e adolescente e uomo imprigionato e torturato: il mostro, la nera ombra terrorizzante acquattata nel buio oltre la muraglia di annullamento, d’odio e di stupidità che i concittadini gli hanno eretto intorno perché non vuole, come loro, rendersi non umano. Poiché la sua mano, dopo quindici anni di buio, è ancora “incredibilmente calda, nonostante la sua bianchezza”.
Scout non lo riconosce sùbito: “L’uomo che aveva portato Jem a casa stava in piedi in un angolo, la schiena al muro. Doveva essere un contadino che non conoscevo”. Gli altri invece sanno, lucidamente, chi è quel “contadino”; Atticus per primo: “Insieme, lui e l’uomo, portano dentro Jem”; poi Heck Tate, lo sceriffo: gli dà “una rapida occhiata” e gli fa “un cenno”; e infine il dottor Reynolds, di ritorno con le medicine per Jem, che gli dà la buona sera e si scusa per non essersi “accorto di lui la prima volta”. Sanno chi è, d’accordo. E lo trattano civilmente, gentilmente, affettuosamente, e si preoccupano per lui poiché sono, tutti, uomini buoni, a dispetto dell’ordine di Maycomb di cui pur fanno parte. Ma solo a Scout occorre qualche minuto per capire chi è. Solo lei è ancora capace di fare una scoperta, a suo riguardo0. Infatti comprende da sola, senza che si debba dirglielo: quando lo guarda di nuovo, e “le labbra di lui si aprono in un timido sorriso”, “le lacrime riempiono d’un tratto gli occhi” di lei, quindi “il volto di lui trema e si offusca”, e lei, in quel vederlo e non vederlo, lo riconosce attraverso le lacrime e nel riconoscerlo piange: “Ciao, Boo” dice. Piange perché scopre, da sola, che Arthur Radley, il mostro venuto dal buio, dalle “mani bianche, bianche da far impressione”, è un essere umano ancora del tutto umano; e che anche lei lo è, se nel riconoscerlo piange. Poiché non si può riconoscersi davvero se non con occhi un po’ offuscati. È con essi che si comprende, l’uno dell’altro, se si è ancora umani e quanto.
Si discute, poi, tra Atticus e lo sceriffo Tate, se Bob Ewell, l’assassino e stupratore per le cui false accuse il giovane nero Tom Robinson ha perso la vita, sia stato ucciso per legittima difesa da Jem (come dice suo padre) o si sia ucciso cadendo sul proprio coltello (come sostiene lo sceriffo) o sia stato ucciso da Arthur per salvare i bambini (come pensano tutt’e due e non dicono). Lo scopo della discussione è dunque la ricerca della verità? No: lo scopo è il nascondimento della verità fattuale (non verrà mai alla luce di Maycomb come sia morto davvero Bob Ewell, ma penso che non sia per errore che l’autrice non ha sciolto l’enigma) a favore di una verità profonda che il rapporto razionale con la realtà non può cogliere né tanto meno tutelare: Arthur e Jem devono essere protetti a ogni costo, anche contro le leggi di Maycomb scritte e non scritte, dal disconoscimento che tornerebbe a colpire il primo (e con violenza maggiore che mai) e che si abbatterebbe anche sul secondo, se della verità si andasse in cerca in piena luce senza alcun riguardo per loro.
Il che significa, nudo e crudo, che qui e ora, quando ne “Il buio oltre la siepe” siamo alle ultime pagine, luce e buio si scambiano di posto e Arthur e Jem devono essere nascosti nel buio, perché si possa seguitare a vederli e riconoscerli senza essere accecati dalla luce spietata di Maycomb. Poiché non c’è verità né bugia, non ci son legge né ordine che tengano, dinanzi all’assoluta necessità di difendere l’umano dal disconoscimento. Legge, ordine, correttezza, irreprensibilità, tutti i valori a cui ogni pagina del romanzo ha reso un immenso tributo, ora si rivelerebbero impotenti, peggio: nemici dell’umano, se non gli cedessero il passo. Sarebbero valori morti, proprio come morti sono i nudi fatti se a guardarli non sono gli occhi di Scout offuscati dalle lacrime. E allora “lasciamo che i morti seppelliscano i morti, signor Finch. Lasciamo che i morti seppelliscano i morti”. E se il povero e tuttavia meraviglioso Atticus non comprende e lo ammette, Scout invece ancora una volta comprende e dice che fare l’opposto, mettere i morti fatti al di sopra di tutto, “sarebbe come uccidere un usignolo”.
“Entrai nel giardino dei Radley per la seconda volta in vita mia. Boo ed io salimmo gli scalini che conducevano al portico. Le sue dita trovarono la maniglia della porta; lui lasciò andare dolcemente la mia mano, aprì la porta, entrò e la richiuse. Non lo vidi mai più”. Possibile che Arthur debba tornare per sempre nel buio, perché non si possa mai più disconoscerlo? Non penso... Penso e scrivo (a rischio di sbagliare, ma come scrivere se non rischiandolo?) che Boo, da allora, sia da qualche parte insieme a Scout. Forse in noi. E che il buio in cui è ora non sia più il buio dell’annullamento e dell’odio e della stupidità di Maycomb, ma quello da cui lui è uscito a cercare Scout e Jem e Dill, e in cui Scout e Jem e Dill sono entrati a cercarlo, e che insieme, Arthur e Scout e Jem e Dill, hanno trasformato per sempre.
“I vicini portano cibi quando qualcuno muore, fiori quando siamo malati e piccoli doni nelle occasioni intermedie. Boo era nostro vicino. Ci aveva regalato due bambole di sapone, un orologio rotto con la catena, due monetine portafortuna, e le nostre vite. [...] Mi volsi per andare a casa. I lampioni ammiccavano lungo la strada fino in città. Non avevo mai visto il nostro vicinato da quell’angolo. [...] Atticus aveva ragione. Una volta aveva detto che non si conosce davvero un uomo se non ci si mette nei suoi panni e non ci si va a spasso. Basta anche solo star fermi qualche attimo sul portico dei Radley”.
Chi sono “i vicini”? I vicini siamo tutti noi: l’Umanità. Cosa sono i doni di Boo? Piccole cose di nessun valore, a paragone delle vite da lui salvate, ma al contempo immense cose non meno preziose, senza le quali ― senza quel “canto di usignolo che non serve a niente, ma ci dona il cuore” ― non ci sarebbe alcuna vita umana da salvare. Ma perché i lampioni “ammiccano”? Poiché la loro luce è stata trasformata, non è più la gelida luce razionale dell’odio annullante di Maycomb: sono come gli occhi di Scout, adesso, “offuscati dalle lacrime”. Ma qual è “l’angolo” da cui ora Scout guarda il mondo e lo guarderà per sempre? È il buio che non è più l’orrore, che non è più Boo ma è Arthur.
La “ragione” di Atticus, dunque, si può rileggere così: “Una volta aveva detto che non si conosce davvero l’Uomo se non si rimane nei suoi panni e non ci si va a spasso. Basta anche solo star fermi qualche attimo sul portico dei Radley”.
E il “lieto fine” di Boo, benché non risarcisca il mondo della morte di Tom Robinson né tanto meno lo riporti in vita, lo “vendica” chiedendo e pretendendo da noi qualcosa che è ancor più grande e meraviglioso della “semplice” riapparizione dei neri e dei deboli, delle donne e dei bambini dal buio oltre la siepe, qualcosa che sembra impossibile ma non lo è: che oltre la siepe non vi sia altro buio, d’ora in poi, che quello in cui Boo è più che al sicuro nei sogni di Scout e di Jem e di tutti noi.
“Quasi tutti sono simpatici, Scout, quando finalmente si riesce a entrare nel buio con loro”.
Post scriptum
Mi dispiace tanto per chi non ha letto “Il buio oltre la siepe” o non ha, almeno, visto il film. Sono infelici che non sanno di esserlo. E, tra chi l’ha letto o l’ha visto, mi dispiace per chi non l’ha capito neanche un po’ o non ha, almeno, tentato. E tra chi l’ha letto, visto e capito, mi dispiace per chi non l’ha letto o visto coi bambini. E tra chi l’ha letto o visto con loro, mi dispiace tanto per chi, non essendo insegnante, non l’ha riletto o rivisto con altri bambini, e poi con altri ancòra, e ancòra, e ancòra...
I grandi libri e i grandi film sono ogni volta diversi, si sa. Ma letti e visti coi bambini ― purché non induriti e istupiditi dalla devastante esperienza di aver avuto accanto certi adulti in quei primi, decisivi anni ― essi sono, ogni volta, intensamente diversi. Magari solo per un dettaglio, e spesso apparentemente minuscolo, rileggere un grande libro o rivedere un grande film con una nuova classe è, per un insegnante, un evento sempre assoluto, e tanto più sconvolgente e trasformativo quanto più la classe per prima lo vive intensamente ― e lui di riflesso, illuminato da loro. Naturalmente, purché egli non sia così indurito e istupidito dalle sue devastanti esperienze, da non esser più capace di illuminarsi: ma quelli sono insegnanti che non leggono “Il buio oltre la siepe” e non ne vedono il film.
Un giorno, dunque, rividi “Il buio oltre la siepe” per la ventesima volta o forse più. E di nuovo fu diverso (ma non in quel che non deve assolutamente cambiare: cioè le lacrime che ogni volta “riempiono d’un tratto i miei occhi” come quelli di Scout nel momento in cui dietro la porta appare “Boo”, Arthur Radley; poiché sono esse che ogni volta mi dicono che anch’io, come Arthur, sono ancora umano). Fu potentemente diverso, anzi, e lo fu così tanto perché lo rividi con una classe così poco indurita, così poco istupidita, che per tutto il tempo brillò nel buio dinanzi a me come una costellazione umana.
E alla fine, mentre “le lacrime riempivano d’un tratto gli occhi” della bambina e i miei e mentre il volto di Arthur “tremava e si offuscava”, vidi una cosa che, in almeno venti visioni nell’arco di quarant’anni, non avevo mai notato: il ritratto della defunta moglie di Atticus Finch collocato (dal regista?, dallo scenografo?) proprio lì, accanto a “Boo” (Robert Duvall) che Scout incontra in quell’istante per la prima volta.
Andai a controllare sul libro e non vi trovai alcun ritratto della mamma di Scout e Jem: non in quel momento, non lì. Perché ce l’hanno messo? Per insinuare che chi ha salvato Scout e Jem dalle grinfie assassine di Bob Ewell non è stato Arthur Radley ma una defunta madre che “dall’Aldilà” vegliava su di loro tramutata in “angelo custode”?
Una macchia su un film bellissimo, indimenticabile, ma evidentemente meno bello, e da allora in poi meno indimenticabile, del romanzo che in quel momento ha tradito. E ancor meno bello, e ancor meno indimenticabile, dei bambini senza i quali non l’avrei mai scoperto. Nemmeno rivedendo il film (e rileggendo il libro) per altri quarant’anni.
126. Leiber, Fritz: “Ombre del Male”
Titolo originale: "Il Complotto delle Mogli". “L’unico atteggiamento un po’ sospetto nel comportamento di [sua moglie] Tansy che [Norman] riesce a ricordare è la sua mania di fare ‘una passeggiatina da sola’. Se mai gli accada di chiedersi quale rapporto vi sia fra Tansy e le superstizioni, non farebbe altro che rilevare con compiacimento che Tansy, pur essendo donna, è quasi immune da irrazionalità”. E invece non è “immune” affatto: Norman ha appena scoperto in camera di sua moglie (scoperta casuale: non stava indagando su di lei) tutto il tradizionale armamentario di una strega. Non manca neppure la terra di cimitero! Dopo un momento di irritazione, lei si giustifica: “L’ho fatto per proteggerti, tu e la tua carriera” dice (Norman è un professore universitario). “Non so neanch’io se ci credo. Non sono mai stata veramente certa che i miei sortilegi funzionassero. Non c’era modo di saperlo. Non capisci? Una volta che avevo cominciato non osavo più fermarmi!” Ma le sorprese di Norman sono appena all’inizio, proprio come la sua conversazione con la moglie sulla prima di esse: “Allora tu credi che tutto ciò che hai avuto di buono sia soltanto il frutto della tua abilità? Non trovi nella tua vita nessun elemento di fortuna?” dice Tansy. “Pensi che tutti ti amino, che ti augurino ogni bene, non è vero? Pensi che tutte quelle belve, sì, dico, la gente di Hempnell, siano un gruppo di gattini dagli artigli rientrati? [...] Lascia che ti dica che molta gente a Hempnell vorrebbe vederti morto, avrebbe voluto vederti morto da un pezzo, se fosse stato in suo potere! [...] Quali sentimenti credi che nutra per te Evelyn Sawtelle, nel vedere che stai per superare suo marito nella corsa alla cattedra di sociologia? [...] E Hulda Gunnison, pensi che sia soddisfatta dell’influenza che hai acquistato su suo marito? È colpa tua, se lei non spadroneggia più nell’ufficio del preside. E in quanto a quella cagna libidinosa della signora Carr, credi che le piaccia la politica di libertà e franchezza che hai adottato con gli studenti, e che fa a pugni con la sua sacrosanta rispettabilità del tipo ‘il sesso è soltanto una brutta parola’? [...] Cosa credi che quelle donne abbiano sempre fatto per i LORO mariti?” “Possibile che tutte le donne siano streghe ‘in incognito’?” si chiede il lettore (maschio) di questo suggestivo romanzo, del quale naturalmente non vi dico come prosegua e come vada a finire. (Debbo ammettere che me lo sono chiesto anch’io, e che di quando in quando ci ripenso e me lo chiedo di nuovo. Ah, quanti fatti che sembrano casuali troverebbero spiegazione, se così fosse, nella mia vita e in ogni altra! E quanto più importanti ci si rivelerebbero la volontà e le azioni umane!) “Ogni donna ha due personalità” spiega Tansy a Norman, come “una sibilla che pronuncia un oracolo”. “Una è razionale, come quella di un uomo. E l’altra... sa”. Il che vorrebbe dire, se comprendo quel che leggo, che chi è solo razionale non sa niente? E che niente sappiamo noi maschi, finché razionali restiamo?... Il titolo “Ombre del Male” è del tutto sbagliato per il primo romanzo di Fritz Leiber (1910 ― 1992), scritto a trentatré anni nel 1943. Di gran lunga migliore è quello originale, “Conjure Wife”, che nella nuova traduzione italiana del 2008 è diventato, giustamente, “Il Complotto delle Mogli”...
127. Lem, Stanislaw: “Solaris”
Cosa faremmo, se scoprissimo che la Terra è il nostro inconscio? Che tutto quello che porta con sé nell’Universo, le piante, gli animali, noi stessi, le nostre opere, è parte dell’indomabile umano profondo che è in ognuno di noi, senza il quale non saremmo che automi? La ameremmo o vorremmo distruggerla? O meglio: chi di noi la amerebbe e chi di noi la vorrebbe distruggere? E se lo scoprissimo con una donna? Se solo con lei potessimo sentirlo e saperlo? La ameremmo o la odieremmo? O meglio: chi di noi la amerebbe e chi la odierebbe?
Sembra, all’inizio delle ricerche sul pianeta Solaris, che il problema da risolvere sia se l’Oceano di “plasma metamorfico” in continuo movimento che lo copre quasi per intero sia un organismo vivente o un oggetto inorganico. Ma Kelvin, lo psicologo, all’arrivo alla Base che si libra a qualche centinaio di metri dai suoi flutti, la trova “visitata” da esseri la cui apparizione non solo risolve quello pseudoproblema ― sì, l’Oceano è vivo, o non lo sarebbero le sue creature ― ma impone di riconoscere che: 1, è un essere dotato di psiche; 2, “non è «un mondo in sé», «un essere in sé», [...] ignaro dell’esistenza di fenomeni o di oggetti esterni e chiuso in un mulinello di gigantesce correnti mentali”. L’Oceano, in altre parole, è in rapporto coi suoi “conquistatori”, sebbene tale rapporto sia per loro incomprensibile perché è del tutto irrazionale; poiché, dirà il cibernetico Snaut, “lui è cieco al nostro modo di ragionare. Lui non ci vede come noi ci vediamo l’un l’altro. Le superfici dei volti e dei corpi che a noi permettono di riconoscere un individuo dall’altro, per lui sono come vetri trasparenti. Lui accede direttamente ai nostri cervelli”.
“Qui” pensa Kelvin, è in gioco una posta ancora più alta della comprensione di Solaris: qui si tratta dell’essere umano e dei limiti della conoscenza umana”. Le nostre facoltà conoscitive, cioè ― è questa “la posta ancor più alta” ― possono entrare in rapporto con una mente del tutto irrazionale? Comprenderla? “Parlarle” e “risponderle” senza poter fare ricorso al linguaggio verbale?
L’Oceano, infatti, “parla” con le sue azioni, “solo che lo fa secondo categorie diverse da quelle umane: invece di costruire città, ponti, macchine volanti, invece di aspirare alla conquista dello spazio [...], si dedica all’«autometamorfosi ontologica»”, a una perenne attività di trasformazione della propria sostanza. “Plasma forme che non assomigliano ad alcunché di terrestre, ne inventa ininterrotte varianti [...], le complica a piacere, e continua a divertircisi per ore sviluppandole in sempre nuovi «prolungamenti formali», con infinita gioia del pittore astratto e disperazione dello studioso che tenta invano di capirne qualcosa” (e le pagine in cui Lem descrive le forme create dall’Oceano sono esse stesse “arte astratta”, pura “musica” verbale il cui unico, immenso significato è la loro bellezza). L’Oceano, se gli scienziati tentano invece di contattarlo razionalmente, “non reagisce mai nello stesso modo allo stesso stimolo, [per cui è] impossibile ripetere due volte il medesimo esperimento”. Niente, neppure il tempo può essere misurato con certezza in rapporto all’Oceano, poiché esso, plasmando le forme che crea, “riesce a modellare direttamente anche la metrica spaziotemporale, causando tra l’altro delle discrepanze, su un medesimo meridiano, nella sua misurazione”.
Finché, in preda alla disperazione per l’incapacità di entrare in contatto con l’Oceano, gli scienziati Sartorius e Gibarian (con la tacita connivenza di Snaut) l’hanno irradiato di raggi X (“per un attimo mi balenò l’immagine del dottor Sartorius affiancato da un nanerottolo semideficiente” dice Kelvin). E l’Oceano, quasi che in questa aggressione abbia percepito la loro follia, li ha messi di fronte a sé stessi con l’apparizione dei “visitatori”. Snaut: “Forse l’oceano ha risposto all’irradiazione con un’altra irradiazione che gli ha permesso di sondare i nostri cervelli ed enuclearne [...] dei processi psichici a sé stanti, isolati dal resto, sepolti, sprazzi di memoria che covavano sotto la cenere...” Il dottor Sartorius: “Non sono persone e neanche copie di determinate persone, ma solo proiezioni materializzate del contenuto dei nostri cervelli circa determinate persone”. Snaut: “ L’Oceano ha deciso che il sonno è il nostro stato più importante e si comporta di conseguenza: il più delle volte, infatti, ce li troviamo davanti al risveglio. Che vuoi, di tanto in tanto bisogna pur dormire...”
Sartorius e Snaut oscillano tra l’idea di aggredire l’Oceano e i “visitatori” e quella di indurlo ad adattarsi alla loro razionalità inviandogli encefalogrammi dei loro “stati di veglia”, dei loro “pensieri da svegli”. Gibarian, invece, si è ucciso, lasciando a Chris Kelvin una registrazione in cui tenta di spiegare il proprio suicidio parlando di “un dilemma che non possiamo risolvere” perché in realtà, perseguitando i “visitatori”, “perseguitiamo noi stessi”. “I «visitatori»” dice, “si servono soltanto di una specie di amplificatore selettivo dei nostri pensieri, e voler trovare una motivazione di questo fenomeno è puro antropomorfismo: dove non ci sono esseri umani non possono neanche esserci motivi che gli esseri umani possano capire. Per continuare il piano di ricerche dovremmo annientare i nostri pensieri o annientare la loro realizzazione materiale: la prima cosa non siamo in grado di farla, e l’altra somiglia troppo a un assassinio”. Per questo, dunque, Gibarian si è ucciso: poiché non poteva annientare i propri “pensieri”, da cui l’Oceano traeva gli esseri che gli inviava, ma non poteva più nemmeno sfuggire loro. Cioè non poteva annientare il proprio inconscio ― benché non umano, benché per lui mostruoso ― ma non osava neppure uccidere i “visitatori” che glielo manifestavano o l’Oceano stesso, come invece vuol fare Sartorius. Un “dilemma” ― l’impossibilità sia di annientare l’indomabile umano profondo sia di convivere con esso ― che Gibarian ha tratto dalle teorie del solarista Grattenstrom, autore di “un’opera diretta [...] contro gli esseri umani in generale, di un libello [...] contro l’Umanità” “giunto alla conclusione che non si può, né mai si potrà, pervenire a un «contatto» tra gli esseri umani e una civiltà non antropomorfica e non umana”.
Ma come sono questi “visitatori”? Come sono i “pensieri sepolti” che l’Oceano estrae dai sonni dei suoi “conquistadores”? Lem ci mostra solo per pochi secondi l’“enorme donna nera” apparsa a Gibarian, e ai “visitatori” di Snaut e Sartorius si limita ad alludere in modo assai vago, ma ci dona una protagonista indimenticabile con la “visitatrice” di Chris Kelvin: Harey, la ragazza che egli non seppe amare e che si tolse la vita all’età di diciannove anni.
“Ero stato io a ucciderla” dice Chris a sé stesso. E a Snaut racconta: “Avevamo litigato. Anzi, no: fui io a dirle... sai, le cose che si dicono per rabbia. Presi la mia roba e me ne andai. Lei mi fece capire... non che me l’abbia detto chiaramente, ma quando vivi da tempo con una donna la intuisci al volo... Ero convinto che dicesse tanto per fare, che non ne avrebbe avuto il coraggio, e... proprio questo le dissi. Il giorno dopo mi ricordai di aver lasciato in un cassetto... certe fiale, e che lei lo sapeva perché quando, per delle ragioni mie, le avevo portate a casa dal laboratorio, le avevo spiegato come agivano. Ebbi paura e mi dissi che avrei dovuto toglierle di là, ma poi pensai che le avrei dato l’impressione di prendere sul serio le sue parole, e così... le lasciai al loro posto. Ma dopo tre giorni, siccome, sotto sotto, non ero tranquillo, andai a vedere. E quando arrivai... era già morta”. “Eh, povero innocente...” commenta Snaut.
È il fallimento del rapporto con la donna a rendere perverso l’inconscio, o è l’inconscio divenuto perverso a rendere impossibile il rapporto con la donna? È perché si è spinta la donna a distruggersi che si tenta di sottomettere, aggredire, annientare l’indomabile umano profondo, o è perché si è tentato di sottometterlo, aggredirlo, annientarlo, che poi si spinge la donna a distruggersi? “Solaris” non risponde a questa domanda, ma ha il merito di porla ― sconosciuto alla fantascienza e a quasi tutta la Letteratura ― e di porla, inoltre, in un contesto duramente materialista ― materialista volgare ― come quello dei regimi sedicenti comunisti dell’Europa dell’Est in cui egli visse e operò.
Quel che più colpisce, nel personaggio di Chris Kelvin, è che sebbene sia molto meno disumano di Snaut e Sartorius e meno disperato di Gibarian ― e questa sua residua sanità mentale, si badi, è solo Harey a “certificarla” con la sua splendida apparizione ― tuttavia ANCHE LUI reagisce alla “visitatrice” con terrore, con la violenza, e poi, pur innamorandosi, con una stolida apatia che gli impedisce un vero rapporto con lei. Così come gli era accaduto con la “vera” Harey, che a questo rapporto sadomasochistico non aveva retto.
“Sapevo con assoluta certezza che quella non era Harey e che, quasi sicuramente, lei non lo sapeva. [...] Chiunque fosse quella ragazza, preferivo non voltarle del tutto le spalle. [...] [Ma] quando taceva, camminava, si sedeva, sorrideva, il mio terrore cedeva alla convinzione di trovarmi in presenza di Harey. [...] Il mio corpo riconosceva il suo, la voleva, mi spingeva verso di lei ad di là di ogni ragionamento e paura. [...] Ma il più terribile era il dover fingere di prenderla per Harey mentre lei, considerandosi Harey, agiva in buona fede. [...] Guardandola tranquillamente negli occhi, provai l’orribile tentazione di stringerle con forza le dita intorno alla gola. Stavo già per serrarle...” E dopo che se n’è liberato chiudendola in un razzo e lanciandola in orbita: “Sapevo solo che ormai le apparenze erano svanite e che sotto il simulacro di Harey traspariva il suo vero volto, di fronte al quale l’alternativa della pazzia appariva effettivamente una liberazione”. Ma poi “abbracciai alla cieca le sue fragili spalle e avvertendone il tremito credetti in lei. Non so come dire: all’improvviso mi parve di essere io a ingannare lei, e non lei me. Lei era solo sé stessa”.
“Tu non mi vuoi” dice Harey. “L’ho sempre sentito: facevo finta di non accorgermene, pensavo che fosse solo una mia impressione, o che so io. E invece no. [...] Sognavi me. Mi chiamavi per nome. E mi detestavi. Perché? Perché?”
Così anche Harey, purtroppo, finisce col credersi mostruosa: “Ho udito abbastanza per capire che non sono umana ma uno strumento [...] per studiarti, o qualcosa del genere. [...] Ho capito che volente o nolente, e qualsiasi cosa io faccia, non cambierebbe niente: per te sarei sempre una tortura. [...] Ma come posso essere il tuo strumento di tortura pur amandoti e desiderando il tuo bene?”
“E se invece il mio vero desiderio è che lei se ne vada, che sparisca per sempre? [...] Dovevo continuare a fingere, a mentire ancora e sempre, perché in me c’erano forse pensieri, intenzioni e crudeli fantasie omicide di cui ero all’oscuro. Gli esseri umani sono andati incontro ad altri mondi e ad altre civiltà senza conoscere fin in fondo i propri anfratti, i propri vicoli ciechi, le proprie voragini, le proprie nere porte sbarrate. Dovevo abbandonare Harey nelle loro mani... per vergogna? Solo perché non avevo abbastanza coraggio? [...] Lentamente si insinuava in me la tacita, apatica certezza che in una zona di me stesso della quale non avevo coscienza avevo già fatto la mia scelta; e, facendo come se niente fosse, non avevo neanche la forza di disprezzarmi”.
Non vi dico, naturalmente ― nel caso che qualcuno di voi non lo sappia già ― come va a finire. Vi dico solo che la conclusione non è disperata, ma in qualche modo “lasciata a noi”. E che niente, assolutamente niente, ha a che vedere col grottesco, rassegnato e mediocre finale del film di Andrej Tarkovskij del 1974. Non ho ancora visto il film di Steven Soderbergh del 2002, ma leggo da varie parti che Stanislaw Lem (1921 ― 2006) lo preferì a quello di Tarkovskij che non gli era affatto piaciuto.
Avevo ventitré anni sabato 13 luglio 1974, quando con Annamaria e Daniele, all’Eden di via Cola di Rienzo, a Roma ― che allora, come tutti, constava di un’unica sala ― vidi il “Solaris” di Tarkovskij. “Fortissima impressione: è uno dei film più importanti della mia vita” annotai sul diario, e corsi a comprare il libro che vedete nella foto. Segno che il regista russo ― benché autore, non lo nego, di straordinari, bellissimi film come “Stalker” ― non era del tutto riuscito a rovinarlo. Ma ci aveva provato.
Wikipedia si limita a criticare la versione italiana (cosa che del resto essa merita): “Reclamizzato come la risposta della cinematografia sovietica a «2001: Odissea nello Spazio», «Solaris» apparve in Italia mutilato dei primi quaranta minuti, stravolgendo i dialoghi e i profili dei personaggi, senza consultare il regista, onde snellire il film per fini di cassetta. I titoli di coda e il mesto accompagnamento dell’adagio di Bach sono trasferiti nella sequenza iniziale della passeggiata di Kelvin tra i boschi, creando una circolarità, assente nella versione originale, con la sequenza conclusiva. Soppresse la visita di Berton e l’inchiesta sulla sua drammatica esperienza su Solaris. Inoltre sulla sceneggiatura riadattata da Dacia Maraini si è fatto uso di un doppiaggio dialettale e contadino, tipico della filmografia di Pasolini (che con marcato accento friulano presta la voce al padre di Kelvin, mentre quest’ultimo parla con accento nuorese), in accordo con l’idea pasoliniana che si debba ridurre la distanza intellettuale tra l’opera e lo spettatore. Alla 33ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 1972, indignato per tale scempio, Andrej Tarkovskij chiese invano la cancellazione del suo nome dai titoli. Nonostante ciò, il film ottenne consensi sia di pubblico sia di critica”.
Ma il film è sbagliato di per sé ― e a mio parere addirittura violento, come Sartorius e Snaut, nei confronti del romanzo e in particolare della splendida Harey ― poiché crede di migliorarlo dal punto di vista psicologico inserendovi la storia del rapporto di Chris Kelvin con la madre e col padre, e concludendola ― in modo non meno freudiano che fasullo e banale ― con un finale in cui l’Oceano plasma per Kelvin un’isola con sopra la sua casa paterna in modo che lui, scordata Harey, “risolva” i suoi problemi andando a inginocchiarsi dinanzi al padre e cingendo le sue attempate ginocchia. Tutto inventato, ripeto, e tutto banale, fasullo e freudiano.
Solo dopo molti anni riuscii a capirlo. Ma forse un po’ lo sentii anche allora, poiché del film, così come del romanzo, rimase impressa nella mia memoria solo Harey, interpretata in modo meraviglioso dalla bellissima Natal’ja Bondarčuk (1950 ― vivente).
128. “Le Mille e una Notte”
“Mille e una Notte” vuol dire “Infinite Notti”, cioè tutto il tempo del buio, che come quello della luce non ha inizio né fine. Non una parte, ma proprio tutto: Shahrazād, infatti, racconta “fino al mattino”, dopodiché lei e Shahriyār “passano abbracciati il resto della notte”. Cosa significa? Qual è il senso di un racconto in cui una donna racconta storie ― i cui personaggi ne raccontano altre, i cui personaggi ne raccontano altre ancora ― mentre un uomo, insieme ai personaggi di esse e ai personaggi dei personaggi, le ascolta per l’eternità? Il re Shahriyār, come tutti sanno, da quando la sua prima moglie lo tradì, odia, sposa e uccide dopo la prima notte tutte le donne. E continua, notte dopo notte, all’infinito ― in modo che il tempo infinito del buio sia il tempo infinito dello sterminio delle donne, del loro annientamento, della loro eliminazione dall’Universo ― finché Shahrazād gli si offre in isposa e con l’aiuto della sorella riesce, notte dopo notte, a rinviare all’infinito il proprio assassinio (e ogni altro) raccontando al re una storia di cui rinvia il finale alla sera dopo. Per secoli, forse per millenni, “dall’India alla Mesopotamia, dalla Persia all’Egitto” ― che è come dire “da dove tutto ha avuto inizio a dove tutto è continuato” ― le “Infinite Notti” sono state tramandate a voce da un numero imprecisato, ma di sicuro immenso, di narratrici e di narratori. Poi, quando intorno al 1.000 sono state messe per iscritto, dall’Oriente sono giunte in Europa e dall’Europa nell’intero pianeta. Pare dunque evidente che: 1. L’Universo maschile ruota intorno all’Universo femminile come un amante o come un assassino. 2. L’Universo ― sia femminile sia, di conseguenza, maschile ― continua se la donna è amata, o viene annientato se la donna è odiata, sposata, uccisa, fatta sparire. 3. Che l’Universo continui, dipende dal continuare a raccontarne le storie. 4. È dalle donne che il raccontare infinite storie continua da sempre e per sempre, o non sarebbe l’Universo maschile a ruotare intorno a esse, ma il contrario. 5. Sono le donne che creano l’Universo ed è per amor loro che non finisce. Vi pare un’interpretazione strampalata?... Be’, può darsi. Ma prima che lo giuriate vi suggerisco di rileggere (o di leggere) la mia notte preferita, quella della “Storia delle tre Mele”. Che... ...inizia con un pescatore che trova nella rete “una cassa chiusa e pesante”, di cui il califfo ordina l’apertura. E nella cassa, che stava prima nella rete e ancora prima nel fiume ― procedendo, virtualmente all’infinito, dal contenente a un contenuto che a sua volta è un contenente ― “trovano una grossa cesta di foglie di palma, cucita con la lana rossa; tagliano la cucitura, vedono nella cesta un pezzo di tappeto, lo tolgono e trovano sotto di esso un velo di donna; sollevano anche questo velo e trovano una fanciulla, uccisa e tagliata a pezzi, simili a lingotti d’argento”. E al califfo, quando la vede, “le guance gli si rigano di lacrime”, ed egli ne è così addolorato che giura di uccidere chi l’ha uccisa. Vedete, dunque, come scendendo sempre più in profondità si scopre che in fondo a quel che c’è di disumano nell’Universo vi è l’odio contro la donna, il farne una moglie, il suo assassinio, la sua sparizione come se non sia mai esistita? Ma la storia non finisce qui (e in verità finirà solo quando l’Universo maschile sarà del tutto amante e per niente marito e omicida e cancellatore totale), poiché il califfo, ogni volta che “ha la certezza” di aver trovato l’assassino, deve poi scoprire che quella certezza è infondata, che l'unica certezza è che la storia deve continuare perché l’amore trionfi sulla morte: che la “terza mela”, appunto, deve continuare a passare di mano in mano per sempre, poiché solo così si può sperare che l’assassinio della fanciulla, il suo smembramento, e la sua tentata cancellazione come se non sia mai esistita, non portino alla fine di Tutto nel Nulla.
129. Lermontov, Michail: “Un Eroe del Nostro Tempo”
“Durante la notte cominciò a delirare; la testa le ardeva e a momenti tutto il suo corpo era scosso da brividi di febbre; pronunciava parole sconnesse sul padre e sul fratello, voleva tornarsene sui monti, a casa sua... Poi parlò anche di Pečorin, chiamandolo con svariati nomi affettuosi, oppure rimproverandolo perché non amava più la sua ‘džanečka’. Lui la ascoltava in silenzio, la testa appoggiata sulle braccia, ma durante tutto quel tempo non notai nemmeno una lacrima sulle sue ciglia: veramente non era capace di piangere? Oppure si dominava? Non lo so. Quanto a me non avevo mai veduto prima nulla di più straziante.
[...] Fece bene a morire: che cosa ne sarebbe stato di lei, se Grigorij Aleksàndrovič l’avesse abbandonata? E questo, presto o tardi, sarebbe accaduto...
[...] Il suo volto non esprimeva alcuna particolare emozione, e questo mi irritò: al suo posto sarei morto di dolore”.
“Quando Pečorin rideva, i suoi occhi non ridevano! Non avete avuto occasione di notare questa stranezza in talune persone?... È un sintomo o di carattere maligno, o di una profonda, costante tristezza. Sotto alle palpebre semiabbassate, brillavano di una sorta di bagliore fosforescente, se così posso esprimermi. Non era il riflesso di un calore spirituale o di una fervida immaginazione: era un riflesso simile a quello dell’acciaio, abbagliante ma freddo”.
“Il buon Maksìm Maksimyč si era tramutato in un uomo testardo e bisbetico! E perché? Perché Pečorin, per distrazione o per qualche altro motivo, gli aveva solo porto la mano mentre lui avrebbe voluto gettarglisi al collo! È triste quando un giovane perde le sue speranze e i suoi sogni migliori, quando davanti a lui si squarcia il velo roseo attraverso il quale guardava i sentimenti e le faccende umane, sebbene vi sia speranza che egli possa sostituire i vecchi errori con altri nuovi, non meno passeggeri, ma in compenso non meno dolci... Ma con che cosa sostituirli all’età di Maksìm Maksimič? Involontariamente, il cuore si indurisce e l’anima si chiude”.
Dalla “prefazione” al “Diario di Pečorin”: “Forse taluni lettori desidereranno conoscere la MIA opinione sul carattere di Pečorin. La mia risposta è il titolo di questo libro [“Un Eroe del nostro Tempo”]. «Ma questa è una maligna ironia!» diranno essi. Non lo so”.
Dal “Diario di Pečorin”:
1. “Una cosa mi è sempre parsa strana: io non sono mai diventato schiavo delle donne amate, al contrario, senza affatto volerlo, ho sempre acquisito un potere incontrastato sulla loro volontà e sul loro cuore. Come mai? Forse perché non tengo mai caro niente ed esse temevano ogni momento di perdermi? O ciò è opera dell’influsso magnetico che si sprigiona da un organismo forte? O semplicemente non mi è mai capitato di imbattermi in una donna dal carattere tenace? Devo riconoscere che in effetti non amo le donne di carattere: non è una qualità che si addica loro!”
2. “Sì! Questo è stato il mio destino fin dall’infanzia. Tutti leggevano sul mio viso i segni di cattive qualità che non esistevano; ma le supponevano, ed esse nacquero. Ero modesto ― mi accusavano di malizia: sono diventato chiuso. Sentivo profondamente il bene e il male; nessuno mi accarezzava, tutti mi offendevano: sono diventato vendicativo; ero cupo, mentre gli altri bambini erano allegri e loquaci; mi sentivo superiore a loro e venivo considerato inferiore. Sono diventato invidioso. Ero pronto ad amare tutto il mondo, ma nessuno mi ha capito: ho imparato a odiare. La mia incolore giovinezza è trascorsa in una lotta con me stesso e con la società; temendo la derisione ho seppellito i miei migliori sentimenti in fondo al cuore e lì essi sono morti. [...] Sono diventato un invalido morale; metà della mia anima non esisteva più, si era disseccata, era evaporata, morta, l’avevo amputata e gettata via, mentre l’altra palpitava e viveva a capriccio di chiunque, senza che nessuno si accorgesse di ciò perché nessuno sapeva dell’esistenza della metà perita”.
3. “Feci ritorno a casa per i vicoli deserti del villaggio; la luna, piena e rossa come il riflesso di un incendio, cominciava a spuntare dietro il profilo dentellato delle case; le stelle brillavano placidamente sulla volta azzurro-scura, e mi venne da ridere al pensiero che un tempo esistettero persone saggissime che credevano che gli astri prendano parte alle nostre miserabili contese per un fazzoletto di terra o per non so quali immaginari diritti!... Ebbene? Queste lucerne, accese secondo la loro opinione soltanto per illuminare le loro battaglie e i loro trionfi, brillano con l’originario splendore, mentre le loro passioni e le loro speranze si sono spente da un pezzo insieme a loro, come un focherello acceso al margine della foresta da un viandante sbadato. Ma, in compenso, quale forza di volontà dava loro la convinzione che l’intero firmamento con i suoi innumerevoli abitanti li guardasse con partecipazione sia pure silenziosa, ma immutabile!... Noi, invece, loro miseri discendenti, che vaghiamo per la terra senza convinzioni e senza orgoglio, senza godimento e senza paura, all’infuori dell’istintivo timore che ci stringe il cuore al pensiero dell’inevitabile fine, non siamo più capaci di grandi sacrifici per il bene dell’Umanità e nemmeno per la nostra propria felicità, perché li conosciamo impossibili, e indifferenti passiamo da un dubbio all’altro come i nostri antenati passavano da un’illusione all’altra, senza avere, come loro, speranze, e neppure quell’indefinibile ma autentico piacere che l’animo trova in ogni lotta contro gli uomini o il destino”.
Michail Jur’evič Lermontov (1814-1840): “Un Eroe del nostro Tempo” (1838-1840).
130. Lessing, Doris: “Mara e Dann”
“Candace si sedette e le accennò con la testa di accomodarsi. Mara guardava le sue mani: mani lunghe, sapienti, che però non stavano mai ferme. E pensò, è esasperata, ma si controlla. Sta cercando di essere paziente con me. «Tanto tempo fa esistevano civiltà talmente più avanzate della nostra che non riusciamo neanche a immaginarle». «Come lo sappiamo?» «Più o meno cinquemila anni fa ci fu una terribile tempesta in un deserto che tutti pensavano che lo fosse sempre stato, montagne di sabbia e nient’altro, ma la tempesta spostò la sabbia e portò alla luce una città. Era immensa. Quella città era stata creata per conservare cronache, archivi, libri...» «Anche noi avevamo i libri, da piccoli». «Ma quelli non erano di cuoio, né di pergamena. Erano di carta. Molto simile al materiale che usiamo per le scarpe... quelle da camera. Di carta stampata». «Anche i nostri libri erano scritti». «Stampati, ho detto. Una tecnica che non abbiamo più. La città era una specie di Memoria. Storie. Racconti di ogni tipo, provenienti da ogni parte del mondo. Gli studiosi di allora ― era un’epoca di pace ― prepararono centinaia di giovani a diventare Memorie: non dovevano solo ricordare le cose, ma anche metterle per iscritto. Decisero di conservare la storia passata di tutto il mondo...» «Il mondo» disse Mara, disperata”.
“Alla fine, dopo che li ebbe esaminati a fondo, Felice espresse il suo giudizio: «Siete troppo appetitosi, tutt’e due. Dovrete camuffarvi un po’». Mara capì di essere in pericolo: sentiva la potente fecondità del suo corpo, e si era accorta che la sua chioma nera e lucente e i suoi morbidi seni appena spuntati avevano attirato molti sguardi. E Dann era un giovane aitante e, con tutte le sue cicatrici e le sue piaghe ben nascoste, aveva l’aria di un componente sano e ben nutrito della Famiglia. «Schiavi fuggiaschi» disse Felice. «Questo siete e questo sembrate. Siete una tentazione per i mercanti di schiavi. E non pensate che siano tutti dolci e gentili come me». «Di’ un po’» le domandò Mara, «se avessi venduto me e Dann agli Hadron, quanto ti avrebbero dato?» «Non molto. Eravate ridotti davvero male. In buone condizioni, l’equivalente di una delle vostre monete d’oro. Sì, hai ragione... è stato facile lasciarvi andare perché in fondo non valevate un soldo». Mara sorrise. Si erano parlate senza il minimo rancore. «Hai messo da parte una bella cifra?» disse Dann. «Con mio grande piacere, sì. Rende, la compravendita di esseri umani» rispose Felice. Andò verso l’apparecchio e prese una delle sue uniformi da lavoro blu sbiadito: casacca, calzoni e cintura, e disse: «Vi farò un prezzo stracciato». Dann contò le monetine nella sua mano finché lei non disse basta. «Mettitela» gli disse. «Sei ancora più in pericolo di tua sorella». «Lo so» disse Dann, e quell’ammissione allentò l’ansia di Mara, perché aveva visto come lo guardavano a Chelops negli ultimi tempi. Dann si tolse la tunica, la cacciò nella sacca e per un attimo rimase quasi nudo. Aveva solo un panno minuscolo intorno ai fianchi. Felice rise e disse che Dann avrebbe potuto farle perdere la testa, ma purtroppo il destino stava per dividerli. Dann rispose al corteggiamento di Felice, e anche questo rallegrò Mara. Poiché in cuor suo temeva che Dann riprendesse a drogarsi e a lasciare che gli uomini abusassero ancora di lui”.
“Dann stava facendo un disegno nella polvere. Era Ifrik. Mise un pezzetto di paglia in basso, per indicare Rustam, un sassolino per il Villaggio di Roccia, una foglia per Chelops, poi diede un ciottolo a Felice e le domandò: «Dove saremo stanotte?» Felice mise la pietra a mezza mano di distanza da Chelops. E ci volle tutta la mano di Dann, le lunghe dita tese al massimo, per unire Rustam e il luogo dov’erano diretti. Lui disse a Mara: «Visto quanta strada abbiamo già fatto?» Felice guardò il disegno, senza sorridere. Mara capiva benissimo che secondo lei non sarebbero andati molto più lontano. Mara disse: «A Chelops ce la siamo cavata, tu invece pensavi di no». «Vero» rispose Felice. «E a ogni modo, buona fortuna. Non so perché, ma mi siete simpatici tutt’e due». «Fortuna?» la canzonò Dann. «Sono le informazioni che contano». Indicò con il dito il posto dove Felice aveva detto che stavano andando e disse: «Sul globo questa zona era tutta verde, ed era piena di corsi d’acqua». «Quale globo?» chiese Felice. «Quello del mondo com’era tanto tempo fa». Felice si strinse nelle spalle: «Non ne so niente»”.
Doris Lessing (1919-2013): “Mara e Dann” (1999). Un romanzo di grande e umanissima fantascienza, femminista ed ecologista. Ma vittima di un ostracismo talmente invasivo, che perfino sul web è difficile trovare su di esso notizie che vadano oltre le generalità. Come mai? Be’, nei tre brani che ho postato c’è un indizio...
131. Levi, Carlo: “Cristo si è fermato a Eboli”
L’odio fascista, ovunque scorga l’indomabile umano profondo.
Perché sono così odiati, i contadini di Gagliano, da fascisti e “signori”? E oggi che i contadini di Gagliano non ci sono più, oggi che nessuno in Italia è contadino nel modo in cui lo erano quelli di Gagliano, forse non è più possibile quell’odio? Non possono né potranno più esserci fascisti e “signori”?
Della Lucania di Carlo Levi, del mondo contadino di “Cristo si è fermato a Eboli” ― come del mondo magico lucano di Ernesto De Martino ― è luogo comune dirlo un mondo scomparso, che non c’è più né potrà più esserci. Ma il luogo comune dice il falso, come tutti i luoghi comuni: se è vero, e lo è, che i “signori” esistono ancora, se i fascisti, in Italia e ovunque, sono ancora capaci, come in ogni altra epoca e contrada, di quell’odio disumano contro il povero gregge contadino di cui è piena fino all’orrore ogni pagina di “Cristo si è fermato a Eboli”, significa che i contadini e il loro magico, misero mondo sono ancora qui a suscitarlo, quell’odio, a Gagliano e in Italia e ovunque. Solo che (in Italia) il posto di quei contadini è stato preso da altri. Solo che forse ― se “Cristo si è fermato a Eboli” è opera d’arte, e certo lo è ― contadini “veri” non sono mai stati.
L’odio dei fascisti e dei “signori”, infatti, ieri come oggi ― l’odio che la fede, con il suo corteo di filosofie e ideologie, induce in quanti si lasciano dalle sue stregonerie tramutare in fascisti e “signori” ― non è contro i contadini in quanto tali (né, in quanto tali, contro le classi oppresse, i poveri, le “razze” chiamate “inferiori”, gli stranieri, i migranti) ma contro l’indomabile umano profondo che al fascista e al “signore” incute orrore e terrore in primo luogo dentro sé stessi. Contro l’indomabile umano profondo che il fascista e il “signore” dentro sé stessi STRAZIANO per sottometterlo alla fede, alla “morale”, alla “cultura”.
Contro l’indomabile umano profondo che nel “contadino” (in “virtù” dell’abbandono subìto, del non essere considerato veramente umano, che tutto gli toglie, certo, ma gli risparmia “educazione” e “istruzione” e religione) agli occhi del fascista e del “signore” sembra ignaro ed esente da ogni vincolo e pregiudizio, possente, incontrollabile, irrefrenabile, libero di erompere e, invadendo e conquistando la Società e l’Umanità, aggredire e dissolvere qualcosa di ancor più importante delle proprietà, delle ricchezze, del potere: la “moralità” del fascista e del “signore”, il loro dominio di sé, la tirannia da cui il fascista e il “signore” in ogni epoca e contrada temono come la morte di liberarsi poiché fin dalla nascita sono stati odiati, disprezzati e temuti fino a chiamarsi mostri e a incarcerarsi da sé soli.
Quella tirannia su di sé che però, contro gli inermi, si converte in prepotenza e sopraffazione che anziché smantellarla la rafforzano consentendo al fascista e al “signore” continue, orribili licenze d’ogni sorta. Quella tirannia su di sé la cui inesistenza o debolezza nel “contadino” lo rende invece buono, solidale, generoso, inetto all’ingiustizia. Poiché è proprio la tirannia della fede, non l’indomabile umano profondo, a mutare in bruttura tutto quel che tocca riempiendo Gagliano, l’Italia e il mondo di cosiddetto “male”.
Poi, talvolta, non è vero. Poi, talvolta, il “contadino” si rivela anch’egli fascista e “signore” (Carlo Levi lo sa, e per questo ci racconta i suoi contadini, diacronicamente, anche come briganti e sanfedisti che non possono essere difesi, che dal punto di vista del progresso umano vanno condannati come un movimento funesto e feroce, nemico dell’unità, della libertà e della vita civile).
Ma ciò, agli occhi di chi li odia, non li non li rende meno atti a rappresentare l’indomabile umano profondo. Per fare da capri espiatori ― per prendere su di sé tutte le colpe di un Sistema anaffettivo e razionale che a dispetto di ogni proprio sforzo non riesce a distruggere una volta per sempre l’umanità dell’essere umano ― non importa che le vittime dell’odio fascista e “signorile” siano davvero buone, né davvero povere, né che davvero vengano da lontano recando usi e costumi diversi, né che davvero si sottraggano alla “vera fede” per farsi atee o all’opposto per serbarsi leali a superstizioni e magie remote: basta che siano state abbandonate, escluse, annullate, basta che qualche contingenza storica, o anche solo non aver mai posseduto un libro o un televisore, le abbia sottratte (o sembri averle sottratte) alla spaventosa uniformità collettiva in cui traspare e si rivela, dietro le maschere mortuarie composte sui volti, il giogo interiore comune: basta questo, inducendo in fascisti e “signori” il sospetto che l’indomabile umano profondo sia in esse non ancora spento, a “giustificare” l’odio e la violenza.
Basta talmente “poco”, invero, che i primi “contadini” di Gagliano sono, in ogni epoca e contrada, i bambini e le donne. Basta venire alla luce, in effetti, perché fascisti e “signori” delirino di vedere, nell’essere umano, il “peccato originale”.
132. Levi, Primo: “Opere”
Chi sono “I sommersi e i salvati”, a cui Primo Levi (1919-1987) intitolò nel 1947 un capitolo di “Se questo è un uomo” e nel 1986 il suo ultimo libro?
La risposta più accettata è che “i sommersi” non sopravvissero ai campi di sterminio, mentre “i salvati” ne uscirono vivi. Nel capitolo “La vergogna” del libro del 1986, Levi dice infatti che “i «salvati» del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della «zona grigia», le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. [...] Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti” (“I sommersi e i salvati”, p. 715).
In molti altri luoghi delle sue opere, però, si ha invece l’impressione che la dicotomia “sommersi/salvati” non riguardi la sopravvivenza fisica dell’essere umano, ma quella della sua umanità.
In “Se questo è un uomo”, per esempio, “i salvati” si direbbero quelli come Alberto, che fisicamente non si salvò, ma di cui Primo Levi scrive: “Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte” (p. 54). Coloro ai quali, cioè, sebbene “schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa”, “rimane una facoltà” che difendono “con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il consenso” (p. 35). E che “i sommersi”, dunque, siano coloro che quel “consenso” lo danno e diventano simili ai nazisti e al Lager: disumani.
“Noi non crediamo alla più ovvia e facile deduzione: che l’uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e stolto come si comporta quando ogni sovrastruttura civile sia tolta, e che lo ‘Häftling’ [il prigioniero del Lager] non sia dunque che l’uomo senza inibizioni. [...] Ci pare invece degno di attenzione questo fatto: viene in luce che esistono fra gli uomini due categorie particolarmente ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette, sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse” (“Se questo è un uomo”, pp 88-89). “Esistono fra gli uomini” dice. Dunque non solo ad Auschwitz. Nel Lager la dicotomia “viene in luce”, ma esisteva già prima ed esisterà anche dopo. Dovremmo dunque supporre che queste “due categorie” di uomini siano una sorta di razze? No. “L’Uomo non è fondamentalmente brutale, egoista e stolto” ha infatti scritto. Se lo è, lo è diventato. E in una intervista dei primi anni ’80 (https://youtu.be/8mB-Tt3OTRA) ribadisce: “Sì, io ho fiducia nell’Uomo. Se non si ha fiducia nell’Uomo, non vale la pena di conservarsi”. Ma l’umanità, che per natura è degna di per sé di fiducia, non in tutti e non sempre si “salva”: talvolta viene “sommersa”.
“Sommersi”, dunque ― se tradurre la dicotomia “sommersi/salvati” in senso umano è corretto almeno quanto tradurla in senso fisico, poiché in Levi coesistevano ambedue le idee ― sarebbero, per esempio (ma non solo), i “prominenti” ebrei che sono, dice, “il tipico prodotto della struttura del Lager tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, un certo agio e una buona probabilità di sopravvivere, esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà coi loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. Costui sarà sottratto alla legge comune, e diverrà intangibile; sarà perciò tanto più odioso e odiato, quanto maggior potere gli sarà stato concesso. [...] Sarà crudele e tirannico [...]. La sua capacità di odio, rimasta inappagata nella direzione degli oppressori, si riverserà [...] sugli oppressi” (“Se questo è un uomo”, pp 92-93).
La medesima impressione si trae da “I sommersi e i salvati”: “i sommersi” sono coloro di cui i nazisti riuscirono a “distruggere le anime come avevano distrutto le proprie” (p. 690), i “salvati” coloro nei quali, per i più vari motivi e talvolta per pura fortuna, la “distruzione dell’anima” fallì. Nel capitolo “La zona grigia”, infatti, Levi dice: “La rete dei rapporti umani all’interno dei Lager non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori” (p. 675). “È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica e morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori. [...] Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere [...] se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quel che avviene in un grande stabilimento industriale (pp 677-678). “L’ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. È compito dell’uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine” (p. 679). “In Lager e fuori, esistono persone grigie, ambigue, pronte al compromesso” (p. 685).
L’individuazione e l’arruolamento tra i prigionieri, da parte dei nazisti, di queste “persone grigie”, conteneva un “messaggio” : “Noi, il popolo dei Signori, siamo i vostri distruttori, ma voi non siete migliori di noi; se lo vogliamo, e lo vogliamo, noi siamo capaci di distruggere non solo i vostri corpi, ma anche le vostre anime, così come abbiamo distrutto le nostre” (p. 690). “Vi abbiamo abbracciati, corrotti, trascinati sul fondo con noi” (p. 691). E cosa significa “trascinati sul fondo”, se non “sommersi”?
“È indubbio che di morte dell’anima si tratta; ora, nessuno può sapere quanto a lungo, ed a quali prove, la sua anima sappia resistere prima di piegarsi o di infrangersi. Ogni essere umano possiede una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può essere grande, piccola o nulla, e solo l’avversità estrema dà modo di valutarla” (p. 695).
[“Anima”, sia chiaro, non come spirito, ma come umanità, poiché Levi è ateo: “Io sono entrato in Lager come non credente, e come non credente sono stato liberato ed ho vissuto fino ad oggi; anzi, l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità. Mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire una qualsiasi forma di provvidenza o di giustizia trascendente: perché i moribondi in vagone bestiame? perché i bambini in gas?” (p. 770)].
Ma se le cose stanno così, Levi si chiede e ci chiede, “Quanto forte è la nostra ossatura morale, di noi europei di oggi? Come si comporterebbe ognuno di noi? [...] Anche noi siamo così abbagliati dal potere [...] da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno” (“I sommersi e i salvati”, pp 702-703).
Se i “sommersi”, le “persone grigie”, e i “salvati”, che grigi non saranno mai, esistevano anche prima ed esistono ancora oggi, Levi si chiede e ci chiede, quanti insospettabili, tra noi, sono già quasi pronti, o pronti, a lasciarsi “distruggere l’anima”?
Solo l’interpretazione umana della dicotomia ― “i salvati” sono coloro nei quali, in un modo o nell’altro e talvolta per caso, l’umanità si salva; “i sommersi” coloro nei quali, in un modo o nell’altro e talvolta per caso, l’umanità viene estinta ― permette di comprendere e di rispondere alla domanda fondamentale che tutte le opere di Levi imperniate sulla mostruosa esperienza della Shoah ci propongono, e che egli, ne “I sommersi e i salvati”, definisce “la domanda più urgente”:
“La domanda più urgente, [...] che angoscia tutti coloro che hanno avuto occasione di leggere i nostri racconti, [è]: quanto del mondo concentrazionario è morto e non ritornerà più, come la schiavitù ed il codice dei duelli? quanto è tornato o sta tornando? che cosa può fare ognuno di noi, perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata?” (“I sommersi e i salvati”, p. 661).
C’è un nesso tra la “domanda più urgente” e il sogno tremendo ― l’incubo, in realtà ― che Levi continuò a raccontare ai suoi lettori per quarant’anni? A mio parere, sì: un nesso preciso e importantissimo.
“[...] È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola. Allora nasce in me una pena desolata, come certi dolori appena ricordati della prima infanzia: è dolore allo stato puro, non temperato dal senso della realtà e dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quelli per cui i bambini piangono. [...] Il sogno mi sta davanti, ancora caldo, e io, benché sveglio, sono tuttora pieno della sua angoscia: e allora mi ricordo che questo non è un sogno qualunque, ma che da quando sono qui l’ho già sognato, non una ma molte volte, con poche variazioni di ambiente e di particolari. Ora sono in piena lucidità, e mi rammento anche di averlo già raccontato ad Alberto, e che lui mi ha confidato, con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo avviene? perché il dolore di tutti i giorni si traduce nei nostri sogni così costantemente, nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata?” (“Se questo è un uomo”, pp 57-58).
E nel 1962, ne “La tregua”, lo racconta di nuovo: “Qualcosa del genere avevo sognato, tutti avevamo sognato, nelle notti di Auschwitz: di parlare e di non essere ascoltati, di ritrovare la libertà e di restare soli” (p. 259). E ancora, in forma apparentemente diversa ma a ben guardare analoga: “Non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota: una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, «Wstawać»” (“La tregua”, pp 422-423).
E di nuovo ne “I sommersi e i salvati”, nell’epigrafe e poi sùbito nella prefazione:
“Since then, at an uncertain hour, That agony returns: And till my ghastly tale is told This heart within ne burns” (S. T. Coleridge, “The Rime of Ancient Mariner”, vv 582-585: “Da allora, a un’ora incerta, Torna quell’agonia: E finché l’atroce mia storia non sia narrata questo cuore ne brucia dentro”). “Quasi tutti i reduci [dai campi di sterminio], a voce o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari ma unico nella sostanza: di essere tornati a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi ad una persona cara, e di non essere creduti, anzi, neppure ascoltati. Nella forma più tipica (e più crudele), l’interlocutore si voltava e se ne andava in silenzio” (“I sommersi e i salvati”, pp 653-654).
Non son capace, naturalmente, di interpretare questo sogno. Dubito che qualcuno, chicchessia, lo sarebbe, date le circostanze. Mi sembra, però, di poter dire che se Primo Levi continuò a raccontarlo per quarant’anni, non fu “solo” per la speranza più o meno inconscia di essere aiutato a capirlo, ma perché esso rispondeva in anticipo, in modo tragicamente negativo, alla “domanda più urgente”: no, il “mondo concentrazionario” non morirà “come la schiavitù e il codice dei duelli”. Se perfino “le persone care” non riusciranno ad ascoltare e “se ne andranno”, se perfino tra loro vedrò “persone grigie”, sarà perché quel mondo mostruoso “sarà tornato o starà tornando”.
Proprio la scoperta che sconvolge Levi ad Auschwitz, cioè ― la scoperta agghiacciante che molti esseri umani, poi, arrivano a esser pronti a lasciarsi “distruggere l’anima”, e che però né loro né noi ce ne accorgiamo finché “l’avversità estrema” di “un sistema infero” non comincia a “trascinarli sul fondo” ― gli mostra che quell’orrore, una volta accaduto, può non finire più: “che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno”.
Per questo il sogno ci appare “preveggente”: poiché Primo Levi visse l’orrore di Auschwitz, dello sterminio, della Shoah, come scoperta di una realtà così vasta da oltrepassare perfino le dimensioni di quella incommensurabile tragedia: la realtà di una condizione umana ― la condizione in cui i nostri avi, i genitori, e di conseguenza noi e i nostri figli e nipoti, siamo caduti tra la fine dell’800 e l’ascesa del fascismo e del nazismo ― in cui continua a ricrearsi la “zona grigia”: la zona delle “persone grigie” che l’orrore può conquistare e sottomettere per tornare a imperversare.
“Se dall’interno dei Lager un messaggio avesse potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe stato questo: fate di non subire nelle vostre case ciò che a noi viene inflitto qui” (“Se questo è un uomo”, p. 51).
“I Lager nazisti sono stati l’apice, il coronamento del fascismo in Europa, la sua manifestazione più mostruosa; ma il fascismo c’era prima di Hitler e di Mussolini, ed è sopravvissuto, in forme palesi o mascherate, alla sconfitta della seconda guerra mondiale. In tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell’Uomo, e l’uguaglianza fra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi” (“Appendice” del 1976 a “Se questo è un uomo”, p. 197).
Altrimenti non avrebbe scritto, nel 1986, che “da molti segni pare giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori”; che “non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine”, e che “in Lager e fuori esistono persone grigie, ambigue, pronte al compromesso”. E non avrebbe aggiunto, riferendosi al sistema capitalista, che esplorare questo “grigio” spazio atroce “è indispensabile [...] se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche solo vogliamo renderci conto di quel che avviene in un grande stabilimento industriale”.
“L’offesa insanabile dilaga come un contagio” e “la giustizia umana non la estingue”, scrive nel 1962 ne “La tregua”: “L’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, a un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia” (pp 216-217).
“«Ma la guerra è finita» obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. «Guerra è sempre» rispose memorabilmente Mordo Nahum”. E pochi giorni dopo, “in un luogo detto Trzebinia”, quando Levi prova a dire quel che ha sofferto a “un gruppo di curiosi” che lo “interrogano volubilmente in polacco”, e un avvocato si offre come interprete e lo descrive “non come un ebreo italiano, ma come un prigioniero politico italiano”, e Levi se ne risente, e l’avvocato risponde: “C’est mieux pour vous. La guerre n’est pas finie”, “sentii l’onda calda del sentirsi libero, del sentirsi uomo fra uomini, del sentirsi vivo, rifluire lontano da me. Mi trovai a un tratto vecchio, esangue, stanco al di là di ogni misura umana: la guerra non è finita, guerra è sempre [...]. Qualcosa del genere avevo sognato, tutti avevamo sognato, nelle notti di Auschwitz: di parlare e di non essere ascoltati, di ritrovare la libertà e di restare soli” (“La tregua”, pp 256 e 259).
“Risalimmo sui vagoni col cuore gonfio. Non avevamo provato alcuna gioia nel vedere Vienna sfatta e i tedeschi piegati: anzi, pena; non compassione, ma una pena più ampia, che si confondeva con la nostra stessa miseria, con la sensazione greve, incombente, di un male irreparabile e definitivo, presente ovunque, annidato come una cancrena nei visceri dell’Europa e del mondo, seme di danno futuro” (“La tregua”, p. 416).
“Di seicentocinquanta, quanti eravamo partiti, ritornavamo in tre. E quanto avevamo perduto, in quei venti mesi? Che cosa avremmo ritrovato a casa? Quanto di noi stessi era stato eroso, spento? Ritornavamo più ricchi o più poveri, più forti o più vuoti? Non lo sapevamo: ma sapevamo che sulle soglie delle nostre case, per il bene e per il male, ci attendeva una prova, e la anticipavamo con timore. [...] Presto, domani stesso, avremmo dovuto dare battaglia, contro nemici ancora ignoti, dentro e fuori di noi: con quali armi, con quali energie, con quale volontà?” (“La tregua”, p. 421).
“È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto” (“I sommersi e i salvati”, pp 819-820).
Compagno stanco ti vedo nel cuore, Ti leggo gli occhi compagno dolente. Hai dentro il petto freddo fame niente Hai rotto dentro l’ultimo valore. Compagno grigio fosti un uomo forte, Una donna ti camminava al fianco. Compagno vuoto che non hai più nome, Un deserto che non hai più pianto, Così povero che non hai più male, Così stanco che non hai più spavento, Uomo spento che fosti un uomo forte: Se ancora ci trovassimo davanti Lassù nel dolce mondo sotto il sole, Con quale viso ci staremmo a fronte? (“Buna, 28 dicembre 1945”. Dalla raccolta di poesie “Ad ora incerta”).
C’è speranza, tuttavia? Sì. C’è la speranza, che non dobbiamo mai perdere, di essere “salvati” da coloro che “non danno il consenso”: noi stessi, e i “salvatori” come Lorenzo:
“Lorenzo [...], un operaio civile italiano, mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso. [...] Noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno tra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? per loro noi siamo «Kazett» [Konzentrations-Zentrum], neutro singolare. Naturalmente questo non impedisce a molti di loro di gettarci qualche volta un pezzo di pane o una patata, o di affidarci, dopo la distribuzione della «Zivilsuppe» in cantiere, le loro gamelle da raschiare e restituire lavate. Essi vi si inducono per togliersi di torno qualche importuno sguardo famelico, o per un momentaneo impulso di umanità, o per la semplice curiosità di vederci accorrere da ogni parte a contenderci il boccone l’un l’altro, bestialmente e senza ritegno, finché il più forte lo ingozza, e allora tutti gli altri se ne vanno scornati e zoppicanti. Ora, tra me e Lorenzo non avvenne nulla di tutto questo. Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi. I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, o essi stessi l’hanno sepolta, sotto l’offesa subìta o inflitta altrui. [...] Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo” (“Se questo è un uomo”, pp 123-125).
Post scriptum: Interviste a Primo Levi disponibili sul web. 1963. 1982, Primo Levi ritorna per la seconda volta ad Auschwitz (la prima fu nel 1965, in occasione di una cerimonia commemorativa polacca). E dice, tra l’altro: “Non mi è mai piaciuto il termine Olocausto”. E l’indimenticabile intervista del 21 maggio 1981.
Le citazioni, e i relativi numeri di pagina, sono tratte dai due volumi delle “Opere” di Primo Levi, pubblicate da Einaudi nel 1987, che vedete nella foto.
133. Levin, Ira: “La Fabbrica delle Mogli”
“«Andatevene!» gridò alle luci che avanzavano tentennando verso di lei, due da una parte, una dall’altra. Sollevò il ramo. «Andatevene!» I fanali continuarono ad avanzare, rallentarono e si fermarono: chiarore abbagliante. «Andatevene!» urlò, riparandosi gli occhi. Le luci diminuirono. «Spegni. Non vogliamo farle del male, signora Eberhart». «Non abbia paura. Siamo amici di Walter». Le luci si spensero; lei abbassò la mano. «E anche amici suoi. Io sono Frank Roddenberry. Ci conosciamo». «Stia tranquilla, nessuno intende farle del male». Delle sagome più scure del buio si profilarono davanti a lei. «State lontani» avvertì, sollevando più alto il ramo. «Ma non è il caso». «Non vogliamo farle alcun male». «Allora andatevene» ribatté. «Sono tutti fuori a cercarla» disse la voce di Frank Roddenberry. «Walter è preoccupatissimo». «Lo immagino» replicò lei. Rimasero fermi, quattro o cinque metri più in là: tre uomini. «Non avrebbe dovuto andarsene in giro così, senza cappotto» osservò uno di loro. «Andatevene» ripeté. «L-lo m-metta giù» riprese Frank. «Nessuno le farà del male». «Signora Eberhart, ho parlato al telefono con Walter neanche cinque minuti fa». Era l’uomo al centro. «Abbiamo saputo dell’idea che si è fatta. Ma sbaglia, signora Eberhart. Mi creda, non è così». «Qui nessuno fabbrica robot, signora Eberhart» aggiunse Frank”.
“La Fabbrica delle Mogli” è il titolo-spoiler di un angoscioso e bellissimo romanzo il cui titolo originale, molto più intrigante, è “The Stepford Wives”, “Le Mogli di Stepford”. Il suo autore, Ira Levin (1929 ― 2007), lo scrisse nel 1972, quando era già celebre per aver scritto, nel 1967, “Rosemary’s Baby”, dal quale, l’anno dopo, Roman Polański aveva tratto l’ancor più celebre film omonimo con Mia Farrow e John Cassavetes.
Anche “Le Mogli di Stepford” ebbe una versione cinematografica. Due, anzi: la prima, ottima, nel 1975, diretta da Bryan Forbes, con Katharine Ross (ricordate la figlia di Mrs Robinson ne “Il Laureato”?) e Paula Prentiss, bravissime nelle parti delle due compagne di lotta Joanna Eberhart e Bobbie Markowitz: un film da non perdere. Mentre la seconda, del 2004, diretta da Frank Oz e intitolata “La donna perfetta”, è invece mediocre per un semplice e bieco motivo: la congiura mondiale dei registi, dopo “Eyes Wide Shut” (1999), di Stanley Kubrick ― congiura che pare tratta anch’essa da un romanzo di Levin ― per far interpretare alla splendida e bravissima Nicole Kidman solo sceneggiature stupide o rese tali.
Forse anche Ira Levin odiava le donne? Perché mai infliggeva alle protagoniste storie spaventose e senza uscita come quella di Joanna in “The Stepford Wives” e di Rosemary in “Rosemary’s Baby”? No, non le odiava: Ira Levin, con le tragedie delle sue eroine, cercava di spaventare le donne reali perché aprissero gli occhi su quel che le attendeva da parte di una società maschile su cui non si faceva illusioni: venir private di sé stesse (“La Fabbrica delle Mogli”) e tramutate nelle consenzienti carnefici dei propri figli (“Rosemary’s Baby”).
Non vedeva eccezioni? Oh, ne vedeva e come! Ma cos’è un’eccezione, se non la conferma di una regola?
134. Lewis, C. S. (Clive Staples): “Lontano dal Pianeta silenzioso”
“«Malacandra fluttua nello spazio, come ogni altro mondo, e io non sono propriamente ‘qui’ nel modo in cui lo sei tu, professor Elwin Ransom di Thulcandra. Gli esseri della tua specie, per venire su un mondo, debbono scendervi dallo spazio, mentre per noi i mondi sono luoghi che dello spazio fanno parte. Ma non cercare di capire, per ora. È sufficiente che tu sappia che io e i miei aiutanti siamo nello spazio anche in questo momento; quando eri sull’astronave, essi ti erano attorno come lo sono qui, adesso». «Allora tu sapevi del nostro viaggio prima che partissimo da Thulcandra?» «No. Thulcandra è il mondo che noi non conosciamo perché è l’unico che non fa parte dello spazio e da esso non ci giunge alcun messaggio». Ransom taceva, ma l’Oyarsa rispose alla sua muta domanda. «Non è sempre stato così. Un tempo il tuo pianeta non si chiamava Thulcandra, e noi ne conoscevamo l’Oyarsa, che era più luminoso e più grande di me. Ma molto prima che nel tuo mondo sorgessero forme di vita egli divenne distorto. È la più lunga e la più amara di tutte le storie. Quelli furono gli Anni del Distorto, dei quali nello spazio ancora si parla: gli anni in cui il Distorto non era ancora relegato sul tuo pianeta ma era libero come noi, e la sua mente era volta alla rovina di altri mondi oltre che del suo. Con la mano sinistra colpì la vostra luna e con la destra diffuse il gelo sulla mia ‘harandra’ causandone la morte prematura; e se Maleldil, servendosi del mio braccio, non avesse aperto le ‘handramit’ e fatto sgorgare le sorgenti d’acqua calda, il mio mondo sarebbe ora disabitato. Non lo lasciammo libero a lungo, però, il Distorto: ci fu una grande guerra e noi, seguendo gli insegnamenti di Maleldil, lo scacciammo dallo spazio incatenandolo entro l’atmosfera di Thulcandra. Là egli sicuramente giace tuttora, e del tuo pianeta noi non sappiamo più niente: è diventato silenzioso. Non crediamo, però, che Maleldil intendesse abbandonarlo del tutto al Distorto». [...] Per qualche momento Ransom non rispose, e l’Oyarsa rispettò il suo silenzio. Quando ebbe riordinato le sue emozioni, disse: «Dopo quello che mi hai raccontato, Oyarsa, posso confermarti che sì, il mio mondo è gravemente distorto»”.
C. S. (Clive Staples) Lewis, scrittore, saggista, e purtroppo teologo (1898-1963): “Lontano dal pianeta silenzioso” (1938).
135. Lewis, Matthew: “Il Monaco”
“Beatrice prese il velo in tenera età, non per sua elezione, ma per espresso volere dei genitori. Era troppo giovane, allora, per rimpiangere i piaceri di cui la privavano quei voti. Ma appena il suo temperamento caldo e sensuale prese a maturare, si abbandonò senza ritegno all’impulso delle passioni e, per soddisfarle, colse la prima opportunità. Dopo una quantità di intralci, che valsero solo a ingagliardire i suoi desideri, l’occasione infine si presentò. Escogitato un modo per evadere dal convento, fuggì in Germania col barone di Lindenberg e per mesi visse con lui, in sfacciato concubinaggio, nel suo castello: in tutta la Baviera quella condotta dissoluta e impudica fece scandalo. Per licenziosità i suoi banchetti potevano competere con quelli di Cleopatra, e Lindenberg divenne teatro delle orge più sfrenate. Non paga di ostentare la lussuria di una meretrice, si professò atea: ogni occasione era buona per dileggiare i suoi voti monastici e beffarsi delle cerimonie religiose più sacre. Con un animo tanto depravato, non riservò a lungo i propri appetiti a una sola persona. Arrivata di fresco al castello, fu attratta dal fratello minore del barone, un gigante dai lineamenti marcati e di membra erculee. Non era donna da nascondere a lungo le sue propensioni; ma in Otto von Lindenberg incontrò uno scellerato del suo calibro. Ricambiò la passione di lei quel tanto che bastava per esaltarla e, quando la ebbe portata all’intensità voluta, fissò il prezzo del proprio amore: l’assassinio del fratello. La sciagurata aderì all’orrendo contratto. Per l’esecuzione fissarono insieme una notte. Otto, che risiedeva in una modesta tenuta a poche miglia dal castello, promise che l’avrebbe attesa alla Buca di Lindenberg all’una; avrebbe guidato una schiera di amici scelti, col cui aiuto sarebbe senz’altro riuscito a impadronirsi del castello; poi, per prima cosa, l’avrebbe sposata. Fu questa promessa a bandire gli ultimi scrupoli di Beatrice, poiché il barone, pur amandola, le aveva detto chiaro e tondo che non l’avrebbe mai presa in moglie”.
Matthew Gregory Lewis (1775-1817) scrisse “Il Monaco” a vent’anni. E il romanzo ebbe un immenso successo e suscitò un immenso scandalo in tutta Europa benché fra i suoi perversi e sfrenati personaggi includesse una donna abbastanza dissoluta per uccidere, ma non per non mirare al matrimonio.
[“La copertina del volume è un particolare di un dipinto, «La sepoltura della sardina», che Francisco Goya (1746-1828) realizzò tra il 1812 e il 1814, raffigurante la processione del martedì grasso lungo il Manzanarre, a Madrid, che terminava con la sepoltura di una sardina bordata di carne di maiale. Questo entierro intendeva concludere simbolicamente il periodo di Carnevale, la cui etimologia latina era proprio «carnem levare» (togliere la carne), concedendo al popolo un’ultima occasione di pazzia prima del periodo penitenziale della Quaresima” (da Wikipedia)].
136. Lewis, Roy: “Il più grande Uomo Scimmia del Pleistocene”
“Le faville salivano al cielo, nelle gelide e serene notti d’inverno, la legna verde sfrigolava, quella secca crepitava, e il nostro fuoco splendeva come un faro su tutta la Rift Valley. Quando la temperatura si abbassava parecchio anche in pianura, e le piogge spargevano umido e dolori alle giunture, costringendoci a restare al chiuso, veniva a trovarci zio Vania. Arrivava sfrecciando tra le fronde degli alberi, annunciato da uno ziff-ziff-ziff che suonava inconfondibile quando il traffico della giungla si azzittiva per un momento; di tanto in tanto, il sinistro spezzarsi di un ramo sovraccarico, seguìto da un’imprecazione soffocata, che diventava un urlo d’ira bestiale se davvero gli accadeva di precipitare giù. Alla fine la sua figura massiccia sbucava ciondolando nel chiarore del fuoco: le braccia lunghe fin quasi a toccare terra, la testa quadra incassata nelle spalle larghe e villose, gli occhi iniettati di sangue, le labbra arrovesciate nel consueto sforzo di farne sporgere i canini, cosa che gli conferiva l’espressione di chi inalberi un sorriso ipocrita a una festa che chiaramente aborre; da bambino lo trovavo terrificante. In séguito però ho scoperto che dietro tutte le sue manie ed eccentricità ― di cui era il primo a soffrire, e anche l’unico ― si celava una persona gentile, sempre pronta a regalare una manciata di fichi o bacche di ginepro al ragazzo che (si illudeva) prendeva per autentica e voluta la naturale ferocia del suo aspetto. Ma come parlava, come discuteva! Ci salutava appena, un cenno particolare a zia Mildred, tendeva appena le sue povere mani, blu per il freddo, al calore del fuoco, e... già era partito a testa bassa come un rinoceronte contro mio padre, puntandogli addosso, al posto del corno, un lungo indice accusatore. Papà gli lasciava sfogare la piena dei sentimenti in un torrente di querimonie; poi, quando lo zio si era un po’ calmato, magari mangiando un paio d’uova di aepyornis e qualche durian, ingaggiava battaglia, parando i colpi di zio Vania con le sue osservazioni pacate e ironiche, a volte lasciandolo sbigottito e senza parole con l’ammettere allegramente i suoi spropositi ― quando addirittura non se ne vantava. Credo che in fondo si volessero un gran bene, pur passando la vita a litigare, ma non poteva andare diversamente: erano tutt’e due uomini scimmia di saldi princìpi, e questi princìpi, che essi mettevano in pratica con assoluta coerenza, erano diametralmente opposti in tutti i campi. Ognuno tirava dritto per la propria strada, sicurissimo che fosse l’altro a sbagliarsi tragicamente riguardo alla direzione in cui evolveva la famiglia antropoide; ma i loro rapporti personali, pur così polemici, restavano buoni. Discutevano, talora si insultavano, ma non passavano mai alle vie di fatto. E benché zio Vania ci lasciasse di solito molto risentito, finiva sempre per tornare a trovarci. Il primo litigio a cui ricordo di aver assistito tra i due fratelli, così diversi d’aspetto e condotta, riguardava l’opportunità, in generale, di avere un fuoco nelle notti fredde. [...] «Di’ un po’, Edward» disse zio Vania, «ma tu la controlli per davvero questa roba?» «Ehm... più o meno. Più o meno, sai com’è». «No che non lo so! Più o meno? O la controlli o non la controlli! Non fare il furbo. Per esempio, la sai spegnere?...»”
Roy Lewis (1913-1996), “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene” (“The Evolution Man”, 1960).
137. Lindgren, Astrid: “Pippi Calzelunghe”
Nel 1944, a trentasette anni, Astrid Ericsson (poi Lindgren, 1907-2002) scrisse il suo primo romanzo, “Pippi Calzelunghe”, per i suoi figli. Quanti romanzi erano stati scritti, fino a quel momento, con una bambina come protagonista? Solo l’orrendo “Alice nel Paese delle Meraviglie”, mi sembra... Se voi ne conoscete altri ― a parte “Cappuccetto Rosso”, che però non è un romanzo ― vi prego di farmelo sapere... E quanti ne sono stati scritti, dopo “Pippi Calzelunghe”? Be’, se rispondessi centinaia sbaglierei per difetto, e di gran lunga.
Ma Pippi Calzelunghe non è stata “solo” la prima protagonista di romanzo bambina dopo la sventurata Alice. È stata, anche e soprattutto, la prima la cui autrice si è rigorosamente astenuta dal servirsene per impartire lezioni alle piccole lettrici e ai piccoli lettori.
Pippi, inoltre, ama di sicuro moltissimo suo padre e la sua povera mamma, ma è così perfettamente in grado di cavarsela senza di loro, che è difficile sfuggire al sospetto che li ami così tanto anche perché... non deve affrontarli tutti i giorni. La sua condotta affettuosamente ostile verso i grandi (la superiorità e l’insofferenza che ostenta nei loro riguardi, e i grandi e piccoli atti di sabotaggio che mette in opera contro i loro tentativi di imbrigliare la sua immensa vitalità), nonché la sua tendenza a schierarsi sempre, apertamente e aprioristicamente, dalla parte dei bambini, dimostrano che se mai da questo libro si volesse trarre una “morale”, si vedrebbe che essa è rivolta solo agli adulti.
“C’era, alla periferia della minuscola città, un vecchio giardino in rovina; nel giardino sorgeva una vecchia casa, e nella casa abitava Pippi Calzelunghe. Aveva nove anni e se ne stava lì completamente sola: non aveva né mamma né papà, e in fin dei conti questa non era una cosa atroce se si pensa che così nessuno poteva dirle di andare a dormire proprio quando si divertiva di più o propinarle l’olio di fegato di merluzzo quando invece lei desiderava le caramelle...”
138. Lindsay, Joan: “Picnic a Hanging Rock”
Il giorno di San Valentino dell’anno 1900, in Australia, le allieve del collegio femminile della signora Appleyard lasciano la scuola su un carro coperto per un picnic a Hanging Rock, gigantesco monolite roccioso. Le accompagnano, oltre al conducente, la signorina Greta McCraw, professoressa di matematica, il cui solo amore sono i numeri, e Dianne de Poitiers, professoressa di francese, tenera ed esuberante quasi come le alunne.
È una splendida giornata estiva, e le ragazze son così felici di evadere dall’opprimente collegio, e per gli affettuosi messaggi che si sono scambiate, che perfino la signorina McCraw sembra sul punto di lasciarsi sfuggire un sorriso. Ma un’ombra offusca la loro gioia: la mancanza di Sara, una compagna orfana e povera a cui la signora Appleyard, che la tratta sempre con disprezzo e durezza, ha vietato per futili motivi di partecipare alla gita.
Miranda, Marion, Irma e Edith, col permesso delle insegnanti, s’incamminano verso il monolite per quella che dovrebbe essere una breve e tranquilla passeggiata. Ma poi, a un tratto, come se una forza misteriosa e irresistibile annienti in loro la prudenza e il senso del tempo, si arrampicano sempre più in alto, sempre più in alto, verso una meta che non conoscono e forse non immaginano.
Gli ultimi a vederle sono due ragazzi: Mike, di una ricca famiglia inglese, e Albert, che lavora come stalliere per gli zii australiani di Mike. Le quattro ragazze scompaiono, e poco dopo sparisce anche la signorina McCraw, che forse è andata a cercarle quando si è accorta che gli orologi si sono fermati. Solo Edith ritorna sul luogo del picnic, ma in stato di choc: non ricorderà mai che cosa sia accaduto sulla Roccia.
La sera stessa, avvertita la polizia, iniziano le ricerche. E le forze dell’ordine, senza capire né concludere alcunché, si smarriscono nel mistero proprio come le ragazze si sono perse sul monolite. Solo Albert e Mike, che le hanno guardate più intensamente di ogni altro, riusciranno a qualcosa in quella che è la più ardua delle lotte, e la più necessaria: far tornare dal nulla un essere umano.
“Picnic a Hanging Rock”, così come Joan Lindsay (1896-1984) lo pubblicò nel 1967, si conclude con le seguenti parole, che l’autrice immagina di trarre da un quotidiano di Melbourne datato 14 febbraio 1913: “La contessa de Latte-Marguery (Irma Leopold), che risiede attualmente in Europa, continua ― sebbene di quando in quando conceda interviste a vari enti interessati al caso, tra i quali la Società di Ricerche psichiche ― a non ricordare niente di più di quel che richiamò alla mente quando riprese conoscenza. Pertanto il Mistero del Collegio, come quello del famoso caso della Marie Celeste [una nave ‘fantasma’], rimarrà probabilmente per sempre insoluto”.
Ma nel 1987 è uscito “The secret of Hanging Rock”, contenente il diciottesimo e ultimo capitolo del libro, di dodici pagine, e un’introduzione dell’ex agente di Joan Lindsay, John Taylor, secondo il quale l’autrice, convinta dall’editore a eliminare il vero finale del romanzo, aveva disposto che fosse pubblicato dopo la sua morte.
“Il capitolo comincia quando Edith fugge dalla roccia” si legge su Wikipedia. “Marion, Irma e Miranda continuano invece a salire e arrivano su un pianoro, dove iniziano a provare strane sensazioni. Lì le raggiunge, con la camicia strappata e senza la gonna, la signorina McCraw ― che non ricorda più il proprio nome né quelli delle ragazze, che a loro volta non la riconoscono ― e le guida verso un altro tipo di realtà. Il momento chiave è quando Marion incita le compagne a gettare i corsetti nel precipizio, ma gli indumenti restano sospesi a mezz’aria. Poi la McCraw indica alle ragazze un’apertura tra le rocce, dove lei, Marion e Miranda si trasformano in piccole creature striscianti, forse lucertole. Irma resta fuori, una frana chiude l’apertura, e il romanzo termina con lei che si getta sulle rocce e a mani nude batte e rompe il volto granuloso del macigno”.
Come interpretare un’opera il cui finale, apparso vent’anni dopo il libro e dodici dopo il film di Peter Weir, la rende così fortemente (e a mio parere spiacevolmente) diversa da quella che conoscevamo?
L’immagine più importante del romanzo, che appare ben sette volte, è quella del cigno che per Mike è il simbolo di Miranda, della quale si è innamorato benché non l’abbia vista che per qualche istante: 1. “Come si chiamava la ragazza alta, pallida, dai capelli biondi lisci, che [attraverso il ruscello] era passata sfiorando l’acqua come uno dei cigni bianchi nel laghetto di suo zio?” (cap. II). 2. “Su un tratto folto di fiori, un solitario cigno bianco stava in equilibrio su una zampa color corallo e, di tanto in tanto, produceva un nugolo di increspature concentriche sulla superficie del lago. [...] «Non posso dimenticarla. Non la scorderò mai». E il cigno bianco, che per tutto questo tempo era rimasto posato su un ciuffo di ninfee, ora decise di stirare prima l’una e poi l’altra delle sue zampe rosa e quindi di allontanarsi sbattendo le ali sul lago verso la riva opposta. Mike e Albert ne seguirono in silenzio il volo finché non fu scomparso tra le canne. «Ah, sono proprio belli quei cigni!» sospirò Albert. «Bellissimi» disse Mike (cap. VI). 3. “Miranda, alta e bionda, lo aveva sfiorato come un cigno bianco” (cap VII). 4. “Quando si svegliò, la stanza era buia, se non per una debole luce incandescente che emanava da un cigno bianco posato sulla spalliera d’ottone in fondo al letto. Mike e il cigno si guardarono senza stupore, poi quel magnifico essere sollevò lentamente le ali e volò via attraverso la finestra aperta” (cap. VIII). 5. “Il giovane si era appena voltato, [...] quando sentì lo sciabordio proveniente dallo specchio d’acqua, dove una fanciulla vestita di bianco era in piedi accanto a una conchiglia che sotto una quercia fungeva da vasca per gli uccelli. Il viso era rivolto dall’altra parte, ma egli la riconobbe subito dalla posa della testa bionda china, e corse verso di lei con l’angoscia che sparisse prima che riuscisse a raggiungerla, come gli accadeva nei suoi sogni agitati. Era quasi arrivato a sfiorare le sue gonne di mussola, ma esse divennero le ali lievemente frementi di un cigno bianco attirato dallo zampillo scintillante della presa d’acqua. E quando Mike, a pochi metri, crollò sull’erba, il cigno si levò quasi verticalmente sulla conchiglia e spargendo lungo la sua scia una pioggia di gocce multicolori volò via sui salici dall’altra parte del lago” (cap. X). 6. “Dinanzi a loro [dopo che Mike ha bagnato Irma per sbaglio, o forse volendolo senza saperlo, come per dire a sé e a lei che non la sposerà] un cigno bianco si alzò leggiadro dalle canne. Stettero un momento a osservarlo mentre sbatteva le ali sull’acqua, finché non scomparve tra i salici sulla riva opposta. Così Irma avrebbe poi ricordato molto nitidamente Michael Fitzhubert. All’improvviso le sarebbe apparso, al Bois de Boulogne o sotto gli alberi di Hyde Park, con una ciocca di capelli biondi su un occhio e il viso girato a metà per seguire il volo del cigno” (cap. X). E infine, per l’ultima volta, nel capitolo XIV: “I cigni erano spariti, e i ciuffi di foglie verde scuro delle ninfee, sparite anch’esse, punteggiavano la nera superficie senza sole. La quercia dove aveva visto il cigno bere alla conchiglia in un pomeriggio d’estate si ergeva nuda verso il cielo”.
“Si allontanò sbattendo le ali”, “volò via”, “volò via”, “scomparve”, “erano spariti”: il cigno e Miranda sono tutt’e due bianchi, eterei, imprendibili perfino dallo sguardo, ma tutt’e due di una tale bellezza che dimenticarli è impossibile. La vita di Mike ne sarà segnata per sempre così come la vita di Albert sarà segnata per sempre dalla duplice scomparsa (benché egli sappia solo della prima) di Sara, la sua amata sorellina.
Mike e Albert, diventati amici indivisibili nel corso di questa tragedia, sono e saranno sempre diversi da chi non ha condiviso la loro esperienza; da chi, cioè, non si è neanche avvicinato a dove le ragazze e la signorina McCraw sono sparite: un “luogo” da cui non si torna, o del quale, come accade a Irma e Edith, non restano ricordi, ma che in Mike e Albert, i soli che riescono in un salvataggio, lascia un’impressione che nessun altro prova, misteriosa e ineffabile come la scomparsa di un meraviglioso cigno intravisto soltanto per un attimo.
Cos’è quel “luogo”, se non il nulla? E dov’è, se non ovunque esso si crei in una ragazza o in un ragazzo che spariscono? Ovunque, in ogni momento, c’è chi sparisce nell’anaffettività e nella violenza di “rocce” ― famiglie, istituzioni, società, culture, ideologie, religioni ― che odiano e disprezzano gli esseri umani. In “Picnic a Hanging Rock” le rappresenta la signora Appleyard, la direttrice del collegio, che da tempo ha fatto di sé stessa l’opposto, vuoto, insensato, mostruoso, violento, di un essere umano.
Ma perché Miranda e Marion siano scomparse, il primo finale di “Picnic a Hanging Rock” non lo dice e il secondo non lo sa. Eppure è questo il vero enigma, quasi più atroce e insopportabile della sparizione stessa. Ed è quello che accade quasi sempre, perché è molto difficile accertare e comprendere le vicende che portano le ragazze e i ragazzi a sparire. Anche di chi fisicamente non scompare, poiché sparisce “dentro”, è quasi impossibile capire cosa gli sia accaduto: è un processo lungo, e così subdolo e complesso che nemmeno chi lo vive è in grado di raccontarlo. Del nulla quasi mai si ha percezione, e tanto meno conoscenza.
Mike ― arrivato fin quasi al nulla non perché ne fosse attratto, ma per amore di quelle che vi si erano gettate e sperando di riuscire a strappargliele ― ce l’ha fatta, ha salvato Irma e sé stesso. E la cicatrice sulla sua fronte (che il film di Weir pone erroneamente anche su quella di Irma) è il segno del cambiamento che Mike ha realizzato attraverso questa esperienza: il segno che egli, benché non sappia parlarne né spiegarlo, è ora più forte contro il nulla, più diverso da esso; il segno che in lui, ora, ci sono più affetti, più comprensione, più saggezza, più umanità, più esistenza, meno inesistenza. Per questo non può smettere di pensare a colei che meno di tutti si poteva temere che sparisse: “Perché proprio Miranda?” si chiede. “Come può una cosa così tremenda accadere a chi è solo vita, a chi del nulla... ha niente?”
Continua, Mike, a domandarsi se si possa fare ancora qualcosa che non è stato tentato. Poiché intuisce che il nulla ha tanti mezzi per prevalere e che uno di questi, forse il più comune, è la rassegnazione a sospendere le ricerche: a non poter salvare, a non capire, e talvolta perfino a non vedere.
Gli abitanti del villaggio, i soccorritori sconfitti, il sergente Bumpher e sua moglie, le altre allieve e le loro maestre, rassegnandosi a poco a poco alle sparizioni, accettandole come se siano delle fatalità, e illudendosi di esser salvi poiché fisicamente sono ancora vivi, a poco a poco spariranno “dentro”, perderanno in parte o in tutto la loro umanità. E nessuno li vedrà più, poiché nessuno, ricordando com’erano prima che si rassegnassero, li potrà più riconoscere in quelli che saranno diventati.
Mike è diverso: non può rassegnarsi. I suoi occhi cercano un’immagine che dal nulla non può uscire, ma che la fantasia può creare. E gli appare il cigno che ogni volta appare e scompare. Perché? Perché Miranda, il cui nome significa colei che deve essere ammirata, nessuno l’ha vista sparire? Ma il cigno ogni volta vola via, Mike non si riprende, e noi capiamo che anche lui ha ceduto.
Della bellezza scomparsa, a Mike e a noi, resterà un ricordo diverso da ciò che rimane a chi mai l’ha compresa e amata, e che non ha, per salvarla, davvero sofferto e lottato: a loro resterà una registrazione cerebrale priva di spessore affettivo e che a poco a poco sbiadirà anch’essa; a Mike e a noi, invece, una memoria viva e imperitura, per la quale continueremo per sempre, per noi stessi e per gli altri, a cercar di capire.
Ma possiamo accontentarci di questo? Rassegnarci a questo? Noi vogliamo che nessuna Miranda sparisca mai più!
Joan Lindsay, un anno prima del ’68, forse intuì, pur senza saperlo ― o non avrebbe caratterizzato con tanta forza la mostruosità della signora Appleyard e la rassegnata impotenza degli altri ― che il nulla non è natura, come i terremoti, ma una quasi onnipresente costruzione di rapporti umani... disumani, una gigantesca ma invisibile rete di relazioni affettive... anaffettive, concretizzata e organizzata in istituzioni d’ogni sorta, in cui chi sparisce iniziò a rimanere imprigionato dalla nascita, dalla prima volta che ai suoi affetti si contrappose... il nulla. Sì, Joan Lindsay forse lo intuì, ma poi... scomparve anche lei, si perse dietro l’idea delirante che le ragazze e i ragazzi che spariscono siano degli “eletti” ― altissimi su di noi che quaggiù, rimasti ai piedi della Roccia, ai loro occhi sembriamo delle formicuzze ― e che la sparizione sia la soglia di una realtà superiore, paradisiaca, in cui le “predestinate” e i “predestinati” diverranno tutt’uno con la Natura, con l’Universo: fatua ma violenta insulsaggine analoga a quelle in cui i bambini che muoiono vengono sepolti e dimenticati chiamandoli angioletti.
Sono un insegnante che per più di trent’anni si è profondamente legato alle ragazze e ai ragazzi di un luogo, ha continuato a seguirli anche dopo, e ne ha visti sparire non pochi, talora anche fisicamente, annientati dall’anaffettività e dall’idiozia dei rapporti in cui erano invischiati fin dai primi istanti di vita e dalle religioni, ideologie, “culture” e istituzioni che rafforzavano quei rapporti rendendoli quasi onnipotenti. Rassegnarmi a questo mi sarà impossibile finché vivrò. Pur sapendo che anche se fossi stato accanto a loro fin da quando nacquero, anche se avessi visto e sentito ogni cosa, anche se fossi venuto a conoscenza di tutto e avessi cercato di stornare da loro ogni colpo, di risarcire con amore e saggezza ogni insensibilità che li feriva... forse lo stesso non sarei riuscito a salvarli.
139. London, Jack: “Il Vagabondo delle Stelle”
Ho letto, naturalmente, le opere più famose di Jack London (1876-1916): “Fare un fuoco” (1902, riscritto nel 1908), “Il richiamo della foresta” (1903), “Zanna Bianca” (1906), e “Martin Eden” (1908-1909), di cui vi dirò qualcosa la prossima volta. Ma il mio preferito ― di gran lunga, poiché da scrittore lo considero una fonte d’ispirazione ― è “Il Vagabondo delle Stelle”, del 1915, del quale vi propongo due brani: “La storia dell’uomo è la storia del suo amore per la donna” e “La mia prima escursione fra le stelle”. Il primo, come vedrete, qualsiasi commento l’offenderebbe. Mentre sul secondo vi dico che è l’annuncio di una nuova e straordinaria libertà che attende ancora oggi, più di un secolo dopo, di essere capita: una libertà contro la quale neanche le mura di una prigione, neanche una camicia di forza, neanche la morte ha il minimo potere; e che non è, come si può credere, la libertà della fantasia, o quella del sogno ― benché tutt’e due le siano contigue ― ma la libertà della memoria di crearsi da sé stessa, se riesce a farlo senza intaccare la verità del passato.
1. La storia dell’uomo è la storia del suo amore per la donna.
“Se guardo alla mia storia passata, mi accorgo di aver subìto l’influsso di molte e splendide cose, ma prima fra tutte l’amore per la donna, l’amore dell’uomo per la donna che gli somiglia. A volte penso che la storia dell’uomo sia la storia del suo amore per la donna. L’ho sempre amata e tuttora la amo. Il mio sonno se ne nutre, le fantasie che mi colgono da sveglio possono muovere chissà da dove, ma è sempre a lei che mi conducono. Non c’è modo di sfuggire alla sua presenza immortale, alla luce che da lei si irradia. Non mi fraintendete. Non sono un giovanotto, un galletto al quale bolle il sangue. Sono un uomo carico d’anni. Ma per tutto questo tempo è stata la donna a far sì che ridessi della morte, che non mi dolessi delle distanze, che resistessi alla fatica. Ho affrontato la morte e il disonore, ho perduto il favore delle stelle per amore della donna e ― visto che la desideravo tanto ― per amor mio. Mi sono nascosto, malato di desiderio, solo per vederla passare, per colmarmi gli occhi della sua meravigliosa figura e delle splendide chiome ondeggianti, nere come la notte, o castane, o del colore dell’oro come raggi di sole. Sì, per l’uomo la donna è davvero un essere meraviglioso, dolce al palato e fragrante alle narici, è il fuoco che gli incendia le vene, è il suono di mille trombe. All’orecchio dell’uomo la sua voce supera qualsiasi musica. Tanti e tali sono i mutamenti che ha indotto in noi nel corso delle epoche, che ormai da moltissimo tempo è soprattutto la donna a compiere prodigi nei nostri sogni. E nondimeno a rimescolare il nostro sangue fino a diventare più importante di quegli stessi sogni e del sangue stesso della vita”.
2. La mia prima escursione fra le stelle.
“Fu allora che, fra bagliori di luce, superando d’un balzo il tetto della prigione e il cielo della California, fui libero tra le stelle. Camminavo tra le stelle. Ero un bambino, un bambino coperto di lunghi abiti dai tenui colori, delicati, soffici, luccicanti nel freddo chiarore astrale. Erano abiti che si ispiravano, è naturale, a quelli che da piccolo avevo visto sugli artisti del circo, e all’idea che allora mi ero fatto delle vesti degli angeli. Sia come sia, così vestito avanzavo nello spazio interstellare, esaltato dal sentire che ero partito per una grande avventura che mi avrebbe infine permesso di impadronirmi delle formule del cosmo e di conoscere i più arcani segreti dell’universo. In mano avevo una lunga bacchetta di vetro. Sapevo, in cuor mio, che con essa avrei dovuto toccare tutte le stelle che avrei incontrato sul mio cammino. E sapevo, con la stessa chiarezza, che se ne avessi mancata anche soltanto una sarei precipitato in un abisso insondabile di colpa e di punizione eterna. Questa mia escursione spaziale durò a lungo. Quando dico «a lungo», però, non dovete dimenticare che nella mia mente si era verificata una immane dilatazione del tempo. Per secoli e secoli percorsi lo spazio, colpendo con la punta della bacchetta ogni stella che incontravo, sorretto da un occhio sicuro e da una mano ferma. A mano a mano che procedevo, la via si faceva sempre più splendente e si avvicinava la meta ineffabile del sapere infinito. Non sbagliavo mai. Sapevo perfettamente che chi camminava fra le stelle, toccandole con una bacchetta di vetro, ero io, Darrell Standing. Per dirla in breve, sapevo che di reale non c’era niente, niente che fosse mai esistito o che potesse esistere. Che non si trattava che di una risibile orgia dell’immaginazione, simile a quelle che certuni sperimentano nei sogni indotti da una droga, o nel delirio, o in uno stato di pura e semplice sonnolenza. Ma poi, mentre la mia escursione spaziale procedeva sicura e felice, con la punta della bacchetta mancai una stella e in quel medesimo istante mi accorsi di aver commesso un orribile crimine. Nello stesso momento un colpo tremendo, inesorabile, perentorio come il ferreo zoccolo del destino quando si abbatte, mi percosse riverberandosi per tutto l’universo, e quel sistema stellare si fece corrusco, vacillò e cadde in fiamme. Fui preso da un’angoscia fortissima, devastante. E fui di nuovo l’ergastolano Darrell Standing, confinato nella sua cella di rigore, legato in una camicia di forza...”
140. London, Jack: “Martin Eden”
Vi ho parlato con entusiasmo de “Il Vagabondo delle Stelle”. Ora, invece, a costo di farvi arrabbiare, vi dirò che “Martin Eden” non mi piace. Mi è piaciuto molto il film di Pietro Marcello del 2019, quello sì; ma perché... non ho capito il finale. Infatti, poiché non avevo ancora letto il romanzo, né visto lo sceneggiato Rai del 1979 (è su YouTube), credetti... be’, non che il protagonista vada a farsi una nuotatina vestito, ma almeno ― dato che non si tuffa dalla nave Mariposa nelle tempestose acque dei mari del Sud, ma da una spiaggia napoletana in un bel Mediterraneo calmo ― che la dissolvenza conclusiva, con lui che ancora nuota vigorosamente, mi lasciasse libero di immaginare che in qualche modo poi si salvi... Insomma: per quella “libertà della memoria di crearsi da sé stessa” di cui vi ho parlato circa “Il Vagabondo delle Stelle”, il mio ricordo del finale del film era di aver visto Martin Eden vivo, l’ultima volta che l’avevo visto. Ma poi ho letto il libro e ho scoperto che no, Jack London volle che nessun lettore potesse concedersi ciò che nel 1915 egli avrebbe invece permesso a Darrell Standing: “Da qualche parte, lì in fondo, piombò nelle tenebre. Solo questo sapeva. Era piombato nelle tenebre. E nel momento stesso in cui lo seppe, smise di sapere”.
Ed ecco il commento al finale del film del 2019 che una signora ― dalla memoria meno libera della mia ― ha espresso su YouTube: “Peccato, ha lottato per tutta la vita per difendere il suo lato poetico, perché finire così? L’amore per una donna può arrivare a distruggere l’anima di un poeta?”... Sì, è per questo che “Martin Eden” mi ha deluso: non perché io sia un fanatico del lieto fine ― anche se un po’ lo sono, in effetti ― ma perché non accetto che scrittori e registi mi spaccino le donne come “femmes fatales” che conducono gli uomini alla rovina quando in realtà è quasi sempre vero il contrario (a meno che non si tratti delle loro madri, e forse neppure in quel caso, poiché neanche l’idea che esistano delle “mamans fatales” mi convince poi molto). No, Martin Eden ― lo ripeto ― mi ha deluso perché non impara dal futuro, cioè dal suo successore Darrell Standing, e non dice, anziché ammazzarsi: “È stata la donna a far sì che non mi dolessi delle distanze, che resistessi alla fatica, che ridessi della morte”.
Tanto più in quegli anni 1908-1909, quando centinaia di migliaia di ragazzi stavano per essere massacrati in quella cosiddetta Grande Guerra che fu la più insensata di tutti i tempi, perché Jack London volle mandare un giovane a morte per accusarne una donna?...
(E a riprova che “Martin Eden” è un romanzo sbagliato valga il fatto che esso, a quel che si legge su Wikipedia, grava ancor’oggi sulla fama dell’autore: “Il finale di «Martin Eden» contribuì considerevolmente ad alimentare l’ipotesi mai provata del suicidio dello stesso Jack London, definita però da Clarice Stasz «un mito biografico». La vera causa della sua morte, infatti, anche se venne attribuita a «uremia a séguito di forti coliche renali», non fu mai accertata. Si parlò, tuttavia, di una overdose di morfina, che London prendeva per calmare i dolori, e in tal caso la sua morte sarebbe stata involontaria”).
141. Longo Sofista: “Dafni e Cloe”
C’è stato un tempo e luogo in cui un ragazzo e una ragazza si siano trovati a dover scoprire insieme ma da soli tutto, riguardo a come realizzare quel che sentivano l’uno per l’altra? E in cui né religione, né tradizioni, né alcun difetto di lui o di lei, niente abbia loro impedito di tentarlo e inventarlo liberamente fino a riuscire?...
Chissà, forse è stato sempre così, in ogni luogo e tempo in cui una ragazza e un ragazzo si siano amati e desiderati così tanto, che tutto quel che già sapevano o temevano appariva loro assolutamente niente dinanzi a quel che provavano.
“Qui belavano pecore, là ruzzavano agnelli, che ponendosi sotto le madri ne succhiavano le mammelle. I maschi inseguivano le pecore che non avevano ancora figliato e mettendole sotto le montavano, chi l’una chi l’altra. Anche i caproni inseguivano le capre e balzavano su di esse con salti lascivi e per esse venivano alla lotta; e ciascuno aveva le sue e faceva attenzione che nessuno avesse con quelle furtive unioni adulterine. Simili scene, a vederle, avrebbero eccitato il desiderio anche nei vecchi; ed essi, che erano giovani ed esuberanti, già da molto tempo in cerca d’amore, s’accendevano per quel che udivano, si struggevano per quel che vedevano, e cercavano anch’essi qualcosa di più di un bàcio o di un abbraccio, specialmente Dafni. Nei mesi invernali trascorsi in casa e nel riposo s’era maturato, e ora anelava ai bàci di Cloe, ne desiderava gli abbracci, e in ogni faccenda d’amore si era fatto più curioso e intraprendente. Chiedeva a Cloe di compiacerlo in tutto quel che volesse, e di distendersi nuda accanto a lui nudo più a lungo di quanto fossero soliti prima: questo infatti mancava, secondo gli insegnamenti di Fileta, per procurarsi il solo rimedio in grado di far cessare il mal d’amore. E poiché lei gli chiedeva che cosa vi fosse di più dei bàci, degli abbracci e dello stesso giacere insieme, e che cosa intendesse fare sdraiandosi nudo accanto a lei nuda, «quello che fanno» rispose «i montoni con le pecore e i caproni con le capre. Lo vedi che dopo quella cosa le femmine non fuggono più i maschi né essi s’affaticano a inseguirle, ma da quel momento in poi, quasi avessero gustato un comune piacere, se ne vanno pascolando insieme? A quanto pare, la cosa è dolce, e vince l’amarezza d’amore». «Ma non vedi, o Dafni, che tra capre e caproni, e tra montoni e pecore, gli uni lo fanno stando ritti e le altre subiscono in piedi, e che i maschi montano addosso alle femmine e queste li ricevono sul dorso? E tu vuoi che io giaccia insieme a te, e per di più nuda? Eppure, capre e pecore quanto sono più coperte col loro vello in confronto a me, anche se tenessi indosso la mia veste». Dafni si lasciò convincere e distesosi accanto a lei restò così a giacere per lungo tempo, e non sapendo mettere in opera niente di quel che istintivamente desiderava, la fece alzare e l’abbracciò da dietro imitando i caproni. Ma trovandosi ancor più in difficoltà, si sedette e prese a piangere, poiché si vedeva, nelle opere d’amore, più inetto di un capro...”
Di Longo, nato forse sull’isola di Lesbo, o lì vissuto a lungo, probabilmente tra la fine del II secolo dopo Cristo e l’inizio del III, non si sa niente. Ma la sua splendida opera gli sopravvisse, a scorno di ogni sforzo del cristianesimo per castrare l’Umanità.
142. Lovecraft, Howard Phillips: “Opere complete”
Molti considerano Howard Phillips Lovecraft (1890-1937) uno dei più grandi scrittori horror dai tempi di Edgar Allan Poe. Non pochi dei suoi racconti, in effetti, sono così spaventosi che ne sconsiglierei la lettura a chi è impressionabile. Ma che cosa li rende terrificanti? A ben guardare, soltanto l’aspetto fisico dei suoi mostri; e nel modo in cui esso viene descritto è difficile negare la presenza di una forte componente razzista che fa apparire l’autore ancora più inquietante dei mostri stessi...
“Il Richiamo di Cthulhu” (1926) e “La Maschera di Innsmouth” (1931), per esempio, che da ragazzo mi parvero agghiaccianti, sono pieni di brani come questi:
“Interrogati alla sede centrale dopo un viaggio di intenso nervosismo e stanchezza, tutti i prigionieri si rivelarono uomini di bassissimo livello, di sangue misto e mentalmente traviati. Per la maggior parte erano marinai; e un pizzico di negri e mulatti, per lo più delle Indie Occidentali o portoghesi di Brava nelle Isole del Capo Verde, davano un’apparenza di credenze «voodoo» a quel culto eterogeneo. Ma prima di porre molte domande, fu evidente che la faccenda comportava qualcosa di più profondo e antico del feticismo negro. Quelle creature, degenerate e ignoranti com’erano, si attaccavano con sorprendente risolutezza all’idea centrale della loro detestabile fede”.
“«Avrete sentito parlare anche voi di quel tipo a Salem che è tornato a casa con una cinese, e forse saprete che esiste ancora una colonia di indigeni delle Isole Figi nelle vicinanze di Cape Cod. Be’, dev’esserci una storia di questo genere che spiega l’aspetto degli abitanti di Innsmouth»”.
“Doveva avere non più di trentacinque anni, ma le rughe che gli scendevano sul collo, dietro le orecchie, lo facevano sembrare più vecchio, quando non si guardava il suo viso inespressivo. Aveva la testa stretta, occhi azzurri, sporgenti, che sembravano non chiudersi mai, il naso piatto, la fronte e il mento sfuggenti, orecchie curiosamente atrofizzate. [...] Le sue grandi mani, dove si distingueva assai bene il rilievo delle vene, erano di un colore grigio azzurro molto singolare; le dita, cortissime, sembravano tendere a ripiegarsi nel palmo enorme. Notai che camminava con passo strascicato, e che i suoi piedi erano di una grandezza mai vista [...]. Quell’uomo dava un’impressione di sporcizia untuosa. Forse lavorava nelle peschiere, perché puzzava di pesce. Non riuscii a capire che sangue scorresse nelle sue vene. Le sue varie caratteristiche non sembravano né asiatiche, né polinesiane, né negroidi, ma capivo benissimo perché la gente lo trovasse strano. Personalmente, avrei piuttosto pensato a una degenerazione biologica”.
I protagonisti di Lovecraft, che spesso hanno occhi “sporgenti”, iniziano guardandosi allo specchio a sospettare di essere affetti da un morbo che col tempo farà riemergere tutte le altre caratteristiche ereditate dai loro avi che ― di solito nei “mari del Sud” ― ebbero rapporti sessuali e figli con orrendi mostri simili a incroci fra rane e pesci; e guardando le foto di Lovecraft, e in particolare i suoi occhi, viene spontaneo chiedersi quanta della paura che tentava di suscitare nei lettori fosse... autobiografica.
143. Lowry, Malcolm: “Sotto il Vulcano”
“Sotto il Vulcano” (1947), di Malcolm Lowry (1909-1957), nonostante la disperazione che lo pervade è un romanzo al quale sono molto legato fin da ragazzo. Non solo per l’altissimo livello formale ― che in ogni caso non sarei capace di apprezzare prescindendo dal contenuto ― ma proprio per la storia che racconta. Tanto che più di una volta l’ho riletto (e ho rivisto lo struggente film di John Huston del 1984, con la splendida Jacqueline Bisset nella parte di Yvonne e Albert Finney in quella del console Geoffrey Firmin) proprio per comprendere perché lo amo tanto benché finisca così: “Qualcuno gli scagliò dietro un cane morto, nel burrone”.
Leggiamo (benché non sia il brano più adatto a farci apprezzare l’affascinante linguaggio di Lowry) qualche riga della disperata lettera di Geoffrey a Yvonne (nell’insostituibile traduzione di Giorgio Monicelli) e poi ne riparliamo.
Siamo in Messico, alla vigilia della Seconda guerra mondiale: il conflitto è prossimo, nazismo e fascismo attraggono anche qui il sottoproletariato più religioso, ignorante e violento, e il Regno Unito ha invitato i consoli inglesi a rientrare in patria. Ma Geoffrey Firmin rimane, perché spera che la moglie torni da lui...
“Così che quando te ne andasti, Yvonne, io mi recai a Oaxaca. Non c’è parola più triste. Ti racconterò, Yvonne, del terribile viaggio per Oaxaca [...], e di quando salii nella mia camera nell’albergo dove una volta fummo tanto felici. [...] È così che talvolta penso a me stesso, come a un grande esploratore che abbia scoperto una terra straordinaria da cui non possa mai ritornare per darne contezza al mondo: ma il nome di questa terra è inferno. Non è al Messico, naturalmente, l’inferno, ma nel cuore. E oggi ero a Quauhnahuac, come sempre, quando ho ricevuto dal mio avvocato notizie del nostro divorzio. [...] Credo di saperla lunga in fatto di sofferenze fisiche. Ma questo è peggio di tutto, sentir l’anima morire. Mi domando se sia perché questa notte la mia anima è realmente morta che sento per il momento qualcosa di simile alla pace. O è forse perché proprio attraverso l’inferno c’è un viottolo, e Blake lo sapeva bene, e per quanto io non possa imboccarlo, talvolta in sogno recentemente m’è riuscito di vederlo? [...] (Parecchi mescal più tardi). Sin dal dicembre 1937 e sin da quando te ne andasti, e siamo ora, mi dicono, nella primavera del 1938, ho testardamente lottato contro il mio amore per te. Non osavo soggiacervi. Mi sono aggrappato a ogni radice e ogni ramo che mi aiutassero a varcare da me questo abisso spalancatosi nella mia vita, ma non posso illudermi oltre. Se devo sopravvivere, ho bisogno del tuo aiuto. [...] Nessuna cosa potrà mai sostituire l’unità che noi conoscemmo una volta e che Cristo solo sa che deve esistere ancora in qualche luogo. [...] Tu non puoi conoscere la tristezza della mia vita. Veglia e sonno perennemente ossessionati dal pensiero che anche tu puoi aver bisogno del mio aiuto, che io non posso dare, come io posso aver bisogno del tuo, che tu non puoi dare, vedendoti in fantasie e in ogni ombra: sono stato costretto a scriverti questa lettera, che non spedirò mai, per chiederti che cosa possiamo fare. [...] Torna, oh, ritorna, smetterò di bere, qualunque cosa. Sto morendo senza di te. Per l’amor di Gesù Cristo, Yvonne, ritorna a me, ascoltami, è un grido di pianto, torna a me, Yvonne, non fosse altro che per un giorno solo...”
Dunque il motivo per cui amo “Sotto il Vulcano” nonostante la sua totale disperazione (Yvonne torna, ma Geoffrey Firmin non riesce a non perderla ancora perché non è capace di reggere una donna come lei: regge solo l’alcol che ogni volta, prima di atterrarlo, lo illude per un po’ di esserne capace) è che la catastrofe del protagonista è determinata appunto dall’aver incontrato una di quelle donne ― non so se siano rare, o se forse quasi tutte le donne siano così ― di cui ci si può innamorare o non, ma se ci s’innamora non si può perderle senza rovinarsi, distruggersi, morire. Talvolta non sùbito, ma immancabilmente, senza una donna come Yvonne non si può più vivere, se si è innamorati di lei. E Geoffrey, Yvonne, non è capace di non perderla e nemmeno di non amarla (è capace solo di non poter neanche immaginare di nuocerle fisicamente). Ripeto: forse con quasi tutte le donne è così, o forse con pochissime, non lo so, ma non ho il minimo dubbio che esse esistano, e che sopravvivere alla loro perdita ― per certi uomini, forse non numerosi ― sia impossibile. Anche se talora (e non sono i casi più felici) la fine che ne consegue può essere così lenta da indurre a voler avere il coraggio di affrettarla. Il che, però, non è meno impossibile, perché fino all’ultimo non si può smettere di sperare che tornino.
E non è che non esser capace di non perdere Yvonne significhi “solo” la fine di Geoffrey. No. È la fine del Messico, del Mondo, dell’Universo, di tutto ciò che esiste e perfino di quel che non esiste ma potrebbe: la guerra è vicina, nazismo e fascismo dilagano, l’odio trionfa, superstizione e ignoranza sono sempre più violente, e alla fine anche quel vecchio cane, che da un pezzo lo seguiva, “qualcuno glielo scaglia dietro, nel burrone”.
144. Lucrezio, Tito Caro: “La Natura delle Cose”
1. Liberazione degli esseri umani dall’oppressione religiosa:
“Mentre la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione, che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile aspetto incombendo dall’alto sugli uomini, per primo un uomo di Grecia [Epicuro] ardì sollevare gli occhi mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro; non lo domarono le leggende degli dei, né i fulmini, né il minaccioso brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono il fiero valore dell’animo, così che volle infrangere per primo le porte sbarrate dell’universo. E dunque trionfò la vivida forza del suo animo e si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo, e percorse con il cuore e la mente l’immenso universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo” (1, 62-79).
2. Crimini religiosi:
“...spesso, / fu proprio la religione a produrre scellerati delitti” scrive Lucrezio di Ifigenia, che “[...] sorretta dalle mani dei guerrieri, è condotta tremante / all’altare, non perché dopo il rito solenne / possa andare fra i cori dello splendente Imeneo, / ma empiamente casta, proprio nell’età delle nozze / perché cada, mesta vittima immolata dal padre, / affinché una fausta e felice partenza sia data alla flotta” (1, 82-100): la religione preferisce la guerra e la morte, e per secondarle costringe empiamente gli esseri umani alla castità.
3. Nulla nasce dal nulla:
“Mai nulla nasce dal nulla per cenno divino [...] E [...] quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla, / allora già più agevolmente di qui noi potremo scoprire / l’oggetto delle nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza, / e in qual modo ciascuna si compia senza opera alcuna di dei” (1, 150-158).
4. L’Universo è infinito:
“Tutto ciò che esiste è dunque illimitato in ogni senso; infatti diversamente dovrebbe avere un estremo. Ma appare evidente che nessuna entità può avere un estremo, se al di là di essa non vi sia qualcosa che la limiti, così che appaia un punto che la facoltà dei sensi non riesce a seguire né a superare. Ora poichè si deve riconoscere che fuori del tutto non può esistere nulla, l’universo non ha estremo, né confine, né misura” (1, 958-964).
5. I difetti dell’Universo mostrano che gli dèi non esistono:
“Ma contro questi concetti, alcuni, ignari della materia, pensano che senza la volontà degli dèi la natura non possa, accordandosi così bene con le umane esigenze, avvicendare le stagioni dell’anno, produrre le messi, e tutte le altre cose alle quali il divino piacere invita gli uomini conducendoli esso stesso, guida della vita, e blandendoli con le arti di Venere a rinnovare le stirpi affinché il genere umano non si estingua. Ma quando immaginano che gli dèi abbiano ordinato l’universo a favore degli uomini, in tutto ciò sembrano aberrare grandemente da un ragionamento corretto. Infatti, anche se ignorassi gli elementi basilari delle cose, tuttavia dalle stesse vicende del cielo ardirei affermare e dagli altri fenomeni esprimere questo: che non per volere divino è stata per noi generata la natura del mondo, segnata da pecche sì gravi”. (2, 167-181).
6. Come non esistono gli dèi, così non esiste il destino:
Ma gli atomi ― spiega Lucrezio, seguendo Epicuro nel distinguersi dal predecessore Democrito ― nel vuoto non sempre “cadono verticalmente [...] trascinati dal loro peso” poiché, se così facessero, “mai si sarebbero prodotti scontri, non vi sarebbero urti fra i corpuscoli primordiali” e “la natura non avrebbe generato mai nulla” (2, 216-220). È la rivoluzionaria teoria del “clinamen” (termine, coniato da Lucrezio, che traduce la παρέγκλισις di Epicuro), che affranca gli esseri umani non “solo” dalla religione, ma anche e soprattutto dal fato, dal destino. “Garantendo” nota Ivano Dionigi nel commento al testo “la spontaneità e l’indeterminazione, e quindi l’autonomia e la libera volontà dei viventi sulla terra” [...] com’era desiderio del “maestro del Giardino [Epicuro], il quale proclamava che «è meglio credere ai miti sugli dèi piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici [cioè, come diremmo oggi, dei materialisti volgari]: quelli infatti suggerivano la speranza di placare gli dei per mezzo degli onori, questo invece ha implacabile necessità»”: “[...] Che la mente stessa in ogni sua iniziativa non segua una necessità insita in lei, né come domata sia costretta a sopportare e a patire, deriva da quella esigua inclinazione dei corpi primordiali che si produce in un punto dello spazio e in un momento indeterminati” [“nec regione loci certa nec tempore certo”] (2, 289-293). (Che è il motivo per cui il giovanissimo Marx era epicureo e si laureò su Epicuro, come racconta ― permettetemi di ricordarvelo ― il mio libro “Karl, Jenny, Heinrich e la pura perla”).
7. Infinità (“numero innumero”) dei mondi, dei viventi e degli esseri umani:
“Né può in nessun modo apparire verosimile, laddove lo spazio si apre dovunque infinito e i germi [gli atomi] di numero innumero e di somma abissale volteggiano in mille maniere sospinti da un moto perpetuo, che solo questa terra e questo cielo siano stati creati, [...]. Perciò è sempre più necessario che tu riconosca che esistono altrove nell’universo altre unioni di corpi materiali, come è questa che l’etere cinge di un avido amplesso. [...]. E ora se il numero degli atomi è così illimitato che un’intera età dei viventi non basterebbe a contarli, e persiste la medesima forza e natura che possa congiungere gli atomi dovunque nella stessa maniera in cui si congiunsero qui, è necessario per te riconoscere che esistono altrove nel vuoto altri globi terrestri altrove nel vuoto altri globi terrestri e diverse razze di uomini e specie di fiere. [...] Se terrai questi concetti bene impressi nella mente, la natura ti apparirà subito, libera e priva di superbi padroni, operare ogni cosa per sua forza spontanea, senza gli dèi” (2, 1051-1056, 1064-1066, 1070-1076, 1090-1092).
8. La psiche (“ψυχή”) è corporea e quindi mortale [secondo “la dottrina di Epicuro, il quale teorizzava un’unica entità (ψυχή) distinta in una parte razionale e in una irrazionale” (Ivano Dionigi)]:
“Anzitutto dico che l’animo, che spesso denominiamo la mente, ove ha sede il criterio intellettuale e il governo della vita, è una parte dell’uomo così come una mano e un piede e gli occhi sono parti di un intero essere animato. [...] Ora affermo che l’animo e l’anima sono tenuti avvinti fra loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il capo, per così dire, è il pensiero a dominare su tutto il corpo: quello che noi denominiamo animo e mente, e che ha stabile sede nella zona centrale del petto. Qui palpitano infatti l’angoscia e il timore, qui intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque la mente, l’animo. La restante parte dell’anima, diffusa per tutto il corpo, obbedisce e si muove al volere e all’impulso della mente [...], così che è facile a chiunque arguirne che l’anima è congiunta con l’animo e, percossa da una violenta emozione dell’animo, a sua volta scuote e turba il corpo. Questo medesimo ragionamento dimostra che la natura dell’animo e dell’anima è corporea. [...] Tu fa’ di riunire sotto un unico nome l’uno e l’altra, e quando, per esemplificare, prendo a parlare dell’anima, spiegando che essa è mortale, pensa che intendo anche l’animo, poiché sono congiunti fra loro e anzi un’unica essenza. (3, 94-97, 136-144, 158-162, 421-424).
9. I mondi si formano per caso:
“Ma ora spiegherò con ordine come il caotico ammasso di materia abbia stabilmente formato la terra, il cielo, le profondità marine, il corso del sole e della luna. Infatti di certo gli elementi germinali [gli atomi] delle cose non si disposero ognuno al suo posto per il criterio di una mente sagace, né pattuirono i moti che ognuno avrebbe dovuto imprimere, ma poiché i numerosi germi della natura in molteplici modi ormai da tempo infinito sospinti dagli urti e dal loro stesso peso sogliono spostarsi velocemente, aggregarsi in ogni guisa e produrre tutte le combinazioni cui possono dar luogo con la loro reciproca coesione, da ciò deriva il fatto che disseminati per interminabili ere, sperimentando ogni genere di unione e di moti, infine finiscono per addensarsi quelli che, collegati di colpo, divengono spesso i princìpi delle immense sostanze, la terra, il mare, il cielo e le creature viventi (5, 416-431).
10. Spiace, tuttavia, che le idee di Lucrezio (e di Epicuro) sull’amore non siano diverse da quelle che prima e dopo di loro furono, sono e continuano a essere ripetute da molti in modo del tutto insensato: “Il sesso è [per Lucrezio] di segno positivo” spiega Ivano Dionigi nel commento al Libro Quarto “perché al pari della fame e della sete è necessità fisica, impulso naturale e fonte di piacere; di segno negativo è al contrario l’amore, perché fattore passionale, perturbatore e, a differenza della fame e della sete, insaziabile, data la sua natura di «fantasma»”. Anche se forse non è poco aver intuìto che l’amore non è un bisogno come fame e sete...
Tito Lucrezio Caro (98-55 prima dell’Era comune), “La Natura delle Cose”.
145. Malaparte, Curzio: “La Pelle”
Quand’ero poco più che un bambino udii una volta mia madre dire a mio padre che a Curzio Malaparte (Curt Erich Suckert, 1898-1957), che aveva visto in casa di amici dei suoi genitori dopo la guerra ― cioè quando lei era sui ventotto anni e lui sui cinquanta ― “tutte le donne cadevano ai piedi”. Mi colpì, forse perché intuivo che quando sarei stato più grande mi sarebbe piaciuto conoscere il suo segreto... Ma egli, in realtà, fu un uomo molto confuso: coi fascisti “fin dalla prima ora”, si rese poi così sospetto che lo mandarono al confino; liberato e riabilitato per intercessione di Ciano, divenne antifascista e soprattutto antinazista mentre era in Russia come corrispondente di guerra; dopo lo sbarco in Sicilia amò e al contempo odiò gli “invasori” americani; dopo la Liberazione fu attratto dai comunisti, ma si fece odiare anche da loro tranne che da Togliatti; infine, sul letto di morte (nel 1915 si era arruolato non ancora diciottenne, i suoi polmoni erano stati danneggiati dai gas, aveva sempre fumato come un turco e morì di cancro ai polmoni) fu circondato da nugoli di preti che poi si vantarono di aver ottenuto da lui, ateo da tutta la vita, una conversione in extremis. Ma fu anche un acerrimo nemico di ogni falsità e ipocrisia, di chi si genuflette davanti ai capi e dei capi che si circondano di leccapiedi: un uomo, insomma, così irrazionale ― per questo, probabilmente, piaceva tanto alle donne ― che anche come scrittore volle esser tutto e il suo contrario, narrare, nelle medesime opere, fatti davvero accaduti e fatti inventati. “La Pelle”, che scrisse tra il 1944 e il 1945 e pubblicò nel 1949 ― il titolo, in origine, era “La Peste”, ma lo cambiò quando nel 1947 uscì il romanzo omonimo di Albert Camus ― nel 1950 venne messo all’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa per il durissimo atto d’accusa contro il cristianesimo che qui vi trascrivo: un brano del capitolo VI, “Il vento nero”, che inizia con l’impressionante descrizione di questo fenomeno naturale e allo stesso tempo soprannaturale...
“Il vento nero cominciò a soffiare verso l’alba, e io mi destai, madido di sudore. Avevo riconosciuto nel sonno la sua voce triste, la sua voce nera. M’affacciai alla finestra, cercai sui muri, sui tetti, sul lastrico della strada, nelle foglie degli alberi, nel cielo su Posillipo, i segni della sua presenza. Come uomo cieco, che cammina a tentoni, accarezzando l’aria e sfiorando gli oggetti con le mani protese, così fa il vento nero: che è cieco, e non vede dove va, e ora tocca quel muro, ora quel ramo, ora quel viso umano, e ora la riva ora il monte, lasciando nell’aria e sulle cose l’impronta della sua lieve carezza.
[...] La prima volta che udii la sua voce ero in Ucraina, nell’estate del 1941. Mi trovavo nelle terre cosacche del Dnieper, e una sera i vecchi cosacchi del villaggio di Costantinowka, seduti a fumar la pipa sulla soglia delle case, mi dissero: «Guarda il vento nero, laggiù». Il giorno moriva, il sole affondava nella terra, là, in fondo all’orizzonte. L’ultimo bagliore del sole toccava, roseo e trasparente, i più alti rami delle bianche betulle, e fu in quell’ora triste, in cui il giorno muore, che io vidi per la prima volta il vento nero.
Era come un’ombra nera, come l’ombra di un cavallo nero, che errava incerta qua e là per la steppa, e ora si avvicinava cauta al villaggio, ora si allontanava spaurita. Qualcosa come l’ala di un uccello notturno sfiorava gli alberi, i cavalli, i cani, sparsi intorno al villaggio, che subito prendevano un colore oscuro, si tingevano di notte. Le voci degli uomini e degli animali parevano pezzi di carta nera, che volavano nell’aria rosea del tramonto.
[...] Il giorno dopo, andavo a Dorogò, a tre ore da Costantinowka. [...] Era già quasi notte quando scorsi lontano, davanti a me, un bagliore di fuochi. Era certo il villaggio di Dorogò. A un tratto riconobbi l’odore del vento, e il cuore mi gelò. Mi guardai le mani: erano nere, secche, quasi carbonizzate. E neri erano gli alberi radi, sparsi qua e là per la steppa, nere le pietre, nera la terra: ma l’aria era ancora chiara, e pareva d’argento. L’ultimo fuoco del giorno moriva nel cielo dietro di me, e i selvaggi cavalli della notte mi correvano incontro di galoppo dall’estremo orizzonte d’oriente, sollevando nere nubi di polvere. [...] All’improvviso, udii voci umane passare alte sul mio capo.
Alzai gli occhi: e mi parve che una doppia fila di alberi fiancheggiassero in quel punto la strada, curvando i rami sulla mia testa. Ma non vedevo i tronchi, né i rami, né le foglie, avvertivo soltanto la presenza di alberi intorno a me, una presenza strana, qualcosa di vivo murato nel nero muro della notte. Trattenni il cavallo, tesi l’orecchio. Udii veramente parlare sul mio capo, voci umane passar nell’aria nera, alte sulla mia testa. «Wer da?» gridai «chi va là?» [...] «Chi sei? che vuoi? chi è? chi è?» risposero alcune voci, correndo alte sulla mia testa. Il labbro dell’orizzonte era roseo e trasparente come il guscio di un uovo, pareva proprio che un uovo, là in fondo all’orizzonte, uscisse lentamente fuor del grembo della terra. «Sono un uomo, un cristiano» dissi. Un riso stridulo corse nel cielo nero, si perdé lontano nella notte. E una voce, più delle altre forte, gridò: «Ah, sei un cristiano, tu?» Io risposi: «Sì, sono un cristiano». Una risata di scherno accolse le mie parole, e alta correndo sulla mia testa si allontanò, andò a spegnersi a poco a poco laggiù nella notte. «E non ti vergogni d’esser cristiano?» gridò la voce.
[...] Sentii alto sulla mia testa un fruscio, come di rami agitati dal vento, un mormorio, come di foglie nel vento, e un riso rabbioso, e parole dure, correr nel cielo nero, qualcosa, come un’ala, sfiorarmi il viso. Erano certo uccelli, erano grandi uccelli neri, forse eran corvi, che destati dal sonno spiccavano il volo, fuggivano remigando con le grasse ali nere. «Chi siete?» gridai «per l’amor di Dio, rispondetemi!» Il chiaror della luna si diffondeva nel cielo. Era proprio un uovo che nasceva laggiù dal grembo della notte, era proprio un uovo che nasceva dal grembo della terra, che si levava lentamente all’orizzonte. A poco a poco vidi gli alberi che fiancheggiavano la strada uscir dalla notte, stagliarsi contro il cielo dorato, e nere ombre muoversi là in alto, fra i rami. Un grido di orrore mi si ruppe nella gola. Erano uomini crocifissi. Erano uomini inchiodati ai tronchi degli alberi, le braccia aperte in croce, i piedi congiunti, fissati al tronco da lunghi chiodi, o da fili di ferro attorti intorno alle caviglie. Alcuni avevano la testa abbandonata sulla spalla, altri sul petto, altri alzavano il viso a mirar la luna nascente. Molti eran vestiti del nero kaftano ebraico, molti erano nudi, e la loro carne splendeva castamente nel tepore freddo della luna.
[...] Mi sollevai sulle staffe, tesi le mani verso uno di loro, tentai con le unghie di strappare i chiodi che gli trafiggevano i piedi. Ma voci di sdegno si levarono intorno, e l’uomo crocifisso urlò: «Non mi toccare, maledetto!» «Non voglio farvi del male» gridai «per l’amor di Dio, lasciate che vi venga in aiuto!» [...] «Venirci in aiuto?» gridò la voce dall’alto «e perché? forse perché hai pietà di noi? perché sei un cristiano? Su, rispondi: perché sei un cristiano?» Io tacevo, e la voce riprese più forte: «Coloro che ci hanno messi in croce, non sono forse cristiani come te? Son forse cani, cavalli, o topi, coloro che ci hanno inchiodati a questi alberi? Ah! ah! ah! un cristiano!» Io curvavo la testa sul collo del cavallo, e tacevo. «Su, rispondi! Con che diritto pretendi di venirci in aiuto? Con che diritto pretendi di aver pietà di noi?» «Non sono stato io» gridai «non sono stato io a inchiodarvi agli alberi! Non sono stato io!» «Lo so» disse la voce, con un inesprimibile accento di dolcezza e di odio «lo so, sono stati gli altri, sono stati tutti gli altri come te».
[...] Cominciai a gridare, «non voglio più essere un cristiano» gridavo, «ho schifo d’essere un cristiano, un maledetto cristiano!»”.
146. Malot, Hector: “Senza Famiglia”
“Era l’ora del rientro di tutti gli allievi di Garofoli; dopo il bambino col pezzo di legno ne arrivò un altro, e, dopo quello, altri dieci. Ognuno entrava e andava ad appendere il proprio strumento a un chiodo sul letto, chi un violino, chi un’arpa, un altro un flauto, o una piva; quelli che non erano musicisti, ma soltanto presentatori di animali, mettevano in gabbia le marmotte o i porcellini d’India. Poi si udì per le scale un passo più pesante, e il cuore mi disse che era Garofoli; e vidi entrare un ometto dall’espressione febbrile, dal passo esitante; non vestiva all’italiana, ma portava un mantello grigio. La sua prima occhiata fu per me, un’occhiata che mi gelò. «Chi è questo ragazzo?» disse. Mattia gli rispose subito ed educatamente, dandogli i chiarimenti fornitigli da Vitalis. «Ah! Vitalis è a Parigi? Che cosa vuole da me?» «Non so» rispose Mattia. «Non sto parlando con te, ma a questo ragazzo». «Il padrone sta per arrivare» dissi, senza osare di rispondere francamente «vi spiegherà lui stesso quello che desidera». «Ecco un ragazzo che conosce il valore delle parole; sei italiano?» «No, signore, sono francese». Due bambini, appena entrato Garofoli, gli erano andati incontro, e tutt’e due restarono vicino a lui in attesa che finisse di parlare. Che cosa volevano dirgli? Ben presto ebbi la risposta. Uno gli prese il cappello e andò a posarlo delicatamente su un letto, l’altro gli portò subito una seggiola; per la gravità, per il rispetto con cui compivano quei semplicissimi atti, si sarebbero detti due chierichetti devotamente intenti al servizio dell’officiante; da quello capii quanto Garofoli era temuto, perché non era certo l’affetto che li faceva agire e affrettarsi così. Quando Garofoli si fu seduto, un altro bambino gli portò di corsa una pipa piena di tabacco mentre un quarto ragazzo gli avvicinava un fiammifero acceso. «Puzza di zolfo, animale» gridò Garofoli, e lo gettò nel caminetto. Il colpevole s’affrettò a riparare allo sbaglio accendendo un altro fiammifero che lasciò bruciare abbastanza a lungo prima di offrirlo al padrone. Lui, però, non lo prese. «Non da te, imbecille!» disse, respingendolo duramente; poi, volgendosi a un altro bambino, con un sorriso che era certamente un insigne favore: «Riccardo, un fiammifero, tesoro». Il tesoro si affrettò a ubbidire. «E ora» disse Garofoli, quando si fu bene accomodato e la pipa cominciò a tirar bene «ai nostri conti, angioletti miei». Degnarsi di parlare, da parte di Garofoli, doveva essere davvero un grande atto di bontà, perché i suoi allievi spiavano così attentamente i suoi desideri da indovinarli prima che li esprimesse. Non aveva ancora chiesto il libro dei conti, che Mattia gli pose davanti un registro tutto unto. Garofoli fece un cenno e il bambino che gli aveva acceso un fiammifero puzzolente gli si avvicinò. «Mi devi ancora un soldo di ieri, mi hai promesso di darmelo oggi; quanto hai?» Il bambino esitò, prima di rispondere; era rosso fino alla cima dei capelli: «Mi manca un soldo». «Ah! ti manca un soldo, e lo dici così?» «Non è il soldo di ieri, è un soldo di oggi». «Allora sono due soldi? Non ho mai visto una faccia tosta come la tua». «Non è colpa mia». «Sono discorsi inutili, conosci la regola: togliti la giacca, due colpi per ieri, due colpi per oggi; e niente patate per la tua insolenza; Riccardo, prendi la frusta». Riccardo staccò dal muro una frusta dal manico corto che terminava con due strisce di cuoio tutte annodate. Intanto il bambino si era tolta la giacca e s’era lasciata cadere la camicia sui fianchi restando nudo fino alla vita. «Aspetta un po’» disse Garofoli, con un ghigno «forse non sarai il solo, e avere compagnia fa sempre piacere». [...] Se ne trovarono altri quattro che non raggiungevano la cifra stabilita. [...] Riccardo impugnava la frusta, e i cinque condannati erano schierati al suo fianco. «Riccardo, sai che io non guardo perché queste punizioni mi fanno star male, ma sento, e al suono giudicherò esattamente la forza delle frustate; picchia forte, carino, è per il tuo pane che lavori»”.
Hector Malot (1830-1907), ammiratore di Victor Hugo e di Charles Dickens, divenne a propria volta celebre quando nel 1878 scrisse “Senza Famiglia”, che dedicò alla figlia Lucie. Io, da bambino, benché mi fosse stato proposto, non riuscii neppure a iniziarlo, tanto mi spiaceva il suo titolo: l’ho letto da adulto, e quando già era adulta anche mia figlia.
147. Mansfield, Katherine: “Tutti i Racconti”
Katherine Mansfield visse solo trentacinque anni (Wellington, Nuova Zelanda, 1888-Fontainebleau, 1923). Vi trascrivo ― ricordandovi che David Herbert Lawrence pensò soprattutto a lei creando il personaggio di Gudrun di “Donne innamorate” ― la sua tragica biografia:
“Nata in una famiglia benestante di Wellington, pubblicò i primi racconti nel giornale del liceo tra il 1898 e il 1899. Nel 1902, a quattordici anni, si trasferì a Londra, dove frequentò il Queen’s College. Violoncellista di talento, all’inizio non era molto attratta dalla letteratura. Fra i quindici e i diciotto anni viaggiò per l’Europa. Tornò in Nuova Zelanda nel 1906, ma due anni dopo, stanca dello stile di vita provinciale della Nuova Zelanda, ritornò a Londra. È nota soprattutto come autrice di racconti brevi, che iniziò a scrivere fra il 1906 e il 1908. A Londra, in quegli anni, si legò sentimentalmente ad almeno due donne, Maata Mahupuku e Edith Kathleen Bendall. Del 1909 è il suo frettoloso matrimonio, non consumato, con George Bowden, maestro di canto. In seguito a questi fatti, la madre la diseredò. Fu in quel periodo che lesse per la prima volta Anton Čechov, scrittore che ebbe su di lei un impatto significativo. Nel 1911 pubblicò la prima raccolta di racconti, “In a German Pension” (che in seguito definì “immatura”) e conobbe David Herbert Lawrence, Virginia Woolf, lady Ottoline Morrell, mecenate vicina al Bloomsbury Group, e il critico John Middleton Murry, che sposò nel 1918 (anche se dopo la guerra ebbe una relazione con la giornalista Beatrice Hastings). Malata di tubercolosi dal 1917, iniziò a trascorrere gli inverni all’estero, soprattutto in Francia e in Italia, senza trarne particolare giovamento. Due raccolte di racconti, “Bliss” (1920) e “The Garden Party” (1922), la consacrarono una delle voci più originali del Modernismo. Passò gli ultimi anni alla ricerca di una cura, consultando i medici più eterodossi, come Ivan Manoukhin, prima di recarsi, nell’ottobre 1922, all’Istituto “per lo sviluppo armonioso dell’uomo” di Georges Gurdjieff, a Fontainebleau, Francia, dove si sottopose a prove estreme e nel gennaio 1923 morì” (da Wikipedia).
“«Quel che tanto crudelmente ci inceppa è l’insulsissima dottrina secondo la quale l’amore è l’unica cosa importante a questo mondo: dottrina che di generazione in generazione viene piantata e ribadita nel cervello della donna. Dobbiamo sbarazzarci di questa fissazione: e allora verrà la possibilità di vivere libere e felici» scriveva nel diario a vent’anni. Ma poi, con la stessa mano [sto citando dalla prefazione al primo volume di “Tutti i Racconti”], attraverso cinque anni di inginocchiate ripetizioni dedica a John Middleton Murry settecentocinquanta pagine di lettere d’amore SPEDITE”.
Da “Preludio” (e badate che non è a un cane che Linda sta pensando):
“«Nemmeno il mio Terranova» pensò «al quale di giorno sono così affezionata». Gli era davvero affezionata; gli voleva bene e lo ammirava e lo rispettava enormemente. Oh, più di chiunque altro al mondo. Lo conosceva alla perfezione. Era l’immagine stessa dell’onestà e della correttezza, e con tutta l’esperienza che aveva era così semplice, facile da contentare e facile da ferire... Se soltanto non le saltasse addosso in quel modo, e non abbaiasse così forte, e non la guardasse con occhi così ansiosi e innamorati. Era troppo violento per lei, che aveva sempre detestato, fin da piccola, quel che le arrivava addosso all’improvviso. C’erano delle volte in cui la terrorizzava ― sì, la terrorizzava. Per un pelo non si metteva a urlare: «Mi stai ammazzando!» E quelle volte moriva dalla voglia di dirgli le cose più volgari e più cattive... «Lo sai che sono molto delicata. Lo sai meglio di me che ho il cuore debole e il dottore ti ha detto che potrei morire da un momento all’altro. Ho già avuto i tre grossi pesi delle bambine...» Sì, sì, era vero. Linda liberò di scatto la mano dal braccio di sua madre. Nonostante tutto l’affetto e il rispetto e l’ammirazione che aveva per lui, lo odiava. E come era sempre tenero, dopo, com’era sottomesso, pieno di premure. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, non desiderava altro che servirla... Linda sentì sé stessa dire con una voce debole: «Stanley, accenderesti una candela?» E udì la voce gaia di lui che rispondeva: «L’accendo subito, tesoro» e saltava giù dal letto come se avesse l’intenzione di saltare fino alla luna per portargliela. Non le era mai stato così chiaro come in quel momento. C’erano tutti i suoi bei sentimenti per lui, forti e ben definiti, l’uno più autentico dell’altro. E poi c’era quest’altro, l’odio, non meno reale dei primi. Avrebbe potuto chiudere i suoi sentimenti in tanti pacchettini e darli a Stanley. Aveva una gran voglia di dargli anche quell’ultimo, come una sorpresa. Vedeva benissimo gli occhi di Stanley mentro lo apriva...”
Da “Felicità” (quella che la protagonista, Bertha, crede felicità benché sia del tutto vuota):
“E le due donne stettero l’una presso l’altra a guardare l’esile albero in fiore. Quantunque così immoto pareva, come la fiamma di una candela, allungarsi, affilarsi, palpitare nell’aria luminosa, crescere e crescere via via che esse lo fissavano... fin quasi a toccare l’orlo della tonda, argentea luna. Quanto tempo rimasero lì? Per così dire afferrate, tutt’e due, in quel cerchio di luce ultraterrena, comprendendosi perfettamente l’una con l’altra, creature di un altro mondo, attonite di quel che dovessero fare in questo, con tutto il tesoro di felicità che ardeva in loro e grondava, in fiori d’argento, dalle loro mani e dai capelli? Per sempre ― per un attimo? E miss Fulton mormorò: «Sì, proprio QUESTO». O fu Bertha a sognarselo? [...] Per la prima volta in vita sua, Bertha Young desiderò il marito. Oh, l’aveva amato ― era stata innamorata di lui, senza dubbio, in tutti gli altri modi, ma proprio in quello no. E allo stesso modo, s’intende, aveva capito che lui era diverso. Ne avevano discusso così spesso. A tutta prima il constatare di essere tanto fredda l’aveva atrocemente agitata, ma dopo un certo tempo parve che la cosa non avesse importanza. Erano così limpidi l’uno con l’altra ― così buoni amici. Ecco il miglior vantaggio di essere moderni. Ma adesso ― con che ardore, con che ardore! La parola tormentava il suo corpo ardente! Lì aveva voluto condurla quel senso di felicità? Ma allora, allora... [...] Bertha letteralmente si precipitò all’ampia finestra. «Oh, e che cosa succederà adesso?» esclamò. Ma l’albero era stupendo come sempre, e sempre carico di fiori e sempre immoto”.
Da “Marriage à la mode”:
“La squisita freschezza di Isabel! Quando era bambino gli piaceva infinitamente correre in giardino dopo un acquazzone e scrollarsi addosso il cespuglio di rose. Isabel era quel cespuglio di rose, soffice di petali, scintillante e fresco, e lui era ancora quel bambino”.
148. Manzoni, Alessandro: “I Promessi Sposi”
La Rai trasmise per la prima volta “I Promessi Sposi” (diretto da Sandro Bolchi, 1924-2005, e sceneggiato da lui e da Riccardo Bacchelli, 1891-1985) tra il 1° gennaio e il 19 febbraio 1967. Io avevo quindici anni e mezzo, e per il settimo e finalmente ultimo mi avvelenavo il cuore e la mente coi miasmi della “scuola” gesuita di cui altre volte vi ho parlato: ero in quinta ginnasio ― allora il secondo anno del Liceo classico si chiamava così ― e odiavo quel cosiddetto “Istituto” a tal punto che la notte cercavo di rimanere sveglio perché non arrivasse subito il giorno dopo.
Guarda caso, “I Promessi Sposi” si leggevano e studiavano proprio in quinta ginnasio.
Ricordo ― per fortuna non tutti, ma qualcuno sì ― i noiosi esercizi che imponeva il professor Mario Rigorini (che ho immortalato, con quella “scuola”, ne “L’Istituto che quasi Mi uccise”): oltre a “mandare” a memoria parecchi brani (“Quel ramo del Lago di Como” fu il primo), dovemmo dedicare a ogni personaggio, su un apposito quaderno, un certo numero di pagine riassuntive, brani che lo riguardavano, “folgoranti” considerazioni del professore, e “impressioni nostre”. Una fatica insulsa, nella quale le “folgoranti” considerazioni di cui sopra mai riuscivano a suscitare un sia pur minimo interesse. Ma poi, proprio quando le vacanze natalizie volgevano al termine, la Rai trasmise la prima puntata di quella mirabile “riduzione televisiva”, e io conobbi DAVVERO don Abbondio (Tino Carraro), don Rodrigo (Luigi Vannucchi), il conte Zio (Cesare Polacco, al quale volevo bene perché dieci anni prima, quando vivevo felice ignorando l’esistenza dell’Istituto, era stato “l’infallibile ispettore Rock” di “Carosello”, che si scopriva il cranio, lucido come la proverbiale palla da biliardo, e diceva: “Anch’io ho commesso un errore: non ho mai usato la brillantina Linetti!”), la Monaca di Monza (Lea Massari), Renzo (Nino Castelnuovo), e soprattutto ― soprattutto! ― Lucia, che era la splendida Paola Pitagora. Il professor Rigorini tentò di avvelenare quella sorgente di per lui incomprensibile passione letteraria dichiarando obbligatorio abbeverarsene, ma non ci riuscì: Lucia era troppo meravigliosa perché chiunque pensasse ad altro che a lei, quando la vedeva apparire o attendeva che apparisse.
Forse non tutti sapete o ricordate che durante quelle settimane accaddero fatti come la fallimentare offensiva statunitense sul delta del Mekong (8 gennaio), un duro discorso di papa Paolo VI sull’indissolubilità del matrimonio (23 gennaio), l’incendio dell’Apollo 1, in cui morirono gli astronauti Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee, e la morte di Luigi Tenco (27 gennaio). Io, senza Wikipedia, ricorderei solo la morte di Luigi Tenco, che mi addolorò moltissimo. E l’11 febbraio, un sabato, quando conobbi uno dei (due o tre) più grandi amori della mia vita. E Lucia.
Fu merito suo e di tutti coloro che collaborarono a quella memorabile “serie”, come si chiamerebbe oggi, se non riuscii a odiare “I Promessi Sposi” a dispetto di tutti gli sforzi in tal senso del professor Rigorini e della “scuola” gesuita che di lui si serviva per fare strame, in me e nei miei compagni, della poesia, della letteratura, della bellezza e del nostro amore per l’umanità? Certo! Ma il 1966-’67, mio sedicesimo anno, fu TUTTO un anno memorabile: il più importante, il più decisivo della mia adolescenza. E l’opera di Manzoni, come “sceneggiato Rai” e come romanzo, salì a bordo di quell’anno e si salvò, fino a oggi, dall’avversione che altrimenti l’avrebbe travolta.
Vi dico tutto questo per giustificare ― e pregarvi di essere indulgenti ― il mio amore per “I Promessi Sposi” nonostante i suoi orrori: padre Cristoforo (se mi fossi trovato solo con lui e don Rodrigo su un’isola deserta, e quindi fossi stato certo che Lucia era salva, avrei di sicuro parteggiato per il secondo, quando dice a quel santocchio “villano rincivilito!, ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare”), l’untuosissimo Federico Borromeo, e soprattutto l’orripilante conversione dell’Innominato: non, intendiamoci, la sua commozione per Lucia (ero anch’io un senzadio, e non mi ero forse commosso al solo vederla?), ma la sua vile conversione ― che da scrittore, benché nel mio piccolo, considero un madornale errore letterario e un segno più che certo che Manzoni, della vita, non sapeva alcunché, se a cinquant’anni suonati non aveva ancora scoperto come son religiosi i malfattori. Eppure, nonostante quei tre orrori così orrendi da poter dirsi unici nella storia della letteratura italiana, io amo “I Promessi Sposi” a tal punto che ve ne infliggo alcune bellissime righe tratte dal secondo capitolo:
“Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere: e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, che era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio. «Vo un momento, e torno» disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, «cosa c’è?» disse, non senza un presentimento di terrore”.
Alessandro Manzoni (1785-1873) scrisse “I Promessi Sposi” tra il 1821 e il 1827. Ma poi continuò a lavorare sull’opera per più di dieci anni. Dopodiché divenne sempre più religioso e conservatore, e rinunciò a scrivere teorizzando l’imminente, necessaria morte della letteratura e la sua sostituzione con la storia, “intelligenza della realtà”.
149. Márquez, Gabriel Garcìa: “Cent’Anni di Solitudine”
ATTENZIONE: questo scritto cita brani che potrebbero turbare la tua sensibilità.
Leggere “Cent’anni di solitudine” a poco più di vent’anni (1973) e rileggerlo a settanta (2021) non sono state esperienze diverse. Tutt’e due le volte, il sentimento che ha suscitato in me è stato l’orrore (anche se un’orrore ossimoro, annoiato e al contempo affascinato, colmo di disprezzo e insieme d’ammirazione). Solo che a vent’anni non ero paziente, e l’idea di confutare o confortare i coetanei che lo esaltavano non mi sfiorò neppure: lo buttai su uno scaffale e ce lo lasciai per mezzo secolo, senza mai dedicargli un pensiero.
Nel 1967 Gabriel Garcìa Márquez (1927-2014) lo scrisse come avrebbe potuto scriverlo José Arcadio Buendía: con “smisurata immaginazione che andava sempre più lontano dell’ingegno della natura e ancora più in là del miracolo e della magia” (p. 9). Il primo che lo pubblicò fuori dalla Colombia fu ― niente meno che nella primavera del 1968 ― Giangiacomo Feltrinelli, allora quarantaduenne, che poi entrò in clandestinità e il 14 marzo 1972, a Segrate (Milano), fu ucciso da un ordigno esplosivo sotto un traliccio dell’alta tensione: “tradotto nella nostra lingua prima che in ogni altra, con vanto dell’Editore” scrisse nella “nota editoriale” preposta a quella prima edizione.
Ma il nesso tra “Cent’anni di solitudine”, il ’68 e le diverse vicende della generazione sessantottina non è solo cronologico, così come non è estemporaneo quello fra la tragica morte del suo editore italiano nel ’72 e il fatto che nel ’73, quando lo lessi, lo rifiutai.
“Feltrinelli”, per me, fin da quando avevo sedici anni, era solo il nome di una libreria a via del Babuino che non frequentavo per comprare libri ― ce n’erano di fornitissime molto più vicine a casa mia ― ma perché era l’unico negozio di Roma che vendeva le spillette dai motti provocatori che mi piaceva attaccare ai maglioni: “Fate l’amore, non la guerra!”, “Let’s the prostitutes work”, “Dio non esiste”, et similia. Esibirle era molto eccitante: mi costringeva a vincere, in un empito di sfrontatezza, il pudore che si opponeva alla mia voglia di “épater les bourgeois”. E ancora più eccitante fu la voce che si sparse nel ’67 ― ovviamente infondata ― che in quella libreria un minore poteva essere aiutato a rendersi irreperibile dagli antiquati e oppressivi genitori...
Ecco: “Cent’anni di solitudine” ― fors’anche per il suo terrificante titolo, evocatore di abbandoni, di esìli e perfino di prigioni o di manicomi ― dovette collegarsi, nella mia mente, con la paura che inconsciamente sentivo in quegli anni, tra il ’67 e il ’72, tra la morte di Luigi Tenco e quella di Feltrinelli, che la mia adolescenza ribelle mi portasse alla rovina, senza che riuscissi a impedirlo, con la stessa inesorabile violenza della sua valanga di pagine disperate.
Rileggendolo ora, cinquant’anni dopo, ho provato un’impressione diversa e migliore? Il mio giudizio è cambiato? No. Anzi: ho finalmente capito il mio rifiuto di allora.
Non c’è dubbio, infatti, che i Buendía e la città di Macondo, da loro fondata e governata per un secolo ― e dunque anche la Colombia, e l’America meridionale, e la Terra ― siano per Márquez condannati alla rovina, e che con esse, pertanto, siano condannati anche i lettori che con le loro vicende s’identifichino. Non c’è speranza, non c’è salvezza per alcuno, nel destino del cui compiersi questo romanzo è convinto e vuol convincere: il celebre “realismo magico”, di cui Márquez è considerato un fondatore, in “Cent’anni di solitudine” non è altro che stregato pessimismo, la cui sfrenata allegria apparentemente sensuale non riesce a nascondere il sentore di morte che emana da quasi ogni pagina.
Sano e naturale, dunque, il mio (allora inspiegabile) rigetto: nelle disperate vicende dei Buendía e nella prosa torrentizia che le narrava avevo intuìto, senza saperlo, il rischio che l’epoca che incombeva sulla mia adolescenza trascinasse via anche me come i corpi che la sera del 4 novembre 1966, durante il telegiornale, avevo visto trascinati via dall’alluvione.
Non è forse vero che fin dalle prime pagine di “Cent’anni di solitudine” ogni nascita di un Buendía è attesa dai genitori nel terrore che il bambino o la bambina vengano alla luce con qualche “caratteristica animalesca” come, per esempio, una “coda di maiale”? E non è forse vero che tale dubbio mostruoso, benché smentito da cent’anni di nascite perfettamente sane, è fatalmente destinato ad avverarsi alla fine, nell’ultimo dei Buendía, sancendo la loro definitiva rovina? “Attraverso le lacrime, Amaranta Ursula vide che a chetare le sue urla erano i vagiti di un maschio formidabile, un Buendía di quelli grandi, massiccio e caparbio come i José Arcadio, con gli occhi aperti e chiaroveggenti degli Aureliani, e predisposto a ricominciare la stirpe dal principio e a purificarla dai suoi vizi perniciosi. [...] Solo quando lo voltarono bocconi si accorsero, lei e Aureliano, che il neonato aveva qualcosa in più del resto degli uomini, e si chinarono per esaminarlo. Era una coda di maiale” (pp 420-421).
Dopodiché, ovviamente, la madre muore in meno di “ventiquattr’ore di disperazione”, il bambino la segue tramutandosi in “una carcassa gonfia e inaridita, che tutte le formiche del mondo trascinano laboriosamente verso le loro tane lungo il sentiero di pietre del giardino” (p. 424) e... fine, exeunt omnes: “le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non hanno una seconda opportunità sulla terra” (p. 426).
È il destino ineluttabile che il romanzo annuncia fin dal titolo. Ma per ben 426 pagine Márquez, nato nel 1927 ― come i padri e le madri di chi lo lesse e se n’entusiasmò alla fine degli anni ’60 ― lo ammanta dell’allegra, dirompente, simulata vitalità in cui molti lettori precipiteranno anche le loro vite senz’accorgersi di quanto sia funerea.
Poi, va detto, in “Cent’anni di solitudine” non mancano i passaggi folgoranti: l’“enorme galeone spagnolo, circondato da felci e da palme” nel cui interno “non c’è altro che un fitto bosco di fiori” e la cui “struttura sembra occupare un ambito proprio, uno spazio di solitudine e di dimenticanza, vietato ai vizi del tempo e alle abitudini degli uccelli” (p. 20), che forse colpì lo Herzog di “Fitzcarraldo” (1982); “il piccolo Aureliano” che “all’età di tre anni entra in cucina”, “guarda una pentola di brodo bollente collocata sul tavolo”, dice “ora cadrà”, e la pentola “inizia un movimento irrevocabile verso il bordo, come spinta da un dinamismo interiore, e si frantuma per terra” (p. 23), che forse ispirò il Tarkovskij di “Stalker” (1979); “la tribù di Melquíades, cancellata dalla faccia della terra per aver oltrepassato i limiti dello scibile umano” (p. 46); la “peste dell’insonnia”, “temibile non per l’impossibilità di dormire, dato che il corpo non prova alcuna fatica, ma per la sua inesorabile evoluzione verso una manifestazione più critica: la perdita della memoria” (p. 52); il ripudio di José Arcadio Buendía della “persecuzione dell’immagine di Dio, convinto della sua inesistenza” (p. 70); l’Aureliano, uno dei diciassette Aureliani figli naturali del colonnello Aureliano Buendía, che “nasce con gli occhi aperti, guardando la gente col criterio di una persona grande e spaventandola con quel suo modo di fissare senza batter ciglio” (p. 160); “i liberali e i conservatori la cui unica differenza è che i liberali vanno alla messa delle cinque e i conservatori alla messa delle otto” (p. 252); il futuro sedicente seminarista e aspirante papa José Arcadio (uno dei tanti José Arcadio che pullulano da questa vicenda di eterne e rovinose ripetizioni), le cui “notti pavide dell’infanzia” lo riducono “all’angolo dove rimane immobile fino all’ora di coricarsi, sudando di paura su uno sgabello, sotto lo sguardo vigile e glaciale dei santi spioni; tortura inutile, perché ha già paura di tutto quello che lo circonda ed è già pronto a spaventarsi di tutto quello che troverà nella vita: le donne di strada, che guastano il sangue; le donne di casa, che partoriscono figli con coda di maiale; i galli da combattimento, che provocano morte di uomini e rimorsi di coscienza per il resto della vita; le armi da fuoco, che basta toccare perché condannino a vent’anni di guerra; le imprese scombinate, che portano soltanto alla delusione e alla pazzia; e tutto, alla fine, tutto quello che Dio ha creato con la sua infinita bontà e che il diavolo ha pervertito” (p. 379); nonché, specialmente, l’immagine di José Arcadio Buendía che “si consola col sogno delle stanze infinite”, così evocatore della tremenda logica del romanzo e del destino che pretende ineluttabile: il sogno “di alzarsi dal letto, aprire la porta e passare in un’altra stanza uguale, con lo stesso letto dal capezzale di ferro battuto, la stessa poltrona di vimini e lo stesso quadretto della Vergine de los Remedios sulla parete in fondo. E poi di passare da quella stanza in un’altra esattamente uguale, e lì di aprire un’altra porta ed entrare ancora in un’altra stanza esattamente uguale, e così via, fino all’infinito” (pp 149-150)...
Ma tra le perle ― del resto rare, come si vede dalla numerazione delle pagine dei brani che ho citato ― “Cent’anni di solitudine” secerne di continuo soprattutto orrori piccoli e grandi. Fra i quali (premonitore, ai nostri occhi di oggi, di tutto ciò che di mostruoso si è poi verificato) il più insopportabile è quello di Aureliano (uno dei tanti Aureliani che pullulano da questa vicenda di eterne e rovinose ripetizioni, e che soltanto Márquez e qualche fanatico analizzatore della sua opera erano in grado di distinguere l’uno dall’altro) che a un tratto è preso da un’orrenda attrazione per “Remedios, di appena nove anni, una bellissima bambina con pelle di giglio e occhi verdi” (p. 66) “che per l’età potrebbe essere benissimo figlia sua, la cui immagine gli rimane ficcata in qualche parte del corpo a fargli male, una sensazione fisica che quasi gli dà fastidio nel camminare come una pietruzza nella scarpa [e notate la fatua insensatezza della similitudine]” (p. 67): la povera, piccola Remedios, di cui la laida Pilar Ternera dice ad Aureliano “le parlerò, e vedrai che te la servo su un vassoio” (p. 77), e che Aureliano si appresta a sposare, e che “una settimana prima delle nozze si sveglia nel mezzo della notte inzuppata di un brodo caldo sgorgato dalle sue viscere con una specie di eruzione lacerante, e dopo tre giorni muore avvelenata dal suo stesso sangue con un paio di gemelli incrociati nel ventre” (p. 96): trenta pagine, il 7% del romanzo, della medesima totale disumanità che negli anni successivi avrebbe portato “fior” di “intellettuali” di “sinistra”, in ogni parte del mondo, a “teorizzare” il “diritto” alla pedofilia.
Tutto scorre in un mostruoso divenire eracliteo, in “Cent’anni di solitudine”, le perle e gli orrori, le salme e le opere d’arte trascinate via dall’alluvione: e tutto s’ammassa e s’ingorga nella mente dell’infelice lettore fino alla tragica “rivelazione” conclusiva che ogni sua speranza è come “una carcassa gonfia e inaridita di bambino portata via da tutte le formiche del mondo”.
Come non meravigliarmi, al pensiero che a vent’anni fui tra i pochi che ― pur senza capire perché, e sebbene non avessi ancora nemmeno sentito parlare di “Istinto di morte e conoscenza” ― gettai su uno scaffale “Cent’anni di solitudine”? Come non meravigliarmi, al pensiero che tutto sommato mi difesi così validamente che dopo mezzo secolo il MIO bambino è ancora vivo e sano in me e senza coda di maiale?
Ah, “sinistra” dei deliri, di quanto sudiciume ti sei nutrita, poco o per niente meno fetido di quello di destra, e volevi che anch’io mi cibassi!
150. Martel, Yann: “Vita di Pi”
“Vita di Pi” (“Life of Pi”), di Yann Martel (1963-vivente) ― intendo il romanzo “Vita di Pi”: del film di Ang Lee parleremo dopo ― è LA STORIA DI UNA RICERCA DI DIO:
Nell’introduzione, “il narratore del narratore” scrive: “Fu allora che il vecchio mi disse: «Conosco una storia che le farà credere in Dio». [...] «L’avverto, non è impresa da poco». «Ma neanche impossibile»”. Ascoltando la cassetta ho capito che il vecchio aveva ragione: questa è una storia che vi farà credere in Dio” (pp 10-12).
E Pi? Piscine Molitor Patel, già religiosissimo PRIMA della sua terribile avventura, quando è ancora, appunto, per così dire un “essere umano da piscina”, lo è ancor più dopo che essa lo tramuta in un “essere umano da oceano”:
“La mia dolorosa esperienza mi lasciò triste e depresso. Furono gli studi universitari e le pratiche religiose a riportarmi lentamente alla vita” (p. 15).
“Si sentono in giro tante sciocchezze sugli zoo, almeno quante capita di ascoltarne su Dio e sulla religione” (p. 28). “Alla gente gli zoo non piacciono più, come le religioni, del resto. La persistenza di certe illusioni sulla libertà affligge tutt’e due le cose” (p. 32).
“Mister Kumar fu il primo ateo dichiarato che incontrai. [...] «La religione ci salverà» dissi. La religione era da sempre molto vicina al mio cuore. «La religione?» Mister Kumar sorrise. «Non credo alla religione. La religione è il buio». Il buio? Ero confuso. «La religione è tutto tranne che il buio» pensai. «La religione è la luce». [...] «Non abbiamo elementi che ci autorizzino a spiegare la realtà in base a criteri diversi da quelli scientifici.[...] La religione è solo un mucchio di sciocche superstizioni. Dio non esiste» [disse Mister Kumar]. [...] Grazie a Mister Kumar compresi che gli atei sono fratelli e sorelle di un altro credo, e che ogni loro parola è impregnata di fede. [...] Sono gli agnostici che non sopporto. [...] Scegliere il dubbio come filosofia di vita equivale a eleggere l’immobilità a proprio mezzo di trasporto” (pp 38-42).
Se la scelta fosse davvero soltanto fra il dubbio (agnostico) e la certezza (religiosa o atea), Pi non avrebbe torto a scegliere con determinazione la seconda. Dimentica, però ― o piuttosto lo dimentica il suo onnipotente creatore, Yann Martel ― che riguardo alle divinità, oltre al dubbio e alla certezza, esiste una terza possibile via che NON È UNA SCELTA, ma LA CONDIZIONE NATURALE in cui ogni essere umano viene alla luce: la totale incapacità di interessarsene. Che naturalmente, se non la perdesse, lo farebbe vivere senza divinità per tutta la vita.
Così penso io, Luigi Scialanca. Pi, senza scomporsi, risponderebbe: “Sì, alla nascita siamo tutti come i cattolici: parcheggiati in una specie di limbo, senza religione, fino a quando qualcuno CI PRESENTA Dio. Per tanti, la faccenda si chiude con quel primo incontro. Se poi cambia qualcosa, in genere è per sottrazione, nel senso che molti perdono Dio lungo la strada. Ma per me non è stato così. [...] Il germe dell’esaltazione religiosa, non più grande di un seme di senape, venne gettato nel mio animo e lì restò a germogliare. Da quel giorno non ha mai smesso di crescere” (pp 60-61).
“La casa di Pi è un tempio” scrive “il narratore del narratore”. “All’entrata è appeso un quadretto di Ganesh, la divinità indù con la testa di elefante. [...] Dinanzi al quadretto, sulla parete opposta, c’è una semplice croce di legno. Nel soggiorno, sopra il tavolo accanto al divano, c’è un’immagine della Madonna di Guadalupe [...]. Vicino alla Madonna, una cornice con la foto della Ka’ba, [...], il luogo più sacro dell’Islam. [...] Sul televisore è posata una statua in ottone di Shiva nell’incarnazione di Nataraja. [...] Sul comodino, la Bibbia” (pp 58-60).
“Tutto racchiude in sé una traccia del divino” (p. 62).
“Non riuscivo a togliermi il Figlio dalla testa. A tutt’oggi le cose non sono cambiate. [...] Ringraziai Krishna per aver messo sulla mia strada Gesù di Nazareth, un dio straordinariamente umano. Circa un anno più tardi, fu la volta dell’Islam” (pp 71-72).
“Il vento, o forse un animale, aveva scrollato la neve da un ramo. Fluttuava delicatamente nell’aria e brillava alla luce del sole. Attraverso quella pioggia dorata vidi la Vergine Maria” (p. 77). “La presenza di Dio è la ricompensa più grande” (p. 78).
“«Dio, salvami!»” (p. 153). “«Non morirò. Mi rifiuto. Supererò quest’incubo. Vincerò la sfida, per quanto grande essa sia. Se fino a questo momento sono sopravvissuto per miracolo, adesso trasformerò il miracolo in abitudine. Tutti i giorni si compirà l’incredibile. Lotterò con tutte le mie forze. Sì, finché Dio è con me non morirò. Amen»” (pp 160-161).
“La mia giornata tipo [...]. Dall’alba a metà mattinata: [...] preghiere [...] Da metà mattinata al tardo pomeriggio: preghiere [...]. Dal tardo pomeriggio al crepuscolo: preghiere [...]. Al tramonto: [...] preghiere. Notte: [...] preghiere” (pp 203-204). “Purtroppo non c’erano testi sacri a bordo. [...] La prima volta che, giunto in Canada, m’imbattei in una Bibbia sul comodino di una stanza d’albergo, scoppiai a piangere” (p. 220).
“Ora lascio l’intera faccenda nelle mani di Dio, che è amore, e che amo” (p. 255).
E dopo aver toccato terra in Messico?
“Piangevo perché Richard Parker mi aveva lasciato in modo così brusco. [...] Ero per davvero solo, orfano non soltanto della mia famiglia: adesso anche di Richard Parker; e forse, pensai, di Dio. Ma naturalmente non era così. La spiaggia, soffice, solida e immensa, assomigliava alla guancia di Dio, e da qualche parte due occhi stavano brillando di gioia e una bocca stava sorridendo per la mia presenza” (pp 298-299).
Negli ultimi capitoli, convalescente in ospedale, Pi ha una lunga conversazione coi due funzionari del dipartimento marittimo del ministero dei Trasporti giapponese che dubitando della sua storia insistono perché dica loro “com’è andata veramente”: “«Se ciò che è difficile a credersi vi turba tanto, per cosa vivete? È forse facile credere all’amore?»” obietta Pi, e il lettore è felice. Ma poi soggiunge: “«È difficile anche credere in Dio, chiedetelo a qualsiasi fedele. Dunque che cosa c’è di tanto strano in una storia incredibile?», e il lettore sprofonda di nuovo nello sconforto. “«Cerchiamo solo di essere razionali»” dice uno dei giapponesi. “«Anch’io!»” ribatte Patel. “«La ragione è stata la mia salvezza. È indispensabile quando bisogna procurarsi cibo, acqua, un riparo. La ragione è una preziosa cassetta degli attrezzi. Niente è meglio della ragione per tenere lontane le tigri. Ma se siete troppo razionali, rischiate di buttare via l’universo con l’acqua sporca»”, e il lettore si rattrista anche di più avendo ormai capito che per Pi l’irrazionale non è dell’essere umano, ma è la presenza di Dio nel suo cuore.
Pi, allora, racconta ai due funzionari giapponesi la “vera” storia, rivelando che i cinque sopravvissuti ― l’orango, la iena, la zebra, la tigre e lui ― in realtà erano quattro: sua madre (l’orango), il cuoco francese (la iena), un giovane marinaio (la zebra) e Pi (la tigre). Che diventano uno quando il cuoco, uccisi la donna e il giovane, li divora, e Pi uccide lui e lo divora. “«Iniziò la mia solitudine. Mi rivolsi a Dio. Sopravvissi»” (pp 317-325) dice. E chiede: “«Qual è la storia più bella, quella con gli animali o quella senza?» Okamoto: «È una domanda interessante...» Chiba: «La storia con gli animali». Okamoto: «Sì. La storia con gli animali è indubbiamente la più bella». Pi Patel: «Vi ringrazio. È così anche per Dio»” (p. 331).
CONCLUSIONE. “Vita di Pi” ― il romanzo “Vita di Pi”: del film di Ang Lee parleremo tra poco ― è la storia di una ricerca di Dio. Nella quale trovarlo, vederlo, e vederlo sorridere, è riuscire a inventarla e a raccontarla bella. Tutt’e due, sia Pi sia il suo autore, cercano Dio, e nella storia della “Vita di Pi” (quella bella) tutt’e due lo trovano.
Forse Richard Parker, Pi e Dio s’identificano? Assolutamente no! Essi sono un unico personaggio soltanto nella storia solo razionale (e quindi brutta) narrata ai funzionari giapponesi. Nella storia bella, la tigre salva Pi (“Fu Richard Parker a darmi la volontà di vivere. Impedendomi di pensare continuamente alla mia famiglia e alla mia tragica situazione, mi spingeva ad andare avanti. L’odiavo, per questo, ma allo stesso tempo glien’ero grato e lo sono. È la pura verità: senza Richard Parker non sarei qui a raccontare la mia storia”, pp 177-178), ma Pi, inventandola, trova Dio, e Dio esiste.
Il romanzo non dice altro che questo. E il film?
“Vita di Pi” (2012), il film di Ang Lee (1954-vivente) “basato sul romanzo di Yann Martel”, gli è fedele in quasi tutto: le poche correzioni o omissioni non cambiano il fatto che anche il suo Pi è in cerca di Dio.
La correzione-omissione più sorprendente è che lo scrittore che lo ascolta (quello che prima, dato il contesto letterario, ho chiamato “il narratore del narratore”) NON è in cerca di Dio, ma solo di una bella storia. Come se Ang Lee, il cui unico “interprete” entro il film è appunto lo scrittore, voglia defilarsi dalla ricerca di Pi, se non addirittura nascondere agli spettatori che la condivide. Ma poi, sequenza dopo sequenza, conferma sempre il ruolo di “cercatore di Dio” che il protagonista ha nel romanzo. Addirittura, benché lo scrittore domandi “La sua storia riuscirà a farmi credere in Dio?”, e Pi risponda “Sì, arriveremo a quello”, poi, alla fine, Ang Lee se ne “dimentica”, e se siano “arrivati a quello” lo tiene per sé. Intellettualmente onesto? O non?
Pi, invece, nel film non è meno religioso che nel romanzo. Lo dice più di rado ― ed è ovvio, poiché in un film si parla poco ― ma lo dice e come!
“«Dio, io mi affido a te. Sono il tuo servo. Qualsiasi cosa avverrà, voglio conoscerla: mostramela»” (ed è ovvio: in un film, anziché Colui che narra, Dio è Colui che mostra).
“«Forse Richard Parker non può essere addomesticato, ma con la volontà del Signore può essere ammaestrato!»”
“«Signore! Signore di tutti i mondi!»” invoca, mentre fulmini e lampi squarciano la tempesta. “«Richard Parker, vieni a vedere! È venuto da noi! È un miracolo! Vieni a vedere il Signore, Richard Parker!» E allora la tempesta si placa, e tra le nubi che si allontanano appare l’arcobaleno. “«Dio! Grazie per avermi salvato!”» dice Pi, e arrivano all’isola, ricca di cibo e acqua dolce. Che poi si rivela carnivora (“tutto quello che il giorno ti offre, la notte te lo porta via” dice Pi, come se i sogni siano sempre incubi, e queste parole sono un’aggiunta di Ang Lee al romanzo), ma la sua forma è quella di un immenso corpo maschile sdraiato che respira nel buio (altra aggiunta di Ang Lee) e il fatto che sia carnivora è in realtà provvidenziale: “«Anche quando sembrava che Dio mi avesse abbandonato, stava guardando. Anche quando sembrava indifferente alla mia sofferenza, stava guardando. E quando ormai ero al di là di ogni speranza mi ha dato il riposo, e un segno [il “dente umano che gli ha rivelato che l’isola divorava i suoi “ospiti”] per continuare il mio viaggio»”.
No, nel film di Ang Lee non manca il minimo dettaglio della ricerca di Dio che è il tema fondamentale del romanzo: c’è anche, al momento della salvezza, “la spiaggia soffice, solida e immensa come la guancia di Dio”, e “da qualche parte i due occhi che brillano di gioia e la bocca che sorride per la presenza” di Pi...
Unico miglioramento: una “presenza” femminile (la ragazza “che attraverso la danza esprime l’amore di Dio” ma anche la propria sessualità: “il fiore di loto che si nasconde nella foresta”) che nel romanzo manca del tutto (tranne per l’accenno, alla fine, che in casa di Pi adulto, in Canada, c’è una moglie).
CONCLUSIONE. Il romanzo “Vita di Pi”, di Yann Martel, e il film “Vita di Pi”, di Ang Lee, nonostante l’indubbio fascino narrativo e visivo dell’uno e dell’altro, a contatto di pelle sono ambedue sgradevolmente “missionari”. Si può far finta di non accorgersene, ma è così. Però la fine del film, quando lo scrittore ― dinanzi alla scenetta famigliare che Pi, sua moglie e i suoi bambini gli offrono ― domanda: “Allora la sua storia ha un lieto fine?”, e Pi risponde (un’aggiunta di Ang Lee): “Dipende da lei. È sua, adesso”, ci permette di pensare che qualcun altro ― un genio, per esempio ― possa farne un racconto del tutto diverso, del tutto umano, a cui le divinità non partecipino affatto.
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