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Arn
trasse una lunga nota dal fischietto di salice e se lo strofinò addosso per
asciugarlo. L’aria si era fatta più fredda, da quando il sole era tornato
dietro le montagne, e la saliva tendeva a congelarsi dentro il fischietto
riducendone il suono a uno squittio da topolino. Non aveva più trovato né
tracce né impronte che potessero essere di Jen o di Oky. Su
qualche pozzanghera gelata aveva scorto delle impronte di cervo, delle orme
simili a quelle dei cani (che dovevano essere di lupo) e larghe impronte
profonde che gli erano sembrate di maiali. Aveva udito il verso di un cinghiale, ma non
l’aveva visto. L’idea dei lupi e dei cinghiali lo aveva fatto rabbrividire,
rendendolo più prudente. Da quel momento aveva fatto attenzione agli alberi su
cui
si sarebbe potuto arrampicare in caso di emergenza, e nell’attraversare i
boschi era andato da un albero all’altro.
Adesso
era sulla riva del torrente e guardava la prateria al di là di esso, provando
sollievo nel constatare che era una vera prateria e non un pantano. C’erano
alcuni cervi che brucavano, in lontananza, ai piedi di un alto sempreverde.
Quando soffiò di nuovo nel fischietto guardarono in alto, immobilizzandosi.
Poi, dopo una lunga occhiata, si rimisero a brucare. Arn scrutò con
attenzione tutta la prateria, tutto ciò che poteva scorgere di essa, ma non vide alcuna traccia di Jen o di Oky.
Trovare
un guado gli richiese un po’ di tempo. Seguendo la corrente, alla fine giunse
in un punto dove il torrente si riversava dentro una stretta e profonda
fenditura della roccia. La superò con un balzo, facendo attenzione a non
scivolare sul ghiaccio che il vapore acqueo aveva formato intorno a essa. Scivolò,
quando mise i piedi sulla roccia dall’altra parte, ma fu lesto a buttarsi
carponi e riuscì a tenersi.
Presto
sarebbe stato buio. Arn fischiò e chiamò ancora Jen mentre si addentrava nella
prateria. Se fosse riuscito ad arrivare all’altura ai piedi del grande
sempreverde prima che facesse buio, di là avrebbe potuto guardare più
lontano; ma era stanco, e indebolito dalla fame, e l’altura sembrava così
lontana...
Poi,
da est, gli giunse uno strano grido. All’inizio, prima di fermarsi ad
ascoltare, Arn lo prese per il debole richiamo di un uccello notturno. Ma il
grido si ripeté più di una volta, ed egli si domandò quale uccello potesse far
suonare il suo richiamo in un così gelido crepuscolo. Poteva essere un’oca, se tutte le oche non se ne fossero andate al sud già
da un pezzo... No, c’era dell’urgenza in quel grido, c’era
disperazione...
E allora, come se dopo tutto non avesse davvero creduto di riuscire a ritrovare
Jen e ora non potesse dunque credere alla strana idea che gli stava venendo,
egli si domandò quasi con terrore se quella potesse essere la voce di Jen, e se
il grido, quel bizzarro doppio suono, potesse essere la doppia sillaba del
nome Oky.
Era
cessato, ora, ma prima di muoversi nella direzione da cui era venuto, Arn prese
come punto di riferimento un albero che svettava più alto degli altri laggiù a
est, fra la prateria e il limitare della foresta. Il grido era sembrato venire
proprio di là, e anche se la notte fosse calata prima che egli vi arrivasse,
avrebbe sempre potuto scorgere la cima di quell’albero contro lo sfondo più
chiaro del cielo.
Quando
fu vicino al margine orientale della prateria, la foresta sembrò ergersi su di
lui come una nera muraglia. Poco più avanti, per terra, c’era una specie di
fagotto grigiastro che poteva essere un animale o una roccia. “Jen?” chiamò,
ma la cosa non rispose e non si mosse. Con prudenza le si fece più
vicino, poi ancora più vicino, finché non cominciò a distinguerne la figura.
Qui un braccio, inargentato di brina, più in là una gamba, uno scarponcino...
Era Jen. Arn cadde in ginocchio accanto a lei e tastò la sua faccia, che era
fredda come il vetro. Quando la rivoltò fu come rigirare un pezzo di legno, per
come era imballata nei suoi abiti congelati. Ma respirava, anche se molto
debolmente. Nello stesso momento, egli si rese conto che doveva essere caduta
nel torrente e che ben presto sarebbe morta, se lui non fosse riuscito ad
accendere un bel fuoco e ad allestire un qualche riparo contro il vento
notturno. La bambina era sull’orlo della morte, adesso, così vicina alla
morte che egli fu quasi sul punto di invocare l’aiuto del babbo. Voleva
chiamarlo. Il babbo avrebbe saputo cosa fare. Papà! Papà!: poteva
sentirla formarsi sulle sue labbra, quella parola.
Ma
poi si ricordò che non c’era nessun altro, lì, e che da solo doveva tentare
di salvare la vita della sorellina. Nessuno poteva aiutarlo o dirgli che cosa
fare.
Per
prima cosa la prese per le braccia e la trascinò verso il bosco, dove sarebbe
stata al riparo dal vento e dal freddo che si stava facendo sempre più intenso
a mano a mano che la luce svaniva. Jen era appesantita dal ghiaccio che aveva
nei vestiti, ma alla fine riuscì a portarla sotto gli alberi, vicino a un alto
pino e a un altro caduto, che insieme fornivano una qualche protezione dal
vento. Era ancora più buio, nel bosco, ma cercando a tentoni fra i rami
bassi degli alberi ne trovò di secchi e fragili e ne divelse un bel po’, che
una bracciata dopo l’altra portò dove la bambina giaceva appoggiata al pino
abbattuto dal vento. Sul limitare della prateria raccolse una bracciata di
fieno secco. Tastando il terreno davanti a Jen e liberandolo a calci dall’humus
e dai ramoscelli marci, fece spazio per il fuoco e vi sbriciolò l’erba
secca fino a farne un piccolo cumulo. Prese dallo zaino la pietra focaia e la
scatola contenente l’esca: legno tagliato in lamine, fatto seccare con ogni
cura e in parte polverizzato, che avrebbe dovuto accendersi alla prima
scintilla. Brancolando nel buio, ne sistemò una parte sul fieno meglio che
poté, vi tenne sopra la pietra focaia ― un frastagliato pezzo di selce
― e la colpì con forza col dorso della lama del suo coltello. Piccole
scintille caddero da ogni parte, tracciarono archi nel buio, crepitarono e
si spensero, ma nessuna raggiunse l’esca.
Continuò
a tentare. Forse l’aria fredda e la brina avevano bagnato ogni cosa più di quanto
pensava. Le sue mani, fuori dai guanti, erano sempre più intorpidite e goffe,
ma continuò a colpire la pietra focaia producendo piccole scintille che
morivano troppo in fretta. Alla fine, però, dopo cento tentativi, due scintille
caddero insieme sull’esca e ne trassero un’esile fiammella, non più spessa
d’una capocchia di spillo. Arn trattenne il respiro, sapendo che finché non
fosse cresciuta e non avesse preso un po’ di colore, il più lieve colpo di
vento avrebbe potuto spegnerla. Ma essa crebbe, dando perfino una debole luce
che gli permise di vederci abbastanza per poter offrirle con molta, molta
circospezione uno stelo di fieno. Prendilo, per favore, pregò. Accetta
questa umile offerta, piccola fiamma, e non ci lasciare. E la fiammella
crebbe fino a un altezza di circa tre centimetri, recando sul capino un
minuscolo, prillante fil di fumo. Deve crescere. Deve. Con cautela
Arn la nutrì con dell’altro fieno ― non troppo per volta, o l’avrebbe
soffocata. Doveva alimentarla quanto bastava, non troppo, solo quanto bastava
a farle prendere calore e confidenza. Cominciava a sentirne il tepore sulle dita
initirizzite, adesso; presto crebbe abbastanza per pensare di porgerle qualche
ramoscello, poi dei ramoscelli un po’ più grossi che egli sistemò sopra di
essa a mo’ di tepee. E poi dei veri rami, mentre l’allegro e
famelico splendore delle fiamme cresceva fino ad accendere un caldo alone di
luce, nel bosco, fra gli alti alberi neri e opprimenti.
Ma
dovevano essere più alte di così, per scongelare gli abiti di Jen e per
asciugarli. Dovevano ruggire e bruciacchiare gli alberi. Dovevano essere così
forti da scuotere e far tremare i rami con il calore che da esse si levava.
Raccolse
altri rami, spezzando quelli che erano abbastanza secchi ed esili per essere
divelti e usando il coltello come un’ascia per squarciare i più grossi fino a
poter tagliarli, e finalmente ottenne un fuoco che ruggiva all’altezza della
sua testa. Alcuni grossi rami dell’albero caduto si erano staccati, ed egli li
trascinò intorno finché le estremità più grosse non andarono a finire tra le
fiamme. Poi fece un’alta catasta di tutta la legna che poté trovare, in
modo da avere di che alimentare il fuoco durante la notte.
Jen
era sdraiata contro il tronco caduto e respirava ancora; i suoi occhi erano
chiusi. Lo strato di ghiaccio sul suo giaccone e sui pantaloni si era sciolto, e
Arn poté cominciare a muoverle le braccia e le gambe attraverso la stoffa
gelata. Le tolse i guanti, poi le briglie che aveva a tracolla, e che
scricchiolarono per il ghiaccio che le ricopriva, poi il cappuccio, e finalmente
riuscì ad aprirle il giaccone. Era rivolta verso il fuoco e ne riceveva il
calore, ed egli si mise a fabbricare un riparo.
Si
addentrò nella foresta buia finché non trovò un boschetto di abeti del
balsamo, tagliò i rami più bassi di quel legno verde e aromatico e ne
riportò una bracciata all’albero caduto. Intrecciandoli con dei rami secchi,
appoggiati al pino caduto vicino al quale era sdraiata Jen e a quello ancora in
piedi, ottenne un riparo sporgente, chiuso ai lati e dietro e aperto davanti
dalla parte del fuoco. Si era riscaldato a meraviglia, facendo tutto quel
lavoro, perciò era ora di togliere a Jen i vestiti bagnati e metterle il suo
giaccone. Per prima cosa prese dallo zaino i quaranta piedi di spago di canapa
e ne tese un tratto fra due alberi a mo’ di stenditoio, dall’altra parte del
fuoco, poi tornò da Jen, che adesso aveva cominciato a borbottare fra sé, le
tolse i vestiti e l’avvolse con il proprio giaccone. Gli parve così piccola e
fragile, quando le sfilò i pantaloni bagnati! Le manine e i piedini erano
ancora freddi come il ghiaccio, ma il fuoco glieli avrebbe scaldati. Appese gli abiti allo stenditoio, dove
subito li vide cominciare a emettere bianche
volute di vapore che s’innalzavano fra gli alberi incombenti.
Quando
gli abiti furono asciutti, Arn trovò un masso dalla superficie piatta, lo fece
rotolare su un fianco fino al fuoco, tornò al torrente nell’oscurità
― guidato dal suo scroscio, che sovrastò il crepitio del fuoco non
appena egli uscì dal suo cerchio di luce ― e riempì d’acqua il
pentolino di ferro. Poi tornò al fuoco e mise il pentolino sul masso, a
contatto con le fiamme. Dopo di che, tutto ciò che poté fare fu aggiungere
dell’altra legna, prendersi cura del fuoco e sperare che il suo calore
penetrasse sotto la pelle e nel sangue di Jen e la riportasse in vita. E ogni
volta che tornava dalle tenebre con un carico di legna, fermarsi a sentirle
le manine e i piedini.
Finché,
a un certo punto, tornando con una bracciata di rami secchi di pino per la
catasta,
egli si accorse che la sorellina si stava svegliando. Quando i suoi occhi
azzurri si aprirono, sembrarono ciechi. E il suo viso era sempre pallido, ma
risplendeva alla luce delle fiamme come se la luce venisse da dentro di lei,
come se a brillare debolmente fosse proprio il suo tondo visetto di bambina.
Rotondi erano anche i suoi occhi, del resto, che per un attimo contemplarono
il fratello senza riconoscerlo e poi, quando ella capì chi stava guardando, si
spalancarono riempiendosi di lacrime luccicanti.
“Arn!
Arn!” disse.
Arn
si sentì così stanco, a un tratto, che dovette sedersi sui rami di balsamo che
aveva sparso sul fondo del riparo. Poi Jen smise di piangere. Cercava di
muovere le dita, di stropicciarsi le mani al calore del fuoco.
“Arn,
ho così freddo...” disse. “Ma tu mi hai trovato.”
“Ti
ho sentito chiamare.”
“Eri
dietro di me!”
“Be’,
certo,” replicò lui. Prese dallo zaino il pezzo di focaccia rafferma e glielo
porse. “Non ti scalderai come si deve, se non mangi qualcosa.”
Lei
la prese e ne morse un pezzo. “Ma anche tu sei debole,” disse. “Te lo dico
io, Arn. Scommetto che non hai mangiato nulla. Te lo dico io.”
“Dobbiamo
trovare alla svelta qualcosa da mangiare,” rispose lui. La osservò mentre
divorava
la focaccia. Gli venne l’acquolina in bocca e sentì lo stomaco muoversi e
restringersi
dentro di lui, bramando il cibo così violentemente che sembrava che si stesse
lamentando a gran voce. Chiuse gli occhi, allora, per non vedere la sorellina
che mangiava, ma proprio in quel momento lei gli premette l’ultimo pezzo di
focaccia contro le labbra. La volontà di lui diceva di no, ma la sua bocca
non poté fare a meno di aprirsi e di prenderlo. Aveva il sapore stesso della
vita, ma era piccolo come quello che Jen aveva mangiato, e non gli servì a
granché.
L’acqua
nel pentolino stava fumando; Arn ci mise un po’ della polverina
contenuta
nella scatoletta di corteccia di betulla e poco dopo si bevvero un tè caldo,
badando a tenere il pentolino per il manico e a bere dalla parte che non era
stata a contatto con la fiamma. Subito si sentirono più svegli, ma se possibile
anche più affamati. Arn si rese conto che doveva trovare del cibo. Erano
settimane che non mangiavano abbastanza, ed erano entrambi troppo magri. Gli
ossicini di Jen, ai polsi, davano l’impressione di poter bucarle la pelle da
un momento all’altro. E a lui, quando volse la testa per controllare il
fuoco e vedere se gli abiti di Jen erano asciutti, per la debolezza gli vennero
le vertigini e dovette appoggiare la testa fra le ginocchia per non svenire.
Si
raccontarono a vicenda che cosa era loro capitato dalla notte in cui Jen se
n’era andata di casa. “Dovevo trovare Oky, Arn. Dovevo proprio!” disse
la bambina, già sul punto di scoppiare in lacrime di nuovo.
“Non
ti preoccupare,” le rispose lui. “Ciò che è fatto è fatto.”
“E
credo anche di averla vista, subito prima di cadere nel torrente. Era là, da
qualche parte, vicino a un grande albero insieme a dei cervi. Sono sicura di
aver visto la macchia bianca che ha sul collo.”
“Non
hai sentito il mio fischietto?”
“Una
volta, penso di sì, ma non ho capito che cos’era.”
“Dobbiamo
riuscire a trovare del cibo,” disse lui.
“Per
un po’ mi è sembrato che mi stessi abituando ad aver fame,” disse Jen.
“Ma ora non più. Mi fanno male i denti, per la fame che ho.”
Teneva
il pentolino fra le mani per riscaldarle.
“Stiamo
morendo di fame,” disse lui. Malgrado il fuoco, stava addirittura tremando, per il freddo
improvviso.
A
un tratto udirono un rumore che non veniva dal falò. Era un suono stridulo,
come
di artigli che graffiano, e proveniva da una giovane betulla gialla raggiunta
dal riverbero del fuoco. Lo sguardo di Arn risalì l’alberello, ando sù,
lungo la corteccia dorata che brillava alla luce del falò, e arrivò a una
tozza forma nera che sembrava una grossa protuberanza del tronco. Lo stridore
veniva di là. Era un porcospino, e si stava calando giù dall’albero con la
cauta e ponderata lentezza dalla quale i porcospini non si discostano mai,
accada quel che accada.
Cibo.
Ecco del cibo che veniva donato loro. Secondo le leggende, l’Antica Gente si
nutriva di porcospini, quando era affamata e non aveva da mangiare. Chiamavano
il porcospino “il cibo degli avi.” Chiunque poteva acchiapparli, perché
non avevano altra difesa che i lunghi aculei e non si davano mai la pena di
andar troppo di fretta.
Arn
si alzò e tirò fuori un bastone dalla catasta. Il porcospino continuava a
scendere, graffiando la corteccia con le unghie, avvicinandosi lentamente al
suolo. Quando fu sceso fino all’altezza della testa di Arn, si fermò e volse
verso di lui il piccolo muso dai neri occhietti consapevoli. Gli aculei si
rizzarono lungo la sua schiena come altrettante lance di un nero brillante,
con delle bande bianche.
“Scusami,
porcospino,” disse Arn. Non aveva mai detto niente del genere, prima di quella
volta, e non capiva perché l’avesse detto. E poi andò avanti, udendo le
proprie parole ma senza sapere da dove gli venissero: “Ho bisogno del tuo
grasso e della tua carne. Niente di te andrà sprecato.”
Colpì
il porcospino sulla punta del suo naso nero con tutta la forza che poté, ed
esso precipitò a terra con un tonfo, rimbalzò e fu percorso da un tremito.
Alcuni degli aculei si conficcarono nel terreno e vi furono trattenuti dalle
loro punte uncinate. Giacque supino ― morto, ora ― mostrando la
soffice pelliccetta ventrale grigio-scura.
Jen
aveva assistito senza emettere un suono. Anche lei aveva udito il porcospino, e
anzi era stata la prima a vederlo scendere dall’albero. Aveva percepito la sua
silenziosa decisione di lasciare la betulla, della cui grassa corteccia interna
si era cibato. Era sazio, e non sapeva che cosa fosse il fuoco; protetto dai
suoi aculei, era sceso. Jen l’aveva sentito allarmarsi, alla vista del
bambino col bastone, e poi rassegnarsi.
Adesso
Arn stava lavorando su di lui con il coltello, tagliandone il ventre morbido a
partire dal centro, scuoiandolo in modo che la pelle venisse via rivoltandosi e
coprendo gli aculei. Un aculeo gli si conficcò nel polso, ma lui non fece
altro che tirarselo fuori dritto dritto, stando ben attento a non spezzarlo.
Mise il fegato e il cuore dell’animale sulla pietra piatta vicino al fuoco,
separò dalla carne lo strato di grasso giallo e ne mise alcuni pezzi nel
pentolino di ferro, poi divise la testa nuda del porcospino dal resto del corpo.
Stava producendo del cibo. Aveva un’aria esperta e indaffarata, da persona
che sa con esattezza quel che sta facendo. Si allontanò dalla luce del fuoco
per un po’ e ritornò con dei lunghi rami verdi di acero. Due di essi erano
biforcuti, ed egli li scorciò, li appuntì e li conficcò nel terreno da una
parte e dall’altra del fuoco. Un altro ramo, più lungo e sottile, lo appuntì
solo da una parte e lo fece scorrere dentro il corpo dell’animale ripulito
delle interiora, poi tagliò un pezzo di spago e legò il porcospino al ramo,
che sistemò sulle forcelle in modo che la carne arrostisse al fuoco. Un altro
bastone, dopo che vi ebbe praticato una tacca, lo sistemò al di sopra del
fuoco e vi appese il pentolino con il grasso, che cominciò a friggere
sibilando. Poi, con una bacchetta più sottile, infilzò il fegato e il cuore e
li mise a cuocere insieme al resto.
Ben
presto fegato e cuore furono pronti, e Arn li lasciò raffreddare per qualche
istante e li porse alla sorellina. Lei dapprima si era domandata se ci sarebbe
riuscita, a mangiare quella carne, ma ora il suo corpo le stava facendo
chiaramente capire che non poteva farne a meno, che era la sua stessa vita ciò
che il fratello le stava offrendo. Arn divise in due parti sia il fegato che il
cuore e le fece prendere la metà di ciascuno. E Jen, mangiando, sentiva di
riacquistare calore ed energia. Quel cibo era buono al di là di qualsiasi
concetto di preferenza o di gusto, buono al di là della bontà stessa.
Dopo
un po’, Arn girò la carne che si stava arrostendo sullo spiedo e versò su di
essa del grasso fuso. Alcune gocce di grasso caddero sul fuoco dalla
carne rosso-scura e bruciarono sprigionando delle scintille arancioni. Arn aveva
lasciato affievolire il fuoco, che rosseggiava tra la brace, ma ora vi
aggiunse un po’ di legna da una parte, quel che bastava e non di più, in modo
che la carne si rosolasse senza bruciare. Girò lo spiedo, cosparse la carne
di grasso e di tanto in tanto la saggiò con la punta del coltello. Infine,
quando gli parve che fosse pronta, la levò dalle forcelle, l’appoggiò con
tutto lo spiedo vicino al fuoco, ne tagliò un fianco per ciascuno e servì alla
sorellina il suo pezzo infilzato su una bacchetta. Poi mangiarono quella carne
scura, non senza prima ringraziare entrambi il porcospino per la forza che stava loro
elargendo.
Lo
stato d’animo di Jen a poco a poco cambiò, grazie a quel dono generoso, ed
ella ritrovò la fiducia e la speranza. Smise di star lì lì per piangere e
di sentirsi sola e sperduta. Senza dubbio avrebbe ritrovato Oky, con l’aiuto
di Arn. Che quasi non le sembrava più suo fratello, ora, non il fratello che
era solo un ragazzino e che ella aveva talvolta visto piangere e farle i
dispetti, ma qualcuno assai più simile al babbo, e dotato come il babbo della
conoscenza di ciò che si deve fare e della certezza di saper farlo.
“Grazie,
Arn,” disse.
Egli
distolse lo sguardo, un po’ imbarazzato dalla sua ammirazione, e attizzò
nuovamente il fuoco. “I tuoi abiti sono asciutti, adesso,” disse. “Gli
scarponi non ancora, ma lo saranno per quando farà giorno, se non si metterà a
piovere o a nevicare.” Le lanciò i suoi pantaloni di pelle di daino, la
maglietta, il giaccone di pelle, ed ella li indossò sentendoli di nuovo morbidi
e caldi come prima.
“Se
non era per te, sarei morta,” disse, porgendogli a propria volta il suo
giaccone.
“Credo
di sì,” rispose lui.
Andò
al torrente per lavare il pentolino e prese dell’acqua per fare un altro po’
di tè con le polverine della vecchia signora.
Prima
di prepararsi a dormire, ravvivò ancora il fuoco. Si sarebbe consumato durante
la notte e il freddo lo avrebbe svegliato, perciò lo riattizzò. Si tolse la
maglietta e l’avvolse intorno ai piedi di Jen, quindi si rimise il
giaccone. Poi giacquero entrambi sui soffici rami che egli aveva raccolto, con
altri rami che li coprivano da tutti i lati e il dolce profumo dell’abete del
balsamo tutt’intorno a loro.
“Si
sta bene, qui,” disse Jen. “Non ho più paura dei cinghiali. Ce l’avevo
perché non ero riuscita a capire che cosa pensasse di me, quello là. Non ci
riuscivo proprio.”
“Ma
come fai a capire quello che pensano gli animali?”
“Non
lo so. Mi sembra.”
“Potresti
dire che cosa pensava il porcospino?”
“Sì.
E lui sapeva che cosa pensavi tu. Sapeva ciò che stavi per fargli.”
“Sapeva
che io non avrei voluto ucciderlo, ma non potevo farne a meno?”
“Tutto
ciò che sapeva era che stavi per ucciderlo.”
Arn
tacque.
“Noi
dovevamo mangiare,” disse Jen.
“Sì.”
“E
adesso io sono di nuovo al caldo e mi sento più tranquilla.”
“Ma
non è come a casa,” egli disse, e all’improvviso pensarono a Tim Hemlock e
ad Eugenia soli nella casetta, in quella casetta sigillata dal ghiaccio, e a
come si sarebbero preoccupati per i loro bambini. Arn raccontò a Jen che la
mamma aveva seguito le sue tracce fin dietro la cascata ma non era riuscita a
trovare il passaggio attraverso la montagna, che poi, invece, per lui era
stato di nuovo là, spalancato.
“Pensi
che sia quella, la Porta Nera di Tsuga?” disse la bambina.
“Non
lo so. Mi fa paura, pensarci.”
“È
tutto così strano, Arn. Poveri mamma e papà. Penseranno che ci sia capitato
qualcosa di spaventoso. Forse che siamo morti. Se solo riuscissimo a trovare
Oky e a tornarcene a casa...”
Prima
di andare a dormire, Arn ripensò alle parole che gli erano venute alle labbra
senza volerlo. C’erano come degli echi, nella sua mente, molto in profondità,
quasi che laggiù ci fossero delle cose che stavano cercando di ricordarsi a
lui. E Jen, fissando la luce del fuoco che guizzava di tra i rami di balsamo con cui Arn aveva fabbricato un riparo per entrambi, e guardando poi al bosco ― da cui quella luce traeva verso di loro i tronchi eretti degli alberi dalle tenebre nelle quali pareva celarsi tutta la selvaggia potenza della notte ― a un tratto tremò di paura al pensiero di quanto erano soli in quel luogo. Avevano sbagliato a lasciare la casa, e lei aveva sbagliato a scappar via senza dir niente a nessuno. E adesso lei e Arn erano così minuscoli, nel cuore misterioso di quella notte al di là della montagna.
*
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*
Al
Grande Sempreverde
Nella
piccola fattoria degli Hemlock, oltre la montagna e a molte miglia di ghiaccio
di distanza, il gelo faceva scricchiolare e cigolare la casetta. Eugenia era
uscita con una scure e, benché stremata dalla fatica, aveva spaccato le
traverse del recinto del maiale, le aveva trascinate fino a casa e aveva
riattizzato il fuoco per preparare un po’ di zuppa con le preziose patate da
semina. Sembrava più vecchia, adesso: pallida, sfinita. Si dava un gran da fare
a ravvivare quel focherello, ma la maggior parte delle sue ragioni di vita se
n’era andata insieme ai bambini. Ma poi, dopo che fu riuscita a far divampare
il fuoco sotto il bollitore, abbassò lo sguardo sul marito che dormiva e lo
vide torcere la testa da una parte all’altra e fare sforzi con le spalle e il
collo come se cercasse di liberarsi da un giogo. Lo calmò, mettendogli una mano
su una guancia, ed egli aprì gli occhi all’improvviso, facendola trasalire.
Ma non erano più gli occhi allucinati che su di lei aveva spalancato altre
volte, quegli occhi sbarrati su chissà cosa in lontananza, al di là delle
pareti della casetta e forse del mondo. Erano di nuovo gli scuri occhi castani
di suo marito, e guardavano dritti verso di lei.
“Eugenia,”
disse, con una voce distaccata che la moglie non riconobbe.
Doveva
essere andato molto lontano. Per tutto quel tempo non era stato lì con lei, in
realtà, e in quel momento ella comprese fino a che punto fosse rimasta sola, e
quanto fosse stata vicina alla disperazione.
“Eugenia,
devi assolutamente dire a Jen e Arn...” La sua espressione si fece a un tratto
perplessa. “Devi dire a Jen e Arn...”
“Ma
se ne sono andati, Tim. Se ne sono andati!”
Egli
parve non capire. “Devi,” ripeté debolmente. “Devi...” Poi si addormentò,
ma più tardi, quando Eugenia gli accostò una tazza di brodo alle labbra, egli
bevve e aprì di nuovo gli occhi su di lei.
“Quanto
a lungo sono stato male?” le domandò, con quella sua nuova voce distaccata.
“Per
molto tempo. Per settimane.”
“Dove
sono i bambini?”
Dovette
dire al marito che se n’erano andati, che Jen aveva seguito Oky e Arn aveva
seguito Jen; dirgli della cascata, e dell’angusto sentiero sull’orlo
dell’abisso che dietro la cascata a un tratto s’interrompeva. Egli le fece
raccontare tutto quello che era successo, come Arn avesse appreso il muto
linguaggio della vecchia signora e come avesse poi preparato per lui una
medicina che aveva reso più lieve il suo respiro.
“Che
cosa hanno portato con sé?” egli domandò.
“Non
lo so. So solo che non ci sono più. I nostri bambini non si sono più!”
“Devi
cercare bene e me lo devi dire.” Tentò di tirarsi sù, ma non ebbe la forza
nemmeno di togliersi di dosso la pelle d’orso. Ricadde giù con un gemito.
“Non posso aiutarli. Ma ti prego, Eugenia, devi dirmi che cosa hanno portato
con sé.”
“Jen
s’è messa i vestiti più caldi, e i ramponi. Ha portato via le briglie di
Oky... e nient’altro.”
Tim
Hemlock gemette.
“E Arn
che cos’ha preso?”
Eugenia
frugò tra le cose di Arn, tra la roba appesa vicino alla porta, dapertutto.
Anche lui ― disse ― aveva messo gli abiti più caldi e i ramponi. E
poi aveva preso la pietra focaia, l’esca, un rotolo di spago, il suo zaino, il
suo coltello, un pezzo di focaccia e una delle scatolette di corteccia di
betulla che stavano sulla mensola del camino.
“Può
accendere il fuoco, allora,” osservò Tim Hemlock.
“Ma,
Tim... Io sono arrivata fino alla fine del sentiero... E da lì non sono
tornati, Tim... Perciò devono...”
“Non
lo sappiamo, questo... E la vecchia signora? Non è più tornata?”
“Andata,
anche lei. Sono andati, Tim, tutti. Arn e Jen sono caduti in quel precipizio! I
miei poveri bambini!”
“Io
conosco quel posto,” disse Tim Hemlock.
“Ma
tu non sei mai arrivato fino alla montagna!”
“Sono
andato più in là di quanto ti abbia detto, Eugenia.” Tentò disperatamente
di tirarsi sù, ma non ce la fece. “Le mie braccia sembrano di piombo. Dov’è
andata a finire la mia forza? Devo ritrovarli!...” Ma giacque di nuovo,
gli occhi sbarrati, il volto come svuotato dalla disperazione per non poter
andare a cercare i suoi bambini. *
Venne
il mattino, sulla valle misteriosa ― freddo, grigio, con un gran ventaccio
e una nebbiolina gelida che turbinava sulle ceneri del fuoco e s’insinuava
tra i guanti e le maniche di Arn. Avrebbe voluto dormire ancora, ma il vento lo
stuzzicò ferocemente. Se tirava sù le gambe, gli si intrufolava intorno alle
caviglie; se si raggomitolava come una palla, allungava una gelida mano sulla
sua schiena. Alla fine si rese conto che doveva alzarsi e riaccendere il fuoco,
come aveva fatto già due volte durante la notte. Così lui e Jen sarebbero
stati al caldo almeno da un lato.
Il
suo spiedo d’acero non c’era più, e con esso la carcassa arrostita del
porcospino. Anche la testa era sparita, così come le interiora e la pelle; solo
lo spinoso mucchietto di aculei c’era ancora. Qualcosa era giunto fin lì
nella notte ― ed ecco infatti le sue orme, una delle quali perfettamente
nitida nella cenere sparsa intorno al fuoco: l’ampia, sfilacciata impronta
priva di artigli di una lince.
Riaccese
il fuoco, e quando Jen si svegliò le disse che una lince si era presa quel che
rimaneva del loro cibo. Poi, preso il pentolino di ferro, andò al torrente ad
attingere acqua, in modo che a colazione potessero avere almeno un po’ di tè
fatto con le polveri della vecchia signora. Dava energia, quel tè; Arn se
n’era accorto la sera prima, quando aveva visto l’effetto che il suo calore
aveva avuto su Jen e come l’aveva salvata dal congelamento. E a lui aveva dato
la forza di scuoiare e arrostire il porcospino. Anzi, di più: gli aveva dato la
volontà di farlo.
S’inginocchiò
vicino a una pozza del torrente e v’immerse il pentolino. Al di sotto della
fluttuante superficie dell’acqua, appena oltre il bordo di ghiaccio che aveva
dovuto rompere, qualcosa attrasse il suo sguardo verso il fondo del torrente, là
dove l’acqua era più profonda. Una forma verde, scura e allungata, si
allontanò dalla riva, s’immerse in profondità e scomparve. Ma poi il vento
si fermò per un istante e, quando l’acqua smise di incresparsi, Arn la vide
di nuovo ai piedi di un masso, adagiata nel suo mobile elemento, accanto alla
sua pietra d’ancoraggio, a muovere lievemente le pinne per mantenersi in
equilibrio. Poté scorgere la screziatura rossa, verde, blu e gialla dei suoi
fianchi, velata dall’acqua. Era una trota di torrente, un codaquadra
lungo almeno un piede. E dovevano essercene delle altre, là sotto, che avevano
scelto quel luogo per abitarvi e attendevano che la corrente portasse loro da
mangiare.
Riportò
indietro il pentolino colmo d’acqua e lo mise sul fuoco appendendolo a una
bacchetta appoggiata sulle forcelle. Se soltanto avesse avuto un amo, un po’
di lenza e dell’esca... Solo che non ne aveva, era questo il fatto. Ma poi, più
tardi ― dopo che ebbero bevuto il tè fatto con la portulaca,
l’acetosella, i funghi rossi secchi e la polverina marrone della scatoletta
contrassegnata dalla manina pendula ― ad Arn cominciarono a venire delle
idee... Aveva il coltello, dopo tutto: e che cosa non poteva fare un uomo con il
suo coltello, con la lama ben temprata e tagliente che portava sempre con sé?
Il suo coltello era il suo più fedele strumento ed era tutto ciò di cui aveva
bisogno in quella terra selvaggia, se sapeva come usarlo su quel che c’era da
usare. Se non perdeva la testa, non cedeva alla paura e non ridiventava come un
bambino piccolo, sarebbe riuscito a sopravvivere e al tempo stesso si sarebbe
preso cura della sua sorellina.
Si
mise a pensare, dunque. E Jen si sedette accanto al fratello con il pentolino di
tè fra le mani e si mise a fissare il fuoco con aria meditativa.
Dopo
che ebbe pensato, prese nello zaino la pietra focaia e vi arrotò con cura il
taglio del coltello nel punto in cui la lama aveva urtato l’osso del
porcospino. Non che il coltello si fosse smussato, in realtà, ma Arn non voleva
scorgervi la benché minima sbavatura. Lo levigò con delicatezza, quindi sfregò
la lama sul cuoio di uno stivale finché non fu così affilata che di taglio
sembrava quasi invisibile.
Voleva
farsi un amo e una lenza. Avrebbe anche potuto ricavare una lancia da un ramo
dritto e sottile di acero, ma il torrente era assai profondo nel punto in cui
aveva visto la trota, e se si fosse bagnato ci sarebbe voluto molto tempo perché
gli abiti si asciugassero. Perciò doveva lasciare che l’esca sprofondasse da
sola in quegli abissi, e sperare che l’appetito delle trote le inducesse ad
attaccarsi alla lenza e a lasciarsi trascinare a riva. Ripassò fra sé tutto
quello che lui e Jem possedevano, alla ricerca di qualcosa che potesse essergli
utile. La corda di canapa, benché relativamente sottile, era troppo grossa.
Avrebbe forse potuto dipanarne qualche filo e usarne alcuni per farne una lenza,
ma gli sembrava un lavoro troppo lungo... Notò, allora, il nastro di pelliccia
di volpe che la mamma ― con una sottile cordicella di pelle di daino, o
con il filo di lino portatole dal Mercante ― aveva cucito a mo’ di orlo
al giaccone di Jen.
“Jen,”
disse, “ho visto delle trote, nel torrente, e voglio andare ad acchiapparne
quanto basta per fare una buona colazione.”
“E
come?” domandò lei. “Ti sei portato dietro l’occorrente per la pesca?”
“No,
ma ce lo fabbricheremo da soli. Però ho bisogno di un po’ di spago.” Si
domandava come la sorellina avrebbe accolto l’idea di scucire dal suo giaccone
un tratto del nastro di pelliccia di volpe, perché sapeva quanto ne andava
fiera. “Ti dispiacerebbe tagliare la parte di sotto della pelliccia di volpe
del tuo giaccone?”
La
bambina non ci pensò più di un secondo. “No,” disse, guardando il nastro.
“È lì solo per bellezza, non importa.” Prese il coltello di Arn e allentò
un capo del filo, e lui le intagliò un bastoncino in modo che potesse
servirsene da punteruolo per allentare le maglie a una a una. Era il filo cerato
e molto resistente che aveva portato il Mercante, e ne avrebbero ricavato una
buona lenza.
Ora
aveva bisogno di un amo. Pensandoci sù, cominciarono a venirgli in mente le più
svariate idee e possibilità: immagini di ami del tutto diversi da quelli
d’acciaio che faceva suo padre, con i loro fusti ricurvi e le minuscole punte.
Ne immaginò uno che era solo un pezzo d’osso o di legno diritto appuntito da
entrambe le parti, con un foro al centro per la lenza. Un’esca appiccicosa di
qualche sorta teneva l’amo parallelo alla lenza finché il pesce non
l’inghiottiva, poi uno strattone alla lenza faceva sì che le estremità
appuntite si conficcassero nella gola o nello stomaco del pesce. Gli parve
addirittura di vedere un uomo con degli ampi pantaloni marroni di cuoio che
scrutava nell’acqua, osservando il dispositivo con occhi pazienti. Ma poi
altri ami gli si presentarono alla mente, ricavati dagli ossi mandibolari o
dalle spine di animali o di pesci...
Era
stato a guardare gli aculei del porcospino che la lince aveva lasciato sparsi
per terra qua e là. “Niente di te sarà sprecato,” aveva detto al nonno, il
porcospino, senza sapere perché mai glielo dicesse. Con prudenza esaminò i
mucchi di aculei e ne scelse alcuni tra i più robusti e acuminati. Poi trovò
un pezzo di legno di pino secco, non imputridito, e lo incise in modo da
distaccarne un piccolo fusto, assottigliandolo alla base affinché le punte
degli aculei del porcospino, tagliate corte e legate al fusto con del filo, ne
sporgessero diagonalmente. Intorno alla cima del fusto intagliò poi una
scanalatura per legarvi la lenza. Era un lavoro che richiedeva grande attenzione
e accuratezza, perché l’amo doveva essere piuttosto piccolo, non più lungo
di due-tre centimetri. Ne fece alcuni, di fusti. Jen intanto aveva liberato un
lungo pezzo di filo, ed egli ne prese quel che bastava per avvolgere e legare
due punte di aculei a ogni fusto.
Fu
Jen che gli suggerì di attaccare dei batuffolini di pelo di volpe a ogni amo
con della resina d’abete e poi di legarli con del filo. Ricordava che alcune
delle “mosche” da trota e da salmone del babbo avevano più o meno
quell’aspetto.
“Ma
le trote che cosa penseranno che siano?” domandò Arn.
“Non
lo so, ma credo che cercheranno di mangiarseli. Penseranno che siano delle
specie di insetti!” rispose Jen, con la convinzione in cui egli riconosceva il
misterioso talento che la rendeva assai più brava di lui nell’intuire i
pensieri più segreti degli animali.
Jen
era riuscita a liberare quasi due metri di filo robusto, e mentre lui cercava un
pezzo di legno diritto nella boscaglia vicino alla prateria, lei trovò un abete
dal quale colava della resina. Completarono così le esche per le trote, che
presero l’aspetto di una strana sorta di insetti. Arn legò all’amo una
delle esche, poi legò la lenza all’estremità di una buona asta e andarono al
torrente, tenendosi tanto più bassi e silenziosi quanto più si avvicinavano
guardinghi al bordo dello specchio d’acqua.
“Charr,
charr, arriva da mangiare,” sussurrò Arn. Charr?, pensò....
Perché mai l’aveva detto? Poi ricordò che il babbo una volta aveva usato
quella parola per la trota.
Si
nascosero dietro un masso, e Arn lanciò l’esca in acqua senza causarvi che
una lieve increspatura. L’esca fluttuò per un paio di metri, ruotando lenta
intorno ai mulinelli della pozza, finché qualcosa turbinò violentemente sul
fondo, si lanciò verso di essa e la ghermì, in un turbinio d’acqua,
ricadendo con un tonfo. E all’istante venne sù dalla lenza il suo strattone,
quel selvaggio scagliarsi verso la salvezza, ma intrappolata, divincolandosi,
zig-zagando, tirando con tutta la sua forza acquatica. Benché le braccia gli
tremassero per lo sconcerto dell’improvvisa comunione con quella disperata
creatura fluviale, Arn tenne la canna più salda che poté e retrocesse dal
macigno fino al bordo dello specchio d’acqua. Poi, muovendosi tanto più
cautamente quanto meno sentiva di poter contare sulla robustezza dell’amo e
della lenza, tirò la trota fuori dall’acqua sul fragile bordo ghiacciato,
fino ai ciotoli asciutti, e l’afferrò con ambo le mani.
La
trota era molto bella, nella sua scura livrea verde e negli smaglianti gioielli
rossi, gialli e blu che le adornavano i fianchi. Era lunga una trentina di
centimetri, grassoccia e muscolosa. “Charr,” disse Arn, “niente di
te sarà sprecato,” poi prese il coltello e colpì la trota proprio dietro la
testa con il dorso della lama. La trota ebbe un fremito e fu morta. Egli le
tolse l’amo dalla bocca per trovare l’aculeo del porcospino che si era
piegato, così da legarlo a una nuova esca.
Tirò
fuori dalla pozza tre pesci anche più buoni di quello, prima che le trote
cominciassero a diffidare della mosca di pelo di volpe e tentassero di non
mangiarne più. “Ne abbiamo prese quante ce ne servono per far colazione,
comunque,” disse Arn. Pulì i pesci vicino al torrente e li portarono al
fuoco, dove li rosolarono leggermente sulla brace, impalati su dei rami verdi.
Divorarono le trote fino alle lische perlaceee. Mangiarono le loro pinne
croccanti e perfino i rotondi bottoncini dei muscoli delle guance, con i quali
le trote serrano le mandibole sulle prede. Poi, sazi, e sentendo quell’energia
presa a prestito che gli si diffondeva nelle braccia e nelle gambe, bevvero un
altro po’ di te fatto con le polverine della vecchia signora.
Arn
soffocò il fuoco fino all’ultimo sibilo con l’acqua del torrente, riavvolse
la corda di canapa e rimise tutto a posto nello zaino, dopo di che furono pronti
a ripartire alla ricerca di Oky.
Nello
zaino Arn aveva messo via con cura anche la lenza e gli ami. Potevano averne
bisogno, naturalmente, ma ciò che soprattutto desiderava era di mostrarli al
babbo. Il babbo sarebbe stato fiero di lui, e di Jen per aver avuto l’idea di
rivestire gli ami di pelo di volpe. Ma c’era anche molta tristezza e
insicurezza, in lui, nel pensare a questo, poiché ignorava se il babbo stesse
meglio o peggio. E poi era preoccupato anche per la madre, perché sapeva bene
quanto poco cibo le era rimasto in casa ― a parte gli animali, e le
sementi di cui avrebbero avuto bisogno per sopravvivere un altro anno.
Ma
quanto sarebbe stato orgoglioso di mostrare al babbo quei piccoli ami così
astuti, e di vedere il babbo ammirarli tenendoli nelle sue grandi mani da
artigiano!
Mentre
attraversavano la prateria, diretti verso il grande albero sempreverde, Jen non
poteva pensare che all’animale che aveva visto o creduto di vedere in
lontananza il giorno prima. Quello più tarchiato dei cervi, con la macchia
bianca sul collo. Quello doveva essere Oky.
“Se
non vediamo Oky dal punto più alto della zona, o se almeno non troviamo le sue
impronte, ce ne torneremo a casa,” disse Arn.
“Dobbiamo
trovare Oky!” gridò Jen.
“Guarda,
Jen, che sono in pena per mamma e papà. Penseranno che ci siamo persi.”
Jen
sentì dalla sua voce che egli aveva deciso. Non aveva idea di come potesse
fargli cambiare idea. Arn sembrava diventato più grande e più determinato di
quanto lo era mai stato a casa. Si era fermato, e le parlava guardandola molto
seriamente: “Non abbiamo visto alcuna traccia di Oky, in questa valle.”
“Ma
è andata lungo la cengia dietro la cascata! Le hai viste le sue impronte,
no?!”
“Le
sue e quelle di un cervo,” disse Arn. “Può darsi che il cervo se la sia
portata via. Come fai a sapere anche solo se desidera tornare indietro,
adesso?”
“Dobbiamo
trovare Oky!” gridò Jen, e sentendo nella propria voce che stava per piangere
si rese conto con un pochino di vergogna che si sarebbe servita del pianto per
tentare di far cambiare idea ad Arn. È vero che in passato le sue lacrime non
l’avevano smosso più di tanto, ma adesso intuiva che Arn era cambiato.
“Pensa
a mamma e papà,” egli disse. “Pensa a come debbono sentirsi.”
Arn
aveva ragione, e lo sapeva. E quanto a Jen, egli non doveva ascoltarla affatto,
perché, se si fosse avviato verso casa, lei comunque avrebbe dovuto seguirlo, e
che piangesse e gridasse non avrebbe cambiato un bel nulla. Era sua la
responsabilità: doveva salvarle la vita, e basta. “Andremo fino al grande
albero lassù e daremo un’occhiata in giro, ma questo è tutto. E poi
c’incammineremo verso casa.” Egli sentì il proprio potere, e si disse che
una lacrima di lei non avrebbe fatto alcuna differenza.
Ma
quando la guardò e vide le sue lacrime, si rammentò di una cosa che aveva
fatto una volta: una cosa potente, ma anche vergognosa. Il babbo gli aveva
fabbricato un piccolo arco di frassino, dalla stringa cerata, e quattro frecce
di legno d’abete. Mentre era da solo nelle vicinanze del fiume, Arn vide, su
una sponda argillosa, un rospo che accolse senza spezzarla la freccia con cui lo
trapassò. Era un rospo marrone. Ma per quanto Arn tentasse e ritentasse, non
poté scorgere nulla di male in quel rospo. Sì, era stato un bel tiro, ma
niente poteva giustificare quel povero rospo inoffensivo trafitto e in agonia...
Aveva estratto dall’argilla e dal rospo morente la freccia coperta di sangue e
l’aveva scagliata lontano, al di là del fiume, dove non l’avrebbe ritrovata
mai più. E non aveva mai raccontato a nessuno ciò che aveva fatto.
“Arn!”
Jen stava piangendo. “Ti prego, Arn!”
“La
cercheremo per un po’,” egli disse. “Ma se non troveremo qualche traccia,
ce ne andremo a casa.”
“Grazie,”
disse Jen, asciugandosi gli occhi con il dorso dei guanti. “Grazie, Arn.”
Ma
ad un tratto Arn parve dissolversi davanti ai suoi occhi. Ogni cosa, intorno a
lui, impallidì e scomparve. Sembrò, benché non si fosse mosso, che
all’improvviso si fosse allontanato da lei. “Arn!” chiamò.
Egli
le si avvicinò e la prese per mano. “È nebbia,” disse.
L’aria
si era fatta caliginosa e tiepida. Si guardarono intorno, ma al di là degli
ingialliti e crepitanti steli d’erba ai loro piedi l’intera valle si era
dissolta, tutto era diventato bianco come la carta. Potevano attraversarlo con
le mani senza incontrare resistenza, ma quel biancore rimaneva vuoto, opaco,
muto. Minuscole perle del suo tepore umidiccio stavano già ricoprendo la loro
pelle e i loro abiti. A malapena riuscivano a vedersi l’un l’altro. Perfino
i loro piedi si erano già quasi dissolti.
“Adesso
non possiamo più muoverci affatto,” disse Arn.
“Ma
dobbiamo farlo,” disse Jen. Il silenzio della nebbia li induceva a
parlare sottovoce, come se fosse un’invisibile presenza che non bisognava
disturbare.
“Riusciremmo
soltanto a perderci,” disse Arn.
“A
te non te n’importa niente di Oky!”
“Be’...”
disse lui, ma con l’aria di star ascoltando qualcos’altro nella nebbia.
C’era una specie di tamburellamento, in lontananza: veniva sù dal terreno, lo
sentivano attraverso i piedi. “Qui non è come a casa, Jen,” disse Arn.
“Questo posto non lo capisco.”
Lo
stamburio si fece più intenso, ma come se non venisse da nessuna parte. Per un
momento la nebbia intorno a loro si sollevò, mentre una trasparente massa
d’aria delle dimensioni di una stanza si apriva su di loro e passava oltre,
muovendosi rapida pur in assenza di vento. Minuscole perle d’acqua tiepida
luccicarono sul volto di Arn, lungo le braccia del giaccone di Jen e sul dorso
dei suoi guanti. Jen si tolse i guanti e se li mise in tasca, sentendo il tepore
umidiccio spargersi sulle sue mani. Il terreno cominciò a tremare all’unisono
con lo stamburio.
“I
cinghiali!” disse la bambina, riprendendo la mano di Arn. “È il rumore che
fanno i cinghiali!”
“Non
muoverti,” disse il fratello.
I
candidi flutti di nebbia li oltrepassavano rapidi, aprendosi fra un’ondata e
l’altra, ed essi si sentivano un istante nascosti e subito dopo svelati, anche
perché quel biancore aveva la sinistra caratteristica di celargli ogni cosa
tranne loro stessi. Lo stamburio si faceva sempre più forte. E poi la terra si
mise a tremare sotto di loro fino a persuaderli che da un momento all’altro la
potenza che si dirigeva da quella parte li avrebbe travolti. La nebbia si mosse
ancora, dissolvendosi e riaddensandosi. Poi, quando il frastuono fu così forte
che i due bambini per un attimo smisero di respirare sapendo che centinaia di
zoccoli stavano per schiacciarli, videro le nere sagome arcuate passare a
qualche metro da loro. Nere figure, rese grigie e incorporee dalla nebbia, che
si scagliavano nel nulla e svanivano mentre il rimbombo a poco a poco si
affievoliva.
“Erano
i cinghiali,” bisbigliò Jen. “Erano i cinghiali.”
“Potremmo
arrampicarci sull’albero, se riuscissimo a trovarlo,” bisbigliò Arn di
rimando. Tremava. “Eravamo sottovento, e non hanno sentito il nostro odore.”
“È
vero, non sapevano dove fossimo,” disse Jen.
“Riesci
a sentirli pensare?”
“Purché
pensino ad altro, forse sì.”
Le
ondate di nebbia, a quel che Arn ricordava, venivano dalla parte dell’albero,
perciò si avventurarono cautamente dentro quella massa d’aria, che si muoveva
senza che la si sentisse muovere, badando per quanto potevano a non inciampare.
Dopo un bel po’ la nebbia prese a diradarsi, e finalmente si trovarono proprio
sulla soglia di quel biancore, là dove s’innalzava volteggiando da un lago o
da uno stagno d’acqua calda levandosi in vortici dalla superficie. A destra
l’aria era più fredda e limpida e la prateria chiaramente visibile, ma a
sinistra c’era l’acqua, dal cui silenzioso ribollire saliva il tiepido
vapore bianco. Veniva un odore, da quell’acqua, che era lo stesso che era
stato appena percepibile nella nebbia che li aveva avvolti. E ora Arn lo
riconobbe: era simile a un vago sentore di polvere da sparo, o all’odore del
fucile del babbo dopo aver sparato, prima che il babbo lo pulisse. Le sponde
rocciose dello stagno erano chiazzate di un rosso brillante, di giallo e di un
verde metallico. Il sole invernale, che iniziava a far capolino tra le nubi,
donava alla vorticante foschia il suo bianco purissimo. A destra, la prateria
volgeva dal verde dell’erba, là dov’era più vicina al tepore del laghetto,
al bruno avvizzito del fieno a mano a mano che saliva verso nord-ovest. Il
maestoso sempreverde non si vedeva, ma a mezza via lungo il declivio erboso
c’erano dei mucchi di pietre di granito, alcuni dei quali apparivano regolari
e squadrati come dei muri.
Senza
una parola, Arn e Jen risalirono il pendio verso di essi. Dovevano raggiungere
il punto più alto della prateria, se volevano vederla tutta e ritrovare il
grande albero. E Arn voleva vedere le pietre, anche, a dispetto del suo
desiderio di tornare a casa al più presto. Ripensava al sogno che aveva fatto
la prima notte nella vallata, e a tutta quella gente assiepata tra le capanne di
tronchi, e alle tende di pelli di animali. Gli era parso, come accade nei sogni,
che in quella gente assiepata si celasse un qualche maestoso significato; ed
essi avevano suscitato in lui un desiderio struggente. E la valle del sogno era
proprio questa, ne ebbe la certezza mentre si avvicinavano alle pietre. Benché
abbattute e rovinate a opera del tempo e delle tempeste, sussisteva infatti una
regolarità, nel disegno di quei muri, che niente in natura avrebbe potuto
produrre. Componevano quattro riquadri, larghi ciascuno diversi metri, le cui
dimensioni erano pressappoco quelle della fornace dalle mura di pietra costruita
dal babbo.
“Qualcuno
ha vissuto qui,” disse a Jen.
Non
erano rimasti che quei muri in rovina. E la bruna prateria, intorno alle rovine
e fra di esse, tra quei muri solitari che non sorreggevano né racchiudevano
alcunché, era tranquilla come la superficie di un lago. La gente che aveva
vissuto fra quelle mura se n’era andata, ogni traccia di loro era scomparsa
insieme ai loro sentieri, e tuttavia Arn ne aveva avvertito la presenza in tutta
la valle come se il suo sguardo, fin dal momento in cui per la prima volta aveva
visto i candidi pendiii innevati e i remoti picchi rocciosi che la cingevano,
avesse avuto il potere di far rivivere il loro. Poiché la vallata era stata un
tempo il loro mondo, familiare ai loro occhi.
Continuarono
a salire verso la cima del pendio. Tutta la prateria, fin dove giungeva lo
sguardo, appariva deserta. Non si scorgeva neanche un uccello in volo. Quando
furono vicini al punto più elevato cominciarono a vedere la vetta del grande
albero, prima soltanto i più alti tra i suoi rami sempreverdi e poi di più, di
più, come se stesse crescendo dinanzi ai loro occhi. Erano ancora lontani
dall’albero; ancora non avevano la minima idea delle sue dimensioni. Ma quanto
più gli si avvicinavano, tanto più esso incombeva su di loro, il tronco
grigiobruno s’innalzava, i suoi lunghi rami dai corti aghi verdi si
prolungavano come enormi verghe fino a decine di metri sopra le loro teste. Il
tronco si era sviluppato facendosi strada attraverso un ammasso di rocce grigie
e un affioramento di granito, le sue brune e muscolose radici si avvinghiavano
alle rocce come dita gigantesche e penetravano nella terra. Jen e Arn non
avevano mai visto un albero come quello. Era un sempreverde e le sue pigne erano
piccole, ma il tronco colossale e alcuni dei rami maggiori avevano la nitida
individualità e la possanza delle latifoglie. La corteccia era incisa da
miriadi di scanalature, secca e dura al tatto. Il diametro del tronco era di un
paio di metri, e i primi rami se ne distaccavano ben al di sopra delle loro
teste, troppo in alto perché potessero arrampicarvisi.
Una
leggera brezza emanava dall’albero come un sibilo, o forse era l’albero
stesso che si serviva del vento come di una voce. E sebbene i bambini non
udissero parole, tuttavia si sentirono fin dal primo istante al cospetto di una
calma e remota potenza che in qualche modo sembrava essersi accorta di loro.
A
un tratto Jen si avvicinò all’albero e abbracciò una delle sue enormi radici
arcuate. “Voglio bene a questo albero,” disse.
Arn
se ne stava immobile a guardare in sù attraverso l’albero. Esili nubi
invernali sorvolavano la vallata, e l’albero possente, alto com’era,
sembrava tener ferma la terra malgrado il loro andare, tener fermo ―
persino contro
il volgersi dei cieli ―
il
terreno che sorreggeva i due bambini. L’improvviso affetto di Jen per
l’albero non aveva sorpreso Arn, ed egli si domandava come mai non se ne fosse
stupito. Ma accadeva molto spesso che la bambina prendesse decisioni così
repentine, scavalcando d’un
balzo i tanti piccoli passi che egli doveva fare per arrivare alle medesime
conclusioni. Si gettava sempre di slancio sulle cose nuove, lei, assumeva
all’improvviso nuovi atteggiamenti, si lanciava in imprese pazzesche come quel
suo viaggio alla ricerca di Oky... Mentre a lui toccava invece di esaminare le
cose con prudenza, di domandarsi che cosa si dovesse fare.
Intorno
alle sporgenze rocciose tra le quali l’albero era cresciuto, alte pietre
sottili erano state disposte a brevi intervalli nella prateria in modo da
formare un cerchio con l’albero al centro. Erano pietre grigie, tutte più o
meno delle stesse dimensioni, alte all’incirca come il babbo. Pietre
squadrate, in cui erano incise a una certa altezza delle figure consumate dal
tempo. Arn si calò giù dalle rocce e andò verso una di esse.
“Arn!”
lo chiamò Jen.
“Vieni
con me,” disse lui, “ma sta’ attenta, scendendo dalle rocce.”
La
stele era muta, una sentinella immobile. Era senza testa, ma a mezza altezza
recava una fascia di incisioni, una sorta di larga cintura con appeso un oggetto
che non poteva essere che un fodero, il tutto scolpito a bassorilievo nel
granito grigio.
Il
fodero era identico a quello di Arn, e ne sporgeva il manico di un coltello che
assomigliava molto all’estremità ricurva del manico di corno del suo. Arn
slacciò i bottoni d’osso del suo giaccone e trasse il coltello dal fodero per
confrontarlo con quello. Jen, intanto, si era avvicinata alla stele successiva.
“Guarda, Arn,” lo chiamò. Il ragazzo andò da lei. Il fodero di questa
sentinella di pietra era vuoto, ma il suo braccio, inciso in rilievo attraverso
il petto, reggeva un coltello di pietra la cui lama ricurva, il choil,
l’elsa e il pomello erano identici a quelli del coltello di Arn. Tenne il
coltello più piccolo davanti a quello di pietra e vide che erano proprio simili:
l’uno di pietra, antica e consumata, l’altro affilato e luccicante. La sua
mano vivente si stringeva intorno al manico del suo coltello proprio come la
scabra mano di pietra era serrata sul proprio.
Arn
e Jen non poterono che guardarsi l’un l’altra stupiti. Le sentinelle di
pietra, mute nella loro granitica decrepitezza, facevano corona al grande
albero.
“Guarda!”
disse Jen. Si era voltata verso l’albero, e gli indicava il ripiano roccioso.
Dapprima
Arn vide solo le rocce sporgenti e il granito, attraverso i quali si inarcavano
le brune radici del grande albero. Ma poi si accorse che anche lì era visibile
una figura che non poteva essersi formata per caso. In un punto le radici
formavano un arco al di sopra di una specie di piattaforma di pietre levigate, e
al di là di questo arco vivente ce n’era un altro, fatto di pietra, che si
apriva sulle tenebre.
“Andiamo,”
disse Jen, ma Arn si tenne indietro.
“Siamo
prudenti!” disse, rendendosi conto che era proprio là che avrebbero finito
per andare, al centro di tutto. Ma Jen, senza ascoltarlo, tornò di corsa verso
l’albero. E ad Arn, mentre la seguiva, con la coda dell’occhio sembrò di
vedere che le sentinelle di pietra si ergessero ancor più possenti.
Si
arrampicarono fino al punto in cui ogni pietra era levigata e connessa alla
successiva. Era come un altare, o un luogo verso il quale dovevano essersi
rivolti coloro che erano stati dinanzi a esso ritti come le sentinelle,
all’interno del cerchio che le sentinelle formavano. Flebili echi dei loro
stessi passi risuonavano nelle orecchie dei bambini, come piccoli suoni che
rimbalzassero verso di loro dalle rovine sparse per la vallata.
“Questo
posto è molto antico,” bisbigliò Jen. “E non ha fine. Posso sentirlo
andare indietro, sempre più indietro, come se non avesse né principio né
fine.”
Pensavano
entrambi alle antiche storie, ma non osavano dirlo ad alta voce. La valle,
finora, non era stata né gentile né sgarbata, con loro.
Le
radici, più grosse di un tronco d’albero, pendevano come le dita di un
gigante da entrambi i lati del tenebroso ingresso, che era più largo di quanto
essi avevano pensato in un primo tempo. Era un arco di pietre accuratamente
connesse, più alto e più ampio di tutta la loro lontana casetta nel mondo di
ghiaccio.
Faceva
freddo, adesso. Un leggero nevischio trapelava dalla massa imponente
dell’albero come da un setaccio, scendendo da un cielo che si andava facendo
grigio e nel quale un pallido sole era ormai soltanto un punto un po’ più
luminoso al di là delle montagne, a sud-ovest. Mentre essi lo guardavano
tremanti, le montagne scomparvero entro il grigiore biancastro della neve
turbinante.
Si
tennero per mano mentre attraversavano lentamente la soglia, entrambi
terrorizzati e tuttavia incapaci di fare altro, né più né meno che in un
incubo. Sotto l’arco vivente, Jen si fermò per toccare la grossa radice. Poi
sollevò la mano, prese quella di Arn e la mise dov’era
stata la sua.
“Lo
senti?” gli domandò.
“Sento
la corteccia,” rispose Arn.
“Si
è mosso,” replicò Jen. “Si è mosso, Arn.”
“È
stato il vento a muoverlo,” disse lui.
“No,
non è così.” Il corpo compatto dell’albero si era mosso sotto la sua mano rispondendo al suo tocco. Jen sapeva che si era mosso, ma ignorava che cosa quella misteriosa convulsione del legno significasse: era un benvenuto o un ammonimento?
*
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*
Il Sacrificio
Si
volsero verso l’oscura soglia al di sotto dell’albero, dove le pietre grigie
disegnavano un arco contro le tenebre. E qualcosa si mosse, nella penombra
― una figuretta marrone venne verso di loro come se scivolasse su un piano
scorrevole e si fermò sulla soglia, tra il buio e la luce. Era la vecchia
signora, con un braccio levato e le frange a penzoloni della blusa di pelle di
daino tutta sbrindellata. Il palmo bronzeo della sua mano rugosa, rivolto verso
i bambini, diceva loro di fermarsi, di non entrare. La sua faccia arcaica era
severa, gli occhietti scintillavano. Per un attimo nessuno si mosse né parlò.
Jen
lanciò un gridolino, poi: “Chiedile dov’è Oky!” disse ad Arn.
Le
mani di Arn si mossero a comporre la domanda nell’antico linguaggio. Per
designare la mucca fece i gesti della mungitura, mentre la domanda fu espressa
dalle mani aperte, le palme in sù, vuote e interrogative.
Il
braccio della vecchia signora si inclinò verso il basso, a indicare la prateria
dietro di loro, ed essi le volsero le spalle e guardarono verso est.
Al
confine orientale della prateria c’erano dei grossi animali che pascolavano,
muovendosi tutti insieme lentamente mentre uno o due di loro sollevavano di
tanto in tanto le teste massicce per guardarsi intorno. Erano delle bestie scure
e pesanti.
“Che
cosa sono, Arn?” domandò Jen. Ma non lo sapeva neanche lui.
Poi
i bestioni furono presi dal panico. Saltarono sù all’improvviso, sgroppando,
piombando al suolo a piè pari, e ruppero in una folle corsa piegando verso il
centro della prateria. Prim’ancora di udirli, Arn e Jen sentirono il cupo
rimbombo degli zoccoli che veniva sù dal terreno, e dietro di essi scorsero
degli animali assai più piccoli, grigi, che spiccavano grandi balzi tra
l’erba invernale, le grigie terga che apparivano e sparivano come i dorsi dei
salmoni quando risalgono i fiumi.
“Lupi!”
disse Arn, con un’agitazione nella voce che non veniva solo dalla paura. Jen
era spaventata, lei sì; ma nell’eccitazione di Arn c’era qualcosa di
sbagliato, di strano...
I
bisonti si precipitarono verso il pianoro roccioso correndo fianco a fianco,
urtandosi gli uni gli altri come se il contatto reciproco gli fosse di conforto
nel terrore, gli occhi che mostravano il bianco, le grandi fauci che sbavavano.
Le loro corna erano brevi, l’aspetto ― tranne che per il lungo
pelame arruffato ― non diverso da quello di una mucca. Uno rimase indietro
― un esemplare più vecchio, più lento. Disperatamente si volse verso gli
aggressori, armato del proprio enorme peso, e tentò di incornare il lupo più
vicino. Sul collo, madido di sudore, scintillò una chiazza bianca.
“Oky!”
gridò Jen. “Oky!”
Ma
non poteva essere Oky, con quel lungo vello irsuto che già si macchiava di
sangue tra le zanne della belva. Silenziosi, anche gli altri lupi le furono
addosso. Uno di essi si scagliò sulle sue zampe posteriori, e facendo
schioccare e lampeggiare i bianchi denti acuminati le recise un tendine. La
mucca cadde su un fianco e i lupi le si avventarono al ventre, tagliando e
strappando fino a trarne le interiora, simili a lunghe funi, mentre la bestia
moriva lanciando gli ultimi lamenti tra l’erba alta.
Il
resto della mandria aveva formato un cerchio, terga contro terga, le teste
rivolte in basso, le corna fieramente puntate contro gli aggressori. I lupi
fecero solo un paio di finte, poi volsero le spalle alle corna e tornarono a
divorare la carcassa della mucca.
Jen
e Arn, impietriti, assistevano in assoluto silenzio ― Jen piangeva senza
far rumore ― mentre i lupi dilaniavano la preda ringhiando. Solo dopo
molto tempo le belve, satolle, si stesero a godersi gli ultimi bagliori del sole
invernale, le pance rigonfie. Nel frattempo i bisonti erano tornati
tranquillamente al pascolo, agitando le code, i placidi musi che metodicamente
strappavano l’erba ingiallita dalle radici e lentamente la masticavano. Rosse
di sangue e biancheggianti, le costole della bestia uccisa si ergevano sulla sua
carcassa come archi, il grande manto strappato via, rivoltato sull’erba
all’intorno come un’ispida veste di cui si veda il rosso e il giallo della
fodera.
Arn
fissava i resti della mucca e i lupi soddisfatti, sazi dopo la caccia. Si voltò
a guardare Jen, e la bambina vide sul suo viso il loro stesso senso di trionfo.
Lei non aveva pensato che alla mucca, strappata alla vita e brutalmente
trasformata in cibo, mentre Arn si era avventato sulla preda insieme ai
cacciatori.
Si
allontanò da lui, sentendosi sola. Non appena si mosse, i ruminanti alzarono le
teste e pestarono nervosamente fra l’erba, volgendo i grandi occhi su di lei.
Anche alcuni lupi alzarono le teste, drizzando le orecchie, e guardarono dritti
verso la bambina con una sorta di vigile curiosità che non era né impaurita né
minacciosa.
Arn
scrutava i lupi, e la sua curiosità si misurava entusiasta con la loro.
“Arn,”
lo chiamò Jen come se fosse andato via lontano. Per un tempo che le parve
lunghissimo egli non le rispose, e quando infine parlò, quel che disse fu:
“Hai visto che roba? Hai visto i lupi cacciare?”
“La
vecchia signora ha detto che Oky era laggiù!” gridò Jen.
Arn
si volse, e l’eccitazione della caccia scomparve dal suo volto: “Ha fatto un
cenno in quella direzione, sì. E questo è tutto ciò che sappiamo, Jen.”
Si
volsero verso il passaggio ad arco, ma la vecchia signora non c’era più. Il
sole era tramontato, le raffiche di neve cessate, la luna era una scaglia
ricurva tra nuvole evanescenti che si muovevano silenziose attraverso il cielo.
Calavano le tenebre. Ora, il buio passaggio ad arco non appariva meno solido e
concreto di un muro. Arn e Jen tentarono di guardare dentro quel buio, ma esso
gli si parò dinanzi come un sipario di cuoio compatto, qualcosa che si poteva
allungare una mano e toccarlo, e fu come cozzare di nuovo contro il divieto di
entrare della vecchia signora. Mai, finché era stata in casa loro, essa gli era
sembrata così severa, forte ed ostile.
Avevano
bisogno di un luogo riparato dal freddo per trascorrervi la notte, e fu Jen che
scoprì un posticino ben protetto fra le spire delle radici del grande albero.
Arn andò in cerca di rami caduti e ramoscelli per fare un fuoco, e Jen raccolse
quanti più aghi secchi poté trovare e li ammucchiò sotto quelle protettive
radici.
Arn
ritornò con una bracciata di legna, la mise giù e: “Ascolta!” disse.
Trattennero
il respiro, ascoltando una specie di gemito in lontananza che dapprima sembrò
del vento, lassù, fra i rami alti dell’albero, ma poi cambiò, parve venire
dalla prateria. Strisciarono pian pianino oltre la cerchia di pietre. Il
lamento, o forse il canto, giungeva proprio dal cuore della prateria, dove le
luci tremolanti di tanti piccoli fuochi in movimento avanzavano verso di loro.
“Quelle
sono persone!” sussurrò Arn.
A
quella tremula luce arancione poterono di nuovo vedere il pianoro roccioso, il
passaggio ad arco e il tronco grigio del grande albero. Alcune delle nere figure
in avvicinamento recavano delle fascine. Rannicchiandosi più che potevano, Jen
e Arn stettero a guardare mentre una serie di falò venivano accesi uno alla
volta lungo un semicerchio intorno al pianoro. Quando le fiamme divamparono
luminose attraverso gli sterpi e la legna, le misteriose figure rimasero in
piedi o si accovacciarono intorno a esse, strane forme per metà umane e per metà
animali. Un canto, monotono e inespressivo come il vento, si levò da esse al di
là dei falò. “Hey-yeh, hey-yeh, hey-yeh, hey-yeh,” continuava sempre
uguale, senza mai salire né abbassarsi di tono.
“Quelle
sono persone!” sussurrò Arn.
Quando
i fuochi, divampando, si fecero più luminosi, videro che erano proprio figure
umane che si alzavano e si abbassavano danzando al ritmo del canto, ma che le
loro teste e le parti superiori dei corpi erano invece di animali. Erano uomini,
sì, ma indossavano pelli di animali, e al di sopra di esse portavano maschere
di animali. C’erano dorsi e teste di orsi bruni, le candide zanne scintillanti
tra le fauci spalancate, e c’erano enormi teste di cinghiali, dalle zanne
d’avorio. Certi recavano sulle spalle delle teste di cervo, alcune dotate di
corna e altre che ne erano prive, mentre altri portavano le pesanti teste di
quei bisonti irsuti, o i musi appuntiti e le orecchie ritte dei lupi. Una figura
era coperta per metà dal manto e dalla testa ambrata di una lince, che alla
luce incostante dei falò esibiva l’ampio sogghigno che conferisce a tutti i
gatti il loro caratteristico sorriso. Le strane creature danzavano restando
sempre nello stesso punto, e il bagliore dei fuochi si rifletteva sulle loro
dentature e sulle pellicce.
Proprio
sotto la piattaforma di roccia sulla quale Jen e Arn erano accovacciati, una
lunga pietra, liscia come una tavola e del medesimo spessore, era stata
sistemata sul terreno in modo che le alte fiamme dei falò si riflettessero su
di essa. Era in direzione di questa pietra che tutte le teste di animali
spalancavano le fauci e tentennavano mentre il canto proseguiva. Il chiarore dei
fuochi creava nelle tenebre un ampio spazio, al di sopra del quale la sottile
falce della luna luccicava debolmente. E dietro i danzatori si scorgevano le
nere figure silenziose di quelli che assistevano immobili, le cui facce
dall’aspetto umano luccicavano di un fioco pallore simile a quello lunare.
Il
canto s’interruppe all’improvviso, così istantaneamente e simultaneamente
che Jen e Arn ne furono spaventati come se quel fragore incessante li avesse
nascosti e ora corressero invece il rischio di essere scoperti da un momento
all’altro.
Una
figura, le cui braccia erano lunghe ali nere e la testa quella di un’enorme
cornacchia, emerse dall’oscurità e si avvicinò alla tavola di pietra. Dietro
di essa apparve una figura curva, che indossava un manto ricoperto di lunghi
aghi e di aculei sormontato da una faccia tarchiata e pelosa: un porcospino
gigante. Rimasero in piedi accanto alla pietra, in silenziosa attesa. Dalla
gente, nel buio della prateria, si levò un canto a bocca chiusa, flebile e
tuttavia acutissimo, che a poco a poco si tramutò in un doloroso lamento
femminile. Era un gemito senza fine, un pianto disperato che non sgorgava da un
dolore attuale ma ne rievocava uno remoto. S’innalzava e affievoliva in lunghe
ondate. Cantava una perdita incommensurabile, e Jen lo sentiva echeggiare dentro
di sé come se fosse fatta per intenderlo. Pensò a sua madre, che stava forse
lanciando quegli stessi gemiti di dolore per i suoi bambini perduti. Sentì che
anche lei, Jen, era venuta al mondo per provare un giorno la medesima intensità
di dolore. Mentre il lamento s’innalzava e affievoliva, Jen divenne Eugenia,
orbata dei figli, e dalla sua gola sgorgò lo stesso canto che si levava nella
prateria da quelle donne misteriose.
Due
uomini, che indossavano pelli e teste di bisonti, apparvero sul limitare delle
tenebre. Ognuno teneva per mano un bambino, e i bambini portavano pelli di cervo
sulle quali erano cucite delle sfavillanti decorazioni di perline ricavate da
aculei di porcospino tinti di vari colori. I loro neri capelli erano stati
intrecciati e unti. Jen e Arn videro che erano una bambina e un bambino, ambedue
all’incirca della loro età. I due uomini-bisonti li portavano verso la
pietra, e il canto lamentoso si faceva più intenso.
Benché
camminasse senza vacillare, la mano nella mano dell’uomo-bisonte, il viso
della ragazzina era pietrificato dalla paura. Jen tremò per lei, sentendosi
mancare il respiro. Non aveva mai visto una ragazzina della sua età, ma si
sentiva come se conoscesse quella bambina da sempre e intimamente, e aveva paura
insieme a lei come se insieme a lei si accingesse a sottoporsi a quel rito
misterioso.
Arn
vide la paura e la spavalderia del ragazzo. Camminava eretto, il visetto bruno
atteggiato a inflessibile risolutezza, e mai e poi mai avrebbe pianto o tentato
di sottrarsi a ciò che doveva fare, qualunque fosse l’intensità del segreto
terrore - che Arn sentì nelle ossa come un brivido gelido - che la cosa suscitava
in lui.
Senza
un suono, a un capo della tavola di pietra apparve un cervo ― un uomo che
indossava la pelle e il capo di un grande cervo dalle ampie corna. Gli
uomini-bisonti, tenendo per mano i bambini, presero posto accanto alla
cornacchia e al porcospino. All’altro capo della tavola apparve una figura
completamente coperta da una lunga pelliccia bianca, con un bianca faccia da
animale, una lunga barba anch’essa bianca e brevi corna ricurve. Era il manto
di un caprone di montagna, quello che indossava.
I
fuochi divamparono, gli estremi lembi delle fiamme, arancioni, più alti di un
uomo, vacillarono come se bruciassero negli strati più elevati
dell’atmosfera. Anche il lamento crebbe d’intensità, e un uomo, nudo dalla
cintola in sù tranne che per una lunga collana di denti lucidati, si fece
avanti reggendo nella mano destra un coltello dai vividi riflessi
bronzeo-ramati. Era un coltello corto, da macellaio, la lama larga e robusta. I
neri capelli dell’uomo erano legati con un laccio dietro la sua faccia cupa,
tirata.
L’uomo-bisonte
che teneva per mano la bambina la issò sulla tavola di pietra, dove giacque sul
dorso. Il suo petto e le braccia tremavano, ma dalla bocca non usciva un suono.
L’uomo-bisonte che teneva il ragazzo lo sollevò e lo pose accanto alla
bambina, dove anche lui prese a tremare, ma senza che nel suo visetto severo
mutasse alcunché. L’uomo col coltello venne avanti e lo levò sui bambini,
puntato verso il basso.
Jen
balzò in piedi, pronta a gridare o a mettersi a correre verso la tavola di
pietra, ma Arn la trattenne per un braccio: “Sta’ zitta, sta’ zitta!” le
sussurrò.
Fu
in quel momento che un albero, camminando su gambe umane, uscì dalle tenebre e
venne a mettersi tra l’uomo e i bambini. Era un uomo, in realtà, ma reggeva
un giovane sempreverde i cui rami dagli aghi ancora teneri nascondevano la parte
superiore del suo corpo. Le piccole pigne e gli aghi piuttosto corti erano come
quelli del grande albero sul pianoro roccioso, ma questo era così giovane e
tenero che non era facile riconoscere in lui un esemplare della stessa specie.
Rimase in piedi in silenzio, senza muoversi, celando i bambini al coltello. Il
canto lamentoso si attenuò, ma in sottofondo si continuava a udire un basso
gemito di tristezza, attutito ma non spento.
Il
caprone e il cervo levarono il capo verso il cielo notturno, sporgendo le fronti
cornute al di sopra dei bambini sulla tavola di pietra. Il silenzio, eccetto che
per il fioco lamento delle donne e il tremulo crepitio delle fiamme, era
assoluto. Nere nubi si muovevano, senza cambiare aspetto, al seguito
dell’esile falce della luna, silenziose nel vento che soffiava lassù, molto
in alto al di sopra del luogo del sacrificio.
Con
un urlo, secco come un colpo di tosse, l’uomo con il coltello tagliò un ramo
del giovane sempreverde, poi un altro, e un altro ancora, mentre i teneri aghi
scendevano lievi fino al suolo. A ogni ramo che cadeva, il lamento tornava a
farsi più intenso, finché l’alberello non fu del tutto spoglio e il canto
delle donne divenne un grido che gremiva la notte dalla terra al cielo. Il
coltello si levò sui bambini. Si abbatté su di loro, fulmineo, e Jen lanciò
un grido che non poté soverchiare il canto di dolore sempre più possente che
saliva al cielo dagli uomini e dalle donne nella prateria. Gli uomini travestiti
da animali avevano circondato la tavola di pietra, i bambini non si vedevano più.
E le fiamme declinavano e guizzavano, rosse e arancioni, tingendo di bagliori
color del sangue i profili in movimento di quelle teste animalesche.
Poi
alcuni degli uomini-animali si caricarono i due corpi sulle spalle. La gente, in
silenzio, seguì i portatori nelle tenebre attraverso la prateria. Le braci
rosseggianti continuarono ad ardere intorno alla tavola di pietra.
Arn
e Jen rimasero accovacciati l’uno accanto all’altra al riparo del bordo
frastagliato della piattaforma di roccia. Una fredda foschia si muoveva intorno
a loro, coprendo di umidità i loro volti e le grandi pietre. Restavano in
silenzio, guardandosi al fioco chiarore delle braci diffuso dalla foschia, e si
sentivano piccoli e sperduti. “I bambini...” sussurrò Jen. “I
bambini...”
Arn
non riusciva a chiarire a sé stesso quel che provava. Quella era gente, erano
persone come lui... Che cosa avevano fatto ai due bambini? Non lo capiva, eppure
doveva capirlo. Sembrava che fossero passati dei secoli da quando li
aveva visti tremare atterriti, e tuttavia era come se fossero ancora lì con
lui. Era il ricordo della loro acquiescenza a farlo dubitare della sua capacità
di comprensione, a rendere così cupi e dolorosi i suoi sentimenti. Ciò che era
accaduto non gli era parso del tutto cattivo, ma d’altra parte come poteva non
esserlo? Anche lui aveva ucciso, messo fine all’esistenza di altri esseri,
tratto alla luce con l’affilata lama del suo coltello le parti più recondite
degli animali, quelle in cui risiede la vita. Li aveva uccisi e mangiati. Ma
anche lui era un animale, un essere vivente e senziente, e anche Jen lo era.
Potevano morire entrambi con la stessa facilità con cui egli aveva ucciso altre
creature. Cosa che invece non era altrettanto facile per quella gente. Al punto
che avevano dovuto sacrificare due dei loro stessi figli per dimostrare la
propria affinità con gli animali che in quella notte tenebrosa avevano finto di
essere e il proprio diritto di sottrarre loro le pellicce e la carne. Ma questo
non era giusto. Quel ragazzo coraggioso, quella bambina coraggiosa e atterrita,
disposti entrambi a morire... Una profonda sofferenza si enfiava come un tumore
nel petto di Arn da quei sentimenti che non riusciva a capire. Jen rivedeva il volto del ragazzo, sul quale non era apparso alcun segno di paura. Ne ammirava la spavalderia, ma al contempo avrebbe voluto gridare che era sbagliata, che era tutto sbagliato. E la bambina... Ah, se l’avesse conosciuta, se avesse potuto averla come amica!... Ma proprio dell’averla perduta si sentiva responsabile, come se anche lei, Jen, avesse avuto qualcosa a che fare con il rito al quale aveva solo assistito. La bambina non aveva gridato che non era giusto. Le donne si erano lamentate, ma nessuna aveva tentato di impedire il sacrificio. E questo fallimento, in qualche modo, sembrava essere anche di Jen. E poi c’era Oky, il cui essere al mondo, o almeno in questa valle, sembrava ora assai meno certo, come se quella che Jen aveva visto uccidere dai lupi fosse proprio lei, Oky, e la sua morte molto più naturale e ineluttabile di quelle a cui aveva appena assistito, inflitte dalla sua stessa specie a una parte di sé.
*
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*
Il Vecchio Zannastorta
La
nebbia, pur così umida e fastidiosa, rese la notte meno fredda della
precedente. Le temperature della valle, a causa probabilmente del lago caldo,
sembravano differire di un’intera stagione da quelle del mondo esterno.
Arn
condusse Jen, che continuava a singhiozzare e tremare, fino al posticino
riparato che avevano scoperto fra le radici del grande albero. Non osò
accendere un fuoco, perciò si sdraiarono l’uno accanto all’altra per
scaldarsi a vicenda e chiusero gli occhi.
Sembrò
che passasse chissà quanto tempo prima che riuscissero ad addormentarsi, ma in
realtà non ci volle più di qualche minuto. Poi, un po’ prima dell’alba,
furono a poco a poco dolcemente catturati da un sogno in cui c’era una voce
che parlava loro in tono tranquillo e inespressivo, né affabile né brutale.
Erano molto in alto, la prateria si stendeva ai loro piedi, e una trentina di
metri più in basso l’erba si muoveva al rollio del vento, un’onda dopo
l’altra, cangiando dal verde all’oro, piegandosi al calore del sole. Morbide
braccia verdi cullavano i due bambini, e nel sogno la cosa non aveva nulla di
strano. “Ciò che avete visto e vedete e vedrete è tutto vero...” diceva la
voce. E benché non parlasse la loro lingua, essi la capivano e non lo trovavano
strano.
“La
gente se ne andò, dopo che ebbe compreso ciò che aveva fatto...” frusciò la
voce nello stormire del vento.
Sia
Jen che Arn, senza parlare, domandarono che cosa la gente avesse fatto.
“Erano
cambiati dentro, nel profondo dei cuori,” disse la voce. “Erano arrivati a
credere che la valle e tutte le sue creature appartenessero a loro.”
Io
non l’avrei mai fatto, pensarono sia Jen che Arn.
Forti
e delicate, le verdi braccia cingevano i loro corpi.
“Fuori,
nel mondo, dimenticarono ciò che avevano fatto e si allontanarono gli uni dagli
altri. Non ricordarono più nulla.”
Se
n’era andata tutta, l’Antica Gente?
“Il
mondo è spietato, ma non è crudele. Tutto ciò che vive deve morire. È la
legge del cambiamento, la stessa legge che vi ha dato alla luce e a quel tanto
di gioia che vi è toccato in sorte.”
Noi
vogliamo andare a casa.
“Tutto
ciò che vi sarà dato è la conoscenza.”
Ma
noi vogliamo andare a casa.
“Imprigionarono
le creature viventi nei recinti, le nutrirono e si guadagnarono la loro fiducia,
ma solo per poi tradirle. Altre creature le cambiarono a poco a poco, una
generazione dopo l’altra, finché il loro solo desiderio fu quello di
uccidersi ed estinguersi. Della natura fecero un mattatoio. Divennero peggiori
del loro peggior timore.”
A
casa. Vogliamo andare a casa.
Le
verdi braccia che li sorreggevano si dissolsero insieme alla voce, si mutarono
in una sensazione di gelo che scaturiva dall’umidità e dal grigiore della
roccia e degli aghi di pino su cui giacevano. Ebbero freddo, e si svegliarono
pieni di rabbia per tutte quelle privazioni, furibondi, ma senza poter
prendersela con nessuno. Jen si accorse di avere il broncio. Arn sentì che ne
aveva avuto abbastanza di tutto. Non avrebbe dovuto seguire Jen, in primo luogo.
Si mise sulle ginocchia, scrollandosi di dosso il suo antico senso di
responsabilità. Doveva tirarsi fuori da lì. Doveva alzarsi e guardarsi
intorno, essere astuto, nascondersi, fuggire. Stava giusto spuntando l’alba.
Quando
si alzò cautamente per scrutare nella nebbia, Jen lo osservò. Si muoveva lento,
silenzioso come un cacciatore, lo sguardo vigile e freddo. Così immobile,
mentre guardava fuori nella nebbia, che lo si sarebbe potuto prendere per una
statua. I suoi occhi erano dei puri e semplici strumenti, come quelli di un
uccello. Le ricordò il babbo quando nei boschi s’immobilizzava di colpo, lo
sguardo attento, in ascolto. Era come se non esistesse più, in quei momenti, il
babbo: come se non fosse più una persona, ma solo degli occhi che scrutavano. E
Arn, adesso, nella sua immobilità ― più che il fratello che Jen
conosceva, che le aveva salvato la vita quando stava per morire congelata, le
aveva fabbricato un riparo e aveva acceso un fuoco per scaldarla ―
sembrava egli stesso parte dell’orrore a cui avevano assistito insieme la sera
prima.
Calandosi
da una pietra all’altra, Arn scese dal bordo della piattaforma di roccia verso
l’umida pianura erbosa.
“No,
Arn!” lo chiamò Jen. “Torna indietro!” Ma ad Arn parve già così lontana
da lui, e la sua voce così flebile e ridotta a un sussurro, che egli a malapena
la udì.
Le
sentinelle di pietre erano delle pallide sagome che affioravano dalla prateria.
Non appena lasciò il pianoro, Arn si sentì come se si stesse lasciando alle
spalle la terraferma fluttuando sulla superficie di un grande lago. Foschia e
nebbia lo avvolsero, a mano a mano che il pianoro si allontanava, mentre la
figura di pietra verso la quale si dirigeva divenne via via più concreta. Il
suo colore grigio-nebbia si fece più scuro, i contorni più precisi. Crebbe in
altezza e in larghezza. Nonostante la sua immobilità era come se gli facesse
cenno di avvicinarsi, ma lui non era del tutto certo di voler farlo. Alla
sinistra e alla destra di essa, in un ampio cerchio, le altre sentinelle
svanivano nella nebbia. Si era messo in cammino verso di quella, e proprio
quella voleva andare a esaminare. Voleva andar dritto su di essa e osservarla
proprio là dove essa incombeva, antica e imperscrutabile, nel chiarore
dell’alba. Pareva che anche lei si avvicinasse a lui, mentre camminava alla
sua volta. Ora si accorgeva che era diversa dalle altre sentinelle di pietra.
Non era squadrata, all’altezza delle spalle, ma aveva una testa. C’erano
degli occhi che lo guardavano, scavati in quella testa di pietra? Se così era,
egli non voleva incrociare il loro gelido sguardo e nonostante ciò continuava
ad avvicinarsi. E in quel momento, con un brivido di paura, si accorse che
quella sentinella non era fatta solo di pietra. Sulle sue spalle di granito
c’era una testa di cinghiale, gli occhi iniettati di sangue pieni di cispa e
semi-decomposti. La lingua raggrinzita penzolava da un lato uscendo dalle zanne
giallastre, e lungo le labbra, nere ed enfiate, luccicavano viscidi i vermi. Il
gelido fetore della carogna lo raggiunse all’improvviso, costringendolo a fare
dietro-front e a tornare di corsa da Jen.
“Che
cosa c’è?” ella domandò.
“Dobbiamo
restare insieme,” rispose lui.
Si
sedettero l’uno accanto all’altra sugli aghi sui quali avevano dormito.
“Dobbiamo tornarcene a casa,” disse Arn. “Ho fatto un sogno,” disse Jen, guardando in sù tra i rami dell’albero, così in alto che le sembrò di sconfinare in un altro mondo dove tutto era grigio e verde. “Anch’io!” disse Arn. “C’era una voce...” E allora udirono una voce - la voce incrinata e stridula di un vecchio - e guardandosi intorno scorsero un curvo e ossuto vecchietto che guardava loro e rideva, annuendo e tentennando la vecchia faccia nodosa. Radi capelli grigi fluivano lungo le sue orecchie, e la sua bocca era nera, quando era aperta: tutta nera eccetto che per un solo dente da un lato, storto e giallastro. Balzarono in piedi, impauriti, ma il vecchio scosse la testa e per rassicurarli gli mostrò le mani rugose, come per dir loro: “Sù, sù, come potrei farvi del male?” Allora la paura si attenuò, ed essi notarono che la sua tunica di pelle di daino era cenciosa e sdrucita in più punti, e i calzoni, anch’essi di pelle di daino, macchiati di grasso e sporchi, e lucidi sulle ginocchia. La sua schiena era così piegata che lì per lì si aveva l’impressione che la testa gli sbucasse dal petto. Perfino per guardare in giù, verso di loro, sembrava costretto ad alzarla. Si appoggiava a un piccolo arco contorto e senza corda, e dalla cintola gli pendeva una faretra di frecce, alcune delle quali prive di piume. Ma i suoi occhi erano luminosi, e le rughe che da essi s’irradiavano erano amichevoli. Parlò loro in una strana lingua che all’inizio suonava dura, stridula, quasi tutte le parole smangiucchiate e gutturali, e alcune altre protratte e melodiose, invece, come le parole di una canzone. Arn si sedette di nuovo e incrociò le gambe, e lo stesso fece Jen. Il vecchio depose l’arco, spinse la faretra di cuoio da un lato della cintura e si sedette anche lui a gambe incrociate di fronte a loro. “Ah nee ah, no ah nee,” disse. E quando Arn e Jen scossero il capo, levò alte le vecchie mani e ne trasse immagini e racconti - proprio, si sarebbe detto, come aveva fatto tanto tempo prima la vecchia signora quando ancora se ne stava seduta sulla sua panca vicino al focolare di casa loro. Arn rispose anche lui con le mani, e disse che loro erano Arn e Jen indicando sé stesso e la bambina mentre pronunciava con chiarezza e ad alta voce i loro nomi. “Arn e Jen nee ah,” disse il vecchio, annuendo. “Jen nee ah,” disse Jen. Il vecchio sorrise, compiaciuto, ma fece segno di no: “Jen ah nee,” disse, puntando il dito verso di lei. “Jen ah nee,” ella disse, ed egli annuì con un così gran sorriso che la parte inferiore della sua faccia si accorciò e si allargò. “Ganonoot ah nee,” disse, indicandosi il petto e poi quel suo unico dente così lungo e giallo. “Snaggletooth1,” disse Arn. “Ganonoot,” disse il vecchio con un sorriso, indicandosi orgogliosamente il dente. Arn, sempre nella lingua dei gesti, gli domandò come si chiamasse quella valle, e se egli fosse dell’Antica Gente. E muovendo le mani pronunciava le parole anche ad alta voce, in modo che Jen potesse comprenderle, e Jen si sorprese a muovere anche lei le proprie seguendo quelle di Arn, e imparando ogni parola nel momento in cui le dava forma. E il vecchio, rispondendo con le mani, al contempo pronunciava le parole nella sua lingua: “Nee a no notomanay... Questo è il mondo,” disse. “Perché, voi siete stati da qualche altra parte? Sì, senza dubbio sono vecchio, io!” Arn e Jen si accorsero che stavano apprendendo ogni parola di quella nuova lingua nel momento stesso in cui la udivano, e che perfino il suo ritmo stava a mano a mano diventando sempre più significativo dentro di loro. “Ma noi abbiamo sentito tante di quelle storie sull’Antica Gente, e su Tsuga Va-troppo-lontano, e sulla Porta Nera...” disse Arn. Per un momento gli occhi di Zannastorta si fissarono dritti dritti in quelli di Arn. Poi il vecchio sorrise, ridacchiò, le sue vuote gengive schioccarono l’una sull’altra, ed egli disse loro che era così vecchio, ormai, che tutto ciò che poteva fare era raccontare storie. Il suo arco, che una volta tirava a cento passi di distanza, adesso era malandato come la sua schiena, e le sue frecce erano piegate, e il loro impennaggio era a brandelli. “E solo le vecchie storie, eh?” disse. “Perché di queste storie nuove non ci si può mica fidare del tutto. Si può stare a sentirle, questo sì, ma non ci si può mica credere come si credeva alle storie di una volta... E poi non le conosco, io, le storie di adesso, e non me n’importa niente se non me le ricordo. Se le possono anche tenere, le storie di adesso, per quel che me n’importa a me!” Sembrava che fosse lì lì per dar di fuori, e Jen gli diede un colpetto su un braccio per rabbonirlo. “Sono affamato,” disse il vecchio. Una lacrima intraprese un complicato percorso in discesa lungo il suo naso, si infilò in una ruga che scorreva accanto alla bocca, raggiunse il centro del mento e lì si fermò. “Anche noi,” disse Arn. “Abbiamo mangiato un po’ di porcospino l’altro ieri sera, ma durante la notte una lince si è rubata quel che ne era avanzato.” “E delle trote ieri mattina,” disse Jen. “E nient’altro?” domandò Zannastorta. “Ma la vostra gente vi lascia senza mangiare?” Si rimise in piedi faticosamente appoggiandosi al suo arco, la cui funzione da vecchio sembrava ormai più quella di un bastone da passeggio che di un’arma. “Pensavo,” disse con voce lamentosa, “che aveste nello zaino qualche pezzetto di pane o di focaccia d’avena, o magari un po’ di carne di cervo affumicata, o qualche mela avvizzita, o almeno qualche pezzo di stupido manzo, o un po’ di carne secca.” “Niente,” disse Arn. “Soltanto delle polverine per il tè.” E lui e Jen si scambiarono un’occhiata sbigottita, accorgendosi di quanto il vecchio fosse come un bambino piccolo. “Bene!” disse Zannastorta. “Sono solo un vecchio, è chiaro, e non merito lo stesso rispetto degli altri. Ho perso gli ultimi due denti, non ho potuto più mangiare ed è stata la fine, per me. E le storie di una volta se le possono pure scordare, per quel che me n’importa a me!” E i suoi occhi si riempirono di lacrime, e ciascuna trovò il suo percorso lungo le sue rughe.
Continua... a mano a mano che la traduzione va avanti!
_____________________________________________________________________________________ 1. Snaggletooth, che si può grosso modo tradurre come Zannastorta, è ovviamente la scherzosa contraffazione di Ganonoot, ma il gesto del vecchio fa pensare che potrebbe anche essere una sua corretta traduzione!... Torna al testo.
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