ScuolAnticoli

Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

la Biblioteca di ScuolAnticoli

 

sala 9

 

Home     Sala 1     Sala 2     Sala 3     Sala 4     Sala 5     Sala 6     Sala 7     Sala 8    Sala 10     Costituzione

Thomas Williams

 

Illustrazione di Lisa Kopper, tratta dalla copertina dall’edizione inglese del 1978 della Souvenir Press

 

I Bambini di Tsuga

 

Capitolo Settimo

 

Fuoco e Cibo

 

Arn trasse una lunga nota dal fischietto di salice e se lo strofinò addosso per asciugarlo. L’aria si era fatta più fredda, da quando il sole era tornato dietro le montagne, e la saliva tendeva a congelarsi dentro il fischietto riducendone il suono a uno squittio da topolino. Non aveva più trovato né tracce né impronte che potessero essere di Jen o di Oky. Su qualche pozzanghera gelata aveva scorto delle impronte di cervo, delle orme simili a quelle dei cani (che dovevano essere di lupo) e larghe impronte profonde che gli erano sembrate di maiali. Aveva udito il verso di un cinghiale, ma non l’aveva visto. L’idea dei lupi e dei cinghiali lo aveva fatto rabbrividire, rendendolo più prudente. Da quel momento aveva fatto attenzione agli alberi su cui si sarebbe potuto arrampicare in caso di emergenza, e nell’attraversare i boschi era andato da un albero all’altro.

Adesso era sulla riva del torrente e guardava la prateria al di là di esso, provando sollievo nel constatare che era una vera prateria e non un pantano. C’erano alcuni cervi che brucavano, in lontananza, ai piedi di un alto sempreverde. Quando soffiò di nuovo nel fischietto guardarono in alto, immobilizzandosi. Poi, dopo una lunga occhiata, si rimisero a brucare. Arn scrutò con attenzione tutta la prateria, tutto ciò che poteva scorgere di essa, ma non vide alcuna traccia di Jen o di Oky.

Trovare un guado gli richiese un po’ di tempo. Seguendo la corrente, alla fine giunse in un punto dove il torrente si riversava dentro una stretta e profonda fenditura della roccia. La superò con un balzo, facendo attenzione a non scivolare sul ghiaccio che il vapore acqueo aveva formato intorno a essa. Scivolò, quando mise i piedi sulla roccia dall’altra parte, ma fu lesto a buttarsi carponi e riuscì a tenersi.

Presto sarebbe stato buio. Arn fischiò e chiamò ancora Jen mentre si addentrava nella prateria. Se fosse riuscito ad arrivare all’altura ai piedi del grande sempreverde prima che facesse buio, di là avrebbe potuto guardare più lontano; ma era stanco, e indebolito dalla fame, e l’altura sembrava così lontana...

Poi, da est, gli giunse uno strano grido. All’inizio, prima di fermarsi ad ascoltare, Arn lo prese per il debole richiamo di un uccello notturno. Ma il grido si ripeté più di una volta, ed egli si domandò quale uccello potesse far suonare il suo richiamo in un così gelido crepuscolo. Poteva essere un’oca, se tutte le oche non se ne fossero andate al sud già da un pezzo... No, c’era dell’urgenza in quel grido, c’era disperazione... E allora, come se dopo tutto non avesse davvero creduto di riuscire a ritrovare Jen e ora non potesse dunque credere alla strana idea che gli stava venendo, egli si domandò quasi con terrore se quella potesse essere la voce di Jen, e se il grido, quel bizzarro doppio suono, potesse essere la doppia sillaba del nome Oky.

Era cessato, ora, ma prima di muoversi nella direzione da cui era venuto, Arn prese come punto di riferimento un albero che svettava più alto degli altri laggiù a est, fra la prateria e il limitare della foresta. Il grido era sembrato venire proprio di là, e anche se la notte fosse calata prima che egli vi arrivasse, avrebbe sempre potuto scorgere la cima di quell’albero contro lo sfondo più chiaro del cielo.

Quando fu vicino al margine orientale della prateria, la foresta sembrò ergersi su di lui come una nera muraglia. Poco più avanti, per terra, c’era una specie di fagotto grigiastro che poteva essere un animale o una roccia. “Jen?” chiamò, ma la cosa non rispose e non si mosse. Con prudenza le si fece più vicino, poi ancora più vicino, finché non cominciò a distinguerne la figura. Qui un braccio, inargentato di brina, più in là una gamba, uno scarponcino... Era Jen. Arn cadde in ginocchio accanto a lei e tastò la sua faccia, che era fredda come il vetro. Quando la rivoltò fu come rigirare un pezzo di legno, per come era imballata nei suoi abiti congelati. Ma respirava, anche se molto debolmente. Nello stesso momento, egli si rese conto che doveva essere caduta nel torrente e che ben presto sarebbe morta, se lui non fosse riuscito ad accendere un bel fuoco e ad allestire un qualche riparo contro il vento notturno. La bambina era sull’orlo della morte, adesso, così vicina alla morte che egli fu quasi sul punto di invocare l’aiuto del babbo. Voleva chiamarlo. Il babbo avrebbe saputo cosa fare. Papà! Papà!: poteva sentirla formarsi sulle sue labbra, quella parola.

Ma poi si ricordò che non c’era nessun altro, lì, e che da solo doveva tentare di salvare la vita della sorellina. Nessuno poteva aiutarlo o dirgli che cosa fare.

Per prima cosa la prese per le braccia e la trascinò verso il bosco, dove sarebbe stata al riparo dal vento e dal freddo che si stava facendo sempre più intenso a mano a mano che la luce svaniva. Jen era appesantita dal ghiaccio che aveva nei vestiti, ma alla fine riuscì a portarla sotto gli alberi, vicino a un alto pino e a un altro caduto, che insieme fornivano una qualche protezione dal vento. Era ancora più buio, nel bosco, ma cercando a tentoni fra i rami bassi degli alberi ne trovò di secchi e fragili e ne divelse un bel po’, che una bracciata dopo l’altra portò dove la bambina giaceva appoggiata al pino abbattuto dal vento. Sul limitare della prateria raccolse una bracciata di fieno secco. Tastando il terreno davanti a Jen e liberandolo a calci dall’humus e dai ramoscelli marci, fece spazio per il fuoco e vi sbriciolò l’erba secca fino a farne un piccolo cumulo. Prese dallo zaino la pietra focaia e la scatola contenente l’esca: legno tagliato in lamine, fatto seccare con ogni cura e in parte polverizzato, che avrebbe dovuto accendersi alla prima scintilla. Brancolando nel buio, ne sistemò una parte sul fieno meglio che poté, vi tenne sopra la pietra focaia ― un frastagliato pezzo di selce ― e la colpì con forza col dorso della lama del suo coltello. Piccole scintille caddero da ogni parte, tracciarono archi nel buio, crepitarono e si spensero, ma nessuna raggiunse l’esca.

Continuò a tentare. Forse l’aria fredda e la brina avevano bagnato ogni cosa più di quanto pensava. Le sue mani, fuori dai guanti, erano sempre più intorpidite e goffe, ma continuò a colpire la pietra focaia producendo piccole scintille che morivano troppo in fretta. Alla fine, però, dopo cento tentativi, due scintille caddero insieme sull’esca e ne trassero un’esile fiammella, non più spessa d’una capocchia di spillo. Arn trattenne il respiro, sapendo che finché non fosse cresciuta e non avesse preso un po’ di colore, il più lieve colpo di vento avrebbe potuto spegnerla. Ma essa crebbe, dando perfino una debole luce che gli permise di vederci abbastanza per poter offrirle con molta, molta circospezione uno stelo di fieno. Prendilo, per favore, pregò. Accetta questa umile offerta, piccola fiamma, e non ci lasciare. E la fiammella crebbe fino a un altezza di circa tre centimetri, recando sul capino un minuscolo, prillante fil di fumo. Deve crescere. Deve. Con cautela Arn la nutrì con dell’altro fieno ― non troppo per volta, o l’avrebbe soffocata. Doveva alimentarla quanto bastava, non troppo, solo quanto bastava a farle prendere calore e confidenza. Cominciava a sentirne il tepore sulle dita initirizzite, adesso; presto crebbe abbastanza per pensare di porgerle qualche ramoscello, poi dei ramoscelli un po’ più grossi che egli sistemò sopra di essa a mo’ di tepee. E poi dei veri rami, mentre l’allegro e famelico splendore delle fiamme cresceva fino ad accendere un caldo alone di luce, nel bosco, fra gli alti alberi neri e opprimenti.

Ma dovevano essere più alte di così, per scongelare gli abiti di Jen e per asciugarli. Dovevano ruggire e bruciacchiare gli alberi. Dovevano essere così forti da scuotere e far tremare i rami con il calore che da esse si levava.

Raccolse altri rami, spezzando quelli che erano abbastanza secchi ed esili per essere divelti e usando il coltello come un’ascia per squarciare i più grossi fino a poter tagliarli, e finalmente ottenne un fuoco che ruggiva all’altezza della sua testa. Alcuni grossi rami dell’albero caduto si erano staccati, ed egli li trascinò intorno finché le estremità più grosse non andarono a finire tra le fiamme. Poi fece un’alta catasta di tutta la legna che poté trovare, in modo da avere di che alimentare il fuoco durante la notte.

Jen era sdraiata contro il tronco caduto e respirava ancora; i suoi occhi erano chiusi. Lo strato di ghiaccio sul suo giaccone e sui pantaloni si era sciolto, e Arn poté cominciare a muoverle le braccia e le gambe attraverso la stoffa gelata. Le tolse i guanti, poi le briglie che aveva a tracolla, e che scricchiolarono per il ghiaccio che le ricopriva, poi il cappuccio, e finalmente riuscì ad aprirle il giaccone. Era rivolta verso il fuoco e ne riceveva il calore, ed egli si mise a fabbricare un riparo.

Si addentrò nella foresta buia finché non trovò un boschetto di abeti del balsamo, tagliò i rami più bassi di quel legno verde e aromatico e ne riportò una bracciata all’albero caduto. Intrecciandoli con dei rami secchi, appoggiati al pino caduto vicino al quale era sdraiata Jen e a quello ancora in piedi, ottenne un riparo sporgente, chiuso ai lati e dietro e aperto davanti dalla parte del fuoco. Si era riscaldato a meraviglia, facendo tutto quel lavoro, perciò era ora di togliere a Jen i vestiti bagnati e metterle il suo giaccone. Per prima cosa prese dallo zaino i quaranta piedi di spago di canapa e ne tese un tratto fra due alberi a mo’ di stenditoio, dall’altra parte del fuoco, poi tornò da Jen, che adesso aveva cominciato a borbottare fra sé, le tolse i vestiti e l’avvolse con il proprio giaccone. Gli parve così piccola e fragile, quando le sfilò i pantaloni bagnati! Le manine e i piedini erano ancora freddi come il ghiaccio, ma il fuoco glieli avrebbe scaldati. Appese gli abiti allo stenditoio, dove subito li vide cominciare a emettere bianche volute di vapore che s’innalzavano fra gli alberi incombenti.

Quando gli abiti furono asciutti, Arn trovò un masso dalla superficie piatta, lo fece rotolare su un fianco fino al fuoco, tornò al torrente nell’oscurità ― guidato dal suo scroscio, che sovrastò il crepitio del fuoco non appena egli uscì dal suo cerchio di luce ― e riempì d’acqua il pentolino di ferro. Poi tornò al fuoco e mise il pentolino sul masso, a contatto con le fiamme. Dopo di che, tutto ciò che poté fare fu aggiungere dell’altra legna, prendersi cura del fuoco e sperare che il suo calore penetrasse sotto la pelle e nel sangue di Jen e la riportasse in vita. E ogni volta che tornava dalle tenebre con un carico di legna, fermarsi a sentirle le manine e i piedini.

Finché, a un certo punto, tornando con una bracciata di rami secchi di pino per la catasta, egli si accorse che la sorellina si stava svegliando. Quando i suoi occhi azzurri si aprirono, sembrarono ciechi. E il suo viso era sempre pallido, ma risplendeva alla luce delle fiamme come se la luce venisse da dentro di lei, come se a brillare debolmente fosse proprio il suo tondo visetto di bambina. Rotondi erano anche i suoi occhi, del resto, che per un attimo contemplarono il fratello senza riconoscerlo e poi, quando ella capì chi stava guardando, si spalancarono riempiendosi di lacrime luccicanti.

“Arn! Arn!” disse.

Arn si sentì così stanco, a un tratto, che dovette sedersi sui rami di balsamo che aveva sparso sul fondo del riparo. Poi Jen smise di piangere. Cercava di muovere le dita, di stropicciarsi le mani al calore del fuoco.

“Arn, ho così freddo...” disse. “Ma tu mi hai trovato.”

“Ti ho sentito chiamare.”

“Eri dietro di me!”

“Be’, certo,” replicò lui. Prese dallo zaino il pezzo di focaccia rafferma e glielo porse. “Non ti scalderai come si deve, se non mangi qualcosa.”

Lei la prese e ne morse un pezzo. “Ma anche tu sei debole,” disse. “Te lo dico io, Arn. Scommetto che non hai mangiato nulla. Te lo dico io.”

“Dobbiamo trovare alla svelta qualcosa da mangiare,” rispose lui. La osservò mentre divorava la focaccia. Gli venne l’acquolina in bocca e sentì lo stomaco muoversi e restringersi dentro di lui, bramando il cibo così violentemente che sembrava che si stesse lamentando a gran voce. Chiuse gli occhi, allora, per non vedere la sorellina che mangiava, ma proprio in quel momento lei gli premette l’ultimo pezzo di focaccia contro le labbra. La volontà di lui diceva di no, ma la sua bocca non poté fare a meno di aprirsi e di prenderlo. Aveva il sapore stesso della vita, ma era piccolo come quello che Jen aveva mangiato, e non gli servì a granché.

L’acqua nel pentolino stava fumando; Arn ci mise un po’ della polverina contenuta nella scatoletta di corteccia di betulla e poco dopo si bevvero un tè caldo, badando a tenere il pentolino per il manico e a bere dalla parte che non era stata a contatto con la fiamma. Subito si sentirono più svegli, ma se possibile anche più affamati. Arn si rese conto che doveva trovare del cibo. Erano settimane che non mangiavano abbastanza, ed erano entrambi troppo magri. Gli ossicini di Jen, ai polsi, davano l’impressione di poter bucarle la pelle da un momento all’altro. E a lui, quando volse la testa per controllare il fuoco e vedere se gli abiti di Jen erano asciutti, per la debolezza gli vennero le vertigini e dovette appoggiare la testa fra le ginocchia per non svenire.

Si raccontarono a vicenda che cosa era loro capitato dalla notte in cui Jen se n’era andata di casa. “Dovevo trovare Oky, Arn. Dovevo proprio!” disse la bambina, già sul punto di scoppiare in lacrime di nuovo.

“Non ti preoccupare,” le rispose lui. “Ciò che è fatto è fatto.”

“E credo anche di averla vista, subito prima di cadere nel torrente. Era là, da qualche parte, vicino a un grande albero insieme a dei cervi. Sono sicura di aver visto la macchia bianca che ha sul collo.”

“Non hai sentito il mio fischietto?”

“Una volta, penso di sì, ma non ho capito che cos’era.”

“Dobbiamo riuscire a trovare del cibo,” disse lui.

“Per un po’ mi è sembrato che mi stessi abituando ad aver fame,” disse Jen. “Ma ora non più. Mi fanno male i denti, per la fame che ho.”

Teneva il pentolino fra le mani per riscaldarle.

“Stiamo morendo di fame,” disse lui. Malgrado il fuoco, stava addirittura tremando, per il freddo improvviso.

A un tratto udirono un rumore che non veniva dal falò. Era un suono stridulo, come di artigli che graffiano, e proveniva da una giovane betulla gialla raggiunta dal riverbero del fuoco. Lo sguardo di Arn risalì l’alberello, ando sù, lungo la corteccia dorata che brillava alla luce del falò, e arrivò a una tozza forma nera che sembrava una grossa protuberanza del tronco. Lo stridore veniva di là. Era un porcospino, e si stava calando giù dall’albero con la cauta e ponderata lentezza dalla quale i porcospini non si discostano mai, accada quel che accada.

Cibo. Ecco del cibo che veniva donato loro. Secondo le leggende, l’Antica Gente si nutriva di porcospini, quando era affamata e non aveva da mangiare. Chiamavano il porcospino “il cibo degli avi.” Chiunque poteva acchiapparli, perché non avevano altra difesa che i lunghi aculei e non si davano mai la pena di andar troppo di fretta.

Arn si alzò e tirò fuori un bastone dalla catasta. Il porcospino continuava a scendere, graffiando la corteccia con le unghie, avvicinandosi lentamente al suolo. Quando fu sceso fino all’altezza della testa di Arn, si fermò e volse verso di lui il piccolo muso dai neri occhietti consapevoli. Gli aculei si rizzarono lungo la sua schiena come altrettante lance di un nero brillante, con delle bande bianche.

“Scusami, porcospino,” disse Arn. Non aveva mai detto niente del genere, prima di quella volta, e non capiva perché l’avesse detto. E poi andò avanti, udendo le proprie parole ma senza sapere da dove gli venissero: “Ho bisogno del tuo grasso e della tua carne. Niente di te andrà sprecato.”

Colpì il porcospino sulla punta del suo naso nero con tutta la forza che poté, ed esso precipitò a terra con un tonfo, rimbalzò e fu percorso da un tremito. Alcuni degli aculei si conficcarono nel terreno e vi furono trattenuti dalle loro punte uncinate. Giacque supino ― morto, ora ― mostrando la soffice pelliccetta ventrale grigio-scura.

Jen aveva assistito senza emettere un suono. Anche lei aveva udito il porcospino, e anzi era stata la prima a vederlo scendere dall’albero. Aveva percepito la sua silenziosa decisione di lasciare la betulla, della cui grassa corteccia interna si era cibato. Era sazio, e non sapeva che cosa fosse il fuoco; protetto dai suoi aculei, era sceso. Jen l’aveva sentito allarmarsi, alla vista del bambino col bastone, e poi rassegnarsi.

Adesso Arn stava lavorando su di lui con il coltello, tagliandone il ventre morbido a partire dal centro, scuoiandolo in modo che la pelle venisse via rivoltandosi e coprendo gli aculei. Un aculeo gli si conficcò nel polso, ma lui non fece altro che tirarselo fuori dritto dritto, stando ben attento a non spezzarlo. Mise il fegato e il cuore dell’animale sulla pietra piatta vicino al fuoco, separò dalla carne lo strato di grasso giallo e ne mise alcuni pezzi nel pentolino di ferro, poi divise la testa nuda del porcospino dal resto del corpo. Stava producendo del cibo. Aveva un’aria esperta e indaffarata, da persona che sa con esattezza quel che sta facendo. Si allontanò dalla luce del fuoco per un po’ e ritornò con dei lunghi rami verdi di acero. Due di essi erano biforcuti, ed egli li scorciò, li appuntì e li conficcò nel terreno da una parte e dall’altra del fuoco. Un altro ramo, più lungo e sottile, lo appuntì solo da una parte e lo fece scorrere dentro il corpo dell’animale ripulito delle interiora, poi tagliò un pezzo di spago e legò il porcospino al ramo, che sistemò sulle forcelle in modo che la carne arrostisse al fuoco. Un altro bastone, dopo che vi ebbe praticato una tacca, lo sistemò al di sopra del fuoco e vi appese il pentolino con il grasso, che cominciò a friggere sibilando. Poi, con una bacchetta più sottile, infilzò il fegato e il cuore e li mise a cuocere insieme al resto.

Ben presto fegato e cuore furono pronti, e Arn li lasciò raffreddare per qualche istante e li porse alla sorellina. Lei dapprima si era domandata se ci sarebbe riuscita, a mangiare quella carne, ma ora il suo corpo le stava facendo chiaramente capire che non poteva farne a meno, che era la sua stessa vita ciò che il fratello le stava offrendo. Arn divise in due parti sia il fegato che il cuore e le fece prendere la metà di ciascuno. E Jen, mangiando, sentiva di riacquistare calore ed energia. Quel cibo era buono al di là di qualsiasi concetto di preferenza o di gusto, buono al di là della bontà stessa.

Dopo un po’, Arn girò la carne che si stava arrostendo sullo spiedo e versò su di essa del grasso fuso. Alcune gocce di grasso caddero sul fuoco dalla carne rosso-scura e bruciarono sprigionando delle scintille arancioni. Arn aveva lasciato affievolire il fuoco, che rosseggiava tra la brace, ma ora vi aggiunse un po’ di legna da una parte, quel che bastava e non di più, in modo che la carne si rosolasse senza bruciare. Girò lo spiedo, cosparse la carne di grasso e di tanto in tanto la saggiò con la punta del coltello. Infine, quando gli parve che fosse pronta, la levò dalle forcelle, l’appoggiò con tutto lo spiedo vicino al fuoco, ne tagliò un fianco per ciascuno e servì alla sorellina il suo pezzo infilzato su una bacchetta. Poi mangiarono quella carne scura, non senza prima ringraziare entrambi il porcospino per la forza che stava loro elargendo.

Lo stato d’animo di Jen a poco a poco cambiò, grazie a quel dono generoso, ed ella ritrovò la fiducia e la speranza. Smise di star lì lì per piangere e di sentirsi sola e sperduta. Senza dubbio avrebbe ritrovato Oky, con l’aiuto di Arn. Che quasi non le sembrava più suo fratello, ora, non il fratello che era solo un ragazzino e che ella aveva talvolta visto piangere e farle i dispetti, ma qualcuno assai più simile al babbo, e dotato come il babbo della conoscenza di ciò che si deve fare e della certezza di saper farlo.

“Grazie, Arn,” disse.

Egli distolse lo sguardo, un po’ imbarazzato dalla sua ammirazione, e attizzò nuovamente il fuoco. “I tuoi abiti sono asciutti, adesso,” disse. “Gli scarponi non ancora, ma lo saranno per quando farà giorno, se non si metterà a piovere o a nevicare.” Le lanciò i suoi pantaloni di pelle di daino, la maglietta, il giaccone di pelle, ed ella li indossò sentendoli di nuovo morbidi e caldi come prima.

“Se non era per te, sarei morta,” disse, porgendogli a propria volta il suo giaccone.

“Credo di sì,” rispose lui.

Andò al torrente per lavare il pentolino e prese dell’acqua per fare un altro po’ di tè con le polverine della vecchia signora.

Prima di prepararsi a dormire, ravvivò ancora il fuoco. Si sarebbe consumato durante la notte e il freddo lo avrebbe svegliato, perciò lo riattizzò. Si tolse la maglietta e l’avvolse intorno ai piedi di Jen, quindi si rimise il giaccone. Poi giacquero entrambi sui soffici rami che egli aveva raccolto, con altri rami che li coprivano da tutti i lati e il dolce profumo dell’abete del balsamo tutt’intorno a loro.

“Si sta bene, qui,” disse Jen. “Non ho più paura dei cinghiali. Ce l’avevo perché non ero riuscita a capire che cosa pensasse di me, quello là. Non ci riuscivo proprio.”

“Ma come fai a capire quello che pensano gli animali?”

“Non lo so. Mi sembra.”

“Potresti dire che cosa pensava il porcospino?”

“Sì. E lui sapeva che cosa pensavi tu. Sapeva ciò che stavi per fargli.”

“Sapeva che io non avrei voluto ucciderlo, ma non potevo farne a meno?”

“Tutto ciò che sapeva era che stavi per ucciderlo.”

Arn tacque.

“Noi dovevamo mangiare,” disse Jen.

“Sì.”

“E adesso io sono di nuovo al caldo e mi sento più tranquilla.”

“Ma non è come a casa,” egli disse, e all’improvviso pensarono a Tim Hemlock e ad Eugenia soli nella casetta, in quella casetta sigillata dal ghiaccio, e a come si sarebbero preoccupati per i loro bambini. Arn raccontò a Jen che la mamma aveva seguito le sue tracce fin dietro la cascata ma non era riuscita a trovare il passaggio attraverso la montagna, che poi, invece, per lui era stato di nuovo là, spalancato.

“Pensi che sia quella, la Porta Nera di Tsuga?” disse la bambina.

“Non lo so. Mi fa paura, pensarci.”

“È tutto così strano, Arn. Poveri mamma e papà. Penseranno che ci sia capitato qualcosa di spaventoso. Forse che siamo morti. Se solo riuscissimo a trovare Oky e a tornarcene a casa...”

Prima di andare a dormire, Arn ripensò alle parole che gli erano venute alle labbra senza volerlo. C’erano come degli echi, nella sua mente, molto in profondità, quasi che laggiù ci fossero delle cose che stavano cercando di ricordarsi a lui.

E Jen, fissando la luce del fuoco che guizzava di tra i rami di balsamo con cui Arn aveva fabbricato un riparo per entrambi, e guardando poi al bosco ― da cui quella luce traeva verso di loro i tronchi eretti degli alberi dalle tenebre nelle quali pareva celarsi tutta la selvaggia potenza della notte ― a un tratto tremò di paura al pensiero di quanto erano soli in quel luogo. Avevano sbagliato a lasciare la casa, e lei aveva sbagliato a scappar via senza dir niente a nessuno. E adesso lei e Arn erano così minuscoli, nel cuore misterioso di quella notte al di là della montagna.

 

*

 

Torna all’inizio

Torna all’indice generale dell’opera

 

*

 

Capitolo Ottavo

 

Al Grande Sempreverde

 

Nella piccola fattoria degli Hemlock, oltre la montagna e a molte miglia di ghiaccio di distanza, il gelo faceva scricchiolare e cigolare la casetta. Eugenia era uscita con una scure e, benché stremata dalla fatica, aveva spaccato le traverse del recinto del maiale, le aveva trascinate fino a casa e aveva riattizzato il fuoco per preparare un po’ di zuppa con le preziose patate da semina. Sembrava più vecchia, adesso: pallida, sfinita. Si dava un gran da fare a ravvivare quel focherello, ma la maggior parte delle sue ragioni di vita se n’era andata insieme ai bambini. Ma poi, dopo che fu riuscita a far divampare il fuoco sotto il bollitore, abbassò lo sguardo sul marito che dormiva e lo vide torcere la testa da una parte all’altra e fare sforzi con le spalle e il collo come se cercasse di liberarsi da un giogo. Lo calmò, mettendogli una mano su una guancia, ed egli aprì gli occhi all’improvviso, facendola trasalire. Ma non erano più gli occhi allucinati che su di lei aveva spalancato altre volte, quegli occhi sbarrati su chissà cosa in lontananza, al di là delle pareti della casetta e forse del mondo. Erano di nuovo gli scuri occhi castani di suo marito, e guardavano dritti verso di lei.

“Eugenia,” disse, con una voce distaccata che la moglie non riconobbe.

Doveva essere andato molto lontano. Per tutto quel tempo non era stato lì con lei, in realtà, e in quel momento ella comprese fino a che punto fosse rimasta sola, e quanto fosse stata vicina alla disperazione.

“Eugenia, devi assolutamente dire a Jen e Arn...” La sua espressione si fece a un tratto perplessa. “Devi dire a Jen e Arn...”

“Ma se ne sono andati, Tim. Se ne sono andati!”

Egli parve non capire. “Devi,” ripeté debolmente. “Devi...” Poi si addormentò, ma più tardi, quando Eugenia gli accostò una tazza di brodo alle labbra, egli bevve e aprì di nuovo gli occhi su di lei.

“Quanto a lungo sono stato male?” le domandò, con quella sua nuova voce distaccata.

“Per molto tempo. Per settimane.”

“Dove sono i bambini?”

Dovette dire al marito che se n’erano andati, che Jen aveva seguito Oky e Arn aveva seguito Jen; dirgli della cascata, e dell’angusto sentiero sull’orlo dell’abisso che dietro la cascata a un tratto s’interrompeva. Egli le fece raccontare tutto quello che era successo, come Arn avesse appreso il muto linguaggio della vecchia signora e come avesse poi preparato per lui una medicina che aveva reso più lieve il suo respiro.

“Che cosa hanno portato con sé?” egli domandò.

“Non lo so. So solo che non ci sono più. I nostri bambini non si sono più!”

“Devi cercare bene e me lo devi dire.” Tentò di tirarsi sù, ma non ebbe la forza nemmeno di togliersi di dosso la pelle d’orso. Ricadde giù con un gemito. “Non posso aiutarli. Ma ti prego, Eugenia, devi dirmi che cosa hanno portato con sé.”

“Jen s’è messa i vestiti più caldi, e i ramponi. Ha portato via le briglie di Oky... e nient’altro.”

Tim Hemlock gemette. “E Arn che cos’ha preso?”

Eugenia frugò tra le cose di Arn, tra la roba appesa vicino alla porta, dapertutto. Anche lui ― disse ― aveva messo gli abiti più caldi e i ramponi. E poi aveva preso la pietra focaia, l’esca, un rotolo di spago, il suo zaino, il suo coltello, un pezzo di focaccia e una delle scatolette di corteccia di betulla che stavano sulla mensola del camino.

“Può accendere il fuoco, allora,” osservò Tim Hemlock.

“Ma, Tim... Io sono arrivata fino alla fine del sentiero... E da lì non sono tornati, Tim... Perciò devono...”

“Non lo sappiamo, questo... E la vecchia signora? Non è più tornata?”

“Andata, anche lei. Sono andati, Tim, tutti. Arn e Jen sono caduti in quel precipizio! I miei poveri bambini!”

“Io conosco quel posto,” disse Tim Hemlock.

“Ma tu non sei mai arrivato fino alla montagna!”

“Sono andato più in là di quanto ti abbia detto, Eugenia.” Tentò disperatamente di tirarsi sù, ma non ce la fece. “Le mie braccia sembrano di piombo. Dov’è andata a finire la mia forza? Devo ritrovarli!...” Ma giacque di nuovo, gli occhi sbarrati, il volto come svuotato dalla disperazione per non poter andare a cercare i suoi bambini.

*

Venne il mattino, sulla valle misteriosa ― freddo, grigio, con un gran ventaccio e una nebbiolina gelida che turbinava sulle ceneri del fuoco e s’insinuava tra i guanti e le maniche di Arn. Avrebbe voluto dormire ancora, ma il vento lo stuzzicò ferocemente. Se tirava sù le gambe, gli si intrufolava intorno alle caviglie; se si raggomitolava come una palla, allungava una gelida mano sulla sua schiena. Alla fine si rese conto che doveva alzarsi e riaccendere il fuoco, come aveva fatto già due volte durante la notte. Così lui e Jen sarebbero stati al caldo almeno da un lato.

Il suo spiedo d’acero non c’era più, e con esso la carcassa arrostita del porcospino. Anche la testa era sparita, così come le interiora e la pelle; solo lo spinoso mucchietto di aculei c’era ancora. Qualcosa era giunto fin lì nella notte ― ed ecco infatti le sue orme, una delle quali perfettamente nitida nella cenere sparsa intorno al fuoco: l’ampia, sfilacciata impronta priva di artigli di una lince.

Riaccese il fuoco, e quando Jen si svegliò le disse che una lince si era presa quel che rimaneva del loro cibo. Poi, preso il pentolino di ferro, andò al torrente ad attingere acqua, in modo che a colazione potessero avere almeno un po’ di tè fatto con le polveri della vecchia signora. Dava energia, quel tè; Arn se n’era accorto la sera prima, quando aveva visto l’effetto che il suo calore aveva avuto su Jen e come l’aveva salvata dal congelamento. E a lui aveva dato la forza di scuoiare e arrostire il porcospino. Anzi, di più: gli aveva dato la volontà di farlo.

S’inginocchiò vicino a una pozza del torrente e v’immerse il pentolino. Al di sotto della fluttuante superficie dell’acqua, appena oltre il bordo di ghiaccio che aveva dovuto rompere, qualcosa attrasse il suo sguardo verso il fondo del torrente, là dove l’acqua era più profonda. Una forma verde, scura e allungata, si allontanò dalla riva, s’immerse in profondità e scomparve. Ma poi il vento si fermò per un istante e, quando l’acqua smise di incresparsi, Arn la vide di nuovo ai piedi di un masso, adagiata nel suo mobile elemento, accanto alla sua pietra d’ancoraggio, a muovere lievemente le pinne per mantenersi in equilibrio. Poté scorgere la screziatura rossa, verde, blu e gialla dei suoi fianchi, velata dall’acqua. Era una trota di torrente, un codaquadra lungo almeno un piede. E dovevano essercene delle altre, là sotto, che avevano scelto quel luogo per abitarvi e attendevano che la corrente portasse loro da mangiare.

Riportò indietro il pentolino colmo d’acqua e lo mise sul fuoco appendendolo a una bacchetta appoggiata sulle forcelle. Se soltanto avesse avuto un amo, un po’ di lenza e dell’esca... Solo che non ne aveva, era questo il fatto. Ma poi, più tardi ― dopo che ebbero bevuto il tè fatto con la portulaca, l’acetosella, i funghi rossi secchi e la polverina marrone della scatoletta contrassegnata dalla manina pendula ― ad Arn cominciarono a venire delle idee... Aveva il coltello, dopo tutto: e che cosa non poteva fare un uomo con il suo coltello, con la lama ben temprata e tagliente che portava sempre con sé? Il suo coltello era il suo più fedele strumento ed era tutto ciò di cui aveva bisogno in quella terra selvaggia, se sapeva come usarlo su quel che c’era da usare. Se non perdeva la testa, non cedeva alla paura e non ridiventava come un bambino piccolo, sarebbe riuscito a sopravvivere e al tempo stesso si sarebbe preso cura della sua sorellina.

Si mise a pensare, dunque. E Jen si sedette accanto al fratello con il pentolino di tè fra le mani e si mise a fissare il fuoco con aria meditativa.

Dopo che ebbe pensato, prese nello zaino la pietra focaia e vi arrotò con cura il taglio del coltello nel punto in cui la lama aveva urtato l’osso del porcospino. Non che il coltello si fosse smussato, in realtà, ma Arn non voleva scorgervi la benché minima sbavatura. Lo levigò con delicatezza, quindi sfregò la lama sul cuoio di uno stivale finché non fu così affilata che di taglio sembrava quasi invisibile.

Voleva farsi un amo e una lenza. Avrebbe anche potuto ricavare una lancia da un ramo dritto e sottile di acero, ma il torrente era assai profondo nel punto in cui aveva visto la trota, e se si fosse bagnato ci sarebbe voluto molto tempo perché gli abiti si asciugassero. Perciò doveva lasciare che l’esca sprofondasse da sola in quegli abissi, e sperare che l’appetito delle trote le inducesse ad attaccarsi alla lenza e a lasciarsi trascinare a riva. Ripassò fra sé tutto quello che lui e Jem possedevano, alla ricerca di qualcosa che potesse essergli utile. La corda di canapa, benché relativamente sottile, era troppo grossa. Avrebbe forse potuto dipanarne qualche filo e usarne alcuni per farne una lenza, ma gli sembrava un lavoro troppo lungo... Notò, allora, il nastro di pelliccia di volpe che la mamma ― con una sottile cordicella di pelle di daino, o con il filo di lino portatole dal Mercante ― aveva cucito a mo’ di orlo al giaccone di Jen.

“Jen,” disse, “ho visto delle trote, nel torrente, e voglio andare ad acchiapparne quanto basta per fare una buona colazione.”

“E come?” domandò lei. “Ti sei portato dietro l’occorrente per la pesca?”

“No, ma ce lo fabbricheremo da soli. Però ho bisogno di un po’ di spago.” Si domandava come la sorellina avrebbe accolto l’idea di scucire dal suo giaccone un tratto del nastro di pelliccia di volpe, perché sapeva quanto ne andava fiera. “Ti dispiacerebbe tagliare la parte di sotto della pelliccia di volpe del tuo giaccone?”

La bambina non ci pensò più di un secondo. “No,” disse, guardando il nastro. “È lì solo per bellezza, non importa.” Prese il coltello di Arn e allentò un capo del filo, e lui le intagliò un bastoncino in modo che potesse servirsene da punteruolo per allentare le maglie a una a una. Era il filo cerato e molto resistente che aveva portato il Mercante, e ne avrebbero ricavato una buona lenza.

Ora aveva bisogno di un amo. Pensandoci sù, cominciarono a venirgli in mente le più svariate idee e possibilità: immagini di ami del tutto diversi da quelli d’acciaio che faceva suo padre, con i loro fusti ricurvi e le minuscole punte. Ne immaginò uno che era solo un pezzo d’osso o di legno diritto appuntito da entrambe le parti, con un foro al centro per la lenza. Un’esca appiccicosa di qualche sorta teneva l’amo parallelo alla lenza finché il pesce non l’inghiottiva, poi uno strattone alla lenza faceva sì che le estremità appuntite si conficcassero nella gola o nello stomaco del pesce. Gli parve addirittura di vedere un uomo con degli ampi pantaloni marroni di cuoio che scrutava nell’acqua, osservando il dispositivo con occhi pazienti. Ma poi altri ami gli si presentarono alla mente, ricavati dagli ossi mandibolari o dalle spine di animali o di pesci...

Era stato a guardare gli aculei del porcospino che la lince aveva lasciato sparsi per terra qua e là. “Niente di te sarà sprecato,” aveva detto al nonno, il porcospino, senza sapere perché mai glielo dicesse. Con prudenza esaminò i mucchi di aculei e ne scelse alcuni tra i più robusti e acuminati. Poi trovò un pezzo di legno di pino secco, non imputridito, e lo incise in modo da distaccarne un piccolo fusto, assottigliandolo alla base affinché le punte degli aculei del porcospino, tagliate corte e legate al fusto con del filo, ne sporgessero diagonalmente. Intorno alla cima del fusto intagliò poi una scanalatura per legarvi la lenza. Era un lavoro che richiedeva grande attenzione e accuratezza, perché l’amo doveva essere piuttosto piccolo, non più lungo di due-tre centimetri. Ne fece alcuni, di fusti. Jen intanto aveva liberato un lungo pezzo di filo, ed egli ne prese quel che bastava per avvolgere e legare due punte di aculei a ogni fusto.

Fu Jen che gli suggerì di attaccare dei batuffolini di pelo di volpe a ogni amo con della resina d’abete e poi di legarli con del filo. Ricordava che alcune delle “mosche” da trota e da salmone del babbo avevano più o meno quell’aspetto.

“Ma le trote che cosa penseranno che siano?” domandò Arn.

“Non lo so, ma credo che cercheranno di mangiarseli. Penseranno che siano delle specie di insetti!” rispose Jen, con la convinzione in cui egli riconosceva il misterioso talento che la rendeva assai più brava di lui nell’intuire i pensieri più segreti degli animali.

Jen era riuscita a liberare quasi due metri di filo robusto, e mentre lui cercava un pezzo di legno diritto nella boscaglia vicino alla prateria, lei trovò un abete dal quale colava della resina. Completarono così le esche per le trote, che presero l’aspetto di una strana sorta di insetti. Arn legò all’amo una delle esche, poi legò la lenza all’estremità di una buona asta e andarono al torrente, tenendosi tanto più bassi e silenziosi quanto più si avvicinavano guardinghi al bordo dello specchio d’acqua.

Charr, charr, arriva da mangiare,” sussurrò Arn. Charr?, pensò.... Perché mai l’aveva detto? Poi ricordò che il babbo una volta aveva usato quella parola per la trota.

Si nascosero dietro un masso, e Arn lanciò l’esca in acqua senza causarvi che una lieve increspatura. L’esca fluttuò per un paio di metri, ruotando lenta intorno ai mulinelli della pozza, finché qualcosa turbinò violentemente sul fondo, si lanciò verso di essa e la ghermì, in un turbinio d’acqua, ricadendo con un tonfo. E all’istante venne sù dalla lenza il suo strattone, quel selvaggio scagliarsi verso la salvezza, ma intrappolata, divincolandosi, zig-zagando, tirando con tutta la sua forza acquatica. Benché le braccia gli tremassero per lo sconcerto dell’improvvisa comunione con quella disperata creatura fluviale, Arn tenne la canna più salda che poté e retrocesse dal macigno fino al bordo dello specchio d’acqua. Poi, muovendosi tanto più cautamente quanto meno sentiva di poter contare sulla robustezza dell’amo e della lenza, tirò la trota fuori dall’acqua sul fragile bordo ghiacciato, fino ai ciotoli asciutti, e l’afferrò con ambo le mani.

La trota era molto bella, nella sua scura livrea verde e negli smaglianti gioielli rossi, gialli e blu che le adornavano i fianchi. Era lunga una trentina di centimetri, grassoccia e muscolosa. “Charr,” disse Arn, “niente di te sarà sprecato,” poi prese il coltello e colpì la trota proprio dietro la testa con il dorso della lama. La trota ebbe un fremito e fu morta. Egli le tolse l’amo dalla bocca per trovare l’aculeo del porcospino che si era piegato, così da legarlo a una nuova esca.

Tirò fuori dalla pozza tre pesci anche più buoni di quello, prima che le trote cominciassero a diffidare della mosca di pelo di volpe e tentassero di non mangiarne più. “Ne abbiamo prese quante ce ne servono per far colazione, comunque,” disse Arn. Pulì i pesci vicino al torrente e li portarono al fuoco, dove li rosolarono leggermente sulla brace, impalati su dei rami verdi. Divorarono le trote fino alle lische perlaceee. Mangiarono le loro pinne croccanti e perfino i rotondi bottoncini dei muscoli delle guance, con i quali le trote serrano le mandibole sulle prede. Poi, sazi, e sentendo quell’energia presa a prestito che gli si diffondeva nelle braccia e nelle gambe, bevvero un altro po’ di te fatto con le polverine della vecchia signora.

Arn soffocò il fuoco fino all’ultimo sibilo con l’acqua del torrente, riavvolse la corda di canapa e rimise tutto a posto nello zaino, dopo di che furono pronti a ripartire alla ricerca di Oky.

Nello zaino Arn aveva messo via con cura anche la lenza e gli ami. Potevano averne bisogno, naturalmente, ma ciò che soprattutto desiderava era di mostrarli al babbo. Il babbo sarebbe stato fiero di lui, e di Jen per aver avuto l’idea di rivestire gli ami di pelo di volpe. Ma c’era anche molta tristezza e insicurezza, in lui, nel pensare a questo, poiché ignorava se il babbo stesse meglio o peggio. E poi era preoccupato anche per la madre, perché sapeva bene quanto poco cibo le era rimasto in casa ― a parte gli animali, e le sementi di cui avrebbero avuto bisogno per sopravvivere un altro anno.

Ma quanto sarebbe stato orgoglioso di mostrare al babbo quei piccoli ami così astuti, e di vedere il babbo ammirarli tenendoli nelle sue grandi mani da artigiano!

Mentre attraversavano la prateria, diretti verso il grande albero sempreverde, Jen non poteva pensare che all’animale che aveva visto o creduto di vedere in lontananza il giorno prima. Quello più tarchiato dei cervi, con la macchia bianca sul collo. Quello doveva essere Oky.

“Se non vediamo Oky dal punto più alto della zona, o se almeno non troviamo le sue impronte, ce ne torneremo a casa,” disse Arn.

“Dobbiamo trovare Oky!” gridò Jen.

“Guarda, Jen, che sono in pena per mamma e papà. Penseranno che ci siamo persi.”

Jen sentì dalla sua voce che egli aveva deciso. Non aveva idea di come potesse fargli cambiare idea. Arn sembrava diventato più grande e più determinato di quanto lo era mai stato a casa. Si era fermato, e le parlava guardandola molto seriamente: “Non abbiamo visto alcuna traccia di Oky, in questa valle.”

“Ma è andata lungo la cengia dietro la cascata! Le hai viste le sue impronte, no?!”

“Le sue e quelle di un cervo,” disse Arn. “Può darsi che il cervo se la sia portata via. Come fai a sapere anche solo se desidera tornare indietro, adesso?”

“Dobbiamo trovare Oky!” gridò Jen, e sentendo nella propria voce che stava per piangere si rese conto con un pochino di vergogna che si sarebbe servita del pianto per tentare di far cambiare idea ad Arn. È vero che in passato le sue lacrime non l’avevano smosso più di tanto, ma adesso intuiva che Arn era cambiato.

“Pensa a mamma e papà,” egli disse. “Pensa a come debbono sentirsi.”

Arn aveva ragione, e lo sapeva. E quanto a Jen, egli non doveva ascoltarla affatto, perché, se si fosse avviato verso casa, lei comunque avrebbe dovuto seguirlo, e che piangesse e gridasse non avrebbe cambiato un bel nulla. Era sua la responsabilità: doveva salvarle la vita, e basta. “Andremo fino al grande albero lassù e daremo un’occhiata in giro, ma questo è tutto. E poi c’incammineremo verso casa.” Egli sentì il proprio potere, e si disse che una lacrima di lei non avrebbe fatto alcuna differenza.

Ma quando la guardò e vide le sue lacrime, si rammentò di una cosa che aveva fatto una volta: una cosa potente, ma anche vergognosa. Il babbo gli aveva fabbricato un piccolo arco di frassino, dalla stringa cerata, e quattro frecce di legno d’abete. Mentre era da solo nelle vicinanze del fiume, Arn vide, su una sponda argillosa, un rospo che accolse senza spezzarla la freccia con cui lo trapassò. Era un rospo marrone. Ma per quanto Arn tentasse e ritentasse, non poté scorgere nulla di male in quel rospo. Sì, era stato un bel tiro, ma niente poteva giustificare quel povero rospo inoffensivo trafitto e in agonia... Aveva estratto dall’argilla e dal rospo morente la freccia coperta di sangue e l’aveva scagliata lontano, al di là del fiume, dove non l’avrebbe ritrovata mai più. E non aveva mai raccontato a nessuno ciò che aveva fatto.

“Arn!” Jen stava piangendo. “Ti prego, Arn!”

“La cercheremo per un po’,” egli disse. “Ma se non troveremo qualche traccia, ce ne andremo a casa.”

“Grazie,” disse Jen, asciugandosi gli occhi con il dorso dei guanti. “Grazie, Arn.”

Ma ad un tratto Arn parve dissolversi davanti ai suoi occhi. Ogni cosa, intorno a lui, impallidì e scomparve. Sembrò, benché non si fosse mosso, che all’improvviso si fosse allontanato da lei. “Arn!” chiamò.

Egli le si avvicinò e la prese per mano. “È nebbia,” disse.

L’aria si era fatta caliginosa e tiepida. Si guardarono intorno, ma al di là degli ingialliti e crepitanti steli d’erba ai loro piedi l’intera valle si era dissolta, tutto era diventato bianco come la carta. Potevano attraversarlo con le mani senza incontrare resistenza, ma quel biancore rimaneva vuoto, opaco, muto. Minuscole perle del suo tepore umidiccio stavano già ricoprendo la loro pelle e i loro abiti. A malapena riuscivano a vedersi l’un l’altro. Perfino i loro piedi si erano già quasi dissolti.

“Adesso non possiamo più muoverci affatto,” disse Arn.

“Ma dobbiamo farlo,” disse Jen. Il silenzio della nebbia li induceva a parlare sottovoce, come se fosse un’invisibile presenza che non bisognava disturbare.

“Riusciremmo soltanto a perderci,” disse Arn.

“A te non te n’importa niente di Oky!”

“Be’...” disse lui, ma con l’aria di star ascoltando qualcos’altro nella nebbia. C’era una specie di tamburellamento, in lontananza: veniva sù dal terreno, lo sentivano attraverso i piedi. “Qui non è come a casa, Jen,” disse Arn. “Questo posto non lo capisco.”

Lo stamburio si fece più intenso, ma come se non venisse da nessuna parte. Per un momento la nebbia intorno a loro si sollevò, mentre una trasparente massa d’aria delle dimensioni di una stanza si apriva su di loro e passava oltre, muovendosi rapida pur in assenza di vento. Minuscole perle d’acqua tiepida luccicarono sul volto di Arn, lungo le braccia del giaccone di Jen e sul dorso dei suoi guanti. Jen si tolse i guanti e se li mise in tasca, sentendo il tepore umidiccio spargersi sulle sue mani. Il terreno cominciò a tremare all’unisono con lo stamburio.

“I cinghiali!” disse la bambina, riprendendo la mano di Arn. “È il rumore che fanno i cinghiali!”

“Non muoverti,” disse il fratello.

I candidi flutti di nebbia li oltrepassavano rapidi, aprendosi fra un’ondata e l’altra, ed essi si sentivano un istante nascosti e subito dopo svelati, anche perché quel biancore aveva la sinistra caratteristica di celargli ogni cosa tranne loro stessi. Lo stamburio si faceva sempre più forte. E poi la terra si mise a tremare sotto di loro fino a persuaderli che da un momento all’altro la potenza che si dirigeva da quella parte li avrebbe travolti. La nebbia si mosse ancora, dissolvendosi e riaddensandosi. Poi, quando il frastuono fu così forte che i due bambini per un attimo smisero di respirare sapendo che centinaia di zoccoli stavano per schiacciarli, videro le nere sagome arcuate passare a qualche metro da loro. Nere figure, rese grigie e incorporee dalla nebbia, che si scagliavano nel nulla e svanivano mentre il rimbombo a poco a poco si affievoliva.

“Erano i cinghiali,” bisbigliò Jen. “Erano i cinghiali.”

“Potremmo arrampicarci sull’albero, se riuscissimo a trovarlo,” bisbigliò Arn di rimando. Tremava. “Eravamo sottovento, e non hanno sentito il nostro odore.”

“È vero, non sapevano dove fossimo,” disse Jen.

“Riesci a sentirli pensare?”

“Purché pensino ad altro, forse sì.”

Le ondate di nebbia, a quel che Arn ricordava, venivano dalla parte dell’albero, perciò si avventurarono cautamente dentro quella massa d’aria, che si muoveva senza che la si sentisse muovere, badando per quanto potevano a non inciampare. Dopo un bel po’ la nebbia prese a diradarsi, e finalmente si trovarono proprio sulla soglia di quel biancore, là dove s’innalzava volteggiando da un lago o da uno stagno d’acqua calda levandosi in vortici dalla superficie. A destra l’aria era più fredda e limpida e la prateria chiaramente visibile, ma a sinistra c’era l’acqua, dal cui silenzioso ribollire saliva il tiepido vapore bianco. Veniva un odore, da quell’acqua, che era lo stesso che era stato appena percepibile nella nebbia che li aveva avvolti. E ora Arn lo riconobbe: era simile a un vago sentore di polvere da sparo, o all’odore del fucile del babbo dopo aver sparato, prima che il babbo lo pulisse. Le sponde rocciose dello stagno erano chiazzate di un rosso brillante, di giallo e di un verde metallico. Il sole invernale, che iniziava a far capolino tra le nubi, donava alla vorticante foschia il suo bianco purissimo. A destra, la prateria volgeva dal verde dell’erba, là dov’era più vicina al tepore del laghetto, al bruno avvizzito del fieno a mano a mano che saliva verso nord-ovest. Il maestoso sempreverde non si vedeva, ma a mezza via lungo il declivio erboso c’erano dei mucchi di pietre di granito, alcuni dei quali apparivano regolari e squadrati come dei muri.

Senza una parola, Arn e Jen risalirono il pendio verso di essi. Dovevano raggiungere il punto più alto della prateria, se volevano vederla tutta e ritrovare il grande albero. E Arn voleva vedere le pietre, anche, a dispetto del suo desiderio di tornare a casa al più presto. Ripensava al sogno che aveva fatto la prima notte nella vallata, e a tutta quella gente assiepata tra le capanne di tronchi, e alle tende di pelli di animali. Gli era parso, come accade nei sogni, che in quella gente assiepata si celasse un qualche maestoso significato; ed essi avevano suscitato in lui un desiderio struggente. E la valle del sogno era proprio questa, ne ebbe la certezza mentre si avvicinavano alle pietre. Benché abbattute e rovinate a opera del tempo e delle tempeste, sussisteva infatti una regolarità, nel disegno di quei muri, che niente in natura avrebbe potuto produrre. Componevano quattro riquadri, larghi ciascuno diversi metri, le cui dimensioni erano pressappoco quelle della fornace dalle mura di pietra costruita dal babbo.

“Qualcuno ha vissuto qui,” disse a Jen.

Non erano rimasti che quei muri in rovina. E la bruna prateria, intorno alle rovine e fra di esse, tra quei muri solitari che non sorreggevano né racchiudevano alcunché, era tranquilla come la superficie di un lago. La gente che aveva vissuto fra quelle mura se n’era andata, ogni traccia di loro era scomparsa insieme ai loro sentieri, e tuttavia Arn ne aveva avvertito la presenza in tutta la valle come se il suo sguardo, fin dal momento in cui per la prima volta aveva visto i candidi pendiii innevati e i remoti picchi rocciosi che la cingevano, avesse avuto il potere di far rivivere il loro. Poiché la vallata era stata un tempo il loro mondo, familiare ai loro occhi.

Continuarono a salire verso la cima del pendio. Tutta la prateria, fin dove giungeva lo sguardo, appariva deserta. Non si scorgeva neanche un uccello in volo. Quando furono vicini al punto più elevato cominciarono a vedere la vetta del grande albero, prima soltanto i più alti tra i suoi rami sempreverdi e poi di più, di più, come se stesse crescendo dinanzi ai loro occhi. Erano ancora lontani dall’albero; ancora non avevano la minima idea delle sue dimensioni. Ma quanto più gli si avvicinavano, tanto più esso incombeva su di loro, il tronco grigiobruno s’innalzava, i suoi lunghi rami dai corti aghi verdi si prolungavano come enormi verghe fino a decine di metri sopra le loro teste. Il tronco si era sviluppato facendosi strada attraverso un ammasso di rocce grigie e un affioramento di granito, le sue brune e muscolose radici si avvinghiavano alle rocce come dita gigantesche e penetravano nella terra. Jen e Arn non avevano mai visto un albero come quello. Era un sempreverde e le sue pigne erano piccole, ma il tronco colossale e alcuni dei rami maggiori avevano la nitida individualità e la possanza delle latifoglie. La corteccia era incisa da miriadi di scanalature, secca e dura al tatto. Il diametro del tronco era di un paio di metri, e i primi rami se ne distaccavano ben al di sopra delle loro teste, troppo in alto perché potessero arrampicarvisi.

Una leggera brezza emanava dall’albero come un sibilo, o forse era l’albero stesso che si serviva del vento come di una voce. E sebbene i bambini non udissero parole, tuttavia si sentirono fin dal primo istante al cospetto di una calma e remota potenza che in qualche modo sembrava essersi accorta di loro.

A un tratto Jen si avvicinò all’albero e abbracciò una delle sue enormi radici arcuate. “Voglio bene a questo albero,” disse.

Arn se ne stava immobile a guardare in sù attraverso l’albero. Esili nubi invernali sorvolavano la vallata, e l’albero possente, alto com’era, sembrava tener ferma la terra malgrado il loro andare, tener fermo ― persino contro il volgersi dei cieli il terreno che sorreggeva i due bambini. L’improvviso affetto di Jen per l’albero non aveva sorpreso Arn, ed egli si domandava come mai non se ne fosse stupito. Ma accadeva molto spesso che la bambina prendesse decisioni così repentine, scavalcando d’un balzo i tanti piccoli passi che egli doveva fare per arrivare alle medesime conclusioni. Si gettava sempre di slancio sulle cose nuove, lei, assumeva all’improvviso nuovi atteggiamenti, si lanciava in imprese pazzesche come quel suo viaggio alla ricerca di Oky... Mentre a lui toccava invece di esaminare le cose con prudenza, di domandarsi che cosa si dovesse fare.

Intorno alle sporgenze rocciose tra le quali l’albero era cresciuto, alte pietre sottili erano state disposte a brevi intervalli nella prateria in modo da formare un cerchio con l’albero al centro. Erano pietre grigie, tutte più o meno delle stesse dimensioni, alte all’incirca come il babbo. Pietre squadrate, in cui erano incise a una certa altezza delle figure consumate dal tempo. Arn si calò giù dalle rocce e andò verso una di esse.

“Arn!” lo chiamò Jen.

“Vieni con me,” disse lui, “ma sta’ attenta, scendendo dalle rocce.”

La stele era muta, una sentinella immobile. Era senza testa, ma a mezza altezza recava una fascia di incisioni, una sorta di larga cintura con appeso un oggetto che non poteva essere che un fodero, il tutto scolpito a bassorilievo nel granito grigio.

Il fodero era identico a quello di Arn, e ne sporgeva il manico di un coltello che assomigliava molto all’estremità ricurva del manico di corno del suo. Arn slacciò i bottoni d’osso del suo giaccone e trasse il coltello dal fodero per confrontarlo con quello. Jen, intanto, si era avvicinata alla stele successiva. “Guarda, Arn,” lo chiamò. Il ragazzo andò da lei. Il fodero di questa sentinella di pietra era vuoto, ma il suo braccio, inciso in rilievo attraverso il petto, reggeva un coltello di pietra la cui lama ricurva, il choil, l’elsa e il pomello erano identici a quelli del coltello di Arn. Tenne il coltello più piccolo davanti a quello di pietra e vide che erano proprio simili: l’uno di pietra, antica e consumata, l’altro affilato e luccicante. La sua mano vivente si stringeva intorno al manico del suo coltello proprio come la scabra mano di pietra era serrata sul proprio.

Arn e Jen non poterono che guardarsi l’un l’altra stupiti. Le sentinelle di pietra, mute nella loro granitica decrepitezza, facevano corona al grande albero.

“Guarda!” disse Jen. Si era voltata verso l’albero, e gli indicava il ripiano roccioso.

Dapprima Arn vide solo le rocce sporgenti e il granito, attraverso i quali si inarcavano le brune radici del grande albero. Ma poi si accorse che anche lì era visibile una figura che non poteva essersi formata per caso. In un punto le radici formavano un arco al di sopra di una specie di piattaforma di pietre levigate, e al di là di questo arco vivente ce n’era un altro, fatto di pietra, che si apriva sulle tenebre.

“Andiamo,” disse Jen, ma Arn si tenne indietro.

“Siamo prudenti!” disse, rendendosi conto che era proprio là che avrebbero finito per andare, al centro di tutto. Ma Jen, senza ascoltarlo, tornò di corsa verso l’albero. E ad Arn, mentre la seguiva, con la coda dell’occhio sembrò di vedere che le sentinelle di pietra si ergessero ancor più possenti.

Si arrampicarono fino al punto in cui ogni pietra era levigata e connessa alla successiva. Era come un altare, o un luogo verso il quale dovevano essersi rivolti coloro che erano stati dinanzi a esso ritti come le sentinelle, all’interno del cerchio che le sentinelle formavano. Flebili echi dei loro stessi passi risuonavano nelle orecchie dei bambini, come piccoli suoni che rimbalzassero verso di loro dalle rovine sparse per la vallata.

“Questo posto è molto antico,” bisbigliò Jen. “E non ha fine. Posso sentirlo andare indietro, sempre più indietro, come se non avesse né principio né fine.”

Pensavano entrambi alle antiche storie, ma non osavano dirlo ad alta voce. La valle, finora, non era stata né gentile né sgarbata, con loro.

Le radici, più grosse di un tronco d’albero, pendevano come le dita di un gigante da entrambi i lati del tenebroso ingresso, che era più largo di quanto essi avevano pensato in un primo tempo. Era un arco di pietre accuratamente connesse, più alto e più ampio di tutta la loro lontana casetta nel mondo di ghiaccio.

Faceva freddo, adesso. Un leggero nevischio trapelava dalla massa imponente dell’albero come da un setaccio, scendendo da un cielo che si andava facendo grigio e nel quale un pallido sole era ormai soltanto un punto un po’ più luminoso al di là delle montagne, a sud-ovest. Mentre essi lo guardavano tremanti, le montagne scomparvero entro il grigiore biancastro della neve turbinante.

Si tennero per mano mentre attraversavano lentamente la soglia, entrambi terrorizzati e tuttavia incapaci di fare altro, né più né meno che in un incubo. Sotto l’arco vivente, Jen si fermò per toccare la grossa radice. Poi sollevò la mano, prese quella di Arn e la mise dov’era stata la sua.

“Lo senti?” gli domandò.

“Sento la corteccia,” rispose Arn.

“Si è mosso,” replicò Jen. “Si è mosso, Arn.”

“È stato il vento a muoverlo,” disse lui.

“No, non è così.”

Il corpo compatto dell’albero si era mosso sotto la sua mano rispondendo al suo tocco. Jen sapeva che si era mosso, ma ignorava che cosa quella misteriosa convulsione del legno significasse: era un benvenuto o un ammonimento?

 

*

 

Torna all’inizio

Torna all’indice generale dell’opera

 

*

 

Capitolo Nono

 

Il Sacrificio

 

Si volsero verso l’oscura soglia al di sotto dell’albero, dove le pietre grigie disegnavano un arco contro le tenebre. E qualcosa si mosse, nella penombra ― una figuretta marrone venne verso di loro come se scivolasse su un piano scorrevole e si fermò sulla soglia, tra il buio e la luce. Era la vecchia signora, con un braccio levato e le frange a penzoloni della blusa di pelle di daino tutta sbrindellata. Il palmo bronzeo della sua mano rugosa, rivolto verso i bambini, diceva loro di fermarsi, di non entrare. La sua faccia arcaica era severa, gli occhietti scintillavano. Per un attimo nessuno si mosse né parlò.

Jen lanciò un gridolino, poi: “Chiedile dov’è Oky!” disse ad Arn.

Le mani di Arn si mossero a comporre la domanda nell’antico linguaggio. Per designare la mucca fece i gesti della mungitura, mentre la domanda fu espressa dalle mani aperte, le palme in sù, vuote e interrogative.

Il braccio della vecchia signora si inclinò verso il basso, a indicare la prateria dietro di loro, ed essi le volsero le spalle e guardarono verso est.

Al confine orientale della prateria c’erano dei grossi animali che pascolavano, muovendosi tutti insieme lentamente mentre uno o due di loro sollevavano di tanto in tanto le teste massicce per guardarsi intorno. Erano delle bestie scure e pesanti.

“Che cosa sono, Arn?” domandò Jen. Ma non lo sapeva neanche lui.

Poi i bestioni furono presi dal panico. Saltarono sù all’improvviso, sgroppando, piombando al suolo a piè pari, e ruppero in una folle corsa piegando verso il centro della prateria. Prim’ancora di udirli, Arn e Jen sentirono il cupo rimbombo degli zoccoli che veniva sù dal terreno, e dietro di essi scorsero degli animali assai più piccoli, grigi, che spiccavano grandi balzi tra l’erba invernale, le grigie terga che apparivano e sparivano come i dorsi dei salmoni quando risalgono i fiumi.

“Lupi!” disse Arn, con un’agitazione nella voce che non veniva solo dalla paura. Jen era spaventata, lei sì; ma nell’eccitazione di Arn c’era qualcosa di sbagliato, di strano...

I bisonti si precipitarono verso il pianoro roccioso correndo fianco a fianco, urtandosi gli uni gli altri come se il contatto reciproco gli fosse di conforto nel terrore, gli occhi che mostravano il bianco, le grandi fauci che sbavavano. Le loro corna erano brevi, l’aspetto ― tranne che per il lungo pelame arruffato ― non diverso da quello di una mucca. Uno rimase indietro ― un esemplare più vecchio, più lento. Disperatamente si volse verso gli aggressori, armato del proprio enorme peso, e tentò di incornare il lupo più vicino. Sul collo, madido di sudore, scintillò una chiazza bianca.

“Oky!” gridò Jen. “Oky!”

Ma non poteva essere Oky, con quel lungo vello irsuto che già si macchiava di sangue tra le zanne della belva. Silenziosi, anche gli altri lupi le furono addosso. Uno di essi si scagliò sulle sue zampe posteriori, e facendo schioccare e lampeggiare i bianchi denti acuminati le recise un tendine. La mucca cadde su un fianco e i lupi le si avventarono al ventre, tagliando e strappando fino a trarne le interiora, simili a lunghe funi, mentre la bestia moriva lanciando gli ultimi lamenti tra l’erba alta.

Il resto della mandria aveva formato un cerchio, terga contro terga, le teste rivolte in basso, le corna fieramente puntate contro gli aggressori. I lupi fecero solo un paio di finte, poi volsero le spalle alle corna e tornarono a divorare la carcassa della mucca.

Jen e Arn, impietriti, assistevano in assoluto silenzio ― Jen piangeva senza far rumore ― mentre i lupi dilaniavano la preda ringhiando. Solo dopo molto tempo le belve, satolle, si stesero a godersi gli ultimi bagliori del sole invernale, le pance rigonfie. Nel frattempo i bisonti erano tornati tranquillamente al pascolo, agitando le code, i placidi musi che metodicamente strappavano l’erba ingiallita dalle radici e lentamente la masticavano. Rosse di sangue e biancheggianti, le costole della bestia uccisa si ergevano sulla sua carcassa come archi, il grande manto strappato via, rivoltato sull’erba all’intorno come un’ispida veste di cui si veda il rosso e il giallo della fodera.

Arn fissava i resti della mucca e i lupi soddisfatti, sazi dopo la caccia. Si voltò a guardare Jen, e la bambina vide sul suo viso il loro stesso senso di trionfo. Lei non aveva pensato che alla mucca, strappata alla vita e brutalmente trasformata in cibo, mentre Arn si era avventato sulla preda insieme ai cacciatori.

Si allontanò da lui, sentendosi sola. Non appena si mosse, i ruminanti alzarono le teste e pestarono nervosamente fra l’erba, volgendo i grandi occhi su di lei. Anche alcuni lupi alzarono le teste, drizzando le orecchie, e guardarono dritti verso la bambina con una sorta di vigile curiosità che non era né impaurita né minacciosa.

Arn scrutava i lupi, e la sua curiosità si misurava entusiasta con la loro.

“Arn,” lo chiamò Jen come se fosse andato via lontano. Per un tempo che le parve lunghissimo egli non le rispose, e quando infine parlò, quel che disse fu: “Hai visto che roba? Hai visto i lupi cacciare?”

“La vecchia signora ha detto che Oky era laggiù!” gridò Jen.

Arn si volse, e l’eccitazione della caccia scomparve dal suo volto: “Ha fatto un cenno in quella direzione, sì. E questo è tutto ciò che sappiamo, Jen.”

Si volsero verso il passaggio ad arco, ma la vecchia signora non c’era più. Il sole era tramontato, le raffiche di neve cessate, la luna era una scaglia ricurva tra nuvole evanescenti che si muovevano silenziose attraverso il cielo. Calavano le tenebre. Ora, il buio passaggio ad arco non appariva meno solido e concreto di un muro. Arn e Jen tentarono di guardare dentro quel buio, ma esso gli si parò dinanzi come un sipario di cuoio compatto, qualcosa che si poteva allungare una mano e toccarlo, e fu come cozzare di nuovo contro il divieto di entrare della vecchia signora. Mai, finché era stata in casa loro, essa gli era sembrata così severa, forte ed ostile.

Avevano bisogno di un luogo riparato dal freddo per trascorrervi la notte, e fu Jen che scoprì un posticino ben protetto fra le spire delle radici del grande albero. Arn andò in cerca di rami caduti e ramoscelli per fare un fuoco, e Jen raccolse quanti più aghi secchi poté trovare e li ammucchiò sotto quelle protettive radici.

Arn ritornò con una bracciata di legna, la mise giù e: “Ascolta!” disse.

Trattennero il respiro, ascoltando una specie di gemito in lontananza che dapprima sembrò del vento, lassù, fra i rami alti dell’albero, ma poi cambiò, parve venire dalla prateria. Strisciarono pian pianino oltre la cerchia di pietre. Il lamento, o forse il canto, giungeva proprio dal cuore della prateria, dove le luci tremolanti di tanti piccoli fuochi in movimento avanzavano verso di loro.

“Quelle sono persone!” sussurrò Arn.

A quella tremula luce arancione poterono di nuovo vedere il pianoro roccioso, il passaggio ad arco e il tronco grigio del grande albero. Alcune delle nere figure in avvicinamento recavano delle fascine. Rannicchiandosi più che potevano, Jen e Arn stettero a guardare mentre una serie di falò venivano accesi uno alla volta lungo un semicerchio intorno al pianoro. Quando le fiamme divamparono luminose attraverso gli sterpi e la legna, le misteriose figure rimasero in piedi o si accovacciarono intorno a esse, strane forme per metà umane e per metà animali. Un canto, monotono e inespressivo come il vento, si levò da esse al di là dei falò. “Hey-yeh, hey-yeh, hey-yeh, hey-yeh,” continuava sempre uguale, senza mai salire né abbassarsi di tono.

“Quelle sono persone!” sussurrò Arn.

Quando i fuochi, divampando, si fecero più luminosi, videro che erano proprio figure umane che si alzavano e si abbassavano danzando al ritmo del canto, ma che le loro teste e le parti superiori dei corpi erano invece di animali. Erano uomini, sì, ma indossavano pelli di animali, e al di sopra di esse portavano maschere di animali. C’erano dorsi e teste di orsi bruni, le candide zanne scintillanti tra le fauci spalancate, e c’erano enormi teste di cinghiali, dalle zanne d’avorio. Certi recavano sulle spalle delle teste di cervo, alcune dotate di corna e altre che ne erano prive, mentre altri portavano le pesanti teste di quei bisonti irsuti, o i musi appuntiti e le orecchie ritte dei lupi. Una figura era coperta per metà dal manto e dalla testa ambrata di una lince, che alla luce incostante dei falò esibiva l’ampio sogghigno che conferisce a tutti i gatti il loro caratteristico sorriso. Le strane creature danzavano restando sempre nello stesso punto, e il bagliore dei fuochi si rifletteva sulle loro dentature e sulle pellicce.

Proprio sotto la piattaforma di roccia sulla quale Jen e Arn erano accovacciati, una lunga pietra, liscia come una tavola e del medesimo spessore, era stata sistemata sul terreno in modo che le alte fiamme dei falò si riflettessero su di essa. Era in direzione di questa pietra che tutte le teste di animali spalancavano le fauci e tentennavano mentre il canto proseguiva. Il chiarore dei fuochi creava nelle tenebre un ampio spazio, al di sopra del quale la sottile falce della luna luccicava debolmente. E dietro i danzatori si scorgevano le nere figure silenziose di quelli che assistevano immobili, le cui facce dall’aspetto umano luccicavano di un fioco pallore simile a quello lunare.

Il canto s’interruppe all’improvviso, così istantaneamente e simultaneamente che Jen e Arn ne furono spaventati come se quel fragore incessante li avesse nascosti e ora corressero invece il rischio di essere scoperti da un momento all’altro.

Una figura, le cui braccia erano lunghe ali nere e la testa quella di un’enorme cornacchia, emerse dall’oscurità e si avvicinò alla tavola di pietra. Dietro di essa apparve una figura curva, che indossava un manto ricoperto di lunghi aghi e di aculei sormontato da una faccia tarchiata e pelosa: un porcospino gigante. Rimasero in piedi accanto alla pietra, in silenziosa attesa. Dalla gente, nel buio della prateria, si levò un canto a bocca chiusa, flebile e tuttavia acutissimo, che a poco a poco si tramutò in un doloroso lamento femminile. Era un gemito senza fine, un pianto disperato che non sgorgava da un dolore attuale ma ne rievocava uno remoto. S’innalzava e affievoliva in lunghe ondate. Cantava una perdita incommensurabile, e Jen lo sentiva echeggiare dentro di sé come se fosse fatta per intenderlo. Pensò a sua madre, che stava forse lanciando quegli stessi gemiti di dolore per i suoi bambini perduti. Sentì che anche lei, Jen, era venuta al mondo per provare un giorno la medesima intensità di dolore. Mentre il lamento s’innalzava e affievoliva, Jen divenne Eugenia, orbata dei figli, e dalla sua gola sgorgò lo stesso canto che si levava nella prateria da quelle donne misteriose.

Due uomini, che indossavano pelli e teste di bisonti, apparvero sul limitare delle tenebre. Ognuno teneva per mano un bambino, e i bambini portavano pelli di cervo sulle quali erano cucite delle sfavillanti decorazioni di perline ricavate da aculei di porcospino tinti di vari colori. I loro neri capelli erano stati intrecciati e unti. Jen e Arn videro che erano una bambina e un bambino, ambedue all’incirca della loro età. I due uomini-bisonti li portavano verso la pietra, e il canto lamentoso si faceva più intenso.

Benché camminasse senza vacillare, la mano nella mano dell’uomo-bisonte, il viso della ragazzina era pietrificato dalla paura. Jen tremò per lei, sentendosi mancare il respiro. Non aveva mai visto una ragazzina della sua età, ma si sentiva come se conoscesse quella bambina da sempre e intimamente, e aveva paura insieme a lei come se insieme a lei si accingesse a sottoporsi a quel rito misterioso.

Arn vide la paura e la spavalderia del ragazzo. Camminava eretto, il visetto bruno atteggiato a inflessibile risolutezza, e mai e poi mai avrebbe pianto o tentato di sottrarsi a ciò che doveva fare, qualunque fosse l’intensità del segreto terrore - che Arn sentì nelle ossa come un brivido gelido - che la cosa suscitava in lui.

Senza un suono, a un capo della tavola di pietra apparve un cervo ― un uomo che indossava la pelle e il capo di un grande cervo dalle ampie corna. Gli uomini-bisonti, tenendo per mano i bambini, presero posto accanto alla cornacchia e al porcospino. All’altro capo della tavola apparve una figura completamente coperta da una lunga pelliccia bianca, con un bianca faccia da animale, una lunga barba anch’essa bianca e brevi corna ricurve. Era il manto di un caprone di montagna, quello che indossava.

I fuochi divamparono, gli estremi lembi delle fiamme, arancioni, più alti di un uomo, vacillarono come se bruciassero negli strati più elevati dell’atmosfera. Anche il lamento crebbe d’intensità, e un uomo, nudo dalla cintola in sù tranne che per una lunga collana di denti lucidati, si fece avanti reggendo nella mano destra un coltello dai vividi riflessi bronzeo-ramati. Era un coltello corto, da macellaio, la lama larga e robusta. I neri capelli dell’uomo erano legati con un laccio dietro la sua faccia cupa, tirata.

L’uomo-bisonte che teneva per mano la bambina la issò sulla tavola di pietra, dove giacque sul dorso. Il suo petto e le braccia tremavano, ma dalla bocca non usciva un suono. L’uomo-bisonte che teneva il ragazzo lo sollevò e lo pose accanto alla bambina, dove anche lui prese a tremare, ma senza che nel suo visetto severo mutasse alcunché. L’uomo col coltello venne avanti e lo levò sui bambini, puntato verso il basso.

Jen balzò in piedi, pronta a gridare o a mettersi a correre verso la tavola di pietra, ma Arn la trattenne per un braccio: “Sta’ zitta, sta’ zitta!” le sussurrò.

Fu in quel momento che un albero, camminando su gambe umane, uscì dalle tenebre e venne a mettersi tra l’uomo e i bambini. Era un uomo, in realtà, ma reggeva un giovane sempreverde i cui rami dagli aghi ancora teneri nascondevano la parte superiore del suo corpo. Le piccole pigne e gli aghi piuttosto corti erano come quelli del grande albero sul pianoro roccioso, ma questo era così giovane e tenero che non era facile riconoscere in lui un esemplare della stessa specie. Rimase in piedi in silenzio, senza muoversi, celando i bambini al coltello. Il canto lamentoso si attenuò, ma in sottofondo si continuava a udire un basso gemito di tristezza, attutito ma non spento.

Il caprone e il cervo levarono il capo verso il cielo notturno, sporgendo le fronti cornute al di sopra dei bambini sulla tavola di pietra. Il silenzio, eccetto che per il fioco lamento delle donne e il tremulo crepitio delle fiamme, era assoluto. Nere nubi si muovevano, senza cambiare aspetto, al seguito dell’esile falce della luna, silenziose nel vento che soffiava lassù, molto in alto al di sopra del luogo del sacrificio.

Con un urlo, secco come un colpo di tosse, l’uomo con il coltello tagliò un ramo del giovane sempreverde, poi un altro, e un altro ancora, mentre i teneri aghi scendevano lievi fino al suolo. A ogni ramo che cadeva, il lamento tornava a farsi più intenso, finché l’alberello non fu del tutto spoglio e il canto delle donne divenne un grido che gremiva la notte dalla terra al cielo. Il coltello si levò sui bambini. Si abbatté su di loro, fulmineo, e Jen lanciò un grido che non poté soverchiare il canto di dolore sempre più possente che saliva al cielo dagli uomini e dalle donne nella prateria. Gli uomini travestiti da animali avevano circondato la tavola di pietra, i bambini non si vedevano più. E le fiamme declinavano e guizzavano, rosse e arancioni, tingendo di bagliori color del sangue i profili in movimento di quelle teste animalesche.

Poi alcuni degli uomini-animali si caricarono i due corpi sulle spalle. La gente, in silenzio, seguì i portatori nelle tenebre attraverso la prateria. Le braci rosseggianti continuarono ad ardere intorno alla tavola di pietra.

Arn e Jen rimasero accovacciati l’uno accanto all’altra al riparo del bordo frastagliato della piattaforma di roccia. Una fredda foschia si muoveva intorno a loro, coprendo di umidità i loro volti e le grandi pietre. Restavano in silenzio, guardandosi al fioco chiarore delle braci diffuso dalla foschia, e si sentivano piccoli e sperduti. “I bambini...” sussurrò Jen. “I bambini...”

Arn non riusciva a chiarire a sé stesso quel che provava. Quella era gente, erano persone come lui... Che cosa avevano fatto ai due bambini? Non lo capiva, eppure doveva capirlo. Sembrava che fossero passati dei secoli da quando li aveva visti tremare atterriti, e tuttavia era come se fossero ancora lì con lui. Era il ricordo della loro acquiescenza a farlo dubitare della sua capacità di comprensione, a rendere così cupi e dolorosi i suoi sentimenti. Ciò che era accaduto non gli era parso del tutto cattivo, ma d’altra parte come poteva non esserlo? Anche lui aveva ucciso, messo fine all’esistenza di altri esseri, tratto alla luce con l’affilata lama del suo coltello le parti più recondite degli animali, quelle in cui risiede la vita. Li aveva uccisi e mangiati. Ma anche lui era un animale, un essere vivente e senziente, e anche Jen lo era. Potevano morire entrambi con la stessa facilità con cui egli aveva ucciso altre creature. Cosa che invece non era altrettanto facile per quella gente. Al punto che avevano dovuto sacrificare due dei loro stessi figli per dimostrare la propria affinità con gli animali che in quella notte tenebrosa avevano finto di essere e il proprio diritto di sottrarre loro le pellicce e la carne. Ma questo non era giusto. Quel ragazzo coraggioso, quella bambina coraggiosa e atterrita, disposti entrambi a morire... Una profonda sofferenza si enfiava come un tumore nel petto di Arn da quei sentimenti che non riusciva a capire.

Jen rivedeva il volto del ragazzo, sul quale non era apparso alcun segno di paura. Ne ammirava la spavalderia, ma al contempo avrebbe voluto gridare che era sbagliata, che era tutto sbagliato. E la bambina... Ah, se l’avesse conosciuta, se avesse potuto averla come amica!... Ma proprio dell’averla perduta si sentiva responsabile, come se anche lei, Jen, avesse avuto qualcosa a che fare con il rito al quale aveva solo assistito. La bambina non aveva gridato che non era giusto. Le donne si erano lamentate, ma nessuna aveva tentato di impedire il sacrificio. E questo fallimento, in qualche modo, sembrava essere anche di Jen. E poi c’era Oky, il cui essere al mondo, o almeno in questa valle, sembrava ora assai meno certo, come se quella che Jen aveva visto uccidere dai lupi fosse proprio lei, Oky, e la sua morte molto più naturale e ineluttabile di quelle a cui aveva appena assistito, inflitte dalla sua stessa specie a una parte di sé.

 

*

 

Torna all’inizio

Torna all’indice generale dell’opera

 

*

 

Capitolo Decimo

 

Il Vecchio Zannastorta

 

La nebbia, pur così umida e fastidiosa, rese la notte meno fredda della precedente. Le temperature della valle, a causa probabilmente del lago caldo, sembravano differire di un’intera stagione da quelle del mondo esterno.

Arn condusse Jen, che continuava a singhiozzare e tremare, fino al posticino riparato che avevano scoperto fra le radici del grande albero. Non osò accendere un fuoco, perciò si sdraiarono l’uno accanto all’altra per scaldarsi a vicenda e chiusero gli occhi.

Sembrò che passasse chissà quanto tempo prima che riuscissero ad addormentarsi, ma in realtà non ci volle più di qualche minuto. Poi, un po’ prima dell’alba, furono a poco a poco dolcemente catturati da un sogno in cui c’era una voce che parlava loro in tono tranquillo e inespressivo, né affabile né brutale. Erano molto in alto, la prateria si stendeva ai loro piedi, e una trentina di metri più in basso l’erba si muoveva al rollio del vento, un’onda dopo l’altra, cangiando dal verde all’oro, piegandosi al calore del sole. Morbide braccia verdi cullavano i due bambini, e nel sogno la cosa non aveva nulla di strano. “Ciò che avete visto e vedete e vedrete è tutto vero...” diceva la voce. E benché non parlasse la loro lingua, essi la capivano e non lo trovavano strano.

“La gente se ne andò, dopo che ebbe compreso ciò che aveva fatto...” frusciò la voce nello stormire del vento.

Sia Jen che Arn, senza parlare, domandarono che cosa la gente avesse fatto.

“Erano cambiati dentro, nel profondo dei cuori,” disse la voce. “Erano arrivati a credere che la valle e tutte le sue creature appartenessero a loro.”

Io non l’avrei mai fatto, pensarono sia Jen che Arn.

Forti e delicate, le verdi braccia cingevano i loro corpi.

“Fuori, nel mondo, dimenticarono ciò che avevano fatto e si allontanarono gli uni dagli altri. Non ricordarono più nulla.”

Se n’era andata tutta, l’Antica Gente?

“Il mondo è spietato, ma non è crudele. Tutto ciò che vive deve morire. È la legge del cambiamento, la stessa legge che vi ha dato alla luce e a quel tanto di gioia che vi è toccato in sorte.”

Noi vogliamo andare a casa.

“Tutto ciò che vi sarà dato è la conoscenza.”

Ma noi vogliamo andare a casa.

“Imprigionarono le creature viventi nei recinti, le nutrirono e si guadagnarono la loro fiducia, ma solo per poi tradirle. Altre creature le cambiarono a poco a poco, una generazione dopo l’altra, finché il loro solo desiderio fu quello di uccidersi ed estinguersi. Della natura fecero un mattatoio. Divennero peggiori del loro peggior timore.”

A casa. Vogliamo andare a casa.

Le verdi braccia che li sorreggevano si dissolsero insieme alla voce, si mutarono in una sensazione di gelo che scaturiva dall’umidità e dal grigiore della roccia e degli aghi di pino su cui giacevano. Ebbero freddo, e si svegliarono pieni di rabbia per tutte quelle privazioni, furibondi, ma senza poter prendersela con nessuno. Jen si accorse di avere il broncio. Arn sentì che ne aveva avuto abbastanza di tutto. Non avrebbe dovuto seguire Jen, in primo luogo. Si mise sulle ginocchia, scrollandosi di dosso il suo antico senso di responsabilità. Doveva tirarsi fuori da lì. Doveva alzarsi e guardarsi intorno, essere astuto, nascondersi, fuggire. Stava giusto spuntando l’alba.

Quando si alzò cautamente per scrutare nella nebbia, Jen lo osservò. Si muoveva lento, silenzioso come un cacciatore, lo sguardo vigile e freddo. Così immobile, mentre guardava fuori nella nebbia, che lo si sarebbe potuto prendere per una statua. I suoi occhi erano dei puri e semplici strumenti, come quelli di un uccello. Le ricordò il babbo quando nei boschi s’immobilizzava di colpo, lo sguardo attento, in ascolto. Era come se non esistesse più, in quei momenti, il babbo: come se non fosse più una persona, ma solo degli occhi che scrutavano. E Arn, adesso, nella sua immobilità ― più che il fratello che Jen conosceva, che le aveva salvato la vita quando stava per morire congelata, le aveva fabbricato un riparo e aveva acceso un fuoco per scaldarla ― sembrava egli stesso parte dell’orrore a cui avevano assistito insieme la sera prima.

Calandosi da una pietra all’altra, Arn scese dal bordo della piattaforma di roccia verso l’umida pianura erbosa.

“No, Arn!” lo chiamò Jen. “Torna indietro!” Ma ad Arn parve già così lontana da lui, e la sua voce così flebile e ridotta a un sussurro, che egli a malapena la udì.

Le sentinelle di pietre erano delle pallide sagome che affioravano dalla prateria. Non appena lasciò il pianoro, Arn si sentì come se si stesse lasciando alle spalle la terraferma fluttuando sulla superficie di un grande lago. Foschia e nebbia lo avvolsero, a mano a mano che il pianoro si allontanava, mentre la figura di pietra verso la quale si dirigeva divenne via via più concreta. Il suo colore grigio-nebbia si fece più scuro, i contorni più precisi. Crebbe in altezza e in larghezza. Nonostante la sua immobilità era come se gli facesse cenno di avvicinarsi, ma lui non era del tutto certo di voler farlo. Alla sinistra e alla destra di essa, in un ampio cerchio, le altre sentinelle svanivano nella nebbia. Si era messo in cammino verso di quella, e proprio quella voleva andare a esaminare. Voleva andar dritto su di essa e osservarla proprio là dove essa incombeva, antica e imperscrutabile, nel chiarore dell’alba. Pareva che anche lei si avvicinasse a lui, mentre camminava alla sua volta. Ora si accorgeva che era diversa dalle altre sentinelle di pietra. Non era squadrata, all’altezza delle spalle, ma aveva una testa. C’erano degli occhi che lo guardavano, scavati in quella testa di pietra? Se così era, egli non voleva incrociare il loro gelido sguardo e nonostante ciò continuava ad avvicinarsi. E in quel momento, con un brivido di paura, si accorse che quella sentinella non era fatta solo di pietra. Sulle sue spalle di granito c’era una testa di cinghiale, gli occhi iniettati di sangue pieni di cispa e semi-decomposti. La lingua raggrinzita penzolava da un lato uscendo dalle zanne giallastre, e lungo le labbra, nere ed enfiate, luccicavano viscidi i vermi. Il gelido fetore della carogna lo raggiunse all’improvviso, costringendolo a fare dietro-front e a tornare di corsa da Jen.

“Che cosa c’è?” ella domandò.

“Dobbiamo restare insieme,” rispose lui.

Si sedettero l’uno accanto all’altra sugli aghi sui quali avevano dormito. “Dobbiamo tornarcene a casa,” disse Arn.

“Ho fatto un sogno,” disse Jen, guardando in sù tra i rami dell’albero, così in alto che le sembrò di sconfinare in un altro mondo dove tutto era grigio e verde.

“Anchio!” disse Arn. “Cera una voce...”

E allora udirono una voce - la voce incrinata e stridula di un vecchio - e guardandosi intorno scorsero un curvo e ossuto vecchietto che guardava loro e rideva, annuendo e tentennando la vecchia faccia nodosa. Radi capelli grigi fluivano lungo le sue orecchie, e la sua bocca era nera, quando era aperta: tutta nera eccetto che per un solo dente da un lato, storto e giallastro. Balzarono in piedi, impauriti, ma il vecchio scosse la testa e per rassicurarli gli mostrò le mani rugose, come per dir loro: “Sù, sù, come potrei farvi del male?” Allora la paura si attenuò, ed essi notarono che la sua tunica di pelle di daino era cenciosa e sdrucita in più punti, e i calzoni, anch’essi di pelle di daino, macchiati di grasso e sporchi, e lucidi sulle ginocchia. La sua schiena era così piegata che lì per lì si aveva limpressione che la testa gli sbucasse dal petto. Perfino per guardare in giù, verso di loro, sembrava costretto ad alzarla. Si appoggiava a un piccolo arco contorto e senza corda, e dalla cintola gli pendeva una faretra di frecce, alcune delle quali prive di piume.

Ma i suoi occhi erano luminosi, e le rughe che da essi s’irradiavano erano amichevoli.

Parlò loro in una strana lingua che all’inizio suonava dura, stridula, quasi tutte le parole smangiucchiate e gutturali, e alcune altre protratte e melodiose, invece, come le parole di una canzone.

Arn si sedette di nuovo e incrociò le gambe, e lo stesso fece Jen. Il vecchio depose l’arco, spinse la faretra di cuoio da un lato della cintura e si sedette anche lui a gambe incrociate di fronte a loro.

“Ah nee ah, no ah nee,” disse. E quando Arn e Jen scossero il capo, levò alte le vecchie mani e ne trasse immagini e racconti - proprio, si sarebbe detto, come aveva fatto tanto tempo prima la vecchia signora quando ancora se ne stava seduta sulla sua panca vicino al focolare di casa loro.

Arn rispose anche lui con le mani, e disse che loro erano Arn e Jen indicando sé stesso e la bambina mentre pronunciava con chiarezza e ad alta voce i loro nomi.

“Arn e Jen nee ah,” disse il vecchio, annuendo.

“Jen nee ah,” disse Jen.

Il vecchio sorrise, compiaciuto, ma fece segno di no: “Jen ah nee,” disse, puntando il dito verso di lei.

“Jen ah nee,” ella disse, ed egli annuì con un così gran sorriso che la parte inferiore della sua faccia si accorciò e si allargò.

“Ganonoot ah nee,” disse, indicandosi il petto e poi quel suo unico dente così lungo e giallo.

Snaggletooth1,” disse Arn.

“Ganonoot,” disse il vecchio con un sorriso, indicandosi orgogliosamente il dente.

Arn, sempre nella lingua dei gesti, gli domandò come si chiamasse quella valle, e se egli fosse dellAntica Gente. E muovendo le mani pronunciava le parole anche ad alta voce, in modo che Jen potesse comprenderle, e Jen si sorprese a muovere anche lei le proprie seguendo quelle di Arn, e imparando ogni parola nel momento in cui le dava forma.

E il vecchio, rispondendo con le mani, al contempo pronunciava le parole nella sua lingua:

“Nee a no notomanay... Questo è il mondo,” disse. “Perché, voi siete stati da qualche altra parte? Sì, senza dubbio sono vecchio, io!”

Arn e Jen si accorsero che stavano apprendendo ogni parola di quella nuova lingua nel momento stesso in cui la udivano, e che perfino il suo ritmo stava a mano a mano diventando sempre più significativo dentro di loro.

“Ma noi abbiamo sentito tante di quelle storie sullAntica Gente, e su Tsuga Va-troppo-lontano, e sulla Porta Nera...” disse Arn.

Per un momento gli occhi di Zannastorta si fissarono dritti dritti in quelli di Arn. Poi il vecchio sorrise, ridacchiò, le sue vuote gengive schioccarono luna sullaltra, ed egli disse loro che era così vecchio, ormai, che tutto ciò che poteva fare era raccontare storie. Il suo arco, che una volta tirava a cento passi di distanza, adesso era malandato come la sua schiena, e le sue frecce erano piegate, e il loro impennaggio era a brandelli.

“E solo le vecchie storie, eh?” disse. “Perché di queste storie nuove non ci si può mica fidare del tutto. Si può stare a sentirle, questo sì, ma non ci si può mica credere come si credeva alle storie di una volta... E poi non le conosco, io, le storie di adesso, e non me nimporta niente se non me le ricordo. Se le possono anche tenere, le storie di adesso, per quel che me nimporta a me!”

Sembrava che fosse lì lì per dar di fuori, e Jen gli diede un colpetto su un braccio per rabbonirlo.

“Sono affamato,” disse il vecchio. Una lacrima intraprese un complicato percorso in discesa lungo il suo naso, si infilò in una ruga che scorreva accanto alla bocca, raggiunse il centro del mento e lì si fermò.

“Anche noi,” disse Arn. “Abbiamo mangiato un po di porcospino laltro ieri sera, ma durante la notte una lince si è rubata quel che ne era avanzato.”

“E delle trote ieri mattina,” disse Jen.

“E nientaltro?” domandò Zannastorta. “Ma la vostra gente vi lascia senza mangiare?” Si rimise in piedi faticosamente appoggiandosi al suo arco, la cui funzione da vecchio sembrava ormai più quella di un bastone da passeggio che di unarma. “Pensavo,” disse con voce lamentosa, “che aveste nello zaino qualche pezzetto di pane o di focaccia davena, o magari un po di carne di cervo affumicata, o qualche mela avvizzita, o almeno qualche pezzo di stupido manzo, o un po di carne secca.”

“Niente,” disse Arn. “Soltanto delle polverine per il tè.” E lui e Jen si scambiarono unocchiata sbigottita, accorgendosi di quanto il vecchio fosse come un bambino piccolo.

“Bene!” disse Zannastorta. “Sono solo un vecchio, è chiaro, e non merito lo stesso rispetto degli altri. Ho perso gli ultimi due denti, non ho potuto più mangiare ed è stata la fine, per me. E le storie di una volta se le possono pure scordare, per quel che me nimporta a me!” E i suoi occhi si riempirono di lacrime, e ciascuna trovò il suo percorso lungo le sue rughe.

 

Continua... a mano a mano che la traduzione va avanti!

 

_____________________________________________________________________________________

1. Snaggletooth, che si può grosso modo tradurre come Zannastorta, è ovviamente la scherzosa contraffazione di Ganonoot, ma il gesto del vecchio fa pensare che potrebbe anche essere una sua corretta traduzione!... Torna al testo.

 

*

 

Torna all’inizio

Torna all’indice generale dell’opera

 

 

 

Home

 

*