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Ecco qualche bella lettura!

 

LIsola del Tesoro

di Robert Louis Stevenson

Indice

PARTE PRIMA - IL VECCHIO FILIBUSTIERE

Capitolo 1 Il vecchio lupo di mare all’"Ammiraglio Benbow"

Capitolo 2 Can-nero appare e scompare

Capitolo 3 La macchia nera

Capitolo 4 Il baule marino

Capitolo 5 La fine del cieco

Capitolo 6 Le carte del capitano

PARTE SECONDA - IL CUOCO DI BORDO

Capitolo 7 Vado a Bristol

Capitolo 8 All’insegna del "Cannocchiale"

Capitolo 9 Polvere e armi

Capitolo 10 Il viaggio

Capitolo 11 Ciò che udii nel barile delle mele

Capitolo 12 Consiglio di guerra

PARTE TERZA - LA MIA AVVENTURA A TERRA

Capitolo 13 Come incominciò la mia avventura

Capitolo 14 Il primo colpo

Capitolo 15 L’uomo dell’isola

PARTE QUARTA - IL FORTINO

Capitolo 16 Il dottore continua il racconto: come la nave fu abbandonata

Capitolo 17 Continua il racconto del dottore: l’ultimo viaggio del piccolo canotto

Capitolo 18 Continua il racconto del dottore: fine della prima giornata di combattimento

Capitolo 19 Il racconto è ripreso da Jim Hawkins: la guarnigione del fortino

Capitolo 20 L’ambasciata di Silver

Capitolo 21 L’attacco

PARTE QUINTA - LA MIA AVVENTURA IN MARE

Capitolo 22 Dove incomincia la mia avventura

Capitolo 23 La marea discende

Capitolo 24 La crociera della piroga

Capitolo 25 Ammaino il Jolly Roger

Capitolo 26 Israel Hands

Capitolo 27 "Pezzi da otto"

PARTE SESTA - IL CAPITANO SILVER

Capitolo 28 Nel campo nemico

Capitolo 29 Di nuovo la macchia nera

Capitolo 30 Sulla parola

Capitolo 31 La caccia al tesoro: l’indice di Flint

Capitolo 32 La caccia al tesoro: la voce tra gli alberi

Capitolo 33 La caduta di un capo

Capitolo 34 e ultimo

 

A S. L. O.

gentiluomo americano

in ricambio di molte piacevoli ore

e coi più cari auguri

il seguente racconto

disegnato in armonia

col suo classico gusto

laffezionato amico autore dedica

 

ALL’ESITANTE ACQUIRENTE

Storie marine in marinaresco tono

E tempeste e avventure e caldi e geli

E bastimenti ed isole e crudeli

Piraterie, ed interrato oro,

Ed ogni vecchia favola ridetta

Nei precisi antichi modi:

Se tutto ciò, come a me piacque un tempo,

Piaccia ai più savi giovani d’oggi:

Così sia, così accada! - Ma se no,

Se il giovane saputo non più brama,

Gli antichi amori suoi dimenticò,

Kingston, o Ballantine il valoroso,

O Cooper dalla selva e dal maroso:

Così pur sia! E rassegnato io possa

E i miei pirati entrare nella fossa

Ove dormono quelli e lor fantasmi!

 

PARTE PRIMA

IL VECCHIO FILIBUSTIERE

 

Capitolo 1

Il vecchio lupo di mare all"Ammiraglio Benbow"

 

Pregato dal cavalier Trelawney, dal dottor Livesey e dal resto della brigata, di scrivere la storia della nostra avventura allIsola del Tesoro, con tutti i suoi particolari, nessuno eccettuato, salvo la posizione dell’isola; e ciò perché una parte del tesoro ancora vi è nascosta, - io prendo la penna nell’anno di grazia 17... e mi rifaccio al tempo in cui il mio padre gestiva la locanda dell’"Ammiraglio Benbow" e il vecchio uomo di mare dal viso abbronzato e sfregiato da un colpo di sciabola prese alloggio presso di noi.

Lo ricordo come fosse ieri, quando entrò con quel suo passo pesante, seguito dalla carriola che portava il baule. Alto, poderoso, bruno, con un codino incatramato che gli ricadeva sopra il suo bisunto abito blu: le mani rugose e ricoperte di cicatrici, con le unghie rotte e orlate di nero; e, attraverso la guancia, il taglio del colpo di sciabola d’un bianco livido e sporco. Roteò in giro un’occhiata fischiettando fra sé, e poi, con la sua vecchia stridula e tremula voce ritmata e arrochita dalle manovre dell’àrgano, intonò quell’antica canzone di mare che doveva più tardi così spesso percuotere i nostri orecchi:

 

"Quindici sulla cassa del morto,

Quindici uomini yò-hò-hò,

E una bottiglia di rum per conforto!"

 

Poi con un pezzo di bastone simile a una manovella batté contro la porta, e come mio padre apparve, ordinò bruscamente un bicchiere di rum. Appena gli fu portato, lo bevve lentamente assaporandolo all’uso dei conoscitori, e intanto seguitava a guardare intorno a sé esaminando le colline e la nostra insegna.

"Questo è un luogo adatto" disse alfine "e ottimamente situato.

Molta gente, amico mio?" Mio padre rispose che no; poca assai: una desolazione.

"Bene. E’ l’ancoraggio che fa per me. Ehi, tu" gridò all’uomo della carriola "vieni, e aiuta a portar su il mio baule. Resterò qui un pezzetto" continuò. "Sono un uomo alla buona, io: rum, prosciutto, uova: altro non mi serve, e quella punta lassù per osservar le navi che passano. Il mio nome? Capitano, potete chiamarmi. Ah, capisco, capisco ciò che vi preoccupa... Prendete!" E gettò sul banco tre o quattro monete d’oro. "Mi avvertirete quando sarà finito" aggiunse, con uno sguardo fiero, da comandante.

In verità, malgrado i suoi abiti frusti e il suo rozzo parlare, egli non aveva l’aria d’un marinaio: si sarebbe piuttosto detto un secondo o un padrone di nave, abituato a vedersi ubbidito o a picchiare. L’uomo della carriola ci riferì ch’era sbarcato dalla corriera la mattina davanti al "Giorgio Reale", che s’era informato degli alberghi lungo la costa, e udito parlar bene del nostro, lo aveva prescelto in grazia del suo isolamento. Questo fu tutto quanto potemmo sapere sul conto del nostro ospite.

Egli era assai taciturno. Passava la sua giornata gironzolando intorno alla cala, o per le colline, provvisto d’un cannocchiale marino; e tutta la sera rimaneva in un angolo della sala accanto al fuoco, a bere dei grog molto forti. A chi gli rivolgeva la parola evitava per lo più di rispondere: dava un rapido e iroso sguardo, e soffiava per le narici come una tromba d’allarme; sicché tanto noi che gli avventori imparammo presto a lasciarlo stare. Ogni giorno, quando rientrava dalla sua passeggiata, non tralasciava di chiedere se qualche marinaio si fosse visto lungo la strada. Noi credevamo dapprima fosse la mancanza d’una compagnia di gente della sua specie che lo spingesse a tali domande; finimmo però col capire che, al contrario, ciò che gli premeva era evitare incontri. Quando un marinaio scendeva all’"Ammiraglio Benbow" (come talvolta accadeva a chi si recava a Bristol per la strada costiera) egli puntava il nuovo arrivato attraverso la cortina dell’uscio prima di decidersi a passar nella sala, e finché quello non alzava i tacchi, stava muto come un pesce. Questo contegno non aveva peraltro nulla di misterioso ai miei occhi, giacché io in certo modo dividevo le preoccupazioni del capitano. Un giorno tirandomi in disparte m’aveva promesso un pezzo d’argento di quattro pence per ogni primo del mese, a patto che io facessi buona guardia e l’avvisassi non appena comparisse un "marinaio con una gamba sola". Spesso accadeva che giungeva il primo del mese, ed io dovevo richiedergli il mio salario: egli allora mi rispondeva con quel suo pauroso soffiare attraverso le narici, e con una guardataccia che mi atterriva: ma la settimana non passava mai senza ch’egli si ravvedesse e mi consegnasse i miei quattro pence ripetendomi l’ordine di stare attento al marinaio con una gamba sola.

Non saprei dire come questo personaggio fosse diventato l’incubo dei miei sogni. Nelle notti di tempesta, quando il vento scoteva i quattro angoli della casa e i cavalloni infuriati mugghiavano lungo la cala e contro le rupi, io me lo vedevo apparir dinanzi in mille forme e con mille diaboliche espressioni. Ora aveva la gamba tagliata fino al ginocchio, ora fino all’anca; ora non era più uomo, ma una sorta di mostro nato proprio così, con una gamba sola, e questa nel bel mezzo del corpo. Vederlo saltare, correre e inseguirmi scavalcando siepi e fossati, era il più tremendo degli incubi. E così, con tali bieche visioni, io pagavo abbastanza caro il premio dei miei quattro pence mensili.

Ma, curioso a dirsi, malgrado il terrore che il marinaio dalla gamba sola m’incuteva, io ero poi di fronte al capitano in persona il meno pauroso fra tutti quanti l’avvicinavano.

Certe sere egli beveva assai più grog che non potesse sopportare; allora si tratteneva lì a cantare le sue vecchie, sinistre, selvagge canzoni di mare non curandosi d’alcuno; altre volte offriva da bere in giro e costringeva la intimidita brigata ad ascoltar le sue storie o accompagnare in coro i suoi ritornelli.

Quante volte ho udito la casa rintronare di "Yò-hò hò e una bottiglia di rum", mentre i vicini, col timore della morte sul capo, l’accompagnavano con tutta l’anima, cercando ognuno di superare l’altro, a scanso di appunti! Perché in questi accessi egli era l’uomo più insolente e prepotente del mondo: ora imponeva silenzio battendo con la palma sulla tavola, ora pigliava fuoco per una domanda che gli era rivolta, o perché nessuno osservava nulla, il che per lui era segno che la compagnia non s’interessava al racconto. E non tollerava che si lasciasse la sala prima che egli ubriaco fradicio non avesse, barcollando, raggiunto il suo letto.

Ciò che soprattutto sbigottiva l’uditorio erano le sue storie.

Spaventevoli storie d’impiccagioni, d’annegamenti, di burrasche di mare, delle Isole delle Tartarughe, e di gesta e luoghi selvaggi in terre spagnole. A sentir lui, era vissuto fra la più dannata razza che Iddio seminasse per i mari; e il suo linguaggio brutale urtava i nostri semplici paesani quasi al pari dei delitti ch’egli descriveva. Mio padre sempre andava lamentando che quell’uomo sarebbe stato la rovina dell’albergo, poiché ben presto la gente si sarebbe stancata di venir lì per essere tiranneggiata, avvilita e spedita a battere i denti nei propri letti; ma io credo invece che la sua presenza ci fosse profittevole. E’ vero che sul momento gli avventori ci rimanevano male; ma poi provavano non so che gusto a tornarci su col pensiero, e quasi amavano ciò che dava una scossa alla monotona e sonnacchiosa vita del paese. C’era persino tra i più giovani chi per lui ostentava ammirazione, qualificandolo "un vero lupo di mare", un "autentico tizzo d’inferno", e dicendo ch’erano gli uomini di siffatta tempra che rendevano l’Inghilterra formidabile sul mare.

Veramente, in certo modo, egli lavorava alla nostra rovina, giacché settimane e settimane e poi mesi e mesi si susseguivano senza ch’egli desse segno di voler sloggiare, e intanto da lunga data il suo denaro era finito e a mio padre non aveva l’animo di insistere per averne dell’altra. Se appena egli vi alludeva, il capitano soffiava attraverso il naso talmente forte che pareva ruggisse, e con una fulminante occhiata cacciava via dalla sala il mio povero padre. Io lo vedevo, mio padre, disperato torcersi le mani dopo tali rabbuffi, e credo che l’affanno e il terrore nei quali viveva affrettassero grandemente la sua immatura e disgraziata fine.

Tutto il tempo che rimase con noi il capitano non mutò mai nulla del suo vestiario, eccetto qualche calza comprata da un merciaio ambulante. Essendosi rotto uno degli angoli del suo cappello a tricorno, egli lo lasciava spenzolar giù sebbene gli desse abbastanza noia quando tirava vento. Rivedo l’aspetto dell’abito ch’egli stesso rappezzava nella sua stanza di sopra e che, già prima della fine, era un mosaico di toppe. Mai scrisse né ricevette una lettera; mai parlava con alcuno fuorché coi vicini; e con questi, per lo più, solo quand’era ubriaco di rum. Nessuno di noi mai aveva visto aperto il grosso baule marino.

Una volta soltanto il nostro uomo trovò chi gli tenne testa, e fu verso la fine, quando il mio povero padre era già molto minato dal male che doveva condurlo alla tomba. Il dottor Livesey giunse a sera a veder l’infermo; si fece servire un boccone da mia madre, poi se ne andò a fumare una pipata nella sala, in attesa che il suo ca vallo gli fosse ricondotto dal villaggio, giacché al vecchio "Benbow" non avevamo stallaggio. Io ve lo seguii, e rammento ancora lo stridente contrasto che faceva il lindo e rilisciato dottore con la sua parrucca candida come neve, i suoi neri e scintillanti occhi e le sue compite maniere, con la rustica plebaglia e soprattutto con quel sudicio torvo e ripugnante spauracchio di pirata, acciaccato laggiù in quell’angolo dal rum, con le braccia sulla tavola. D’improvviso costui - dico il capitano - intonò la sua eterna canzone:

 

"Quindici sulla cassa del morto,

Yò-hò-hò, e una bottiglia di rum!

Satana agli altri non ha fatto torto,

Con la bevanda li ha spediti in porto.

Yò-hò-hò, e una bottiglia di rum!"

 

Io avevo da prima creduto che la "cassa del morto" fosse la stessa grossa cassa ch’egli teneva di sopra nella stanza davanti; e questa idea s’era fusa nei miei incubi con l’immagine del marinaio dalla gamba sola. Ma da lungo tempo ormai noi avevamo cessato di far attenzione al ritornello; solo agli orecchi del dottor Livesey quella sera giungeva nuovo; ed io m’accorsi dell’impressione tutt’altro che gradevole ch’egli ne riceveva, giacché alzò gli occhi e guardò per un momento con aria irritata prima di decidersi a continuare col vecchio giardiniere Taylor il suo discorso intorno a una nuova cura delle affezioni reumatiche. Frattanto il capitano s’andava accendendo della sua musica e alzando il tono; e alla fine schiaffò sulla tavola con la palma quel tal colpo che noi tutti sapevamo significava: Silenzio! Nessuna voce fu più udita, ad eccezione di quella del dottor Livesey, che continuò a parlare come prima, chiaro e cortese, tirando tra una frase e l’altra una vistosa boccata di fumo. Il capitano lo fissò bieco un istante, batté un nuovo colpo con la palma, gli lanciò un’altra occhiataccia, e, accompagnando la frase con una triviale bestemmia, gridò:

"Silenzio, laggiù a prua!" "E’ a me che il signore intende parlare?" disse il dottore; e non appena il ribaldo gli ebbe, con un’altra bestemmia, risposto affermativamente, "io non ho che una cosa da dirvi" replicò il dottore "ed è che se voi continuate a tracannare rum, il mondo sarà presto liberato da uno schifoso miserabile." Spaventevole fu lo scoppio d’ira del vecchio gaglioffo. Scattò in piedi, trasse e aprì un coltello a serramanico, e bilanciandolo sulla palma della mano, stava per inchiodare al muro l’avversario.

Il dottore non si mosse. Parlandogli di sopra la spalla, con lo stesso tono di voce, piuttosto rinforzato, per modo che l’intiera sala potesse udire, ma perfettamente tranquillo e fermo, disse:

"Se non rimettete immediatamente in tasca quel coltello, vi giuro sul mio onore che alle prossime assise sa rete impiccato." Seguì tra i due una battaglia di sguardi: ma presto il capitano si arrese: ripose l’arma e riprese il suo posto tremando come un cane bastonato.

"E ora, signore" continuò il dottore "dal momento che io so che razza d’arnese c’è nel mio distretto, potete star sicuro che sarete sorvegliato giorno e notte. Io non sono soltanto dottore:

sono anche magistrato, e se appena mi giunge una lagnanza sul conto vostro, fosse magari per una smargiassata come quella di stasera, provvederò a farvi spazzar via di qui. Siete avvisato." Poco dopo il cavallo del dottor Livesey giunse alla porta, ed egli partì; ma per quella sera e molt’altre successive il capitano rimase tranquillo.

 

*

 

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*

 

Capitolo 2

Can-nero appare e scompare

 

Poco tempo dopo ciò, capitò il primo di quei misteriosi eventi che dovevano finalmente sbarazzarci del capitano se pure non, come vedremo, delle conseguenze della sua presenza. Cominciava allora un rigidissimo inverno, con lunghe aspre gelate e violente bufere; e fin dal principio apparve chiaro che il mio povero padre difficilmente avrebbe visto la primavera. Di giorno in giorno declinava, e mia madre ed io, con sulle braccia il peso dell’albergo, eravamo troppo occupati per prestare attenzione al nostro fastidioso ospite.

Era un mattino di gennaio, assai per tempo, con un freddo che passava le ossa, e tutta la baia biancheggiava di brina; le onde baciavano dolcemente i ciottoli della riva, e il sole ancora basso dorava appena la cresta delle colline e riluceva lontano sul mare.

Il capitano alzatosi più presto del solito era sceso alla spiaggia col suo coltellaccio dondolante sotto le larghe falde del suo abito blu, il cannocchiale sotto l’ascella, e il tricorno buttato indietro sulla nuca. Vedo ancora il suo alito ondeggiare in aria dietro a lui come fumo mentre egli si allontanava rapidamente.

L’ultimo suono che giunse ai miei orecchi mentre egli girava dietro la grande rupe, fu un potente sbuffo d’ira, come se egli ancora fosse travagliato dal pensiero del dottor Livesey.

Mia madre era in quel momento disopra col babbo; ed io stavo apparecchiando la tavola per la colazione del capitano, quando l’uscio della sala si aprì, ed uno sconosciuto si fece avanti. Era pallido come cera; due dita gli mancavano alla mano sinistra; e, per quanto portasse un coltellaccio, non pareva troppo aggressivo.

Ma io dovevo pur tener d’occhio la gente di mare, sia con una sola gamba che con due, e quella apparizione mi sconcertò. Egli non aveva l’aria di marinaio; pure, non so quale aroma marino lo circondava.

Alla mia domanda cosa volesse, rispose ordinando del rum; ma, mentre andavo a prenderlo, sedette a un tavolo e mi richiamò. Io mi fermai col tovagliolo in mano.

"Vieni qui, ragazzo" disse lui. "Qui, più vicino." Io mi avvicinai di un passo.

"E’ questa qui la tavola del mio amico Bill?" chiese con una strizzatina d’occhi.

Risposi che io il suo compagno Bill non lo conoscevo, e quella tavola era per una persona che dimorava presso di noi, e che noi chiamavamo il capitano.

"Perfettamente" fece lui. "Il mio compagno Bill può anche farsi chiamar capitano se così gli aggrada. Ha un taglio su una guancia, e maniere molto gentili, specie quando ha trincato, il mio compagno Bill. Mettiamo, per modo di dire, che il tuo capitano abbia una cicatrice su una guancia; mettiamo, per modo di dire, che questa guancia sia la destra. Eh? Che ti dicevo io? E adesso, sentiamo ancora: il mio amico Bill è in casa?" Risposi che era uscito per una passeggiata.

"Da che parte, ragazzo mio? Da che parte ha preso?" Gli indicai la rupe aggiungendo che il capitano sarebbe stato presto di ritorno; e dopo che ebbi risposto a varie altre domande:

"Ah" disse lui "questo gli farà prò come un buon bicchiere, al mio camerata Billl" L’espressione del suo viso, pronunciando tali parole, era tutt’altro che amabile, ed io avevo le mie buone ragioni per pensare che lo straniero si sbagliava, dato che intendeva parlar sul serio. Ma ciò non mi riguardava: e d’altra parte, che avrei fatto? Egli rimase lì, attaccato all’uscio, sorvegliando l’angolo della rupe come il gatto che aspetta il sorcio. Ad un certo punto io scappai sulla strada, ma subito mi richiamò, e siccome io tardavo un po’ a ubbidire, il suo pallido volto prese un’espressione feroce, e con una bestemmia che mi fece sobbalzare, mi comandò di rientrare. Appena fui lì, tornò alle maniere di prima, tra lusinghiere e beffarde, mi batté sulla spalla, mi disse ch’ero un bravo ragazzo e che s’era innamorato di me.

"Ho io stesso un figliolo che ti assomiglia come due gocce d’acqua, ed è tutto il mio orgoglio. Ma l’importante per i ragazzi è la disciplina, piccolo mio, la disciplina. Se tu, per esempio, avessi navigato con Bill, non ti saresti fatto chiamar due volte, no di certo. Non era questo il metodo di Bill né di chi navigava con lui. Ma ecco il mio compagno Bill, sicuramente, col suo cannocchiale sotto il braccio, Dio lo benedica, è lui senza dubbio. Rientriamo, piccolo mio, e mettiamoci dietro la porta: gli faremo una piccola sorpresa a Bill, Dio lo benedica ancora una volta." Così dicendo lo sconosciuto mi sospinse nella sala e mi ficcò nell’angolo dietro a sé in modo che rimanessimo nascosti dalla porta aperta. Io ero inquieto e assai intimorito, come si può immaginare, e la mia paura era accresciuta dal vedere che lo stesso sconosciuto tremava a sua volta. Egli liberò l’impugnatura del coltellaccio, provò a rimuovere la lama nel fodero, e durante tutta l’attesa seguitò a trangugiar saliva quasi avesse, come si suol dire, un rospo in gola.

Finalmente il capitano entrò sbattendo la porta dietro le spalle, e senza guardare né a destra né a sinistra attraversò difilato la sala dirigendosi alla tavola apparecchiata per la sua colazione.

"Bill" fece lo sconosciuto con una voce che mi parve si sforzasse d’essere ferma e animosa.

Il capitano girò sui calcagni e guardò verso noi: il sangue sparì dalla sua faccia che diventò livida fino alla punta del naso: egli aveva l’aria d’uno che s’imbatta in uno spettro, o nel diavolo, o in qualcosa di peggio, se un qualcosa di peggio vi fosse; e io confesso che provai un senso di pietà a vederlo d’improvviso così invecchiato e disfatto.

"Vieni qua, Bill, vieni qua. Tu mi riconosci, non è vero? Il tuo vecchio camerata di bordo lo riconosci bene!" Il capitano respirò convulso.

"Can-Nero!" disse.

"E chi altri vorresti che fossi?" replicò lo straniero sensibilmente rassicurato. "Can-Nero meglio che mai, venuto a salutare il suo vecchio camerata Bill all’albergo dell’’Ammiraglio Benbow’. Ah, Bill, visto, qualcosa abbiamo visto, noi due, dopo che io ci lasciai questi due artigli" soggiunse alzando la mano mutilata.

"Bene, vediamo" disse il capitano. "Tu mi hai ripescato; eccomi, e dunque parla. Che c’è?" "Sei ben tu" replicò Can-Nero. "Non c’è sbaglio, Bill. Io voglio farmi servire un bicchiere di rum da questo caro ragazzo che ho preso in simpatia, e noi ci metteremo a sedere, se così ti piace, e parleremo schietto, come conviene a vecchi amici di bordo." Quando io rientrai col rum, essi stavano già seduti; l’uno da un lato, l’altro dall’altro della tavola del capitano: Can-Nero vicino alla porta, di sbieco, in maniera da poter tener d’occhio il suo vecchio compagno e, così mi sembrò, sorvegliare insieme la propria linea di ritirata.

Costui mi ordinò di andarmene e di lasciare la porta spalancata.

"I buchi delle serrature non sono di mio gusto, ragazzo mio!" aggiunse.

Io li lasciai soli, e mi ritirai nel bar.

Di lì, pur facendo del mio meglio per ascoltare, io per un pezzo non sentii se non un sommesso parlottare, ma alla fine le voci si alzarono e potei cogliere una o due parole, per lo più bestemmie, del capitano.

"No, no, no, no; e basta!" gridò una prima volta.

E poi:

"Se finisce con la forca, sarà la forca per tutti, dico io!" D’un tratto una formidabile esplosione di bestemmie mescolata con altri rumori: tavola e sedie che si rovesciavano, un tintinnìo di lame, e infine un urlo di dolore, dopo di che vidi Can-Nero fuggire a precipizio e il capitano corrergli alle calcagna, tutt’e due col coltellaccio alla mano, ed il primo che versava sangue dalla spalla sinistra. Arrivato alla porta, il capitano vibrò al fuggitivo un ultimo tremendo fendente che gli avrebbe certamente spaccato la schiena in due se l’arma non si fosse intoppata nello spessore dell’insegna dell’"Ammiraglio Benbow", incidendo nell’orlo inferiore dell’asse una tacca che tuttora è visibile.

Quel colpo fu l’ultimo dello scontro. Non appena nella strada, Can-Nero, malgrado la ferita, mise le ali ai piedi, e in mezzo minuto si dileguò dietro il corno della collina. Il capitano dal canto suo restò lì accanto all’insegna impalato e come inebetito.

Si passò più volte la mano sugli occhi, e alfine si decise a rientrare.

"Jim, del rum!" E mentre così diceva, vacillava un poco, e con una mano si appoggiava al muro.

"Siete ferito?" gridai.

"Del rum!" ripeté. "Devo andar via. Del rum! Del rum!" Io corsi a prenderne; ma ero talmente sconvolto che ruppi un bicchiere e guastai il rubinetto, e mentre ero così intrigato sentii come un tonfo sordo nella sala; volai e trovai il capitano disteso lungo per terra. Nello stesso tempo mia madre, allarmata dalle grida e dallo strepito della zuffa, s’era precipitata giù per aiutarmi. Fra tutti e due gli sollevammo il capo. Egli respirava forte, affannosamente; i suoi occhi erano chiusi, il viso terreo.

"Mio Dio, mio Dio!" gridò mia madre. "Che sventura per la nostra casa! E il tuo povero padre infermo!" Frattanto non sapevamo che fare, per soccorrere il capitano, convinti com’eravamo, che nello scontro con lo sconosciuto avesse ricevuto un colpo mortale. Presi il rum, nondimeno, e cercai di fargliene entrare un po’ in gola, ma i suoi denti erano serrati e le mascelle dure come ferro. Un sollievo fu per noi quando la porta si aprì e il dottor Livesey entrò per la solita visita a mio padre.

"Oh, dottore" gridammo "che c’è da fare? Dov’è ferito?" "Ferito? Storie!" disse il dottore. "Non più ferito di me o di voi. Ha avuto un colpo, come gli avevo predetto. Via, signora Hawkins, risalite da vostro marito, e, se possibile, non raccontategli nulla. Quanto a me, devo far del mio meglio per salvar la vita tre volte indegna di questo miserabile; e Jim qui mi porterà un catino." Quando io tornai col catino, il dottore aveva già rimboccato la manica del capitano e messo a nudo il suo grosso e muscoloso braccio. Esso era cosparso di tatuaggi. "Ecco la fortuna", "Buon vento", "Billy Bones se ne infischia" si leggeva molto chiaramente su l’avambraccio; e sopra, vicino alla spalla, si vedeva una forca, con un uomo appeso: scena resa, a parer mio, con grande bravura.

"Profetico!" esclamò il dottore toccando con la punta del dito il tatuaggio. "E ora, mastro Billy Bones, se questo è il vostro nome, vediamo un po’ il colore del vostro sangue. Jim, hai paura del sangue?" "No, signore." "Bene. Allora tieni il catino." E ciò dicendo tirò fuori la lancetta e aprì una vena.

Non poco sangue si dovette cavare allo sciagurato prima ch’egli aprisse gli occhi e volgesse intorno il suo sguardo annebbiato.

Prima riconobbe il dottore, con un brusco aggrottar di ciglia; poi posò gli occhi su me, e apparve confortato. Ma d’improvviso cambiò colore, e tentò di alzarsi gridando:

"Dov’è Can-Nero?" "Non c’è nessun Can-Nero, qui" disse il dottore "all’infuori di quello che vi frulla per il capo. Avete bevuto del rum, voi, e vi ha preso un colpo, precisamente come vi avevo predetto, ed io vi ho tratto or ora mio malgrado dalla fossa dove stavate già con un piede. E adesso, signor Bones..." "Non è questo il mio nome" interruppe lui.

"Non importa" ribatté il dottore. "E’ il nome d’un filibustiere di mia conoscenza, ed io vi chiamo così per far presto, ed ecco cosa desidero dirvi: un bicchiere di rum non vi ammazzerà: ma se voi ne berrete uno, ne berrete certo un altro e poi un altro; ed io scommetto la mia parrucca che se non vi decidete a troncar di netto, morirete, capite? mo-ri-re-te, e ve ne andrete diritto al Creatore come l’uomo della Bibbia. Su, fate uno sforzo. Vi aiuterò a mettervi a letto, per questa volta." Con non poca fatica riuscimmo a trasportarlo al piano di sopra e lo adagiammo sul suo letto.

Il suo capo ripiombò sul guanciale come se egli dovesse svenire.

"Dunque" aggiunse il dottore "ricordatevi bene: ve 1o dico per scarico di coscienza: rum per voi significa morte." Detto ciò, prendendomi per un braccio, uscì per vedere mio padre.

"Non è nulla" mi disse appena fuori dell’uscio. "Gli ho cavato sangue abbastanza perché possa stare un poco tranquillo. Il meglio per lui e per voi sarebbe che rimanesse una settimana dov’è. Ma se lo coglie un altro colpo, è finita."

 

*

 

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*

 

Capitolo 3

La macchia nera

 

Verso mezzogiorno entrai dal capitano con qualche bibita rinfrescante, e medicine. Egli si trovava ancora nel medesimo stato, forse un tantino sollevato, e appariva insieme debole ed eccitato.

"Jim" disse "tu sei l’unico, qui, che valga qualcosa; e tu sai come io sono sempre stato buono con te. Non c’è stato mese che non t’abbia pagato i tuoi quattro pence. E ora tu vedi, amico mio, come sono malandato e abbandonato da tutti. Jim, tu mi devi dare un bicchierino di rum; è vero che me lo dai, mio piccolo amico?

"Il dottore..." presi a dire.

Ma egli mi tagliò la parola con una voce fiacca ma appassionata.

"I dottori sono una massa di scope: e quel dottore, che vuoi che sappia, lui, di gente di mare? Io sono stato in paesi dove s’arrostiva, e i miei compagni la febbre gialla te li faceva cascar come mosche, e i terremoti facevano ondeggiare la terra come un mare: ebbene, che può sapere il dottore di paesi simili? e io vivevo di rum, capisci? Bevanda, cibo: per me il rum era tutto:

come marito e moglie, eravamo; e se tu ora non mi dai il mio rum, io non sarò più che una povera vecchia carcassa rigettata sugli scogli, e il mio sangue ricadrà su te, Jim, e su quella maledetta scopa di dottore." Qui intramezzò una buona dose di bestemmie; e in tono lamentevole continuò:

"Guarda, Jim, come tremano le mie dita. Non riesco a tenerle ferme. Non ho bevuto una goccia in questa maledetta giornata. Quel dottore è un cretino, ti dico. Se non bevo un po’ di rum, Jim, vedrò gli spettri: qualcuno già l’ho visto. Ho visto il vecchio Flint là nell’angolo, dietro a te; come fosse dipinto, l’ho visto; e se gli spettri mi prendono, come la mia vita è stata burrascosa, morirò di spavento. Lo stesso tuo dottore ha detto che un bicchiere non mi fa male. Ti do una ghinea d’oro, Jim, se mi porti un bicchierino." Egli s’andava sempre più riscaldando; e ciò m’inquietava per il mio padre, che quel giorno era molto abbattuto e aveva bisogno di quiete: a parte ciò, se le parole del dottore, che egli mi ricordava, mi rassicuravano, il suo tentativo di corruzione non mancava d’indispormi.

«Non voglio del vostro denaro" dissi io "se non quanto dovete a mio padre. Vi darò un bicchiere, ma niente di più." Appena l’ebbe a portata di mano, l’afferrò avidamente, e lo vuotò d’un fiato.

"Ah, ah, ora va un po’ meglio, proprio meglio. Ma sentiamo, piccolo mio, quanto tempo ha detto il dottore che dovrei rimanere in questa vecchia cuccetta?" "Non meno d’una settimana." "Per mille fulmini!" gridò. "Una settimana! E’ impossibile. Tra una settimana essi mi avranno già scagliato la macchia nera. I tangheri stanno cercando di passarmi al vento, in questo dannato momento; ruffiani incapaci di custodire quello che avevano acciuffato, vorrebbero sgraffignare quello d’altri. Domando io se è un trattare da gente di mare? Ma io ho l’anima del risparmiatore, io. Mai sciupato né perso il mio buon denaro, io; e li metterò di nuovo nel sacco. Non mi fanno mica paura. Mollerò un’altra mano di terzeruoli, e li lascerò in coda un’altra volta." Mentre così parlava s’era levato dal letto con grande fatica, e appoggiandosi alla mia spalla e stringendomi fino quasi a farmi gridare, moveva le gambe come fossero un peso morto. La violenza del suo linguaggio faceva un triste contrasto con la fievolezza della sua voce. Provo a sedersi sulla sponda del letto, e restò immobile.

"Quel dottore mi ha finito" mormorò. "Mi ronzano le orecchie.

Rimettimi giù." Ma prima che io potessi aiutarlo, era già ricaduto al suo posto di prima dove rimase un momento in silenzio.

"Jim" disse alfine "hai visto quel marinaio?" "Can-Nero?" "Sì, Can-Nero. Lui è un cattivo soggetto, ma quelli che l’hanno mandato sono peggio ancora. Ebbene, se io non riesco ad andarmene via, ed essi mi lanciano la macchia nera, bada, ciò che a loro preme è il mio vecchio baule; allora tu monti a cavallo - sai montare a cavallo, no? - ebbene, tu monti a cavallo e vai - sì, perdio - vai da quella vecchia ciabatta di dottore, e gli dici di radunar tutti quanti - giudici e il resto- e lui li pescherà all’’Ammiraglio Benbow’ - l’intera ciurmaglia del vecchio Flint, uomini e ragazzi e compagnia. Io ero il primo ufficiale del vecchio Flint, e sono io il solo che conosce il posto. Mi ha confidato il segreto a Savannah, mentre stava per morire, vedi, come potrei farlo io adesso. Ma tu non devi denunciarli a meno che non mi lancino la macchia nera, o a meno che tu non riveda Can- Nero, oppure il marinaio della gamba sola, Jim - lui soprattutto." "Ma capitano, cos’è la macchia nera?" "E’ un avvertimento, amico mio. Te lo spiegherò se arriveranno a quel punto. Ma tu hai da far buona guardia, e poi divideremo in due - due parti uguali - parola d’onore." Divagò ancora un poco mentre la sua voce sempre più s’affievoliva: ma appena io gli ebbi somministrato la sua pozione ch’egli prese docile come un ragazzo, osservando che "se c’era un uomo di mare che mai avesse avuto bisogno di droghe, era proprio lui", s’immerse in un sonno pesante come una sincope, dove io lo lasciai.

Che cosa avrei fatto se le cose si fossero svolte in modo normale, io non so. Probabilmente avrei tutto raccontato al dottore, giacché ero martoriato dal dubbio che il capitano dovesse pentirsi delle sue confidenze e liberarsi di me. Ma il mio povero padre morì improvvisamente quella sera, il che relegò nell’ombra ogni altra cosa. La nostra angoscia, le visite dei vicini, i preparativi del funerale e per giunta le faccende della locanda da sbrigare, mi tennero talmente occupato che non ebbi tempo di ripensare al capitano e tanto meno alla mia paura.

Egli discese, a dir vero, il mattino seguente e consumò i suoi pasti mangiando poco ma bevendo, io temo, più rum del solito, giacché si servì egli stesso al bar col suo muso arcigno soffiando attraverso il naso, senza che alcuno osasse contrariarlo. La sera prima del funerale era più ubriaco che mai. Nulla di più ripugnante che sentire quella voce, nella casa visitata dalla morte, ricantare la vecchia sconcia canzone. Ma, per quanto debole, egli ispirava a noi tutti una paura mortale, e il dottore accorso improvvisamente presso un malato distante molte miglia, era sempre rimasto dopo la disgrazia lontano dalla nostra casa.

Ho detto che il capitano era debole: effettivamente pareva sempre più declinare, anziché riacquistar le sue forze. Egli si strascinava su e giù per le scale; andava e veniva dalla sala al bar, e talvolta cacciava il naso fuori dell’uscio per odorare il mare, e camminava appoggiandosi al muro e respirando faticosamente come chi sale un’erta. Con me direttamente non parlò più, ed io penso che avesse dimenticato le sue confidenze. Ma il suo umore s’era fatto più instabile; e, tenuto conto della sua depressione fisica, più violento che mai. Quando era ubriaco ora aveva la inquietante abitudine di sfoderare il suo coltellaccio e tenersi la nuda lama sulla tavola a portata di mano. Con tutto ciò, si curava meno della gente: sembrava chiuso nei suoi pensieri e piuttosto assente. Una volta, per esempio, con nostra grande sorpresa, intonò una specie di canzone d’amore campagnola, che egli doveva aver imparato in gioventù, prima di mettersi a navigare.

Così andarono le cose finché il giorno dopo del funerale verso le tre di un pomeriggio pungente di freddo e nebbioso, mentre mi trattenevo un momento sulla soglia dell’albergo pieno di tristezza pensando a mio padre, scorsi sulla strada un individuo che lentamente si avvicinava. Di certo era un cieco, poiché picchiava davanti a sé con un bastone e portava una mascherina verde che gli copriva occhi e naso. Incurvato dall’età o dagli stenti, indossava un ampio, vecchio e cencioso soprabito da marinaio, con un cappuccio, che gli dava un aspetto deforme. Mai vidi in vita mia figura più sinistra. Un po’ prima dell’albergo si fermò, e dando alla sua voce un bizzarro tono di cantilena, e rivolgendosi al vuoto, dinanzi a lui, disse:

"C’è qualche buona creatura che voglia informare un povero cieco che ha perduto la sua preziosa vista difendendo il proprio caro paese nativo, l’Inghilterra - e Dio benedica Re Giorgio! - dove o in quale parte di questa regione egli attualmente si trova?" "Voi siete all’’Ammiraglio Benbow’, baia del Monte Nero, mio brav’uomo" risposi.

"Sento una voce" riprese "una giovine voce. Vorresti darmi una mano, mio caro ragazzo, e farmi entrare?" Gli porsi la mano, e la sozza creatura senz’occhi, dalle parole melate, l’agguantò di scatto come una tenaglia. Ne fui talmente impaurito che cercai svincolarmi, ma il cieco mi strinse a sé con uno strattone.

"E ora, ragazzo mio, conducimi dal capitano." "Signore" obiettai "vi giuro sulla mia parola che non oso." "Oh" ghignò lui. "E’ così? Conducimi difilato, o ti rompo il braccio." Difatti me lo torse, mentre parlava, così forte, che mi sfuggì un grido.

"Signore" spiegai "è per voi che dico ciò. Il capitano non è del solito umore. Ha sempre il coltellaccio sguainato. Un altro signore..." "Andiamo", incalzò lui. "Su!" Voce così crudele, fredda e odiosa io non sentii mai. Essa poté sul mio animo più del dolore; sicché mi affrettai a ubbidire varcando la soglia e dirigendomi al posto dove, abbrutito dal rum, sedeva il vecchio infermo filibustiere.

Il cieco s’aggrappava a me stringendomi nel suo pugno di ferro, e mi opprimeva col suo peso fino quasi a schiacciarmi.

"Conducimi dritto da lui, e quando gli sono davanti, di’: ’Ecco un amico per voi, Bill!’ Se non lo fai, ti farò questo, io!" e accompagnò la minaccia con un tal pizzicotto che io credetti di svenire. Preso in quest’alternativa, e gelato dal terrore, dimenticai la mia paura del capitano e, aperto l’uscio della sala, dissi con voce tremante la frase impostami.

Il povero capitano alzò la fronte. In un batter di ciglia i fumi del rum svanirono, ed egli rimase lì disubriacato con gli occhi sbarrati e fissi. Più che sbigottimento si leggeva sul suo viso un mortale malessere. Fece per alzarsi, ma credo che le forze non gli sarebbero bastate.

"Stai, Bill, stai" disse il mendicante. "E’ vero che non ci vedo, ma se un dito si muove, lo sento. Gli affari sono affari. Porgi la tua mano sinistra. E tu, piccolo, prendi quella mano per il polso, e avvicinala alla mia destra." Gli obbedimmo tutt’e due; ed io vidi in quel punto il cieco far scivolare qualcosa dal cavo della mano con cui teneva il bastone, in quella del capitano, che prestamente si richiuse.

"Ecco fatto" disse il cieco.

E tosto si sciolse da me, e con incredibile precisione e sveltezza attraversò la sala e saltò nella strada. Ed io, rimasto lì intontito, potei nel silenzio udire i colpi del suo bastone che man mano s’andava allontanando.

Ci volle un po’ di tempo prima che ci riavessimo dalla sorpresa; alla fine, e quasi simultaneamente, io lasciai libero il suo polso, ed egli ritirò la sua mano dando una acuta sbirciata al palmo.

"Alle dieci!" gridò. "Sei ore di tempo. Gliela facciamo ancora!" E scattò in piedi.

Ma subito barcollò, si portò una mano alla gola, rimase in bilico un attimo, e con uno strano rantolo stramazzò lungo disteso con la faccia sul pavimento.

Io mi precipitai sopra chiamando mia madre. Ma le nostre premure non valsero a nulla. Fulminato dall’apoplessia il capitano era morto. Strano a dirsi! Io non l’avevo di sicuro mai amato, per quanto da ultimo mi ispirasse una certa pietà: ma quando lo vidi spento ai miei piedi, scoppiai a piangere. Era la seconda morte che io vedevo, e lo sgomento procuratomi dalla prima era ancora vivo nel mio cuore.

 

*

 

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Capitolo 4

Il baule marino

 

Io non tardai naturalmente a raccontare a mia madre tutto ciò che sapevo, come forse avrei dovuto fare molto prima, e subito vedemmo quanto difficile e pericolosa fosse la nostra posizione. Del denaro del capitano, se pur ve n’era, una parte spettava indubbiamente a noi; ma era ben poco probabile che i suoi camerati, e soprattutto i due campioni da me conosciuti, Can-Nero e il cieco mendicante, fossero disposti a rinunciare al loro bottino per saldare i debiti del morto. Ora, se io montavo a cavallo e correvo come il capitano voleva per il dottor Livesey, avrei lasciato mia madre sola e indifesa: non era dunque il caso di pensare a ciò. D’altra parte, noi non ci sentivamo di rimanere più a lungo nella nostra casa. Il cadere dei carboni nella griglia del fornello, il semplice tic-tac dell’orologio, ci facevano trasalire di spavento. Alle nostre orecchie pareva di sentire la strada battuta da uno scalpiccìo che venisse mano a mano avvicinandosi. Ed io, stretto fra il cadavere del capitano giacente sul pavimento della sala, e il pensiero di quell’abominevole cieco ronzante nei dintorni e pronto a riapparire, passavo dei momenti in cui per il terrore non avevo capello in testa che non fosse dritto. Tuttavia, qualche cosa bisognava decidere. Decidemmo finalmente di uscir insieme a cercare aiuto nel vicino villaggio. Detto fatto. A testa scoperta come eravamo, ci slanciammo nella crescente oscurità della sera e nella gelida nebbia.

Il villaggio era a poche centinaia di passi da noi, nascosto alla vista, sull’altra costa della baia; e, ciò che molto mi confortava, in direzione opposta a quella dove il cieco era apparso, e dove presumibilmente si era eclissato. Il tragitto non richiese più di qualche minuto, sebbene varie volte ci fermassimo tendendo l’orecchio. Ma nessun rumore insolito: nulla, tranne il leggero frusciare della risacca sul lido, e il gracchiare dei corvi nel bosco.

Era l’ora che si accendevano le candele nelle case, quando entrammo nel villaggio, ed io mai dimenticherò il grande sollievo che provai nel vedere a porte e finestre quei lumi d’oro. Ma fu questo, ahimè, il massimo dell’aiuto che laggiù ci aspettava.

Poiché, e fa meraviglia che quella gente non se ne vergognasse, nessuno di loro acconsentì a ritornare con noi all’"Ammiraglio Benbow". Più ci dilungavamo a dipingere i nostri affanni, e più loro, donne, uomini e ragazzi, si aggrappavano alle loro porte. Il nome del capitano Flint, ignoto a me, era abbastanza popolare in mezzo a loro, e non lo si udiva pronunciare senza raccapriccio.

Uomini che avevano accudito a lavori agricoli di là dall’"Ammiraglio Benbow", raccontavano d’essersi imbattuti lungo la strada in alcuni stranieri dall’aspetto di contrabbandieri, ed essersi tirati in disparte; ed uno almeno aveva visto un piccolo bragozzo all’ancora in quella che noi chiamavamo la Tana di Kitt; e perciò bastava che uno fosse in relazione col capitano per incutere loro una paura mortale. In conclusione, se trovammo alcuni disposti a correre a cavallo dal dottor Livesey, il quale abitava in tutt’altra direzione, nessuno volle aiutarci a difendere la nostra casa.

Se la viltà è, come dicono, contagiosa, la discussione per contro accende l’ardire: sicché dopo che ognuno ebbe detta la sua, parlò mia madre. E dichiarò che non intendeva rinunciare al denaro che apparteneva al suo povero orfano.

"Se nessuno di voi osa" esclamò "Jim ed io oseremo. Rifaremo la strada che abbiamo fatta, e tante grazie a voi, massa di conigli che non siete altro. Dovesse costarci la vita, noi apriremo quel baule. Vuole prestarmi, signora Crossley, quella borsa? Mi servirà per riportare indietro il nostro avere." Naturalmente io dichiarai che avrei accompagnato mia madre; e non meno naturalmente tutti quanti ad alte grida condannarono la nostra temerità: ma anche allora non un solo uomo pronto a seguirci saltò fuori. Tutto il loro aiuto si restrinse a munirci di una pistola carica per difesa in caso di aggressione, e a prometterci di farci trovar cavalli sellati nell’eventualità che nel ritorno fossimo inseguiti, mentre un ragazzo sarebbe andato al galoppo dal dottore, in cerca di soccorso armato.

Il mio cuore batteva a martello quando noi due nella notte gelata uscimmo incontro alla pericolosa avventura. La luna piena incominciava a sorgere e sembrava rossa attraverso i margini superiori della nebbia; e ciò accresceva la nostra fretta, giacché non c’era nessun dubbio che prima del nostro ritorno avrebbe fatto giorno, e la nostra partenza sarebbe stata esposta a tutti gli sguardi. Svelti e silenziosi sgusciavamo lungo le siepi senza vedere né udire niente capace di aumentare la nostra inquietudine, finché con indicibile sollievo la porta dell’"Ammiraglio Benbow" si richiuse alle nostre spalle.

Io spinsi il chiavistello, e per un istante restammo soli e ansimanti nel buio accanto al cadavere del capitano. Poi mia madre prese una candela nel bar e tenendoci per mano c’inoltrammo nella sala. Egli era lì come l’avevamo lasciato, con la schiena sul pavimento, gli occhi spalancati, e un braccio proteso.

"Tira giù la persiana, Jim" bisbigliò mia madre. "Potrebbero arrivare e vederci dal di fuori. "Ed ora" aggiunse appena io ubbidii "dobbiamo trovargli la chiave che ha indosso, e io non so chi di noi due lo vorrà toccare!" Ed ebbe come un singulto.

Io mi buttai in ginocchio. Sul pavimento, presso la sua mano c’era un piccolo disco di carta annerita da un lato. Nessun dubbio che era "la macchia nera"; presolo in mano e rivoltatolo, lessi sull’altro lato, scritto con scrittura ferma e chiara, questo breve messaggio: "Tempo fino alle dieci di stasera." "Mamma" dissi io "aveva tempo fino alle dieci" e proprio mentre pronunciavo queste parole il nostro orologio cominciò a battere le ore Quegli improvvisi colpi ci fecero sobbalzare: ma portavano una buona notizia, giacché non erano che le sei.

"Su, Jim" riprese lei "quella chiave." Frugai le sue tasche, una dopo l’altra. Alcuni spiccioli, un ditale, un po’ di refe, due grossi aghi, un rotolo di tabacco morsicato in cima, il suo coltello dal manico ricurvo, una bussola tascabile, e un acciarino: nient’altro saltò fuori.

Io cominciavo a disperare.

"Forse al suo collo" suggerì mia madre.

Superando una acuta ripugnanza, lacerai la camicia attorno al collo; e lì, attaccata a un pezzo di spago incatramato, che tagliai col suo stesso coltello, trovammo la chiave. Incoraggiati da questa vittoria balzammo di furia al piano di sopra, nella piccola stanza dove per tante notti egli aveva dormito e dove il suo baule non era stato mosso dal giorno del suo arrivo.

Era all’apparenza uno dei soliti bauli marini, con sul coperchio impressa a fuoco l’iniziale "B", e gli spigoli ammaccati e consumati dal lungo e aspro uso.

"Dammi la chiave" disse mia madre. E malgrado la serratura fosse dura, aprì in un batter d’occhio, ed alzò il coperchio.

Un acuto odore di tabacco e di catrame si sprigionò dall’interno, ma nulla comparve all’infuori di un ottimo abito completo, diligentemente spazzolato e piegato, che, al dire di mia madre, non era mai stato indossato. Al disotto, cominciava la confusione:

un quadrante, un vaso di latta, alcuni rocchi di tabacco, due belle paia di pistole, una barra d’argento, un vecchio orologio spagnolo, e parecchie altre cianfrusaglie di scarso valore, quasi tutte di provenienza straniera; un paio di bussole montate in rame, e cinque o sei curiose conchiglie delle Indie Occidentali, a proposito delle quali più volte dopo d’allora mi accadde di domandarmi perché egli se le portasse dietro nella sua errabonda criminosa e perseguitata esistenza.

Nulla fin qui di qualche valore, eccetto l’argento, e quei gingilli; e nulla che in qualche modo rispondesse alle nostre aspettative. Sotto c’era un vecchio cappotto da marinaio sbiancato dalla salsedine in più d’una taverna di porto di mare. Con impazienza mia madre lo tolse via, ed ecco in fondo al baule un pacchetto avvolto in tela cerata, che pareva contenere carte, e un sacchetto di tela che, urtato, rispose con un tintinnìo d’oro.

"Mostrerò a quei furfanti che io sono una donna onesta" disse mia madre. "Prenderò ciò che mi spetta, e non un millesimo di più.

Porgi la borsa della signora Crossley." E incominciò a far passare, dal sacchetto marino in quello che io le tendevo, l’importo del debito del capitano: lunga e complicata faccenda giacché le monete erano di tutti i paesi e valute; doppioni e luigi d’oro, ghinee, pezzi da otto e non so che altre: tutte quante mescolate a casaccio. E purtroppo le ghinee, che sole permettevano a mia madre di fare il conto, erano le meno numerose.

D’un tratto, mentre eravamo a circa metà dell’operazione, posai una mano sul braccio di lei: un rumore da me sentito nel silenzio dell’aria ghiacciata mi aveva fatto saltare il cuore in gola: il picchiettìo del bastone del cieco sulla strada indurita dal gelo.

E il rumore si veniva sempre più avvicinando, mentre immobili noi trattenevamo il respiro. Poi un colpo violento fu sferrato contro la porta, si sentì girare la maniglia e il catenaccio stridere mentre il miserabile tentava di forzarlo, dopo di che seguì un lungo silenzio, dentro come fuori. Finalmente il picchiettìo del bastone ricominciò, e con indescrivibile nostra gioia adagio adagio si affievolì, finché si spense nella lontananza.

"Mamma, prendiamo tutto quanto, e andiamo" dissi io, sicuro com’ero che il fatto della porta chiusa a chiave dovesse crear sospetto e tirarci addosso l’intero nido di vespe, mentre d’altra parte della misura presa mi compiacevo fino a un punto difficilmente immaginabile da chi mai si fosse scontrato con quel terribile cieco.

Ma, per quanto squassata dallo spavento, mia madre mai avrebbe toccato nulla più del suo diritto, allo stesso modo in cui era inflessibilmente decisa a non accontentarsi di un millesimo di meno.

"Manca ancora parecchio alle sette" diceva lei; sapeva cos’era il fatto suo e intendeva averlo. E ancora stava discutendo con me, quando un sottile fischio partito da lontano sopra la collina, ferì il silenzio. Bastò, e ce ne fu d’avanzo, per entrambi.

"Porto via ciò che ho" fece lei, balzando in piedi.

"Ed io questo, per arrotondare il conto" aggiunsi io, arraffando il plico di tela cerata.

Senza perder tempo, lasciando la candela accanto al baule vuoto, scendemmo a tastoni la scala, aprimmo la porta, ed eccoci in piena ritirata. Non era il caso di tardare un attimo. La nebbia andava velocemente dileguandosi; già libera e nitida la luna illuminava le alture; solo nella conca della vallicella e attorno alla porta dell’albergo pendeva intatto ancora quasi un tenue velo di bruma, coprendo i primi passi della nostra fuga. Assai prima che a metà cammino e poco oltre il piede della collina, entrammo in piena luce. Ma non bastava: già sentivamo il rumore di passi che si avvicinavano di corsa, e volgendoci indietro a riguardare in quella direzione, vedemmo una luce sbattuta di qua e di là che rapidamente si avvicinava, segno evidente che uno di quelli che venivano reggeva una lanterna.

"Figlio mio" proruppe mia madre "prendi il denaro, corri. Io mi sento mancare." Vidi la fine certa per tutti e due. Ah, con tutto il cuore maledissi la codardia dei nostri vicini; e come ne volevo alla mia povera madre per la sua onestà e avidità; la passata audacia e la presente debolezza! Per fortuna avevamo raggiunto il ponticello; la sostenni barcollante com’era fino alla sponda dell’argine dove ella sospirò e mi si afflosciò sulle spalle. Io non so dove trovassi la forza (e fu, temo, non senza brutalità) di trascinarla ai piedi dell’argine, un po’ sotto l’arco, ma non oltre un certo punto, poiché l’arco era troppo basso, io non potevo fare altro se non strisciarvi sotto. Così ci toccò restare, mia madre quasi interamente esposta alla vista, ed entrambi a portata di voce dall’albergo.

 

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Capitolo 5

La fine del cieco

 

La curiosità vinse in me la paura. Incapace di rimanere lì, tornai indietro strisciando gatton gattoni, all’argine; da dove, nascosto dietro un cespuglio di ginestre, potevo spiare la strada fin davanti alla nostra porta.

Avevo appena raggiunto quel posto, quando i nostri nemici, in numero di sette o otto, arrivarono correndo con furia disordinata, preceduti di alcuni passi dall’uomo con la lanterna. Tre di essi andavano insieme dandosi la mano, ed io malgrado la nebbia potei riconoscere che quello di mezzo era il cieco. Poco dopo la sua voce provò che non m’ero sbagliato.

"Giù la porta" gridò lui.

"Sì! Sì!" rispose un coro di due o tre; e si scagliarono contro l’"Ammiraglio Benbow" seguiti dal portatore della lanterna. Poi li vidi fermarsi e li udii confabulare a bassa voce come fossero sorpresi di trovare la porta aperta. Ma la pausa durò poco, poiché il cieco riprese a lanciare ordini. E la sua voce echeggiava più forte e più agra, come se egli bruciasse d’impazienza e di rabbia.

"Dentro! Dentro! Dentro!" urlava, maledicendoli per l’indugio.

Quattro o cinque immediatamente ubbidirono, e due rimasero sulla strada col terribile pezzente. Un silenzio, un grido di sorpresa, e infine come un tuono dall’interno.

"Bill è morto!" Ma di nuovo il cieco bestemmiava contro di loro e contro la loro lentezza.

"Uno di voi che lo frughi" gridò "poltroni mangiaufo, e gli altri su, a cercare il baule." Sentii lo strepito dei loro passi veementi su per la nostra vecchia scala, così da scuotere la casa; e subito dopo nuove voci di stupore, finché la finestra della camera del capitano fu spalancata con fracasso e tintinnìo di vetri infranti, e un uomo si sporse al chiaro di luna, testa e spalle, rivolgendosi al cieco nella strada.

"Pew" gridò "ci hanno preceduti. Qualcuno ha messo il baule sottosopra." "C’è?" ruggì Pew.

"Il denaro c’è." "All’inferno il denaro. La carta di Flint, dico io." "Non la troviamo in nessun posto" replicò l’uomo.

"Ehi, voi di sotto, c’è in dosso a Bill?" A questo punto un altro camerata, quello probabilmente ch’era rimasto a frugare il corpo del capitano, si affacciò sulla soglia dell’albergo.

"Bill è già stato frugato" disse. "Non c’è nulla." "E’ la gente dell’albergo: è quel ragazzo. Ah, gli avessi cavati gli occhi!" imprecò il cieco. "Erano lì poco fa: avevano chiuso a chiave la porta quando io tentai d’entrare. Su, mocciosi, cercate qui intorno, e trovatemeli." "Non c’è dubbio: hanno lasciato il loro moccolo qui" disse il compagno dalla finestra.

"Cercate intorno e trovatemeli. Buttate all’aria la casa!" ripeté Pew picchiando in terra col bastone.

Nella nostra vecchia casa successe un quarantotto: passi pesanti che pestavano su e giù, mobili rovesciati, porte sfondate a calci, con un fracasso da rintronare il vicinato, finché gli uomini di nuovo scesero dichiarando che in nessun luogo ci si poteva scovare. Proprio in quel momento lo stesso fischio che già aveva turbato mia madre e me mentre stavamo contando il denaro del capitano, echeggiò di nuovo chiaro nella. notte, ma ora ripetuto due volte. Io avevo prima pensato che fosse un avviso del cieco destinato a lanciare la sua banda all’assalto; ora invece capii che era un suono proveniente dall’alto della collina verso il villaggio; e, a giudicarne dall’effetto prodotto sui contrabbandieri, li avvertiva dell’approssimarsi d’un pericolo.

"Di nuovo Dirk" disse uno. "Due volte! Converrà sloggiare, amici." "Sloggiate pure, vigliacchi!" gridò Pew. "Dirk non è mai stato altro che uno stupido coniglio: non dovreste badargli. Devono esser lì; non possono esser lontani; nelle mani, li avete.

Muovetevi, cercateli, razza di cani! Oh, il diavolo mi pigli!

Avessi la mia vista!" Questa sfuriata parve produrre un qualche effetto. Due di essi cominciarono a cercare qua e là tra la roba sconvolta, a malincuore però, credo io, e tuttavia preoccupati ciascuno del proprio rischio, mentre gli altri rimasero sulla strada irresoluti.

"Avete sottomano un mucchio d’oro, idioti che siete, ed eccovi lì impalati! Sareste ricchi come tanti re, se trovaste ’quello:’ e voi sapete che c’è, e vi ciondolate come marmotte. Ci fu mai uno di voi che osasse tener testa a Bill? E io gli ho tenuto testa, io cieco! E perderò la mia fortuna per causa vostra. Sarò un povero dannato costretto a mendicare un sorso di rum, mentre potrei farmi rotolare in carrozza! Se aveste appena il coraggio di un sorcio in una forma di cacio, li avreste già acciuffati." "Al diavolo Pew!" borbottò uno "abbiamo i doppioni, e basta." "Probabilmente l’hanno nascosto, quel benedetto affare" disse un altro. "Prendi le sterline, Pew, e smetti di sbraitare." Sbraitare era il termine adatto, talmente imbestialito s’era Pew a quelle obiezioni, finché la collera lo sopraffece completamente, e come impazzito si mise a battere nel mucchio a casaccio, e il suo bastone risuonò sordamente sulle spalle di più d’uno.

Essi a loro volta scaricarono un sacco di maledizioni e minacce sullo sciagurato cieco, tentando invano di afferrargli il bastone e strapparglielo di mano.

Questa contesa fu la nostra salvezza, poiché mentre ancora essa bolliva, un altro rumore giunse ai nostri orecchi dalla cima della collina verso il villaggio: uno scalpitare di cavalli spinti al galoppo. Quasi nello stesso istante il lampo e la detonazione d’un colpo di pistola partirono dal lato della siepe. Era evidentemente l’estremo segnale del pericolo: difatti i filibustieri girarono subito la schiena e si squagliarono correndo chi giù lungo la spiaggia, chi di traverso su per la collina, e così via; così che in mezzo minuto non rimase di essi, eccetto Pew, la minima traccia.

Il perché l’avessero piantato: se per effetto dello spavento, o per vendetta delle male parole e percosse, io non saprei: il fatto è che egli restò solo, e andava su e giù tempestando col bastone il terreno, come delirasse, chiamando a gran voce i compagni.

Finalmente, sbagliando direzione, prese a correre verso il villaggio e mi oltrepassò gridando:

"Johnny, Can-Nero, Dirk" e altri nomi "non abbandonate il vostro vecchio Pew, camerati... il vostro vecchio Pew!" In quel momento il rumore della cavalcata raggiunse l’altura, e quattro o cinque cavalieri apparvero nel chiaro di luna e si lanciarono a galoppo serrato giù per il pendìo. Pew si accorse allora del proprio errore; si voltò gridando, e si avventò dritto in direzione del fosso dove ruzzolò. Ma in un batter d’occhio si rialzò; e, inferocito com’era, prese un altro slancio che lo portò sotto il primo dei cavalli che arrivavano. Il cavaliere provò a evitarlo, ma invano. Pew cadde con un urlo che risuonò nella notte, e quattro zampe ferrate lo calpestarono, oltrepassandolo.

Egli si piegò su un fianco, poi mollemente si abbatté sulla sua faccia, e non si mosse più.

Io scattai in piedi, e detti una voce ai cavalieri. Essi s’arrestarono inorriditi, e immediatamente li riconobbi. Uno di loro, che stava in coda, era un ragazzo mandato dal villaggio in cerca del dottor Livesey; gli altri erano ufficiali della dogana che egli aveva incontrato a metà strada, e che aveva avuto l’accortezza di portare con sé. Qualche voce circa il bragozzo della Tana di Kitt era giunta fino all’orecchio del sovrintendente Dance, spingendolo quella stessa notte sui nostri passi: e fu questa la circostanza che salvò mia madre e me dalla morte.

Pew era morto, e ben morto. Quanto a mia madre, appena trasportata al villaggio, alcune gocce d’acqua fredda e dei sali erano bastati a farle riprendere i sensi: e ora, più che risentirsi del passato spavento, badava a rimpiangere il resto del suo denaro. Frattanto il sovrintendente galoppava di gran carriera verso la Tana di Kitt, mentre ai suoi uomini era toccato smontare e calarsi a tastoni giù per la riva conducendo e talvolta sostenendo i loro cavalli, spinti dal timore d’una imboscata; sicché non deve far meraviglia se arrivando alla Tana di Kitt trovarono che il bragozzo aveva già levato l’ancora, pur non essendosi allontanato molto da terra. Il sovrintendente chiamò. Risposero da bordo avvertendolo di ripararsi dal chiaro di luna se non voleva buscarsi un po’ di piombo: e in quel medesimo istante il fischio d’una pallottola gli sfiorò il braccio. Poco dopo il bragozzo doppiava la punta del promontorio, e spariva. Il signor Dance rimase lì, per dirla con le sue parole, come un pesce fuor d’acqua, e tutto quanto poté fare fu di spedire un uomo a B... per informare il cutter della dogana: "il che", disse lui "non servirà proprio a nulla. Se la sono scapolata liscia, ed è un affare finito. A parte ciò, sono contento d’aver pestato i calli a Mastro Pew" aggiunse, avendo allora allora udito il mio racconto.

Io ritornai con lui all’"Ammiraglio Benbow". Non si può immaginare in quale stato di sconvolgimento trovai la nostra povera casa.

Persino l’orologio era stato buttato a terra e fracassato da quei gaglioffi nella loro disperata caccia a me e a mia madre; e quantunque nulla fosse stato asportato all’infuori della borsa del capitano e un di po’ di moneta dal cassetto del bar, mi bastò un colpo d’occhio per convincermi ch’eravamo rovinati. Il signor Dance, poi, non riusciva a spiegarsi quello spettacolo.

"Hanno tolto il denaro, mi dici. Ma, allora, Hawkins, che diavolo cercavano ancora? Dell’altro denaro forse?" "No, signore, non credo" risposi. "In realtà, signore, credo di aver io in tasca ciò che essi cercavano, e, per dirvi la verità, desidererei metterlo al sicuro." "Giusto, ragazzo mio" disse lui. "Puoi consegnarlo a me, se ti pare." "Io pensavo che, forse, il dottor Livesey..." presi a dire.

"Benissimo" interruppe lui con fervore "benissimo: un gentiluomo e un magistrato. E adesso che ci penso, converrebbe a me pure correre fin là, per fare il mio rapporto a lui o al cavaliere.

Mastro Pew è morto, dopo tutto: non che io mi rammarichi; ma è morto, capisci, e la gente se ne avvarrà magari volentieri, se può, per dare addosso ad un ufficiale delle dogane di Sua Maestà.

Ebbene, se ti piace, ti porto con me." Lo ringraziai cordialmente, e ce ne ritornammo al villaggio dove i cavalli aspettavano. Il tempo di informare mia madre della mia intenzione, ed ecco tutti in sella.

"Dogger" disse il signor Dance "tu hai un buon cavallo, prenditi in groppa questo ragazzo." Non appena che io fui montato, tenendomi al cinturino di Dogger, il sovrintendente diede il segnale, e la brigata si lanciò a gran trotto sulla strada che conduceva alla casa del dottor Livesey.

 

*

 

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*

 

Capitolo 6

Le carte del capitano

 

Cavalcammo speditamente lungo tutto il cammino, finché ci arrestammo alla porta del dottor Livesey.

La facciata della casa era completamente buia.

Il signor Dance mi ordinò di saltare a terra e bussare, e Dogger mi prestò la staffa per discendere. Subito la porta si aprì, e alla mia domanda se il dottore fosse in casa, la cameriera rispose che era rientrato nel pomeriggio ma poi era di nuovo uscito per recarsi a pranzare al castello e passare la serata col cavaliere.

"Ebbene, andiamo là, ragazzi" disse il signor Dance.

Questa volta, siccome il tragitto era breve, non salii a cavallo, ma corsi dietro a Dogger tenendomi alla coreggia della sua staffa fino al cancello, e poi su per il lungo viale dagli alberi spogli, illuminato dalla luna, in fondo al quale la bianca mole del castello si ergeva dominando da ogni lato i vasti e antichi parchi.

Là il signor Dance smontò, e presomi con sé, detta una parola, venne introdotto.

Il servo ci condusse lungo un corridoio tappezzato di stuoie, facendoci infine entrare in una spaziosa biblioteca tutta foderata di scaffali sormontati da busti, dove il cavaliere e il dottor Livesey con la pipa in mano stavano seduti ai lati di un allegro fuoco.

Io non avevo mai visto il cavaliere così da vicino. Era un pezzo d’uomo alto più di sei piedi, quadrato, dalla faccia aperta e fiera, che i lunghi viaggi di mare avevano arrossata e tagliuzzata di rughe; le sue sopracciglia nerissime si movevano di frequente, e ciò gli dava un’aria non cattiva, direi, ma piuttosto vivace e altera.

"Venga, signor Dance" egli disse con un fare affabile e dignitoso.

"Buona sera, Dance" disse il dottore, con un cenno del capo. "E buona sera a te, amico Jim. Che buon vento vi porta qui?" Dritto in piedi e rigido, il sovrintendente prese a narrare il fatto speditamente, come se recitasse una lezione, ed era curioso di vedere come gli ascoltatori pendevano dalle sue labbra e di quando in quando si scambiavano occhiate dimenticando, nella meraviglia e commozione, di fumare. Udendo poi la prova di coraggio di mia madre, il dottor Livesey si dette una pacca sulla coscia, e il cavaliere gridò ’Brava’ con un gesto che gli fece spezzare contro il camino la sua lunga pipa. Molto prima che il racconto fosse terminato, il signor Trelawney (era questo, come il lettore ricorderà, il nome del cavaliere) era scattato in piedi, e andava misurando a lunghi passi la sala; e il dottore si era tolta, come per udire meglio, la parrucca incipriata, scoprendo la testa dai capelli neri completamente rasati, il che gli dava uno stranissimo aspetto "Signor Dance" disse il cavaliere appena il sovrintendente ebbe finito "lei è una degnissima persona. Quanto all’aver schiacciato quel mostro di atrocità, io lo considero come un atto meritorio, come schiacciare un serpente. Questo ragazzo poi, è un coraggioso, a quanto so. Hawkins, vuoi suonare quel campanello? Il signor Dance berrà un bicchiere di birra." "Sicché, Jim" disse il dottore "tu hai ciò che loro cercavano, no?" "Eccolo qui" risposi io porgendo il pacchetto di tela.

Il dottore l’esaminò, girandolo e rigirandolo per ogni lato, come se le dita gli pizzicassero dalla voglia di aprirlo, ma poi finì per metterselo tranquillamente in tasca.

"Cavaliere" diss’egli "quando Dance avrà bevuta la birra gli toccherà naturalmente tornare al servizio Sua Maestà; ma io penso di trattenere qui Jim Hawkins: egli dormirà a casa mia; e frattanto, col vostro permesso, non si potrebbe fargli avere un po’ di pasticcio freddo e dargli la cena?" "Come volete, Livesey" disse il cavaliere "Hawkins s’é guadagnato assai più di un pasticcio freddo." E così mi fu servito a una piccola tavola un abbondante pasticcio di piccione, ed io cenai di gusto, giacché avevo una fame da lupo; mentre il signor Dance, ricolmato di complimenti, si era congedato.

"E ora, cavaliere..." disse il dottore.

"E ora, Livesey..." disse a un tempo il cavaliere.

"Uno alla volta! Uno alla volta!" rise il dottore. "Credo che avrete sentito parlare di questo Flint, nevvero?" "Di Flint!" esclamò il cavaliere. "Se ho inteso parlare di Flint, mi dite! Il più sanguinario dei pirati che abbia mai tenuto il mare era lui. Barbablù, al paragone, era un bambino. Gli spagnoli ne avevano una così smisurata paura che, vi assicuro, signore, io qualche volta ero persino fiero di saperlo inglese. Con questi occhi ho veduto i suoi velacci al largo di Trinidad; ebbene: quel vigliacco di figlio di un ubriacone col quale navigavo, se la svignò: sissignore, se la svignò, e si rifugiò nel Porto di Spagna." "Ebbene, io pure ho sentito parlare di lui in Inghilterra" riprese il dottore. "Ma l’importante è sapere: aveva o no del denaro?" "Del denaro?" saltò su il cavaliere. "Non avete dunque sentito la storia? E che cosa cercavano quei furfanti, se non denaro? Di che cosa mai s’interessano, se non di denaro? Per che cosa rischierebbero la loro maledetta pelle, se non per il denaro?" "E’ ciò che sapremo presto" replicò il dottore. "Ma voi vi riscaldate, e m’imbrogliate talmente con le vostre esclamazioni, che io non riesco ad aprir bocca. Ciò che io vorrei sapere, è questo: supponendo che io abbia qui nella mia tasca il filo capace di condurmi dove Flint ha seppellito il suo tesoro, credete che quel tesoro possa essere importante?" "Importante? Per darvene un’idea, se noi possediamo il filo di cui mi parlate, io armo un bastimento nel porto di Bristol, prendo con me Hawkins e voi, e trovo il tesoro, dovessi impiegare un anno a cercarlo!" "Ottimamente! E allora, se a Jim non dispiace, apriremo il pacchetto" disse il dottore.

E lo posò sulla tavola.

Ma siccome il pacchetto era cucito, fu costretto a prendere nella sua borsa le forbici chirurgiche per tagliare i punti, dopo di che venne fuori il contenuto: un quaderno, ed una carta suggellata.

"Prima di tutto vediamo il quaderno" disse il dottore.

Gentilmente egli mi aveva invitato a partecipare al piacere delle ricerche; ed io, alzatomi dal tavolo, mi sporgevo ora al di sopra delle sue spalle, insieme col cavaliere, a guardare il quaderno aperto. Sulla prima pagina apparivano soltanto alcuni brani di scritto, come quelli che un uomo con una penna in mano potrebbe tracciare per oziosaggine o per esercizio. Uno di essi riportava il testo del tatuaggio "Billy Bones se ne infischia". E poi c’era:

"Mr. W. Bones piloto", "Non più rum", "L’ha avuto al largo di Palm Key" e alcuni altri scarabocchi: vocaboli isolati, per lo più, e incomprensibili. Io non potei a meno di domandarmi chi era che l’aveva avuto e che cosa aveva avuto. Una coltellata nella schiena, forse.

"Poco ci si ricava, qui" disse il dottor Livesey, continuando a sfogliare.

Le ulteriori dieci o dodici pagine erano riempite di curiose annotazioni. C’era una data, a un capo della riga, e all’altro capo una somma, come negli ordinari libri di commercio; con in mezzo, invece di un testo esplicativo, un certo numero di crocette. Al 12 giugno 1745, per esempio, una somma di settanta sterline risultava chiaramente accreditata a qualcuno, ed in luogo del motivo non si vedevano che sei crocette. In alcuni punti era stato evidentemente aggiunto il nome della località, come "Al largo di Caracas", oppure una semplice indicazione di latitudine e longitudine, come 62 gradi, 17 primi, 20 secondi; 19 gradi, 2 primi, 40 secondi.

Le registrazioni abbracciavano un periodo di circa vent’anni; gli importi crescevano a ogni fine di pagina. ed in ultimo, dopo cinque o sei tentativi di addizione sbagliati, un gran totale era stato fatto con aggiunte le parole: "Bones, il suo gruzzolo".

"Non ci capisco un’acca" disse il dottor Livesey.

"E’ chiaro come la luce del sole" ribatté il cavaliere. "Questo è il libro di conti di quella canaglia. Le crocette rappresentano navigli affondati o città saccheggiate. Le somme indicano la parte toccata al miserabile; e dove egli temeva un equivoco, aggiungeva, come vedete, qualcosa di più preciso. Guardate: "Al largo di Caracas". Qui si tratta di qualche disgraziato naviglio assalito al largo di quella costa. Dio assista l’anima dei poveretti che erano a bordo: da tanto tempo saranno diventati corallo." "Giusto!" osservò il dottore. "Ecco che cosa significa aver navigato. Giusto! E si vede che le somme aumentano mano a mano che egli sale di grado." Non c’era nient’altro nel quaderno all’infuori delle posizioni di alcuni luoghi registrate negli ultimi fogli bianchi; e una tavola di equivalenze per le monete francesi, inglesi e spagnole.

"Uomo avveduto!" esclamò il dottore. "E tale da non lasciarsi facilmente imbrogliare." "E ora" riprese il cavaliere "passiamo all’altro." La carta era stata suggellata in parecchi punti adoperando come sigillo un ditale: lo stesso ditale forse che io avevo rinvenuto nella tasca del capitano. Il dottore ruppe con molta precauzione i sigilli, e ne uscì la pianta d’un’isola con i dati di latitudine e longitudine, fondali, nomi di alture, baie e imboccature, ed ogni altra indicazione necessaria a poter portare un bastimento presso la costa in un sicuro ancoraggio. Quest’isola misurava circa nove miglia in lungo e cinque in largo, simile nella forma a un grosso drago rampante, ed aveva due porti assai ben riparati, e nel centro una collina denominata "Il Cannocchiale". Vi erano alcune aggiunte di data posteriore; e, specialmente visibili, tre croci in inchiostro rosso: due nella parte nord dell’isola, una al sud- ovest; inoltre, accanto a quest’ultima, nel medesimo inchiostro rosso, in una minuta e linda scrittura ben diversa dai tremolanti caratteri del capitano, queste parole: "Qui il grosso del tesoro".

Sul rovescio del foglio, la stessa mano aveva tracciato i seguenti ulteriori ragguagli:

"Grande albero, contrafforte del Cannocchiale, punto in direzione Nord-Nord-Est, quarta a Nord.

Isola dello Scheletro Est-Sud-Est, quarta ad Est.

Dieci piedi.

La barra d’argento è nel nascondiglio nord; trovasi nella linea del poggio est, dieci braccia a sud della prospiciente rupe nera.

Le armi saranno presto trovate, nella collina di sabbia, all’estremità Nord del capo della baia nord: direzione Est, e una quarta Nord.

J. F." Nient’altro: ma, pur nella sua brevità, e per quanto a me incomprensibile, il documento colmò di gioia il cavaliere e il dottore.

"Livesey" proruppe il cavaliere "voi lascerete immediatamente questa vostra misera clientela. Io domani filo a Bristol. Tempo tre settimane, tre settimane!, due settimane, dieci giorni forse, avrò a mia disposizione il miglior bastimento d’Inghilterra, e la schiuma degli equipaggi. Hawkins ci accompagnerà come mozzo. Tu, Hawkins, sarai un mozzo eccellente. Voi, Livesey, sarete il medico di bordo; io l’ammiraglio. Prenderemo con noi Redruth, Joyce e Hunter. Avremo venti favorevoli, una rapida traversata, e troveremo il posto senza la minima difficoltà, e denaro a palate e a mucchi, da rotolarcisi dentro e affogarci fino alla fine dei nostri giorni." "Trewlaney" disse il dottore "io verrò con voi, e vi garantisco che Jim farà altrettanto e si farà onore. Non v’è che una persona, che mi preoccupi..." "E chi è costui?" esclamò il cavaliere. "Ditemi il nome di questo poco di buono." "Voi" rispose il dottore "perché non siete capace di stare zitto.

Noi non siamo i soli a conoscere questo documento. Quei signori che stanotte assalirono l’albergo, diavoli scatenati e disperati se mai ve ne furono, come pure gli altri della combriccola rimasti a bordo del bragozzo, ed altri ancora io credo non molto lontani di qui, sono decisi come un sol uomo a tutto pur di entrare in possesso di quel denaro. Nessuno di noi deve andare da solo finché non saremo imbarcati. Jim ed io frattanto non ci staccheremo l’uno dall’altro; voi andando a Bristol vi farete accompagnare da Joyce e da Hunter; e nessun di noi dovrà lasciarsi sfuggire una sillaba a proposito della nostra scoperta." "Livesey" replicò il cavaliere "voi avete sempre ragione. Io sarò muto come una tomba."

 

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PARTE SECONDA

IL CUOCO DI BORDO

 

Capitolo 7

Vado a Bristol

 

Per approntare il nostro equipaggiamento ci volle più tempo di quanto il cavaliere non immaginasse, e nessuno dei nostri iniziali progetti, neppure quello del dottor Livesey di tenermi presso di sé, poté essere attuato secondo le nostre intenzioni. Il dottore aveva dovuto recarsi a Londra in cerca di un medico a cui rimettere la propria clientela; il cavaliere era grandemente occupato a Bristol, ed io ero rimasto al castello sotto la sorveglianza del vecchio Redruth, il guardacaccia. Ero quasi prigioniero, ma il mare riempiva i miei sogni con le più deliziose visioni di strane isole ed avventure. Per ore e ore il mio pensiero indugiava sulla carta della quale ricordavo esattamente i particolari. Seduto accanto al fuoco nella stanza dell’intendente, mi lasciavo trasportare dalla fantasia in quell’isola; ne esploravo ogni angolo; cento volte mi arrampicavo su per il largo dorso del monte denominato Il Cannocchiale, e dalla cima mi godevo i più vari e meravigliosi panorami. A volte l’isola si popolava di selvaggi, coi quali combattevamo; altre si riempiva di belve che ci inseguivano: ma in nessuna di tutte queste allucinazioni vidi mai cose tanto straordinarie e tragiche come quelle che dovevamo incontrare nella realtà.

Passarono alcune settimane finché un bel giorno giunse all’indirizzo del dottor Livesey una lettera con l’avvertenza: "Da essere aperta, in caso di sua assenza, da Tom Redruth o dal giovane Hawkins". Dissuggellatala, trovammo, o meglio trovai, dato che il guardacaccia non se la cavava a leggere se non lo stampato, le seguenti importanti notizie:

"Albergo dell’Ancora Vecchia - Bristol primo marzo 17...

"Caro Livesey, ignorando se siete di ritorno al castello o tuttora a Londra, invio la presente in doppio ad ambedue le destinazioni.

Il bastimento è acquistato, equipaggiato, e pronto a salpare. Mai vedeste una più graziosa goletta, un bambino sarebbe capace di governarla; portata, duecento tonnellate; nome, ’Hispaniola.’ Me la procurò il mio vecchio amico Blandly, che si è comportato come il migliore dei camerati, dandomi prova d’una bontà stupefacente. Il mio meraviglioso compagno si è fatto in quattro per servirmi, e la stessa cosa posso dire ha fatto ogni altra persona a Bristol non appena saputo verso quale porto noi metteremo la prua: vale a dire, il tesoro." "Redruth" dissi interrompendo la lettura "questo non piacerà al dottor Livesey. Il cavaliere ha pur finito per parlare." "E chi più di lui ne aveva il diritto?" brontolò il guardacaccia.

"Sarebbe bella che il cavaliere dovesse aspettare il permesso del dottor Livesey per aprir bocca." Dopo ciò io rinunziai a qualsiasi commento e seguitai a leggere difilato:

"Fu lo stesso Blandly a scovare la Hispaniola e adoperandosi con incredibile accortezza riuscì ad ottenerla per un’inezia. C’è a Bristol una categoria di gente estremamente prevenuta contro Blandly. A sentir loro, questa onesta creatura sarebbe capace di non so che, pur di far denaro; l’’Hispaniola’ gli apparteneva; me l’avrebbe venduta a un prezzo esorbitante, e simili altre evidentissime calunnie. Nessuno, peraltro, osa negare le doti della nave.

Fin qui, nessun inciampo. Gli operai, attrezzatori ed altri, d’una lentezza da stancare i santi: ma col tempo e la pazienza ci siamo arrivati. Ciò che m’inquietava era l’equipaggio.

Io volevo una buona ventina d’uomini, per l’eventualità d’incontri con indigeni o pirati o con quei dannati francesi, e m’era costato una fatica del diavolo trovarne non più d’una mezza dozzina, quando uno straordinario colpo di fortuna mi portò tra le gambe proprio l’individuo che faceva per me. Ero sul molo e per puro caso attaccai discorso con lui. Seppi ch’era un vecchio marinaio, che aveva un’osteria, conosceva tutta quanta la gente di mare di Bristol, si era guastata la salute rimanendo a terra, e cercava un buon posto di cuoco a bordo per ritornare sul mare. Quel mattino se n’era venuto zoppicando fin lì, diceva, per prendervi una boccata d’aria salmastra.

Io ne fui profondamente commosso, come sarebbe capitato a voi stesso, e per pura compassione lo ingaggiai lì per lì come cuoco di bordo. Si chiama Long John Silver, e gli manca una gamba; ma questo particolare conta per me come una raccomandazione, poiché codesta gamba egli l’ha perduta servendo la Patria sotto gli ordini dell’immortale Hawke. Eppure, non gli passano un centesimo di pensione. In che tristi tempi viviamo, Livesey!

Ebbene, io credevo fin qui di non aver trovato che un cuoco, ed era invece una intera ciurma che avevo scoperto. Fra tutti e due riuscimmo in pochi giorni a radunare una brigata dei più induriti vecchi lupi di mare che si potesse immaginare, non certo belli da vedere, ma dei tipi, come il loro aspetto dimostra, dalla tempra indomabile. Vi assicuro che potremmo affrontare una fregata.

Long John si è sbarazzato di due dei sei o sette che io già avevo ingaggiati. Egli non durò fatica a persuadermi ch’erano dei marinai d’acqua dolce per nulla adatti a un’impresa di così maschia importanza.

Io sto magnificamente bene di corpo e di spirito: mangio come un bue e dormo come un ceppo; ma non me la godrò se non quando sentirò intorno all’àrgano lo scalpiccìo dei miei vecchi lupi di mare. Al largo! Al diavolo il tesoro! E’ la gloria di questo mare che mi ha fatto girar la testa! Sicché, Livesey, venite senza indugio: non perdete un’ora, se mi volete bene.

Mandate il giovane Hawkins a salutar sua madre accompagnato da Redruth; e poi volate a Bristol.

John Trelawney.

"Poscritto. - Non vi ho detto che Blandly, il quale tra parentesi ci manderà dietro una nave qualora dentro agosto non fossimo ritornati, mi ha trovato un mirabile capitano, un uomo duro (il che mi dispiace) ma, sotto ogni altro aspetto, una perla. Long John Silver ha scovato un competentissimo nostromo, di nome Arrow.

Abbiamo pure un secondo che suona il piffero, Livesey: sicché le cose fileranno lisce come sopra una nave da guerra, a bordo della nostra incomparabile ’Hispaniola.’ Dimenticavo pure di dirvi che Silver è persona seria: so da sicura fonte che ha presso una Banca un credito il cui importo non è mai stato oltrepassato. Egli lascerà l’osteria nelle mani della moglie; e siccome lei è una negra, due impenitenti celibi come voi ed io hanno ben ragione di pensare che non è soltanto la salute, ma anche la moglie, che lo risospinge a girare il mondo.

J. T. "P.P.S. Hawkins può rimanere ventiquattr’ore presso sua madre." E’ facile immaginare la frenesia in cui mi mise questa lettera. Io ero quasi fuori di me dalla gioia e guardavo con disprezzo il vecchio Tom Redruth che non sapeva fare altro che brontolare e gemere. Chiunque tra i guardacaccia in seconda avrebbe volentieri preso il suo posto: ma tale non era il desiderio del cavaliere; e i desideri del cavaliere erano legge, per i suoi servitori; fra i quali nessuno, all’infuori del vecchio Redruth, si sarebbe mai arrischiato di mormorare.

L’indomani mattina noi due a piedi ci recammo all’"Ammiraglio Benbow", dove io trovai mia madre in buona salute e allegra. Il capitano, causa di tanti dolori, si era trasferito là dove ai malvagi è tolta la possibilità di poter nuocere agli altri. Il cavaliere aveva fatto riparare ogni cosa, e ridipingere l’insegna e i locali destinati al pubblico; aggiungendovi alcuni mobili, tra cui splendeva una bella sedia a braccioli destinata a mia madre.

Alla quale aveva anche procurato un ragazzo apprendista, in maniera che durante la mia assenza non sarebbe rimasta priva di aiuto.

Fu guardando quel ragazzo, che per la prima volta io mi resi conto della mia situazione. Fino a quel momento io avevo soltanto pensato alle avventure cui andavo incontro; non alla casa che stavo per lasciare; ed ora, alla vista di quello sgraziato straniero che avrebbe preso il mio posto accanto a mia madre, fui preso dalla prima crisi di lacrime. Io temo di avergli fatto fare una vita da cane a quel ragazzo, poiché non essendo pratico dei lavori, mi offrì mille occasioni di rimproverarlo e umiliarlo, delle quali io non esitai ad approfittare.

La notte passò, e l’indomani nel pomeriggio Redruth ed io ci rimettemmo in cammino. Io dissi addio a mia madre e alla baia dov’ero vissuto fin dalla lontana infanzia, e al caro vecchio "Ammiraglio Benbow", per quanto forse non più così caro dopo essere stato ridipinto. Uno dei miei ultimi pensieri fu per il capitano che tante volte avevo visto correre lungo la spiaggia col suo cappello a tricorno, la sua guancia sfregiata, e il suo vecchio cannocchiale di rame. Un minuto dopo avevamo girato l’angolo, e la mia casa era scomparsa.

La diligenza ci raccolse verso sera al "Royal George", sulla landa. Io mi trovai incastrato fra Redruth ed un corpulento signore, e, malgrado gli scossoni della rapida corsa e la pungente aria notturna, cominciai fin dal principio a sonnecchiare e poi dormii sodo come un ceppo, per colline e per valli e di posta in posta; e quando infine un pugno nelle costole mi fece riscuotere e aprire gli occhi, mi accorsi che stavamo davanti a un vasto fabbricato, in una via di città, ed era giorno fatto.

"Dove siamo?" chiesi.

"A Bristol" rispose Tom. "Scendi giù." Il signor Trelawney aveva preso alloggio in un albergo situato in cima al porto per poter da vicino sorvegliare i lavori della goletta. Era quella la nostra mèta; e, con mio grande piacere, la strada correva lungo le banchine, costeggiando una folla innumerevole di bastimenti di ogni forma, attrezzatura e paese. Su l’uno i marinai cantavano intenti alla loro fatica; sull’altro si vedevano uomini lassù per aria sospesi a funi sottili all’occhio come fili di ragnatele. Quantunque io avessi vissuto tutti i miei giorni lungo la spiaggia, avevo l’impressione di accostarmi ora al mare per la prima volta. L’odore del catrame e della salsedine mi sembrava una novità. Vedevo sulle prue meravigliose polene che s’erano specchiate nei più lontani oceani; e vecchi marinai dagli anellini d’oro agli orecchi, dai baffi arricciati, dai codini incatramati, dalla goffa e pesante andatura; e ne ero contento non meno che se avessi assistito a una processione di re e di arcivescovi.

Ed ora io pure avrei navigato: sopra una goletta, con un nostromo che avrebbe suonato il piffero; e marinai dal codino incatramato che avrebbero cantato: sul mare, verso un’isola sconosciuta, alla ricerca di tesori nascosti!

Mentre mi andavo cullando in questo sogno, giungemmo a un tratto davanti a un grande albergo, ed incontrammo il cavalier Trelawney, vestito proprio come un ufficiale di marina, con un abito blu scuro. Egli usciva dall’albergo col volto sorridente, imitando alla perfezione l’andatura dondolante della gente di mare.

"Oh" esclamò "eccovi qui! E il dottore è arrivato ieri sera da Londra. Bene! La brigata è al completo!" "Signore" dissi io "quando partiamo?" "Quando partiamo?" rispose. "Domani! Domani!"

 

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Capitolo 8

All’insegna del "Cannocchiale"

 

Dopo che ebbi fatta colazione, il cavaliere mi consegnò un biglietto indirizzato a John Silver, all’insegna del "Cannocchiale". Costeggiando la darsena, mi disse, e facendo bene attenzione, avrei facilmente trovato la piccola osteria, con, per insegna, un grande telescopio di rame. Io mi mossi, felice dell’occasione di vedere ancora e meglio bastimenti e marinai; e facendomi largo tra una moltitudine di gente e carri e balle di mercanzie, mentre il lavoro della banchina era nel suo massimo bollore, arrivai alla taverna.

Era un chiaro piccolo luogo allegro; dall’insegna ridipinta di fresco, dalle finestre ornate di linde tende rosse, e dal pavimento accuratamente coperto di sabbia. Posto fra due strade, aveva una porta aperta su ciascun lato, il che dava abbastanza luce alla bassa e larga sala, malgrado delle nuvole di fumo di tabacco che l’ingombravano.

Gli avventori erano in gran parte gente di mare: e parlavano così forte che io mi fermai sull’uscio, quasi timoroso di entrare.

Mentre esitavo, un uomo uscì da una stanza laterale, e in un colpo d’occhio io mi convinsi che era lui, Long John. Aveva la gamba sinistra tagliata fin sotto l’anca, e sotto l’ascella sinistra portava una gruccia della quale si serviva con prodigiosa destrezza, saltellandovi sopra come un uccello. Era alto di corporatura e robusto, con una faccia larga come un prosciutto, scialba e volgare, ma rischiarata da un intelligente sorriso. Con irrequieta allegria fischiettava e si aggirava tra le tavole distribuendo motti o pacche sulle spalle dei suoi ospiti preferiti.

A dire il vero, già dalla prima allusione a Long John Silver contenuta nella lettera del cavalier Trelawney, m’era entrato il dubbio che si trattasse del marinaio dalla gamba sola la cui apparizione avevo così a lungo spiata al vecchio "Ammiraglio Benbow". Ma una sola occhiata all’uomo che mi stava davanti mi era bastata. Avendo visto il Capitano, Can-Nero e il cieco Pew, credevo ormai di sapere un pirata cos’era, una figura ben diversa, a parer mio, da questo aperto e gioviale padrone di osteria.

Io presi subito coraggio, varcai la soglia e mi diressi verso di lui che, appoggiato alla sua gruccia, stava discorrendo con un cliente.

"E’ lei il signor Silver?" dissi porgendo il biglietto.

"Sì, piccolo mio" rispose "è proprio questo il mio nome. E tu chi sei?" Ma, vista la lettera del cavaliere, mi parve avesse come un sobbalzo.

"Oh" disse poi ad alta voce e porgendomi la mano "capisco. Tu sei il nuovo mozzo; sono ben lieto di conoscerti." E strinse la mia mano con la sua larga e solida presa.

In quel momento uno degli avventori in fondo alla sala si alzò di scatto, lanciandosi verso l’uscita, e poiché questa gli era vicino, in un batter d’occhio fu sulla strada. Ma la sua furia aveva attirato la mia attenzione, ed in un lampo riconobbi in lui l’uomo dal viso cereo, mancante di due dita, che per primo era apparso all’"Ammiraglio Benbow".

"Oh" gridai "fermatelo! E’ Can-Nero!" "Non m’importa un cavolo di saper chi sia" esclamò Silver. "Non ha pagato il conto. Harry, corri e acchiappalo." Uno di quelli che stavano vicino alla porta saltò in piedi e si diede a inseguirlo.

"Fosse pure l’ammiraglio Hawke pagherà il suo conto" strillò Silver; e lasciando andar la mia mano: "Chi hai detto che è? Nero che cosa?" "Cane" dissi io. "Il cavalier Trelawney non vi ha parlato dei pirati? E’ uno di loro!" "Ah sì? In casa mia! Ben, corri a dare una mano ad Harry. Uno di quei brutti arnesi era lui? Morgan, eri tu che stavi bevendo con lui? Vieni qua." Il nominato Morgan, un vecchio marinaio dai capelli grigi e dalla pelle color del mogano, si fece avanti, umile come una pecora, masticando la sua cicca.

"Sicché, Morgan" interrogò Long John in tono molto severo "tu questo Can... questo Can-Nero non l’avevi visto mai prima d’ora, no?" "No, signore" rispose Morgan con un inchino.

"Neppure di nome lo conoscevi, no?" "No, signore." "Per mille diavoli, Tom Morgan, è meglio per te!" esclamò l’oste.

"Se avessi avuto che fare con un individuo simile, non avresti mai più messo piede in casa mia, puoi star sicuro. E che cosa ti stava dicendo?" "Non saprei precisamente, signore." "O che ci hai sulle spalle? Una testa, o una rapa?" gridò Long John. "Tu non sai precisamente, non sai! E magari non sapevi che parlavi a qualcuno, eh? Suvvia, di che stava cianciando? Viaggi, capitani, bastimenti? Sputa fuori! Cos’era?" "Stavamo parlando di lavori di carenaggio" rispose Morgan.

"Di lavori di carenaggio? Un magnifico argomento non c’è che dire.

Ritorna pure al tuo posto, bestione." E mentre Morgan s’allontanava, Silver mi aggiunse sottovoce, in tono confidenziale, che mi parve molto lusinghiero:

"E’ un onest’uomo, Tom Morgan, ma è stupido. E adesso" continuò ad alta voce "vediamo... Can-Nero... No, non conosco questo nome...

Però, ho come un sospetto... ma sì che l’ho già visto, il mariuolo. Veniva di solito qui con un mendicante cieco." "Era lui, state pur sicuro" dissi io. "Io conobbi anche il cieco.

Si chiamava Pew." "E’ così" rincalzò Silver molto eccitato. "Pew! Era questo il suo nome, senza dubbio. Ah che muso di gaglioffo aveva! Se noi acciuffiamo questo Can-Nero sarà una bella notizia per il cavalier Trelawney. Ben è un buon corridore: sono assai pochi i marinai che gli stanno alla pari. Dovrebbe acchiapparlo, per Satanasso!

Parlava di lavori di carenaggio, eh? Te lo carenerò io!" Mentre sbottava in queste frasi, arrancava su e giù per la taverna appoggiato alla sua gruccia, battendo con il palmo sui tavolini, e ostentando un calore tale che avrebbe persuaso un giudice istruttore o un poliziotto. I miei sospetti, risvegliati dall’aver trovato Can-Nero al "Cannocchiale", m’inducevano a osservare il cuoco attentamente. Ma egli era troppo profondo, troppo svelto e troppo scaltro per me, sicché quando quei due rientrarono trafelati confessando che nella folla avevano perduta la pista, ed erano stati scambiati per ladri e maltrattati, io mi sarei dato garante dell’innocenza di Long John Silver.

"Vedi un po’, Hawkins" diceva lui «vedi un po’ quale spiacevole affare per un uomo come me! Il capitano Trelawney che cosa penserà? Ecco che io tengo in casa mia questo maledetto cane olandese, e gli do da bere il mio rum! Tu arrivi e mi spieghi ogni cosa, ed ecco che io gli lascio tutta la comodità di svignarsela sotto i miei occhi! Ma tu, Hawkins, mi giustificherai presso il capitano. Sei un ragazzo, ma sei una perla di ragazzo. Me ne sono accorto appena entrasti. Ebbene, dimmi tu che cosa potevo fare io strascicandomi su questa vecchia gruccia? Quando ero mastro marinaio di prima classe gli sarei corso dietro e l’avrei abbrancato con queste vecchie grinfie, l’avrei, ma ora..." D’un tratto s’interruppe, e rimase lì, a bocca aperta, come se si ricordasse di qualche cosa.

"Il conto!" esplose. "Tre bicchieri di rum! Ma guarda, imbecille che sono, se dovevo dimenticare il mio conto!" E si lasciò cadere sopra una panca; e rideva, rideva fino a farsi venir le lacrime agli occhi. Io non potei fare a meno d’imitarlo; e ridevamo insieme, uno scroscio dopo l’altro, tanto che la taverna ne era intronata.

"Ah, che famosa foca sono io!" disse infine asciugandosi le guance. "Noi due faremmo bene il paio, perché io pure meriterei il posto di mozzo. Ma adesso tieniti pronto a virare. Il dovere è dovere, camerata. Io mi metto il mio tricorno, e corro con te dal capitano Trelawney a riferirgli la storia. Perché, bada, ragazzo mio, è una cosa seria, e né tu né io ne usciamo in modo da farci onore. Neanche tu, ti dico, sei stato svelto; né l’uno né l’altro, siamo stati svelti. Ma, vivaddio, quella del conto è una bella burla." E daccapo ricominciò a ridere così di gusto che io, pur non apprezzando come lui la facezia, fui di nuovo costretto a prender parte alla sua ilarità.

Durante la nostra breve passeggiata lungo la banchina m’interessò molto dandomi spiegazioni riguardo ai vari bastimenti che passavamo in rassegna, la loro attrezzatura, portata, nazionalità, e operazioni che si stavano eseguendo come uno scaricava, un altro imbarcava mercanzia, un terzo si preparava a salpare - aggiungendovi piccoli aneddoti di vita marinaresca o ripetendomi qualche espressione nautica per farmela bene entrare in mente, cosicché io cominciai a credere che in lui avrei avuto il più prezioso compagno di bordo.

Giunti all’albergo, trovammo a un tavolo il cavaliere e il dottor Livesey che stavano finendo di bere un boccale di birra con pane abbrustolito, per poi recarsi a bordo della goletta per una visita d’ispezione.

Long John raccontò la storia dal principio alla fine con molto brio e scrupolosa esattezza, rivolgendosi a me di tanto in tanto per dire: "E’ stato così, non è vero, Hawkins?", al che io non potevo fare a meno di assentire.

I due signori si rammaricarono che Can-Nero fosse riuscito a svignarsela; ma tutti quanti convenimmo che non c’era niente da fare; e Long John, dopo aver ricevuto i loro complimenti, prese la sua stampella e ci lasciò.

"Tutti a bordo oggi alle quattro" gli gridò dietro il cavaliere.

"Va bene, va bene" confermò il cuoco dal corridoio.

"Cavaliere" disse il dottore "io non ho in generale eccessiva fiducia nelle vostre scoperte; ma tengo a dirvi che questo John Silver mi piace." "Vale tanto oro quanto pesa" dichiarò il cavaliere.

"E ora" aggiunse il dottore "Jim può venire a bordo con noi, non è vero?" "Certamente" disse il cavaliere. "Prendi il tuo cappello, Hawkins, e andiamo a visitare il bastimento."

 

*

 

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*

 

Capitolo 9

Polvere e armi

 

Poiché l’"Hispaniola" era ormeggiata alquanto fuori, ci toccò passare sotto la prua e la poppa di molti altri navigli, i cui cavi ora sfregavano la nostra chiglia ora ciondolavano sulla nostra testa. Alla fine peraltro accostammo e mettemmo piede a bordo, accolti e salutati dal secondo Arrow, un vecchio marinaio guercio, dalla faccia abbronzata, che portava anelli agli orecchi.

Lui e il cavaliere pareva se la intendessero molto bene: io notai però immediatamente che le cose non andavano altrettanto lisce fra il signor Trelawney e il capitano.

Quest’ultimo era un uomo dall’aria severa, che sembrava scontento di tutto ciò che lo circondava; e non tardò a dircene la ragione, poiché eravamo appena scesi in cabina, che un marinaio ci raggiunse.

"Signore" annunciò costui "il capitano Smollett chiede di poterle parlare." "Sono a sua disposizione" rispose il cavaliere. "Fatelo entrare." Il capitano, che stava alle spalle del suo messaggero, entrò immediatamente e chiuse l’uscio dietro di sé.

"Ebbene, capitano Smollett, cos’ha da dirmi? Tutto è in ordine, spero, e possiamo prendere il mare? ~ "Signor mio" rispose il capitano "è meglio parlar franco, io penso, sia pure a costo di dire cose sgradevoli. Non mi piace questa crociera, non mi piace l’equipaggio, e non mi piace il mio secondo. Non ho altro da aggiungere." "Forse che non le piace il bastimento?" interrogò il cavaliere, molto irritato, a quanto vidi.

"Riguardo al bastimento non posso parlare finché non l’abbia messo alla prova" replicò il capitano. "A vederlo sembrerebbe una buona vela. Di più non posso dire." "E magari, signore, non le piacerà il suo armatore?" "Un momento! Un momento!" intervenne il dottor Livesey. "Lasciamo stare questioni che non servono che ad inasprirci. Il capitano ha detto troppo o troppo poco, ed io ho bisogno di una spiegazione.

Lei, capitano, ha detto che non le piace questa crociera. Perché, sentiamo?" "Io sono stato ingaggiato in base al sistema così detto degli ordini suggellati, per portare questa nave dove questo signore mi ordinerà. Fin qui, d’accordo. Ma io trovo ora che non c’è nessuno a bassa prua che non ne sappia più di me. E questo a loro sembra bello, forse?" "No, che non è bello" disse il dottor Livesey.

"Poi" continuò il capitano "vengo a sapere che andiamo alla ricerca di un tesoro, e lo vengo a sapere (notino bene) dal mio stesso equipaggio. Ora, andare alla ricerca di un tesoro è affare delicato. Per conto mio non amo viaggi simili, tanto meno poi li amo quando sono segreti, e quando il segreto, mi perdoni, signor Trelawney, è stato messo in bocca al pappagallo." "Il pappagallo di Silver?" chiese il cavaliere.

"E’ un modo di dire" spiegò il capitano. "Divulgato, intendo dire.

Io ritengo che nessuno di lor signori sa che cosa l’aspetta: ma devo dire ciò che penso: si tratta di vita o di morte, ed è un gioco serrato." "Questo è chiaro, e direi anche abbastanza giusto" osservò il dottor Livesey. "Noi andiamo incontro al pericolo, ma non siamo così ignoranti come lei crede. Poi, lei dice che non le piace l’equipaggio. Non sono forse buoni marinai?" «Non mi piacciono, signor mio" ribadì il capitano. "E dal momento che ne parliamo, aggiungerò che la scelta dei miei marinai la si sarebbe dovuta riserbare a me." "Forse sì" replicò il dottore "il mio amico avrebbe forse dovuto consultarla: ma la mancanza, se mancanza vi fu, non nascondeva nessuna cattiva intenzione. E a lei non piace neppure il signor Arrow?" "Si mescola troppo con l’equipaggio, per essere un buon ufficiale.

Un ufficiale dovrebbe starsene da sé, non mettersi a bere con la ciurma." "Vuol dire che si ubriaca?" esclamò il cavaliere.

"No signore, ma soltanto che usa troppa familiarità." "Sta bene. E ora, la conclusione, capitano?" interpellò il dottore. "Sentiamo che cosa desidera." "Lor signori sono proprio decisi a partire?" "Decisissimi" rispose il cavaliere.

"Bene" riprese il capitano. "Allora, poiché mi hanno così pazientemente ascoltato mentre dicevo cose che non ero in grado di provare, prego lor signori di lasciarmi aggiungere poche parole.

Polvere e armi si stanno depositando a prua. Dal momento che sotto la loro cabina c’è spazio, perché non piuttosto laggiù? Primo punto. Poi, lei, cavaliere, ha portato con sé quattro della sua gente, e mi si dice che qualcuno di essi dovrebbe dormire a prua.

Perché non dargli invece una cuccetta accanto alla cabina? Punto secondo..." "C’è altro ancora?" chiese il cavalier Trelawney.

"Ancora uno" disse il capitano. "Si è già troppo blaterato." "Troppo davvero" convenne il dottore.

"Ripeterò ciò che ho sentito io stesso" proseguì il capitano; "che loro hanno la carta di una isola; che ci sono sopra delle croci indicanti il posto del tesoro; e che la posizione dell’isola è..." e qui riferì latitudine e longitudine esatte.

"Mai ho detto questo, io" gridò il cavaliere "ad anima viva!" "Eppure l’equipaggio lo sa" ribatté il capitano.

"Non può essere stato che lei, Livesey, oppure Hawkins" proclamò il cavaliere..

"Poco importa chi sia stato" replicò il dottore.

Ed io m’accorsi che tanto lui quanto il capitano davano ben poco peso alle proteste del signor Trelawney.

A dire il vero, neppure io gliene davo molto, tale sbracato chiacchierone egli era: ma in questo caso penso che realmente avesse ragione, e che nessuno avesse parlato della posizione dell’isola.

"Ebbene, signori miei" continuò il capitano "io non so chi di voi custodisca questa carta: ma pongo come punto essenziale che essa sia tenuta segreta anche a me e al signor Arrow: senza di che mi vedrei costretto a dimettermi." "Capisco" osservò il dottore. «Noi dovremmo, secondo lei, preoccuparci dei pericoli della situazione, trasformando la poppa della nave in una fortezza, presidiandola coi servitori personali del mio amico, e munendola di tutte le armi e polveri che sono a bordo. In altri termini, ella teme un ammutinamento." "Signore" disse il capitano Smollett, "senza volerla offendere le contesto il diritto di mettermi parole in bocca. Un capitano, signor mio, che prendesse il mare avendo sufficiente motivo di pronunciare quelle parole, non meriterebbe nessuna scusa. Quanto al signor Arrow lo ritengo sostanzialmente onesto; lo stesso potrei dire d’una parte degli uomini, o magari, che so io, di tutti. Ma io sono responsabile della sicurezza della nave e della vita di quanti sono a bordo. Ho l’impressione che le cose non vadano del tutto bene, e la prego di prendere alcune precauzioni, o di lasciarmi rassegnare il mio mandato. Questo è tutto." "Capitano Smollett" riprese il dottore con un sorriso "ha mai sentito la favola della montagna e del topo? Mi perdoni, ma lei me la fa ricordare. Quando entrò qui, scommetto la mia parrucca che voleva dirci qualcosa più di ciò." "Dottore" soggiunse il capitano, "lei ha la vista acuta. Mentre venivo qui, mi aspettavo di essere congedato. Non pensavo che il cavalier Trelawney mi avrebbe lasciato pronunciare più di una parola." "Non desidero sentire altro" gridò il cavaliere. "Non fosse stato qui il dottor Livesey, l’avrei mandato al diavolo. Comunque, ormai ho ascoltato. Farò ciò che desidera, ma ho di lei un pessimo concetto." "Come a lei piace, signore" disse il capitano. "Vedrà che so fare il mio dovere." E con queste parole si congedò.

"Trelawney" osservò il dottore "contrariamente a tutte le mie idee, io penso che lei è riuscito a tirarsi a bordo due persone oneste: quell’uomo e John Silver." "Silver sì, se così le pare" esclamò il cavaliere "ma quanto a quell’insopportabile ciarlatano, trovo la sua condotta indegna d’un uomo, d’un marinaio, e più ancora d’un inglese." "Bene" concluse il dottore "vedremo." Quando venimmo sul ponte, gli uomini, sorvegliati dal capitano e dal secondo Arrow, avevano già cominciato a trasportare armi e polveri ritmando su voci in cadenza la loro fatica.

La nuova sistemazione era completamente di mio gusto. L’intera goletta era stata messa sottosopra; sei cabine erano state preparate nell’ultima parte poppiera della stiva, e questa serie di cuccette comunicava col castello di prua soltanto attraverso uno stretto passaggio a babordo. In un primo momento si era stabilito che il capitano, Arrow, Hunter, Joyce, il dottore e il cavaliere avrebbero occupato queste sei cabine. Ora invece, due erano state destinate a me e a Redruth; e Arrow e il capitano avrebbero dormito sul ponte, nella copertura della scala che era stata allargata in modo da meritare quasi il nome di casseretto.

Naturalmente rimaneva sempre bassa di soffitto; tuttavia c’era spazio per appendervi due amache, e lo stesso Arrow sembrava soddisfatto di tale soluzione. Anche lui, forse, dubitava dell’equipaggio: ma questa è una semplice congettura, poiché, come il lettore vedrà, non ci fu dato di giovarci a lungo dei suoi pareri.

Lavoravamo con ardore intorno alle munizioni e alle cuccette, quando uno o due ritardatari accompagnati da Long John giunsero in un canotto.

Il cuoco scavalcò la murata con la lestezza d’una scimmia, e visto ciò che stavamo facendo, gridò:

"Ohé, camerati, che è questo?" "Stiamo cambiando posto alle polveri" rispose uno di loro.

"Per mille diavoli, se facciamo questo perderemo la marea del mattino." "Miei ordini" tagliò corto il capitano. "Potete andare sotto, amico mio. L’equipaggio avrà bisogno di cenare." "Sta bene, signore, sta bene" rispose il cuoco; e toccandosi il suo ciuffo di capelli, sparì in direzione della cucina.

"Ecco un brav’uomo, capitano" disse il dottore.

"Sì, lo si direbbe" replicò il capitano Smollett. "Adagio con quello, ragazzi, adagio" proseguì rivolto agli uomini che maneggiavano la polvere; e subito dopo, accortosi di me che stavo osservando il cannone collocato a metà della nave, un pezzo in bronzo da nove: "O tu, mozzo" gridò "via di lì. Corri dal cuoco, che ti dia qualcosa da fare." Poi, mentre io mi dileguavo, sentii che diceva forte al dottore:

"Non voglio dei privilegiati a bordo, io." Inutile dire che io condividevo in pieno il modo di vedere del cavaliere, e detestavo profondamente il capitano.

 

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Capitolo 10

Il viaggio

 

Tutta quella notte ci fu un grande trambusto a bordo per stivare a dovere ogni cosa e ricevere canotti pieni di amici del cavaliere, tra cui il signor Blandly, che venivano per augurare buona traversata e felice ritorno. Non ebbi mai all’"Ammiraglio Benbow" una notte dove faticassi la metà di tanto; sicché, quando poco prima dell’alba il nostromo soffiò nel suo fischietto e la ciurma s’affrettò alle barre dell’àrgano, io ero stanco come una bestia da soma. Ma, anche due volte più stanco, non avrei abbandonato il ponte: ogni cosa mi era così nuova e curiosa: i rapidi comandi, il suono acuto del fischietto, le ombre degli uomini che correvano ai loro posti nella debole luce dei fanali di bordo.

"Su, Porco Arrostito" gridò uno "dacci un ritornello." "Quello d’una volta" gridò un altro.

"Sì, compagni, sì" rispose Long John, che stava lì vicino con la sua gruccia sotto l’ascella; e senz’altro intonò la canzone a me ben nota.

"Quindici sulla cassa del morto..." E l’intero equipaggio riprese in coro:

"Yo, hò-hò, e una bottiglia di rum!" Al terzo hò! concordi fecero forza sulle barre dell’àrgano.

Per quanto interessante fosse quella scena, io improvvisamente fui riportato al vecchio "Ammiraglio Benbow" e mi sembrò di distinguere nel coro la voce del capitano. Ma presto l’ancora emerse e penzolò gocciolante dalla gru; presto le vele incominciarono a portare; e la terra e le navi a fuggire da una banda e dall’altra; e prima che io fossi sceso giù a schiacciare un sonnellino, già l’"Hispaniola" si era incamminata verso l’Isola del Tesoro.

Non è mia intenzione raccontare i particolari del viaggio. Esso fu quanto mai prospero. L’"Hispaniola" si rivelò un ottimo legno; l’equipaggio una accolta di validi marinai, e il capitano all’altezza del suo compito. Ma prima che coprissimo tutte quelle miglia alcune cose accaddero che meritano d’essere conosciute.

Anzitutto il signor Arrow si rivelò peggiore ancora che non temesse il capitano. Non aveva nessuna autorità sulla ciurma. I suoi uomini facevano allegramente il comodo loro. Né era questo il più grosso guaio, poiché dopo alcuni giorni di navigazione incominciò a comparire in coperta con certi occhi torbidi, le guance infuocate, la parola ingarbugliata, ed altri sintomi di ubriachezza. A più riprese fu messo agli arresti. A volte cadeva facendosi male, altre rimaneva tutto il giorno disteso nella sua cuccetta; altre ancora, smaltita la sbornia, faceva per un giorno o due il suo dovere in maniera passabile.

Frattanto non riuscivamo a scoprire da dove egli traesse la bevanda. Era un mistero per tutti. Né la nostra sorveglianza, per quanto attenta, bastava a risolverlo. E se ne chiedevamo a lui, ci rideva sul muso quand’era ubriaco; e quando era in sé giurava solennemente di non aver visto mai altro che acqua.

Non soltanto era un cattivo ufficiale, e guastava gli altri con l’esempio, ma continuando di questo passo correva diritto alla morte, sicché nessuno a bordo fu troppo sorpreso o addolorato quando una brutta notte con mare grosso egli scomparve e non se ne seppe altro.

"E’ andato!" gridò il capitano. "E cosi, eccoci liberati dalla fatica di metterlo ai ferri." Ma intanto eravamo privi di un ufficiale, e bisognò, naturalmente, promuovere uno dell’equipaggio. Job Anderson, il nostromo, era il più indicato. Costui, pur conservando il suo vecchio titolo, assunse le funzioni di secondo. Il signor Trelawney aveva navigato, e la sua esperienza ci giovava non poco, poiché egli stesso con tempo tranquillo stava spesso di guardia. E il quartiermastro, Israel Hands, era un vecchio e pratico uomo di mare, prudente e astuto, del quale, in caso di necessità, ci si poteva fidare.

Egli era l’amico del cuore di Long John Silver, e poiché mi accade di nominarlo, parlerò del nostro cuoco di bordo: Porco-Arrostito, come lo chiamavano i marinai.

A bordo, per aver le mani libere il più possibile, egli portava la sua gruccia sospesa a una coreggia che gli girava intorno al collo, ed era curioso vederlo puntare contro una paratia il piede della gruccia, e appoggiato lì sopra, assecondando le ondulazioni della nave, continuare a curare la sua cucina tranquillo come se fosse a terra. Anche più curioso era, nel pieno della burrasca, vederlo attraversare il ponte. Per aiutarlo nei posti più larghi, erano state tese alcune cordicelle (dette gli orecchini di Long John), ed egli si spostava da un punto all’altro, ora servendosi della gruccia, ora trascinandosela dietro per la coreggia, con la sveltezza di un uomo sano. Nondimeno, quelli tra i marinai che prima avevano navigato con lui, vedendolo così ridotto lo compiangevano.

"Porco-Arrostito non è un uomo qualunque" mi diceva il quartiermastro. "Da ragazzo ha fatto i suoi studi, e parla come un libro, quando ne ha voglia; e bravo poi! un leone è nulla, al paragone di Long John! Io l’ho visto alle prese con quattro, e fracassar loro la testa, una testa contro l’altra, lui disarmato!" L’equipaggio intero lo rispettava egli obbediva. Con ciascuno di loro aveva una speciale maniera di parlare e rendere servigi. A me non si stancava di prodigar cortesie; e era contento di vedermi nella cucina, che teneva pulita come uno specchio, coi piatti rilucenti appesi al muro, e, in un angolo, dentro una gabbia, il suo pappagallo.

"Vieni qua, Hawkins" diceva "a fare una chiacchierata con John.

Nessuno è più benvenuto di te, piccolo mio. Siedi, e ascolta le novità. Ecco qui il capitano Flint: chiamo così il mio pappagallo in memoria del famoso filibustiere, ecco qui il capitano Flint che predice buona fortuna al nostro viaggio. Non è vero, capitano?" E il pappagallo a gridare a perdifiato: "Pezzi da otto! Pezzi da otto!" finché John non gli gettava il fazzoletto sopra la gabbia.

"Vedi, quest’uccello" egli diceva, "può avere i suoi duecent’anni, mio caro Hawkins, i pappagalli vivono magari di più, e se c’è uno che abbia visto più scelleratezze di lui, non può essere che il diavolo. Lui ha navigato con England, il grande capitano England, il pirata. Lui è stato nel Madagascar, nel Malabar, a Surinam, a Providence, e a Porto Bello; lui ha visto ripescare le navi della Plata, ed è là che imparò "Pezzi da otto": e non deve meravigliarti: trecento e cinquanta mila, ce n’erano, Hawkins! E si è trovato all’abbordaggio del ’Viceré delle Indie’, al largo di Goa. E a vederlo, lo diresti un bambino! Ma tu hai sentito l’odore della polvere, non è vero, capitano?" "Attenti! Pronti a virare!" strillò il pappagallo.

"Ah, è un cervello fino, questo qui!" diceva il cuoco, porgendogli zucchero tratto dalla tasca, mentre l’uccello picchiava col becco sulla gabbia e snocciolava una sfilza di bestemmie infernali.

"Così è, ragazzo mio" seguitava John. "Chi va al mulino s’infarina. Così questo mio povero vecchio innocente uccello, che vomita fuoco, e non troveresti, te l’assicuro, una creatura più savia di lui. Bestemmierebbe, tanto per dire, alla stessa maniera davanti al cappellano." E John si toccava la fronte con tale gravità e compunzione che lo si sarebbe creduto un sant’uomo.

Frattanto il cavaliere e il capitano Smollett seguitavano a guardarsi in cagnesco. Il cavaliere non dissimulava il suo disprezzo per il capitano; il capitano dal canto suo non parlava se non interrogato; e la risposta era tagliente, e secca e breve e non una sillaba di più. Egli riconosceva, una volta messo alle strette, di essersi sbagliato riguardo all’equipaggio; che alcuni di loro erano svelti da non poter desiderare di meglio; e tutti quanti si erano comportati egregiamente. Quanto al bastimento, lo amava alla follia.

"Naviga più stretto al vento di come un uomo non potrebbe esigere dalla sua stessa moglie, signore. Però," soggiungeva "tutto ciò che posso dire è che ancora non siamo ritornati, e questa crociera non mi piace." Il cavaliere a questo punto voltava le spalle, e andava su e giù per il ponte col mento in aria.

"Se quest’uomo non la smette" mormorava tra i denti "è la volta che scoppio." Avemmo un po’ di cattivo tempo, il che diede modo all’"Hispaniola" di meglio provare le sue qualità. Tutti a bordo si mostravano arcicontenti: né poteva essere altrimenti, poiché io credo che mai equipaggio fu così viziato da quando Noè prese il mare. Il minimo pretesto era buono per distribuire il doppio "grog"; si serviva la torta in giorni fuori dai festivi; come, per esempio, se il cavaliere apprendeva che ricorresse il compleanno di qualcuno; oltre a ciò, c’era continuamente in coperta un barile di mele, aperto nel mezzo, a disposizione di chi ne avesse voglia.

"Sistemi che mai resero un’oncia di bene" diceva il capitano al dottor Livesey. "Accarezzate i marinai, e ne farete dei diavoli.

Questa è la mia convinzione." Ma bene ci venne dal barile di mele, come sentirete; poiché senza di quello noi saremmo rimasti completamente all’oscuro e tutti morti per tradimento.

Ed ecco come avvenne il fatto.

Eravamo entrati nella zona degli alisei per prendere il vento dell’isola che dovevamo raggiungere (non mi è concesso di spiegarmi meglio) e correvamo verso di essa facendo buona guardia giorno e notte. Era all’incirca l’ultimo giorno del nostro viaggio di andata, volendo fare il computo più largo; durante la notte, od al più tardi l’indomani mattina, avremmo dovuto avvistare l’Isola del Tesoro. Navigavamo con la prua a Sud-Sud-Ovest con una brezza costante di traverso e mare spianato. L’"Hispaniola" rullava regolarmente, abbassando di tanto in tanto il bompresso con una sbuffata di spruzzi. Tutte quante le vele, in alto e in basso, portavano; e poiché la fine della prima parte della nostra spedizione era così vicina, eravamo tutti di ottimo umore.

Era appena tramontato il sole ed io, smesso di lavorare, mi dirigevo verso la mia cuccetta, quando mi prese voglia d’una mela.

Corsi in coperta. I marinai tutti a prua spiavano l’apparire dell’isola. Il timoniere stava attento alle vele e intanto fischiettava dolcemente. A parte il fruscìo dell’acqua contro il tagliamare e i fianchi della nave, era questo l’unico suono che si udisse.

Con tutto il corpo entrai nel barile, e trovai che mele non ve n’era quasi più; ma stando lì dentro al buio, cullato dal rullìo della barca e dal mormorìo dell’acqua, mi sarei presto addormentato se qualcuno dalla pesante corporatura non fosse venuto a sedersi rumorosamente lì contro. Il barile ebbe una scossa mentr’egli vi urtò con le spalle, ed io stavo per saltar fuori, quando costui incominciò a parlare. Era la voce di Silver; e mi bastò udire dieci parole, che per tutto l’oro del mondo non sarei più uscito; e rimasi lì, tutto tremante, in ascolto, preso tra curiosità e spavento; poiché da quelle poche parole avevo capito che la vita di tutti i galantuomini a bordo dipendeva unicamente da me.

 

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Capitolo 11

Ciò che udii nel barile delle mele

 

"No, non io" diceva Silver "era Flint il capitano; io ero quartiermastro, a causa della mia gamba di legno. Io perdetti la mia gamba nella stessa bordata dove il vecchio Pew lasciò la vista. Era un dottore in chirurgia quello che mi amputò la gamba, uscito dall’Università con tutti i diplomi, latino fin che ne vuoi e non so che altro, ma fu impiccato come un cane, e seccò al sole con gli altri a Corso Castle. Erano uomini di Roberts, quelli là; e tutta la loro` disgrazia derivò dall’aver cambiato i nomi delle loro navi: "Royal", "Fortune", e così via. Ora, quando un bastimento è battezzato con un nome, questo nome non si deve toccare, io dico. Così fu con la "Cassandra" che ci trasportò sani e salvi dal Malabar, dopo che England ebbe catturato il "Viceré delle Indie"; così fu col vecchio "Walrus", la nave di Flint, che io vidi allagata di sangue e carica d’oro che a momenti affondava." "Ah," gridò un’altra voce, quella del più giovane marinaio, in uno scatto di ammirazione "era la perla della brigata, Flint!" "Anche Davis era un uomo, sotto tutti i punti di vista" riprese Silver. "Ma io non ho mai navigato con lui: prima con England, poi con Flint; questo è tutto; e ora qui, per conto mio, per modo di dire. Io misi da parte novecento sterline al tempo di England, e duemila dopo Flint. Non c’è mica male per un uomo di prua, e tutto in banca, al sicuro. Guadagnare non è niente; ciò che conta è mettere da parte: credete a me. Cosa ne è degli uomini di England, ora? Io non lo so. E di quelli di Flint? Eh, la maggior parte sono qui a bordo, contenti di pizzicar la torta, mentre ieri andavano mendicando, alcuni di loro. Il vecchio Pew, persa la vista, non ebbe vergogna di scialacquare milleduecento sterline in un anno, come un lord del Parlamento. Dov’è ora? Ebbene, ora è morto e sotto coperta; ma nei suoi due ultimi anni il poveraccio crepava di fame. Mendicava, rubava, sgozzava, e con tutto ciò crepava di fame, per mille diavoli!" "Ebbene, dopo tutto non importava" osservò il giovane.

"Non importa per gli imbecilli, puoi star sicuro; né per questo, né per nient’altro" gridò Silver. "Ma tu, senti un po’: tu sei giovane, è vero, ma sei una perla d’uomo. Me ne accorsi appena ti misi gli occhi addosso, e voglio parlarti come si parla a un uomo." Vi lascio immaginare ciò che provai sentendo quell’abominevole briccone rivolgersi a un altro con le medesime parole lusingatrici che già aveva adoperate con me. Credo che se fosse dipeso da me, l’avrei ucciso attraverso il barile. E intanto continuava, lontano dal supporre che c’era chi l’ascoltava.

"Così è per tutti i cavalieri di ventura. Essi vivono duramente, e rischiano la corda, però mangiano e bevono come pascià, e quando una crociera è finita, olà, sono centinaia di sterline e non di soldi, che gli entrano in tasca. Il guaio è che la maggior parte se ne va in rum e sciali, e tornano in mare con la sola camicia.

Ma questo non è il mio sistema. Io metto tutto da parte: un po’ qui, un po’ là; e mai troppo in un posto solo, a scanso di sospetti. Io ho cinquant’anni, tienilo a mente; finita questa crociera mi metto a fare il signore sul serio. Mi dirai che era tempo. Sì, ma intanto io ho vissuto comodamente; mai nulla di ciò che mi piaceva mi sono lasciato mancare, e ho dormito sul soffice, e tutto il tempo ho mangiato da ghiotto, eccetto che in mare. E come ho cominciato? Da prua, come te." "Va bene" replicò il giovane "ma tutto il denaro che avete da parte ora è perduto, no? Dopo questo colpo non oserete mica farvi più vedere a Bristol." "O dove diavolo immagini che sia?" chiese Silver ironico.

"A Bristol, nelle banche o altri posti" rispose il compagno.

"C’era sì" disse il cuoco "c’era ancora quando salpammo l’àncora.

Ma a quest’ora è tutto nelle mani della mia vecchia governante. Il ’Cannocchiale’ è venduto: affitto, avviamento, mobilia; e la vecchia ragazza è partita per aspettarmi. Ti direi dove, perché di te mi fido; ma non voglio suscitare gelosie tra i compagni." "E voi vi fidate della vostra governante?" chiese l’altro.

"I cavalieri di ventura" rispose il cuoco "generalmente si fidano poco gli uni degli altri, e hanno ragione, credilo pure. Ma io ho il mio metodo, io. Quando un camerata mi gioca un tiro, uno che mi conosce, intendo dire, significa che non gli piace troppo restare al mondo insieme col vecchio John. C’era chi aveva paura di Pew, e chi di Flint; ma lo stesso Flint aveva paura di me. Paura, aveva, malgrado la sua arroganza. E la ciurma di Flint era la più rude canaglia che tenesse i mari; lo stesso diavolo avrebbe avuto paura di navigare con loro. Ebbene, ti dico, io non sono un millantatore, e tu stesso hai visto come sono buon compagnone; ma quando navigavo da quartiermastro, ’agnelli’ non era un nome adatto ai vecchi filibustieri di Flint. Ah, tu puoi esser sicuro del fatto tuo, sul bastimento del vecchio John." "Ebbene, voglio dire" replicò il giovane "che fino a un momento fa l’affare non mi garbava, ma ora che vi ho sentito parlare, sono con voi." "Sei un bravo e sveglio ragazzo, tu" rispose Silver, dandogli una così forte stretta di mano che il barile ne fu scosso. "Mai ho visto persona meglio indicata per farne un cavaliere di ventura." Io cominciavo ad afferrare il senso dei loro termini. "Cavaliere di ventura" significava semplicemente e né più né meno che un volgare pirata, e la breve scena da me sorpresa suggellava la corruzione di uno dei marinai rimasti onesti, forse dell’ultimo che ancora fosse a bordo. Ma su queste cose fui presto messo al corrente, poiché Silver lanciò un piccolo fischio, ed un terzo uomo sopraggiunse e sedette accanto agli altri due.

"Dick è dei nostri" disse Silver.

"Oh lo sapevo bene che Dick sarebbe stato dei nostri" ribatté la voce del quartiermastro Israel Hands. "Non è uno stupido, Dick." E masticò la sua cicca e sputò. "Ma senti un po’, Porco-Arrostito, si può sapere quanto tempo resteremo qui a ciondolare come una chiatta? Ne ho abbastanza del capitano Smollett, io; mi ha rotto abbastanza le scatole, corpo di mille bombe! Voglio andare in quella cabina, io. Voglio i loro cetrioli, i loro vini, e il resto." "Israel," proruppe Silver "la tua testa non ha molto giudizio, e non ne ha mai avuto. Però tu sei capace d’ascoltare, io penso: almeno, le orecchie le hai abbastanza lunghe. Ora, ecco ciò che ti dico: tu dormirai a prua, vivrai malamente, parlerai piano e non ti ubriacherai finché io non darò il segnale: così sarà, ragazzo mio, te l’assicuro io."

"E ho forse detto il contrario io?" borbottò il quartiermastro. "Io chiedo soltanto: quando? Io non dico che questo."

"Quando? Per mille diavoli!" scattò Silver. "Ebbene, se vuoi saperlo, te lo dirò. Più tardi che mi sarà possibile: ecco quando. Abbiamo qui un marinaio di prim’ordine, il capitano Smollett, che ci conduce. C’è il cavaliere e il dottore che hanno in mano una carta e non so che altro. Questa carta io non so dove sia. Né tu lo sai meglio di me. Allora, dunque, io desidero che il cavaliere e il dottore trovino la "mercanzia", e ci aiutino a imbarcarla, per tutti i diavoli. Dopo di che, vedremo. Se io fossi sicuro di tutti voi, doppi figli di olandesi, aspetterei a fare il colpo quando il capitano Smollett ci avesse riportato indietro fino a metà cammino."

"Ebbene, a me pare che siamo tutti quanti bravi marinai, qui" osservò il giovane Dìck.

"Vuoi dire che siamo tutti uomini di prua" insorse Silver. "Noi possiamo sì seguire una rotta, ma chi è che ce la dà? E’ lì dove vi arenereste tutti dal primo all’ultimo, voi cavalieri di ventura. Potessi fare a modo mio, aspetterei che il capitano Smollett ci riportasse almeno fin negli alisei; allora niente più maledetti sbagli di calcoli, né acqua a razione d’una cucchiaiata al giorno. Ma io vi conosco bene voi! Mi sbarazzerò di loro nell’isola, appena che la "mercanzia" sarà a bordo, ed è un peccato. Ma voi non siete contenti finché non siete ubriachi.

Maledizione! Sono nauseato di dover a navigare con gente simile!" "Piano! Piano!" protestò Israel. "E chi ti ha contraddetto?" "Eh, pensate un po’ quanti grandi bastimenti ho visto ammarinati, io. E quanti diavoli di ragazzi seccare al sole sul Dock della Forca," gridò Silver "e tutto per questa sciagurata smania di fare in fretta, fare in fretta, fare in fretta. Capite? Qualcosa in mare posso dire d’aver visto, io. Se voi seguiste semplicemente la vostra rotta tenendovi stretti al vento, potreste passeggiare in carrozza, voi. Ma voi, no! Oh, vi conosco bene. Domani avrete la vostra boccata di rum, e andate a farvi impiccare." "Che tu parli come un predicatore, lo si sa, John; però ci furono pure altri capaci di manovrare e governare non meno bene di te" ribatté Israel. "Ma loro ammettevano lo scherzo, loro. Non erano affatto così superbi e intrattabili; e si prendevano le loro punzecchiature da allegri compagnoni tutti quanti." "Ah sì?" riprese Silver. "E dove sono ora? Pew, che era di quella razza, finì mendicante. Flint, lo stesso, e morì bruciato dal rum a Savannah. Oh, erano una graziosa brigata, erano. Soltanto, mi sapete dire dove sono?" "Ma" interruppe Dick "quando avremo quei signori nelle mani, che ne faremo?" "Ecco un uomo che mi va!" gridò il cuoco ammirato. "Questo si chiama aver senso pratico. Ebbene, che pensereste voi?

Abbandonarli a terra? Sarebbe il metodo di England. O tagliarli a pezzi come carne di porco? Così avrebbe fatto Flint o Billy Bones." "Billy era uomo da far questo" disse Israel. "’Uomo morto non morde,’ era solito dire. Be’, lui stesso è morto, ora; e conosce il poco e il molto, ora; e se mai rude marinaio entrò in porto, fu Billy." "Giusto" appoggiò Silver «rude e pronto, era. Ma badate: io sono un uomo alla mano, un vero gentiluomo, nevvero? però stavolta la cosa è seria. Il dovere è dovere, amici miei. Io sono per la morte. Quando sarò al Parlamento, e mi farò scarrozzare nel mio cocchio, non vorrei che qualcuno di questi "avvocati di mare" della cabina ritornasse in paese improvvisamente come il diavolo alla preghiera. Aspettare, dico io: ma quando il momento arriva, colpire!

"John," gridò il quartiermastro "tu sei un uomo!" "Lo dirai quando avrai visto. Io per me non domando che una cosa:

Trelawney. Con queste mani gli sviterò la sua testa di vitello...

Dick!" aggiunse poi interrompendosi "alzati, da bravo, e prendimi una mela, che possa inumidirmi la gola." Potete immaginare il mio terrore. Sarei balzato fuori e scappato via se ne avessi trovato la forza: ma cuore e muscoli mi mancarono. Sentii Dick muoversi: ma qualcuno parve trattenerlo. E la voce di Hands esclamò:

"Lascia stare, John, quella roba che puzza di sentina. Beviamo piuttosto un sorso di rum." "Dick" acconsentì Silver "io mi fido di te. C’è una misura sul barilotto, fai attenzione. Eccoti la chiave: tu riempi una mezzetta e la porti su." "Così" pensavo tra me stretto dal terrore "Arrow doveva essersi procurati i liquori che l’avevano ucciso." Mentre Dick era via, Israel sussurrò qualcosa all’orecchio del cuoco. Non furono che poche parole, tra le quali però io colsi un’importante frase: "Nessun altro sarà con noi". Avevamo dunque ancora degli uomini fedeli, a bordo.

Ritornato Dick, essi bevvero uno dopo l’altro, passandosi la mezzetta. Uno augurò: "Alla nostra buona fortuna!". L’altro: "Al vecchio Flint!".

E Silver, come cantando:

"Beviamo a noi, e teniamoci al vento. Torta, e bottino d’oro e d’argento!" In quel momento una piccola luce entrò nel barile, e alzando gli occhi io vidi che la luna si era levata e stava inargentando la cima dell’albero di mezzana e illuminando il biancore della vela prodiera. Quasi nello stesso istante la voce della vedetta gridò: "Terra!"

 

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Capitolo 12

Consiglio di guerra

 

Rapidi passi sul ponte: gente uscita a precipizio dalla cabina e dal castello di prua. Sgusciato all’istante fuori del barile, io m’insinuai dietro la vela di trinchetto, e dopo un giro a poppa sboccai sul ponte, giusto in tempo per raggiungervi Hunter ed il dottor Livesey che correvano verso la gru di sopravvento.

L’intero equipaggio era già lì radunato. Una zona di nebbia si era alzata quasi insieme con la luna. Laggiù a sud est scorgevamo due basse montagne distanti circa un paio di miglia; e, dietro una di esse una terza più alta, la cui cima era ancora avviluppata dalla nebbia. Tutte e tre sembravano aguzze e di forma conica.

Io vidi ciò come in sogno, poiché ancora non m’ero riavuto dalla tremenda emozione di poco prima. Sentii poi la voce del capitano Smollett che dava ordini. L’"Hispaniola" fu orientata per due quarte più al vento, e ora seguiva una rotta che le avrebbe permesso di accostare l’isola da levante.

"E adesso, ragazzi" disse il capitano quando le vele furono piegate "c’e qualcuno tra voi che abbia mai visto quella terra?" "Io, signore" rispose Silver. "Feci acqua lì una volta con un bastimento mercantile su cui ero cuoco." "L’ancoraggio è al sud, suppongo, dietro un isolotto?" chiese il capitano.

"Sissignore: è detto l’isolotto dello Scheletro. Un tempo l’isola stessa era un rifugio di pirati, e un marinaio che avevamo a bordo conosceva i nomi di tutte le località Quella punta a nord la chiamavano l’Albero di Trinchetto. Ci sono tre punte allineate da nord a sud, signore: Trinchetto, Maestra, Mezzana. Ma la Maestra, la più grande cioè, con la nuvola sopra, di solito la chiamavano "Il Cannocchiale" perché ci mettevano una vedetta quando stavano all’ancoraggio in riparazione, poiché è là che riparavano le loro navi, signore, con licenza." "Ho qui una carta" disse il capitano Smollett. "Guardate se è questa la località." Le pupille di John lampeggiarono nel prendere in mano la carta, ma io gettando un’occhiata su essa compresi quale delusione l’aspettava. Quella non era la carta che noi avevamo trovato nel baule di Billy Bones, bensì una copia accurata contenente tutti i particolari, nomi, altezza dei fondali, eccettuate soltanto le crocette rosse e le postille. Per quanto acuto fosse la sua delusione, Silver ebbe la forza di mascherarla.

"Sì, signore, questo è il posto, non c’è dubbio, e molto ben disegnato. O chi mai può aver fatto questo?, mi domando io. I pirati erano troppo ignoranti, penso. Ecco qui: ’Ancoraggio Capitano Kidd’: così appunto lo chiamava il mio camerata. C’è una forte corrente che segue la costa sud, e poi risale verso il nord per la costa ovest. Avete ben fatto, signore, a tenervi al vento dell’isola. Almeno, se è vostra intenzione di prender terra e carenare, nessun posto migliore esiste in queste acque." "Grazie" disse il capitano Smollett. "Vi chiamerò più tardi per darci una mano. Potete andare." Io ero stupito dell’impassibilità con cui John rivelava la sua conoscenza dell’isola, e non senza apprensione lo vidi avvicinarmisi. Egli certo ignorava che io dal fondo del barile avevo sorpreso la loro congrega; ma da quel momento un tale orrore m’aveva preso della sua crudeltà, doppiezza e potenza, che a stento riuscii a reprimere un brivido mentre egli mi posava la mano sul braccio.

"Ah," disse "è un bel posto, quest’isola: delizioso per un ragazzo che voglia scendere a terra. Tu ti bagnerai, ti arrampicherai sugli alberi, darai la caccia alle capre, e t’inerpicherai su quelle cime tu stesso come una capra. Vedi? Io mi sento ringiovanire. A momenti dimenticavo la mia gamba di legno, dimenticavo. E’ una bella cosa esser giovane e aver dieci dita, credi a me. Quando avrai voglia di fare una piccola escursione, avverti il vecchio John: egli ti preparerà un boccone da portare con te." E battendomi sulla spalla col fare più amichevole, si staccò da me zoppicando e si calò a bassa prua.

Il capitano Smollett, il cavaliere e il dottor Livesey stavano discorrendo tra loro sul cassero di poppa; e per quanto ansioso io fossi di raccontar loro la mia storia, non osavo apertamente interromperli. Mentre stavo cercando un pretesto, il dottor Livesey mi chiamò a sé. Aveva lasciato la sua pipa dabbasso, e da fumatore appassionato voleva mandarmi a prenderla; ma appena gli fui vicino abbastanza da potergli parlare senza che altri udissero, proruppi: "Senta, dottore. Conduca il capitano e il cavaliere in cabina, e poi trovi un pretesto per mandarmi a chiamare. Ho delle terribili notizie." Il dottore apparve turbato per un momento, ma non tardò a dominarsi.

"Grazie, Jim," disse ad alta voce, come se io avessi soddisfatto una domanda "è tutto ciò che desideravo sapere." Dopo di che voltò le spalle e raggiunse gli altri due. Essi confabularono insieme un poco; e sebbene nessuno di loro trasalisse o alzasse la voce, o si lasciasse sfuggire una sillaba, era chiaro che il dottor Livesey aveva loro riferito le mie parole, poiché subito dopo sentii il capitano dare a Job Anderson l’ordine di radunare tutta la gente sul ponte.

"Ragazzi" incominciò il capitano Smollett. "Devo dirvi una parola.

Questa terra che abbiamo avvistato e la mèta del nostro viaggio.

Il signor Trelawney da generoso gentiluomo qual è e quale tutti lo conosciamo, mi ha chiesto proprio ora alcune informazioni, e poiché io ho potuto affermargli che tutti a bordo, dal primo all’ultimo, hanno adempiuto il proprio dovere, e come meglio io non avrei desiderato, ebbene, lui ed io e il dottore scenderemo in cabina a bere alla vostra salute e buona fortuna, e a voi sarà servito un ’grog’ che berrete alla salute e fortuna NOSTRA. Devo dirvi che penso di ciò? Penso che è nobile e gentile da parte sua.

E se voi siete d’accordo con me, mandate un evviva marino al gentiluomo che l’ha voluto." L’evviva seguì, come c’era da aspettarsi, ma risuonò così pieno e caloroso che, lo confesso, stentavo a credere che uscisse dal petto di quei medesimi uomini che stavano tramando contro le nostre vite.

"Ancora un evviva al capitano Smollett!" gridò Long John quando il primo si fu acquietato.

E anche questo scoppiò unanime.

Dopo di che i signori scesero dabbasso, e quasi subito fu mandato a dire che Jim Hawkins era desiderato in cabina.

Li trovai tutti tre seduti intorno al tavolo, con davanti una bottiglia di vin di Spagna e uva passa. Il dottore fumava, tenendo la sua parrucca sulle ginocchia, come sempre quando era agitato.

Dalla finestra di poppa, aperta sulla notte calda, si vedeva la luna palpitare nella scia della nave.

"E dunque, Hawkins" proruppe il cavaliere "tu hai qualcosa da dire. Parla." Io obbedii, e nel più breve modo possibile riferii tutti i particolari della conversazione di Silver. Nessuno m’interruppe, nessuno si mosse: mi ascoltarono dal principio alla fine senza staccarmi un momento gli occhi di dosso.

"Jim," disse il dottore "siedi." Mi fecero posto alla loro tavola, mi servirono del vino, mi riempirono le mani d’uva passa; e l’uno dopo l’altro con un inchino bevvero alla mia salute, rallegrandosi della mia fortuna e del mio coraggio.

"E ora, capitano" disse il cavaliere "riconosco che lei aveva ragione e io torto. Sono stato un asino, lo confesso, e mi pongo ai suoi ordini." "Non più asino di me" ribatte il capitano. "Io non ho mai sentito parlare di un equipaggio che avendo l’intenzione di ammutinarsi non ne lasciasse trapelare qualche segno dando modo a chiunque avesse occhi di avvertire il pericolo e provvedere. Ma quest’equipaggio mi batte." "Capitano" osservò il dottore "ciò, se permette, si deve a Silver.

Quello è un uomo straordinario." "Starebbe bene appeso all’estremità d’un pennone, signore" rispose il capitano. "Ma queste sono chiacchiere, che non portano a niente. Io vedo tre o quattro punti, e con licenza del signor Trelawney li enumererò." "Lei, signore, è il capitano. A lei tocca parlare" disse il signor Trelawney con signorile cortesia.

"Punto primo" incominciò il capitano. "Dobbiamo proseguire, poiché tornare indietro non è possibile. Se io dessi l’ordine di virar di bordo, essi immediatamente si rivolterebbero. Punto secondo, abbiamo del tempo davanti a noi, almeno finché il tesoro non sia trovato. Terzo punto, c’è qualche marinaio fedele. Ora, signore, siccome prima o dopo bisognerà pur venire alle corte, così io propongo di afferrare l’occasione per i capelli come si suol dire, rompendola noi stessi per primi un bel giorno, mentre loro meno se l’aspettano. Io credo che possiamo contare sui vostri personali servitori, signor Trelawney?" "Come su me stesso." "Tre. E con noi, contando Hawkins, facciamo sette. E quanto ai marinai onesti?" "Molto probabilmente gli uomini di Trelawney" disse il dottore.

"Quelli che aveva scelti lui stesso, prima d’imbattersi in Silver." "No," chiarì il cavaliere "Hands era uno dei miei." "E io che mi sarei fidato di Hands!" mormorò il capitano.

"E pensare che sono tutti inglesi!" esclamò il cavaliere.

"Verrebbe voglia di far saltare la nave." "Ebbene, signori" riprese il capitano "il meglio che io possa dire non è gran cosa. A noi conviene metterci in campana e fare buona guardia. E’ penoso, lo so. Si preferirebbe venir subito alle mani.

Ma non c’è rimedio fin tanto che non conosciamo i nostri uomini.

Mettersi in attesa e aspettare il vento buono: questo è il mio parere." "Jim, qui, può esserci d’aiuto meglio di chicchessia" disse il dottore. "Gli uomini non diffidano di lui, e Jim è un ragazzo che osserva." "Hawkins, io ripongo in te un’immensa fiducia" aggiunse il cavaliere.

Ma io ero troppo conscio della mia impotenza per non disperare; e nondimeno, grazie a un curioso concorso di circostanze, doveva proprio per mezzo mio giungere la salvezza. Frattanto noi avevamo un bel dire, non erano più di sette su ventisei quelli su cui sapevamo di poter fare assegnamento, e di questi sette uno era un ragazzo, cosicché eravamo sei adulti da una parte, contro diciannove dall’altra.

 

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PARTE TERZA

LA MIA AVVENTURA A TERRA

 

Capitolo 13

Come incominciò la mia avventura

 

L’aspetto dell’isola, quando io salii sul ponte l’indomani mattina, era completamente cambiato. Quantunque la brezza fosse del tutto caduta, avevamo fatto un bel tratto di cammino durante la notte, e eravamo ora imprigionati dalla bonaccia a circa mezzo miglio a sud-est della piatta costa orientale. Boscaglie grigiastre rivestivano gran parte della sua superficie. Questa tinta uniforme era interrotta nella zona più bassa da strisce di sabbia gialla e da una quantità di alberi elevati, della famiglia dei pini, che sormontavano gli altri: alcuni isolati, altri a gruppi; ma la colorazione generale era monotona e triste. I monti innalzavano su questa vegetazione i loro picchi di nuda roccia.

Tutti erano di forma bizzarra, e il Cannocchiale, di tre o quattrocento piedi il più alto dell’isola, presentava il più strano profilo, balzando su ripido e scabro da ogni lato, per rimanere in cima improvvisamente mozzato come un piedestallo su cui collocare una statua.

L’"Hispaniola" rullava sulle onde gonfie. Le verghe squassavano i bozzelli, la barra del timone sbatteva di qua e di là, e l’intera nave scricchiolava, gemeva, s’impennava e abbatteva come una creatura torturata. Io mi tenevo attaccato ai paterazzi, e ogni cosa mi girava vertiginosamente intorno; poiché se ero abbastanza buon marinaio mentre la nave filava, questo rimaner lì piantato e sballottato come una bottiglia era cosa che non sopportavo senza nausea, e soprattutto a digiuno.

Forse anche l’aspetto melanconico dell’isola con le sue cineree foreste e i suoi rocciosi e selvaggi picchi, e lo spumeggiare e tuonare delle onde contro l’irta riva acuivano il mio malessere; fatto sta che malgrado il sole smagliante e infuocato, e l’allegria degli uccelli marini che si tuffavano e gridavano intorno a noi, e la prospettiva così grata sempre a chi approda dopo una lunga navigazione, io mi sentivo il cuore oppresso, e fin da quella prima occhiata imparai a odiare l’Isola del Tesoro.

Avevamo davanti una mattinata di fastidioso lavoro, poiché non c’era indizio di vento; e bisognava mettere in mare i canotti e tirare il bastimento a rimorchio per tre o quattro miglia, visto che tanto era il cammino per doppiare la punta dell’isola, passare lo stretto canale, e raggiungere il porto dietro l’isolotto dello Scheletro. Io presi posto in una imbarcazione, dove, peraltro, non avevo nulla da fare. Il calore era soffocante, e gli uomini curvi sulla loro fatica brontolavano rabbiosamente. Anderson, che governava il mio canotto, anziché richiamare l’equipaggiò all’ordine, protestava peggio degli altri.

"Ma," disse infine con una bestemmia "non andrà sempre così." Queste parole mi parvero un pessimo segno. Fino a quel giorno gli uomini avevano compiuto il loro lavoro di buona voglia e con slancio; ma la semplice vista dell’isola era bastata ad allentare i vincoli della disciplina.

Durante tutto il tragitto Long John stette vicino al timoniere a pilotare la nave. Egli conosceva lo stretto come la palma della sua mano, e quantunque lo scandaglio indicasse più acqua che non risultasse dalla carta, John non ebbe mai un momento di esitazione.

"C’è una spinta violenta, qui, col riflusso" disse "ed è come se questo canale fosse stato scavato con una vanga." Gettammo l’àncora nel preciso punto segnato sulla carta, a circa un terzo di miglio da ciascuna riva: la terra da un lato, e l’isolotto dello Scheletro dall’altro. Il fondo era pura sabbia.

Il tuffo della nostra àncora sollevò una nuvola di uccelli che gridando girarono sopra i boschi: ma in meno di un minuto si erano di nuovo posati, e tutto era ridiventato quieto e silenzioso.

La rada era completamente riparata dalla costa e circondata da boschi i cui alberi discendevano fino quasi a lambire il mare; le rive erano in gran parte piatte; e le cime dei monti disposte a cerchio formavano una specie di lontano anfiteatro. Due fiumiciattoli o meglio due paludosi ruscelletti si scaricavano in questo che chiamerei stagno; e la vegetazione su quella parte della costa ostentava una specie di malvagio splendore. Da bordo nulla potevamo scorgere né del fortino né della palizzata completamente affondata nel verde; e se non fosse stato per la carta spiegata sotto i nostri occhi, avremmo potuto illuderci d’essere i primi ad ancorarci lì da quando l’isola era emersa dalle acque.

Non c’era un alito di vento né si sentiva alcun rumore tranne il tuonar della risacca mezzo miglio lontano lungo la spiaggia e contro le scogliere di fuori. Caratteristiche esalazioni di foglie imputridite e tronchi d’alberi marciti stagnavano sul posto dell’ancoraggio. Io vidi il dottore arricciare il naso più volte, come si fa quando si annusa un uovo guasto.

"Non so nulla del tesoro" disse "ma scommetterei che qui c’è la malaria." Se il contegno degli uomini era stato inquietante nel canotto, diventò addirittura minaccioso non appena ritornati a bordo. Si raggruppavano sul ponte a mormorare tra loro. Il più semplice comando veniva accolto con aria cattiva ed eseguito di mala voglia e trascuratamente. Persino ai marinai onesti doveva essersi appiccicato il contagio, poiché non c’era un uomo a bordo che riprendesse un altro. La rivolta, era chiaro, ci pendeva sul capo come una nuvola carica di tempesta.

Né eravamo noi soli della cabina ad avvertire il pericolo. Long John si dava molto da fare, correndo di gruppo in gruppo e prodigandosi in consigli di calma. Nessuno avrebbe potuto offrire un miglior esempio. Egli superava se stesso in buon volere e cortesia; e a tutti dispensava sorrisi. Appena sentiva un comando, eccolo sulla gruccia col più gioviale, "sì, sì signore"; e quando non c’era altro da fare, intonava una canzone dietro l’altra, come per coprire il malcontento dei compagni.

Fra tutti i lati oscuri di quel bieco pomeriggio, l’evidente ansia di Long John appariva il più peggiore.

Noi tenemmo consiglio in cabina.

"Signore" disse il capitano rivolgendosi al cavaliere "se io arrischio un altro ordine, l’intero equipaggio si ribellerà come un sol uomo. Sì, signore, siamo a questo punto. Mettiamo che mi si risponda male. Se io ribatto, eccoci ai ferri corti; se taccio, Silver capisce che c’è sotto qualche cosa, e la partita è perduta.

Per il momento, noi non abbiamo che un uomo su cui poter contare." "E sarebbe?" domandò il cavaliere.

"Silver, signore. Egli desidera non meno ardentemente di noi che le cose si assestino. Questa non è che una bizza. Silver la farebbe loro presto passare se ne avesse l’occasione, e ciò che io vi propongo è di fornirgli quest’occasione. Concediamo agli uomini il permesso di scendere a terra un pomeriggio. Se vanno tutti, la nave è nostra. Se nessuno si muove, noi teniamo la cabina e Dio proteggerà il nostro buon diritto. Se solo alcuni vanno, Silver, credete a me, li riporterà a bordo dolci come agnelli." Così fu deciso. Pistole cariche vennero distribuite a tutti gli uomini sicuri; Hunter, Joyce, e Redruth furono messi al corrente della situazione, e ricevettero le nostre confidenze con minor sorpresa e maggior coraggio di quanto non avessimo immaginato; dopo di che il capitano salì sul ponte, e arringò l’equipaggio.

"Ragazzi" disse "la giornata è stata calda, e siamo tutti stanchi e non di buon umore. Un giro a terra non farà male a nessuno; i canotti stanno ancora in acqua: potete prenderli, e chi ne ha voglia può rimanere a terra tutto il pomeriggio. Farò tirare un colpo di cannone mezz’ora prima del calar del sole." Quegli sciocchi pensavano certo di trovarsi a inciampare nel tesoro appena sbarcati, perché in un lampo il loro malumore si dissipò, e mandarono un evviva che risvegliò l’eco di un monte lontano, e spinse in aria un altro stormo di uccelli che stridendo volteggiarono sopra l’ancoraggio.

Il capitano era uomo troppo accorto per rimanere in mezzo a loro.

Egli si dileguò subito lasciando a Silver il compito di regolare la spedizione, il che credo fu un ottimo consiglio. Si fosse trattenuto sul ponte, non avrebbe potuto più a lungo fingere d’ignorare la reale situazione. Era chiaro come il sole. Silver era il vero capitano e disponeva di un equipaggio in rivolta. Gli onesti, e io potei presto assodare che ne rimanevano a bordo, erano indubbiamente della gente assai stupida. O meglio, la verità era questa, che l’esempio dei caporioni aveva più o meno demoralizzato tutti quanti: e alcuni pochi, bravi ragazzi in fondo, non si sarebbero lasciati portare o spingere un passo più in là. Difatti, una cosa è essere poltrone e infingardo, altra cosa è impadronirsi di una nave e trucidare una schiera di innocenti.

La spedizione fu finalmente allestita. Sei rimanevano a bordo, ed i tredici altri, compreso Silver, cominciarono a calarsi nei canotti.

Fu allora che mi balenò in mente la prima di quelle idee pazze che tanto contribuirono a salvarci la vita. Restando a bordo sei uomini, era chiaro che i nostri non potevano pensare a impadronirsi della nave; ma poiché le forze delle due parti si bilanciavano, altrettanto chiaro era che, per il momento, la cabina non necessitava del mio aiuto. Mi prese a un tratto la voglia di scendere a terra. Con la lestezza di un gatto scivolai giù dal bordo e mi acquattai a prua del canotto più vicino, che quasi subito si mosse.

Nessuno si accorse di me, tranne il rematore di prua, che mi disse:

"Sei tu, Jim? Abbassa la testa." Ma Silver dall’altro canotto si voltò a guardare, e gettò una voce per sapere se ero io; e da quel momento io cominciai a pentirmi di ciò che avevo fatto. Gli equipaggi gareggiarono in velocità per guadagnare la riva; ma il canotto che mi portava, avendo qualche vantaggio iniziale, ed essendo insieme più leggero e meglio governato, sorpassò di molto il suo concorrente. La prua del nostro aveva già urtato contro il groviglio degli alberi della riva, ed io, afferrato un ramo, m’ero lanciato fuori piombando nel più vicino cespuglio, quando Silver e gli altri arrancavano ancora cinquanta metri indietro.

"Jim! Jim!" udii gridare alle mie spalle.

Ma io non diedi retta: saltando, curvandomi, spezzando rami per aprirmi un passaggio, corsi e corsi dritto da vanti a me fin tanto che le forze non mi abbandonarono.

 

*

 

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*

 

Capitolo 14

Il primo colpo

 

Ero talmente contento di aver piantato Long John, che incominciai a divertirmi osservando con interesse lo strano luogo dov’ero capitato.

Avevo attraversato una zona paludosa popolata di salici, giunchi e curiosi alberi esotici, ed ero giunto sull’orlo d’un terreno scoperto, ondulato e sabbioso, esteso circa un miglio, cosparso di rari pini e d’un gran numero di alberi contorti, non diversi nella struttura dalla quercia, ma dalla foglia grigio argentea come i salici. All’estremità della radura si drizzava una delle montagne, con due bizzarri picchi scoscesi che splendevano vivacemente al sole.

Io provavo ora per la prima volta la gioia dell’esploratore.

L’isola era disabitata; i miei compagni di bordo li avevo lasciati indietro, e nulla viveva davanti a me tranne mute bestie e uccelli. Andavo girando tra gli alberi. Qua e là fiorivano piante a me sconosciute, qua e là guizzavano serpenti, e uno tirò fuori la testa da una fenditura di roccia, e sibilò verso me con un rumore simile al fischio d’una trottola, senza che io neppure sospettassi di aver davanti un nemico mortale, il famoso serpente a sonagli.

Entrai poi nel folto di quella sorta di querce (querce sempreverdi, le sentii poi chiamarle) che crescevano basse, rasente la sabbia, come pruni, coi rami capricciosamente intrecciati, dal fogliame fitto e compatto come stoppia. Il bosco cominciava dalla cima di un monticello sabbioso e scendeva giù guadagnando in estensione ed altezza, fino al margine della vasta palude piena di canne, attraverso la quale il più vicino dei piccoli ruscelli trovava la via per sboccare nell’ancoraggio.

Sotto il sole cocente si alzavano dalla palude esalazioni acri, e il profilo del Cannocchiale tremolava dentro ai vapori.

Improvvisamente cominciò tra i giunchi una specie di tramestìo; un’anitra selvatica volò via con un grido rauco, un’altra la seguì; e subito sull’intero specchio della palude un’enorme nuvola d’uccelli schiamazzanti roteò nell’aria. Immaginai che alcuni dei miei compagni di bordo stessero avvicinandosi lungo i lati della palude. E non m’ingannavo, poiché presto udii i lontani e sommessi accenti d’una voce umana che, continuando io a tendere l’orecchio, veniva a poco a poco facendosi più forte e più vicina.

Ciò mi mise in grande agitazione e timore. Strisciai sotto il fogliame d’una quercia sempreverde, e là mi rannicchiai a origliare, muto come un pesce.

Un’altra voce rispose, dopo di che la prima, che ora riconoscevo per quella di Silver, riprese, e continuò a lungo con una abbondanza torrenziale, interrotta solo di tratto in tratto dall’altra. A giudicare dal tono, discutevano animatamente e quasi litigavano: ma nessuna parola giungeva distinta ai miei orecchi.

Finalmente sembrò che i due si fermassero, e forse anche sedettero, poiché non solo smisero di avvicinarsi, ma nella pausa gli stessi uccelli si acquietarono e a poco a poco scesero a riprendere i loro posti nello stagno.

A questo punto io mi accorsi che stavo trascurando la mia faccenda. Dal momento che ero stato così scioccamente ardito da accompagnarmi con quei disperati, il meno che potessi fare era di spiarne le mosse, e mio evidente dovere era avvicinarmi loro il più possibile, protetto dal fogliame degli alberi ricurvi.

Io potevo stabilire con sufficiente esattezza la direzione in cui si trovavano gli interlocutori, non soltanto dal suono delle loro voci, ma anche dal modo di comportarsi di alcuni uccelli che tuttora svolazzavano spaventati sule teste degli intrusi.

Strisciando gatton gattoni con studiata lentezza mi diressi verso loro, e alla fine alzando la testa potei, attraverso un buco tra le foglie, spingere lo sguardo in una piccola radura verde vicino alla palude e stretta tra gli alberi, dove Long John Silver e un altro della ciurma stavano faccia a faccia discorrendo.

Il sole li investiva in pieno. Silver aveva gettato il suo cappello sull’erba, e il suo largo, glabro e biondo viso, lucido per il calore, era alzato verso quello del camerata in atto di esortare.

"Amico mio" diceva "è perché ti stimo come l’oro, come l’oro, ti dico, e puoi credermi sulla parola! Se io non ti fossi attaccato come la pece, ti pare che sarei qui a metterti in guardia? Tutto è deciso, tu non puoi né togliere né aggiungere nulla: è per salvar la tua testa che ti parlo: che se uno di questi cani lo sapesse, che accadrebbe di me, Tom? Dimmi tu, che accadrebbe di me?" "Silver" replicò l’altro col volto in fiamme e la voce rauca come quella del corvo, che tremava come una corda tesa "Silver, tu sei un uomo d’età, e sei onesto, almeno tale sei ritenuto; e in più hai del denaro, che tanti poveri marinai non hanno, e sei anche bravo, se non sbaglio. E vorresti farmi credere che ti lasci comandare da quella massa di gaglioffi? Oh no! Com’è vero che Dio mi vede, preferirei perdere questa mano... Se io rinnego il mio dovere..." Qui fu interrotto da un improvviso rumore. Avevo scoperto uno dei marinai onesti, ed ecco che, nel medesimo istante, un altro mi si rivelava. Lontano nella palude qualcosa come un grido di collera ferì l’aria; un altro subito lo seguì, e infine un urlo orribile e prolungato. Le rocce del Cannocchiale lo riecheggiarono molte volte; l’intera moltitudine degli uccelli di palude scattò di nuovo in alto, oscurando il cielo con un repentino e tumultuoso volo; e quell’urlo disperato mi risuonava ancora dentro mentre il silenzio aveva da tempo ripreso il suo dominio, e soltanto il frusciare degli uccelli che ridiscendevano, e il rombo della risacca lontana turbavano la stanca quiete del pomeriggio.

Tom, al rumore, era balzato come un cavallo sotto lo sprone; ma Silver non mosse ciglio: rimase là dov’era, leggermente appoggiato alla sua gruccia, sorvegliando il compagno come un serpente pronto a schizzare.

"John" disse il marinaio protendendo la mano.

"Giù le mani!" intimò Silver saltando indietro un metro con la disinvolta rapidità di un esperto ginnasta.

"Giù le mani, se ti piace, John Silver" disse l’altro. "Se hai paura di me, vuol dire che hai cattiva coscienza. Ma, in nome del Cielo, che accade?" "Che accade?" replicò Silver sorridendo, ma più in guardia che mai, con gli occhi piccoli come capocchie di spillo nella larga faccia, scintillanti come pezzetti di vetro. "Che accade? Oh, io credo che si tratta di Alan..." A queste parole il povero Tom avvampò di una luce eroica.

"Alan!" gridò. "Allora la sua anima riposi in pace. Era un vero marinaio. Quanto a te, John Silver, tu fosti a lungo mio compagno, ma ora non lo sei più. Se io muoio come un cane, morirò compiendo il mio dovere. Tu hai fatto uccidere Alan, non è vero? Ebbene, ammazza anche me, se ne hai il coraggio. Io ti sfido." Detto ciò, quel bravo ragazzo voltò le spalle al cuoco e s’incamminò verso la spiaggia. Ma non doveva andare lontano. Con un muggito John si attaccò a un ramo d’albero, e liberata la sua gruccia dall’ascella la scaraventò nell’aria. La strana freccia colpì Tom con la punta proprio in mezzo alla schiena con tale violenza che il poveretto, levate le braccia e emesso un gemito, cadde.

Era ferito: ma se gravemente o no, chi poteva dirlo? A giudicare dal rumore, credo che avesse la spina dorsale spezzata. Ma Silver non gli lasciò tempo di riprendersi. Agile come una scimmia e pure senza la gruccia, in un lampo gli fu addosso, per ben due volte immerse il suo coltello fino al manico in quel corpo senza difesa.

Dal mio nascondiglio lo sentii ansimare forte mentre portava i colpi.

Io non so cosa veramente sia svenire; ma so che per qualche istante ciò che mi circondava sparì dalla mia vista, confuso dentro un nebbioso caos. Silver, e gli uccelli, e l’alta vetta del Cannocchiale turbinavano insieme, confusi, davanti ai miei occhi; e non so quante campane e ronzii di voci lontane mi rintronavano gli orecchi.

Quando ripresi coscienza, lo scellerato, gruccia sotto il braccio, cappello in testa, già si era ricomposto. Davanti a lui, immobile sull’erba, giaceva Tom: ma l’assassino non si curava minimamente di lui, badando a pulire sopra un ciuffo d’erba il suo coltello sporco di sangue. Ogni altra cosa era immutata: il sole continuava spietato a risplendere sullo stagno maleodorante e sui picchi delle montagne; ed io facevo fatica a persuadermi che un assassinio era stato commesso ed una vita umana barbaramente troncata un momento prima, sotto i miei occhi.

Ora John ficcò la mano nella tasca, e preso un fischietto se lo portò alle labbra, tirandone fuori alcuni suoni modulati che si propagarono nell’aria calda. Io non potevo capire, naturalmente, il significato di quel segnale, ma istantaneamente esso risvegliò i miei timori. Altri sarebbero arrivati. Io sarei forse stato scoperto. Due dei nostri erano già stati tolti di mezzo. Dopo Tom e Alan, non avrebbe potuto toccare a me?

Subito cominciai a districarmi, strisciando indietro più velocemente e silenziosamente che potevo verso il punto in cui il bosco si diradava. Intanto sentivo saluti scambiati fra il vecchio filibustiere e i suoi camerati, e queste voci mi davano le ali.

Appena fuori del folto mi misi a correre come mai avevo corso in vita mia, badando poco alla direzione della mia fuga, pur di allontanarmi dagli assassini. E più correvo, più mi cresceva la paura, finché si trasformò in una specie di delirio.

In verità, chi era più irreparabilmente perduto di me? Come avrei osato io, al colpo del cannone, raggiungere i canotti tra quei demoni fumanti ancora del loro delitto? Il primo che mi avesse visto non mi avrebbe torto il collo come a un beccaccino? E la mia stessa assenza non avrebbe denunciato loro la mia paura e perciò la conoscenza della sorte che mi aspettava? Tutto finito, pensavo.

Addio "Hispaniola", addio cavaliere, addio dottore, addio capitano! Che mi rimaneva se non morire di fame o per mano dei rivoltosi?

Frattanto continuavo a correre, come ho detto, e senza accorgermene ero giunto ai piedi della piccola montagna dai due picchi, in una zona dell’isola dove le querce sempreverdi crescevano meno fitte, e nel portamento e nelle dimensioni somigliavano meglio ad alberi forestali. In mezzo a queste si ergevano alcuni pini alti da cinquanta a settanta piedi, e l’aria qui circolava più pura che laggiù nei pressi dello stagno.

Ma ecco che un nuovo allarme mi fece fermare col cuore in gola.

 

*

 

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*

 

Capitolo 15

L’uomo dell’isola

 

Dal fianco della montagna che qui era scoscesa e rocciosa, si staccò una massa di ghiaia e precipitò strepitando e rimbalzando tra gli alberi. Istintivamente girai gli occhi da quella parte, e scorsi un’ombra rapida balzare dietro il tronco d’un pino. Cosa fosse: se una scimmia, un orso o un uomo, non avrei saputo dire.

Mi sembrò nera, e pelosa: altro non colsi. Ma lo spavento della nuova apparizione mi legò i piedi.

Ed eccomi la via sbarrata da ogni lato. Dietro a me, gli assassini; davanti, quel coso imboscato. Che fare? Non esitai a preferire agli ignoti i pericoli noti. Silver in persona mi sembrò meno terribile al paragone di quella creatura dei boschi, sicché voltai la schiena, e pur lanciando indietro sospettose occhiate da sopra le spalle, ritornai sui miei passi nella direzione dei canotti.

Subito l’ombra riapparve, e facendo un largo giro accennava a tagliarmi la strada. Io ero stanco, sì certo; ma fossi pur stato fresco come appena alzato, avrei lo stesso compreso che non era il caso di voler gareggiare in velocità con un tale avversario. La creatura schizzava da un albero all’altro simile a un daino, muovendo su due gambe come noi; ma, cosa che mai vidi fare a un uomo, correva quasi piegata in due. E tuttavia era un uomo; ormai non potevo più dubitarne.

Mi tornarono in mente cose udite sui cannibali, e ci mancò poco che gridassi al soccorso. Ma il semplice fatto che si trattava di un uomo, sia pure selvaggio, mi rassicurava almeno un po’; mentre la paura di Silver si ravvivava in proporzione. E perciò mi fermai, e stavo cercando una via di scampo, quando mi balenò il ricordo della mia pistola. Non ero dunque privo di mezzi di difesa. A questo pensiero ripresi animo, volsi risoluto la fronte all’uomo dell’isola, e gli mossi arditamente incontro.

Egli si era in quel momento nascosto dietro il tronco d’un altro albero, ma doveva spiarmi attentamente, perché, vistomi avanzare nella sua direzione, riapparve e fece un passo verso di me; poi esitò, indietreggiò, si spinse di nuovo avanti, e finalmente, con mio grande stupore e confusione, si buttò in ginocchio e tese le mani giunte come a supplicare.

Io di nuovo mi fermai.

"Chi siete?" gli chiesi.

"Ben Gunn" rispose con una voce chioccia simile a una serratura arrugginita "sono il povero Ben Gunn, e da tre anni non ho parlato a un cristiano." Mi accorsi allora che egli era un bianco come me, e le sue fattezze erano piacenti. La sua pelle era bruciata dal sole, e le labbra annerite; e due begli occhi azzurri brillavano sorprendenti in quella faccia scura. Io non avevo mai visto o immaginato nessun pezzente lacero e cencioso quanto costui che dei pezzenti era il principe.

Brani di vecchie vele di bastimento e di vecchie incerate marinaresche lo ricoprivano, e il complicato lavoro di rattoppatura era tenuto insieme da un sistema di legature le più strambe e diverse, come bottoni metallici, pezzi di giunco e occhielli di cordicella catramata. Intorno alla vita portava un cinturino di cuoio stretto da una fibbia di rame: l’unico oggetto solido in tutto il suo vestiario.

"Tre anni!" esclamai. "Naufragato?

"No, ragazzo mio, ’marooned’." Quel termine non mi giungeva nuovo: sapevo che si applica a quella orribile forma di castigo, abbastanza in uso presso i pirati, consistente nel lasciare il colpevole, con un po’ di polvere e qualche palla, su un’isola deserta e lontana.

"’Marooned’ tre anni fa" riprese "e da allora ho vissuto di carne di capra, di bacche e di ostriche. Un uomo in qualunque luogo si trovi può ben bastare a se stesso. Ma, amico mio, il mio cuore sospira un cibo cristiano. Non avresti per caso un pezzo di formaggio? No? Ah quante notti ho sognato del formaggio, soprattutto abbrustolito, e poi mi svegliavo, ed ecco, ero lì!" "Se mai potrò ritornare a bordo" gli dissi "avrete formaggio a bizzeffe." Durante tutto questo tempo egli aveva continuato a palpare la stoffa della mia giacca, ad accarezzare le mie mani, a osservare i miei stivali; e, mentre mi ascoltava, a manifestare una gioia infantile per trovarsi in presenza di un suo simile. Udendo però le mie ultime parole drizzò la testa con una specie di sospettoso stupore.

"Se mai puoi ritornare a bordo, tu dici? O perché? E chi te lo impedirebbe?" "Oh, non voi, lo so bene" risposi.

"No davvero," scattò. "Ma dimmi, ragazzo mio, come ti chiami?

"Jim." "Jim, Jim" ripeteva con evidente compiacimento. "Ebbene, Jim, devi sapere che ho vissuto una vita talmente brutta che arrossiresti a sentirla raccontare. Adesso, per esempio, crederesti, a guardarmi, che io abbia avuto una buona e tenera madre?" "No, non precisamente." "Vedi?" replicò. "Eppure io la ebbi, e molto pia. Ed io ero un ragazzo gentile ed educato, ed ero capace di snocciolarti il catechismo così spedito che non staccavi una parola dall’altra. Ed ecco dove siamo arrivati, Jim, e si era cominciato con il giocare alle fossette sulle lapidi benedette dei sepolcri! Così si era incominciato, ma si andò ben più lontano; e mia madre mi aveva detto e predetto tutto quanto, la mia santa donna. Ma è stata la Provvidenza che mi ha condotto qui. Ho riflettuto a fondo su tutto ciò in quest’isola solitaria, e sono ritornato alla religione. Non mi ci lascerò più prendere a bere tanto rum: ma un goccino appena per la buona fortuna, naturalmente, alla prima occasione che avrò.

Mi sono ripromesso di essere buono, e so come fare. E poi, Jim..." Dette un’occhiata in giro, e abbassando il tono, bisbigliò:

"Io sono ricco." Non ci voleva meno di tanto per convincermi che al poveraccio chiuso nel suo lungo isolamento aveva dato di volta il cervello, ed egli dovette leggermi in viso quel pensiero perché rincalzò con ardore:

"Ricco, ti dico, ricco! E perché tu lo sappia, di te, Jim, voglio fare un uomo. Ah, Jim, benedici pure la tua stella, che sei stato il primo a incontrarmi." A queste parole un’ombra improvvisa gli calò sulla faccia. Strinse la mia mano come in una tenaglia, e alzò davanti ai miei occhi un indice minaccioso.

"Jim, dimmi la verità: non è la nave di Flint, quella?" A questo punto io ebbi una felice ispirazione. Cominciai a credere di aver trovato un alleato, e subito risposi:

"No, non è la nave di Flint. Flint è morto, ma io vi dirò la verità come desiderate: ci sono alcuni marinai di Flint a bordo, ed è tanto peggio per noi altri." "Per caso un uomo... con una gamba sola?" ansimò.

"Silver?" "Sì, Silver, così si chiamava." "E’ il nostro cuoco, e anche il caporione." Egli continuava a tenermi per il polso, e udendo ciò me lo torse.

"Se è Long John che ti manda, io sono fritto, lo so. Ma voi, lo sapete in che acque navigate?" Io cominciai ad attuare il mio disegno, e quasi in forma di risposta gli raccontai l’intera storia del nostro viaggio e la situazione in cui ci trovavamo. Egli mi ascoltò col più vivo interesse, e alla fine mi batté un colpetto sulla nuca.

"Tu sei un buon ragazzo, Jim, ma voi tutti siete in una brutta situazione, non ti pare? Ebbene, mettetevi nelle mani di Ben Gunn:

Ben Gunn è l’uomo che ci vuole. Ma dimmi: tu credi che il tuo cavaliere si mostrerebbe generoso, qualora fosse aiutato mentre si trova in questa brutta situazione, come puoi vedere?" Io gli ’assicurai che il cavaliere era il più liberale degli uomini.

«Bene! Ma, intendiamoci," riprese Ben Gunn "io non vorrei che mi ricompensasse dandomi una livrea o roba simile, e mettendomi a fare il guardaportone: non è a questo che io tengo, Jim. Ciò che a me preme di conoscere è se sarebbe disposto a cedere qualche cosa come un migliaio di sterline sul tesoro che ormai è già come suo." "Sono sicuro di sì. Stando agli accordi, tutti i marinai avrebbero avuto la loro parte." "E il passaggio di ritorno?" aggiunse con l’aria d’uno che la sa lunga.

"Oh! Il cavaliere è un gentiluomo. E del resto, se ci sbarazziamo degli altri, avremo pur bisogno di qualcuno che ci aiuti a manovrare il bastimento." "Già" disse lui "Potrei essere utile." E parve rasserenato.

"Ora"continuò "voglio dirti qualcosa; qualcosa, ma non più di tanto. Io ero imbarcato con Flint quando sotterrò il tesoro: lui con sei altri: sei forti marinai. Essi rimasero a terra circa una settimana, e noi a bordeggiare col vecchio "Walrus". Un bel giorno vedemmo il segnale, ed ecco Flint arrivare tutto solo in un piccolo canotto con la testa fasciata da una sciarpa blu. Sorgeva il sole, e lui dritto a prua sembrava pallido come un morto. Ma intanto c’era, capisci; e gli altri sei, morti tutti, morti e sotterrati. Come avesse fatto, nessuno a bordo se lo seppe spiegare. Ci fu battaglia, in ogni modo, e assassinio, e morte immediata; lui, pensa, contro sei! Billy Bones era il suo primo ufficiale, Long John, quartiermastro. Gli chiesero dov’era nascosto il tesoro. ’Oh’ disse lui ’potete andare a terra, se così vi piace, e rimanerci’ disse; ’ma quanto al bastimento, deve salpare per cercare altro, corpo di mille bombe!’ Così disse.

"Orbene, tre anni dopo io ero su un’altra nave quando avvistammo quest’isola. "Ragazzi" dico "lì c’è il tesoro di Flint. Vogliamo scendere a cercarlo?" Al capitano la cosa non piacque, ma i miei compagni furono tutti d’accordo; e sbarcammo. Per dodici giorni cercarono, sempre più arrabbiati con me, finché un bel mattino tornarono tutti a bordo. ’Quanto a te, Beniamino Gunn, eccoti un moschetto" mi dissero "e una vanga e una marra. Puoi restare qui e trovarlo da te, il tesoro di Flint’ mi dissero. E dunque, Jim, tre anni sono stato qui, e in tutto questo tempo senza un boccone da cristiano. Ma ora, guarda, Jim, guardami bene. Ti pare che io abbia l’aria di un uomo di bassa prua? No, non e vero? Né lo sono assolutamente, dico io." E qui strizzò l’occhio, e mi diede un energico pizzicotto.

"Tu riferisci queste parole al tuo cavaliere" aggiunse poi. "’Né lo è, assolutamente’: sono queste le parole. Tre anni rimasto solo in quest’isola, e di giorno e di notte, e col bel tempo e con la pioggia, e a volte (dirai) avrebbe magari voluto pregare (dirai) e a volte magari pensare alla sua vecchia madre, potesse essere ancora viva! (dirai), ma la maggior parte del suo tempo (è questo che dovrai dire), la maggior parte del suo tempo Ben Gunn la spendeva in un’altra faccenda. E qui gli darai un pizzicotto come faccio io." E di nuovo mi pizzicò nella maniera più confidenziale.

"Poi" continuò "tu salterai su, e gli dirai questo: Gunn è un onest’uomo (gli dirai) e ripone di gran lunga più fiducia, di gran lunga più fiducia, tieni a mente, in un gentiluomo di nascita che in questi signori di ventura, essendo stato egli stesso uno di questi." "Bene" dissi io. "Non ho capito una sillaba di quel che avete detto. Ma ciò non conta, dal momento che io non so come andare a bordo." "Ah," fece lui "questo è un guaio di sicuro. Ma c’è il mio canotto, fabbricato da me, con le mie brave mani. Lo tengo lì, al riparo della rupe bianca. Al peggio dei peggi potremo servircene a notte inoltrata. Ih!" proruppe a un tratto. "Che succede?" Perché proprio in quel punto, mentre il sole era ancora un’ora o due lontano dal tramonto, tutti gli echi dell’isola si svegliarono rispondendo con un lungo mugghio al tuono di un colpo di cannone.

"Hanno incominciato la battaglia" gridai. "Seguitemi." E dimenticando tutti i miei terrori mi buttai a correre verso l’ancoraggio, mentre il disgraziato nei suoi cenci caprini trottava agile e leggero al mio fianco.

"A sinistra! A sinistra!" ansimava lui. "Tieniti a sinistra, compagno Jim! Sotto gli alberi! E’ lì che ho ucciso la mia prima capra. Esse non osano più scendere fin lì: sono accampate sulle montagne per paura di Ben Gunn. Ah! Quello è il ’citimero’ (cimitero voleva dire). Vedi i tumuli? Io vengo lì a pregare di tanto in tanto, quando penso che sia press’a poco domenica. Non è precisamente una cappella, ma ha un aspetto più serio che altrove; e poi, senti, Ben Gunn era un po’ sprovvisto: niente cappellano, e nemmeno una bibbia e una bandiera, senti." In questo modo continuava a parlare mentre io correvo, senza aspettare né ricevere risposta.

Il colpo di cannone fu seguito dopo una lunga pausa da una scarica di moschetteria.

Un’altra pausa, e poi, a meno di un quarto di miglio davanti a me, io potei contemplare, sventolante al disopra delle cime degli alberi, la bandiera britannica.

 

*

 

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*

 

PARTE QUARTA

IL FORTINO

 

Capitolo 16

Il dottore continua il racconto: come la nave fu abbandonata

 

Era circa un’ora e mezza (tre tocchi, in linguaggio marinaresco) quando i due canotti dell’"Hispaniola" si recarono a terra. Il capitano, il cavaliere ed io stavamo in cabina discutendo della situazione. Ci fosse stato un alito di vento, saremmo piombati sui rivoltosi rimasti con noi a bordo, avremmo salpato l’àncora e preso il largo. Ma il vento mancava, e per colmo di sfortuna Hunter arrivò con la notizia che Jim Hawkins era sgusciato in un canotto e filato a terra con gli altri.

Nessun di noi avrebbe mai pensato a dubitare di Jim Hawkins: ma eravamo preoccupati per la sua vita. Con uomini di quello stampo ci pareva quasi un miracolo poter rivedere quel ragazzo. Corremmo sul ponte. La pece bolliva fra le connessure. Il puzzo nauseabondo che era nell’aria mi rivoltava lo stomaco; se mai si respirò febbre e dissenteria, fu in quell’abominevole ancoraggio. I sei miserabili stavano raccolti sul castello di prua borbottando al riparo di una vela. Potevamo vedere le imbarcazioni, con un uomo in ciascuna, affrettarsi verso terra toccando già quasi la foce del fiume. Uno d’essi fischiettava "Lillibullero".

L’attesa ci opprimeva. Si decise che Hunter ed io saremmo scesi a terra col piccolo canotto in cerca di notizie.

Le imbarcazioni avevano accostato a destra; ma Hunter ed io puntammo in direzione del fortino segnato sulla carta. I due uomini rimasti a guardia delle "yole" sembrarono fortemente turbati dalla nostra apparizione. "Lillibullero" tacque; ed io vidi quei due discutere sul da farsi. Fossero andati a informare Silver, le cose avrebbero forse preso tutta un’altra piega; ma essi avevano le loro istruzioni, penso, e decisero di rimanere tranquillamente là dov’erano, e daccapo echeggiò "Lillibullero".

La costa presentava una leggera sporgenza; ed io governavo in modo da frapporla tra noi e loro; sicché, anche prima di approdare, già eravamo fuori della vista delle imbarcazioni. Io saltai a terra, e, con un fazzolettone di seta sotto il cappello per ripararmi dal caldo, ed un paio di pistole cariche per mia difesa, mi incamminai con la maggior rapidità che la prudenza mi consentiva.

Non avevo ancora percorso cento metri che arrivai al fortino.

Ecco in che cosa consisteva. Una sorgente di limpidissima acqua sgorgava quasi alla cima d’un poggio. Su quel poggio, includendovi la sorgente, era stata costruita con dei tronchi d’albero una robusta ridotta capace di contenere una quarantina di uomini. Su ciascuno dei lati si aprivano feritoie per il fuoco di moschetteria. Tutt’intorno c’era un largo spazio diboscato, e il sistema difensivo era completato da una palizzata di sei piedi d’altezza interamente chiusa, troppo solida per poter essere abbattuta senza lunghi e laboriosi sforzi, e troppo aperta per poter coprire gli assalitori. Questi rimanevano alla mercé degli uomini del forte; i quali, standosene tranquilli nei propri ripari, potevano sparar loro addosso come a tante pernici. Buona guardia e viveri: d’altro non abbisognavano i difensori, che, a parte il caso di una completa sorpresa, erano in grado di tenere il posto contro un reggimento.

Quello che particolarmente mi seduceva era la sorgente. Poiché se nella cabina dell’"Hispaniola" custodivamo armi e munizioni in abbondanza e viveri e squisiti vini, una cosa però era stata trascurata: mancavamo d’acqua. Stavo appunto pensando a ciò, quando il grido d’un uomo in fin di vita risuonò sull’isola. Io non ero un novellino in fatto di morte violenta: ho servito Sua Altezza Reale il Duca di Cumberland e sono stato io stesso ferito a Fontenoy: malgrado ciò il mio cuore si mise a battere precipitosa mente. "Jim Hawkins è finito!" fu questo il mio primo pensiero.

Essere un vecchio soldato è qualche cosa: ma essere stato medico è qualcosa di più. Agio per andarsene ciondolando, nella nostra professione non c’è. Sicché io subito presi le mie decisioni e senza perder tempo ritornai sulla spiaggia e saltai nel piccolo canotto.

Per fortuna Hunter era un buon rematore. Volavamo sul pelo dell’acqua, e il canotto fu presto attraccato ed io a bordo della goletta.

Trovai i miei compagni profondamente scossi com’era da aspettarsi.

Il cavaliere era seduto, pallido come un cencio, pensando forse in quale sciagurata avventura ci aveva condotti, povera anima! E uno dei sei uomini di prua non aveva l’aria di stare molto meglio.

"Ecco un uomo nuovo a queste faccende" disse il capitano Smollett puntando l’indice verso di lui. "Poco è mancato che non svenisse, dottore, quando sentì il grido. Ancora un colpo di barra, e quest’uomo è nostro." Io esposi il mio piano al capitano, e d’accordo stabilimmo i particolari della sua esecuzione.

Collocammo il vecchio Redruth nel passavanti tra la cabina e il castello di prua, con tre o quattro moschetti carichi e un materasso per ripararsi. Hunter portò il canotto sotto la finestra di poppa, e Joyce ed io ci affrettammo a caricarlo di cassette di polvere, moschetti, scatole di biscotti, barili di lardo, una botticella di cognac, e la mia preziosa cassetta di medicinali.

Frattanto il cavaliere e il capitano rimasero sul ponte, e quest’ultimo chiamò il quartiermastro, che era il principale marinaio a bordo.

"Signor Hands," disse "come vedete siamo in due con un paio di pistole ciascuno. Se uno di voi fa il più piccolo segnale, è un uomo morto." Essi apparvero abbastanza sconcertati, e dopo essersi brevemente consultati s’immersero l’un dopo l’altro nel boccaporto di prua, credendo senza dubbio di poterci cogliere alle spalle. Ma, quando videro Redruth che sbarrava loro il passo nel corridoio, fecero dietro front, e di nuovo una testa emerse sul ponte.

"Giù, cane!" intimò il capitano.

La testa di nuovo sparì e per un po’ non sentimmo altro di quei sei vigliacchi.

Frattanto, buttando giù la roba come ci veniva alle mani, avevamo caricato il canotto quanto più potessimo osare. Joyce ed io ci calammo per la finestra di poppa, e vogando a gran forza di nuovo ci dirigemmo a terra.

Questo secondo viaggio stuzzicò non poco l’attenzione dei guardiani lungo la costa. "Lillibullero" fu interrotto di nuovo, e noi stavamo per perderli di vista dietro il piccolo promontorio, quando uno di essi saltò a terra e si eclissò. Ebbi una mezza idea di modificare il mio piano e distruggere le loro imbarcazioni: ma Silver e gli altri potevano essere lì, e non volli espormi al rischio di perdere tutto per voler prendere troppo.

Prendemmo terra nello stesso punto di prima e ci accingemmo ad approvvigionare la ridotta. Pesantemente caricati tutti e tre, facemmo il primo viaggio e lanciammo le nostre provvigioni al di là dello steccato. Poi, lasciato Joyce a guardarle, un uomo solo, a dire il vero, ma munito di una mezza dozzina di moschetti, Hunter ed io ritornammo al piccolo canotto e nuovamente caricammo le nostre spalle. E così seguitammo senza riprender fiato finché l’intero carico non fu sistemato: allora i due servitori si installarono nel fortino, ed io, remando a tutta forza, riguadagnai l’"Hispaniola".

Il fatto che noi ci fossimo arrischiati a caricare una seconda volta il canotto può sembrare più audace di quanto in realtà non fosse. Perché se essi avevano su di noi il vantaggio del numero, a noi rimaneva quello delle armi. Nessuno degli uomini a terra disponeva di un moschetto, e prima che avessero potuto raggiungerci con le loro pistole, noi ci lusingavamo di riuscire a dar loro un buon acconto freddandone almeno una mezza dozzina.

Il cavaliere, pienamente rimessosi dal suo abbattimento, mi aspettava alla finestra di poppa. Afferrò la gomena assicurandola, e noi cominciammo a riempire in fretta e furia il canotto. Lardo, polvere e biscotti formarono il carico, con un solo moschetto, e un coltellaccio a testa, per il cavaliere, per me, Redruth e il capitano. Il resto delle armi e delle munizioni lo buttammo in mare, e poiché non c’erano più di due braccia e mezzo d’acqua, potemmo vedere sotto di noi l’acciaio scintillare al sole sul nitido fondo sabbioso.

In quel momento la marea cominciava a calare, e il bastimento dondolando si portava sull’àncora. Si sentivano, affievolite dalla lontananza, delle voci che si chiamavano fra le due imbarcazioni, e questa circostanza, pure rassicurandoci riguardo a Joyce e Hunter spostati molto più verso est, ci consigliò di affrettare la nostra partenza.

Redruth, abbandonato il suo posto nel corridoio, saltò nel canotto che noi conducemmo verso la parte posteriore del ponte per comodità del capitano Smollett.

"Marinai" gridò questi "mi sentite?" Nessuna risposta dal castello di prua.

"E’ a te, Abraham Gray, è a te che io parlo." Ancora nessuna risposta.

"Gray," riprese il capitano alzando un poco la voce "io lascio il bastimento e ti ordino di seguire il tuo capitano. So che in fondo sei un buon ragazzo, non credo poi che nessuno della tua banda sia così cattivo come vorrebbe sembrare. Ho l’orologio in mano: ti do trenta secondi per raggiungermi." Seguì un altro silenzio.

"Su, amico mio, vieni" continuò il capitano "non star lì a tentennare. Ogni secondo mette in pericolo la mia esistenza e quella di questi signori..." Si sentì un improvviso tafferuglio, un rumore di rissa, e Abraham Gray scattò fuori con una coltellata sulla guancia, e arrivò correndo presso il capitano come un cane al fischio del padrone.

"Sono con lei, signore" ansimò.

E subito dopo, lui e il capitano, si lanciarono nel canotto e noi prendemmo il largo.

Eravamo fuori della nave, ma non ancora a terra, nella nostra ridotta.

 

*

 

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*

 

Capitolo 17

Continua il racconto del dottore: l’ultimo viaggio del piccolo canotto

 

Questo quinto viaggio fu totalmente diverso dagli altri.

Innanzitutto il guscio di noce che ci portava era estremamente carico. Cinque uomini adulti, tre dei quali, Trelawney, Redruth e il capitano alti più di sei piedi, costituivano già un peso superiore alla sua portata. Aggiungetevi la polvere, il lardo ed i sacchi di pane. A poppa, l’acqua sfiorava il bordo. A più riprese ne imbarcammo un po’ e ancora non avevamo coperto un centinaio di metri, che già le mie brache e le falde del mio abito ne erano inzuppate.

Il capitano ci fece sistemare il carico, e riuscimmo ad equilibrare un po’ meglio il canotto. Ciò nonostante osavamo appena respirare.

In secondo luogo, incominciava il riflusso: una forte impetuosa corrente ci spingeva a ovest attraverso la baia e poi a sud ed al largo per lo stretto che avevamo imboccato il mattino. Le stesse onde agitate mettevano in pericolo la nostra imbarcazione sovraccarica; ma il peggio era che noi avevamo deviati dalla nostra rotta e ci eravamo allontanati dal nostro conveniente punto di approdo dietro il promontorio. Se avessimo lasciato fare alla corrente, saremmo andati a battere accanto alle imbarcazioni dove i pirati potevano sorprenderci in ogni istante.

"Non riesco a mantenere la prua sul forte, signore" dissi al capitano.

Io manovravo il timone, mentre lui e Redruth, agili tutti e due, vogavano.

"La marea ci trascina via. Non potrebbe remare un po’ più forte?" "Il canotto si riempirebbe" disse lui. "Lei deve tener duro, signore, se non le rincresce: tener duro finché non guadagni." Io provai, e vidi concretamente che la corrente ci spingeva a ovest, finché non misi la prua in pieno est, ossia precisamente ad angolo retto rispetto alla direzione che dovevamo seguire.

"In questo modo non approderemo mai" osservai.

"Se è questa l’unica rotta che possiamo tenere, non c’è che da tenerla" replicò il capitano. "Bisogna continuare a risalire la corrente. Vede, signore, se per caso ci lasciamo portare sottovento al punto di approdo, è difficile dire dove prenderemo terra, oltre al rischio di essere attaccati dalle imbarcazioni; mentre sulla rotta che noi seguiamo la corrente dovrà diminuire, e allora potremo svignarcela ritornando indietro lungo la costa." "La corrente è già diminuita, signore" disse il marinaio Gray che stava a prua. "Lei può allentare un po’." "Grazie, ragazzo mio" risposi, come se niente fra di noi fosse accaduto; poiché ci si era tacitamente intesi di trattarlo come uno dei nostri.

D’improvviso il capitano ruppe di nuovo il silenzio, e mi parve che la sua voce fosse sensibilmente alterata.

"Il cannone!" pronunciò.

"Ci ho pensato" dissi io, sicuro come ero che egli alludesse a un bombardamento del forte. "Ma non potranno mai sbarcare il cannone, e se anche vi riuscissero, sarebbero poi incapaci di alarlo attraverso la boscaglia." "Guardi indietro, dottore" replicò il capitano.

Noi avevamo completamente dimenticato il cannone; e là, con un fremito di orrore, vedemmo i cinque banditi intenti a levargli la sua casacca, com’essi chiamavano il guscio di grossa tela incerata che in navigazione ricopriva il pezzo. E, quasi non bastasse, improvvisamente mi balenò in mente che palle e polvere da cannone erano rimaste a bordo, e un solo colpo d’ascia avrebbe messo ogni cosa nelle mani di quegli sciagurati.

"Israel era il cannoniere di Flint" disse Gray con voce rauca.

Sfidando ogni pericolo ci dirigemmo verso il punto di approdo. Ci eravamo intanto portati sufficientemente fuori del grosso della corrente per poter governare, sia pure procedendo con l’andatura necessariamente lenta dei remi, ed io riuscii a mantenere la prua sulla mèta. Ma il peggio era che, data la rotta che ora seguivo, presentavamo all’"Hispaniola" il fianco invece della prua, offrendole un bersaglio largo quanto una porta di granaio.

Io potei non solo scorgere ma udire quel brutto birbante di Israel Hands gettare sul ponte un proiettile.

"Chi di voi due è il miglior tiratore?" chiese il capitano.

"Il signor Trelawney senza dubbio" dissi io.

"Signor Trelawney, vuol avere la cortesia di togliermi di mezzo uno di quegli uomini? Hands possibilmente?" fece il capitano.

Trelawney, con la freddezza d’un automa, verificò l’esca del suo fucile.

"Ora" avvertì il capitano "piano con quel fucile, se no, riempiremo il canotto. E noi, attenti a mantener l’equilibrio mentre lui spara." Il cavaliere spianò il fucile, i remi restarono sospesi, e noi ci portammo dall’altro bordo per mantener l’equilibrio. Tutto riuscì così egregiamente che non imbarcammo una goccia d’acqua.

Frattanto essi avevano fatto girare il cannone sul suo perno, e Hands, che stava vicino alla bocca con in mano lo spazzatoio, era di conseguenza il più esposto. Ma la fortuna non ci fu amica, perché egli si chinò nel preciso momento in cui Trelawney lasciava partire il colpo. La palla gli fischiò sopra la testa, e fu uno degli altri quattro che cadde.

Al grido del colpito fecero eco non soltanto i suoi compagni di bordo, ma una moltitudine di voci dalla spiaggia, e guardando in quella direzione io vidi gli altri pirati sbucare dalla boscaglia e precipitarsi a prender posto nelle imbarcazioni.

"Ecco i canotti che arrivano" dissi io.

"Allora via!" gridò il capitano. "Non importa se imbarchiamo acqua. Prendere terra, bisogna: se no, è finita." "Una sola delle imbarcazioni è equipaggiata, signore" aggiunsi.

"La ciurma dell’altra sta certamente facendo il giro della spiaggia per tagliarci la strada." "Faranno una bella sudata!" replicò il capitano. "Marinai a terra, si sa cosa valgono. Non sono loro che mi preoccupano: è la palla del cannone. Un gioco da salotto! Un ragazzo che è un ragazzo non sbaglierebbe. Mi avverta, cavaliere, appena vede che stanno per far fuoco, che agguanteremo." Frattanto avevamo avanzato abbastanza velocemente per un canotto così sovraccarico, e avevamo imbarcato ben poca acqua. Eravamo ormai vicini alla spiaggia: ancora trenta o quaranta colpi di remo, e l’avremmo toccata, poiché il riflusso già aveva scoperto una sottile lingua di sabbia ai piedi della macchia.

L’imbarcazione non era più da temere: il piccolo promontorio l’aveva già nascosta ai nostri occhi. La marea che ci aveva così rudemente inceppati prima, ora ci compensava trattenendo i nostri avversari. L’unico pericolo rimaneva il cannone.

"Se io osassi" disse il capitano "fermerei per far saltare un altro uomo." Ma era chiaro che a bordo dell’"Hispaniola" non pensavano affatto a differire il colpo. Essi non avevano nemmeno degnato di uno sguardo il loro camerata caduto, che tuttavia non era morto e si sforzava di trascinarsi via di là.

"Attenti!" gridò il cavaliere.

"Agguanta!" comandò il capitano, pronto come un’eco.

E lui e Redruth sciarono con una tale violenza che la poppa andò interamente sommersa. Il colpo scoppiò nel medesimo istante. E fu questo il primo sentito da Jim, giacché la fucilata del cavaliere non era arrivata al suo orecchio. Dove passò il proiettile nessuno di noi seppe con precisione: ma io credo che fu sopra le nostre teste, e lo spostamento d’aria contribuì al nostro disastro.

Comunque sia, il canotto affondò per la poppa piano piano in tre piedi d’acqua, lasciando me e il capitano in piedi, faccia a faccia. Gli altri tre presero un bagno completo e tornarono a galla inzuppati e borbottando.

Fin qui, poco male. Nessuna vittima tra noi, e potevamo con sicurezza guadagnare la riva a guado. Ma tutte le nostre provviste erano in fondo al mare, e per colmo di sciagura dei cinque fucili solo due rimanevano utilizzabili. Il mio, che tenevo sulle ginocchia, l’avevo abbrancato e portato in alto con una mossa istintiva. Il capitano portava il suo sul dorso a bandoliera, e, per prudenza, col calcio in alto. I tre rimanenti erano affondati col canotto.

La nostra inquietudine crebbe udendo voci che, attraverso gli alberi della spiaggia, si venivano accentuando. Non solo ci impensieriva il pericolo di essere tagliati fuori dal fortino, mezzo impotenti com’eravamo; ma il timore ancora che Hunter e Joyce, attaccati da quella mezza dozzina di nemici, non avessero l’animo e la capacita di resistere. Hunter lo sapevamo bene ch’era un uomo risoluto, ma di Joyce non eravamo altrettanto sicuri: egli era certo un piacevole e garbato domestico, maestro nell’arte di spazzolare abiti, ma non ugualmente adatto a servire il dio della guerra.

Assediati da simili pensieri raggiungemmo il più presto possibile la riva, lasciando alle nostre spalle l’infelice piccolo canotto e una buona metà delle nostre polveri e provviste.

 

*

 

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*

 

Capitolo 18

Continua il racconto del dottore: fine della prima giornata di combattimento

 

Con le ali ai piedi attraversammo la zona boscosa che ci separava dal fortino, sentendo a ogni passo le grida dei pirati risuonare più vicine. Presto udimmo il loro scalpiccìo e gli scrosci dei rami spezzati dalla furia della loro corsa.

Io capii che andavamo incontro a una seria scaramuccia e verificai la mia esca.

"Capitano" dissi "Trelawney è un ottimo tiratore. Dategli il vostro fucile: il suo è inservibile." Scambiarono i fucili, e Trelawney muto e impassibile com’era stato fin dal principio del trambusto, si fermò un momento per accertarsi che l’arma fosse in ordine. Allora io, accortomi che Gray era inerme, gli porsi il mio coltellaccio. Egli si sputò nella mano, aggrottò le sopracciglia e agitò nell’aria la lama facendola sibilare; e noi ne avemmo il cuore allargato, perché ogni suo gesto diceva chiaramente che la nostra nuova recluta valeva il pane che mangiava.

Quaranta passi più in là sboccammo sul margine del bosco, e vedemmo davanti a noi la palizzata. Abbordammo il recinto a metà del lato sud, e quasi nello stesso istante sette rivoltosi con Job Anderson, il mastro d’equipaggio, alla testa, apparvero gridando all’angolo sud-ovest.

Si fermarono come sconcertati, e prima che si riavessero dalla sorpresa, non solo il cavaliere ed io, ma anche Hunter e Joyce dall’interno della ridotta, facemmo in tempo a far fuoco. I quattro colpi si sparpagliarono in una salva alquanto irregolare, ma ottennero lo scopo: uno dei nostri nemici cadde; e gli altri senza esitare girarono le spalle e si tuffarono nella macchia.

Dopo aver ricaricato andammo giù lungo l’esterno della palizzata a vedere il nemico caduto. Era stecchito: la palla l’aveva colpito in mezzo al cuore.

Stavamo rallegrandoci del nostro buon successo, quando un colpo di pistola crepitò nella boscaglia, una palla mi fischiò vicino all’orecchio, e il povero Tom Redruth ondeggiò e si abbatté lungo disteso al suolo. Il cavaliere ed io rispondemmo al colpo, ma siccome tiravamo a casaccio, è probabile che sciupassimo soltanto la polvere. Dopo di che ricaricammo un’altra volta, e riportammo la nostra attenzione sul disgraziato Tom Il capitano e Gray erano già curvi su di lui, ed io con una occhiata m’accorsi che tutto era finito.

Credo che, data la immediatezza della nostra risposta, la salva avesse disperso nuovamente i ribelli, poiché senza altri fastidi potemmo prendere il corpo del vecchio guardacaccia, issarlo al disopra dello steccato e ricoverarlo, gemente e sanguinante, nella ridotta.

Il povero vecchio non aveva mai pronunciato una parola di sorpresa, di lamento, di paura, o anche solo di acquiescenza, dall’inizio delle nostre tribolazioni fino al momento in cui l’avevamo deposto lì dove doveva morire. Si era sistemato dietro al materasso come un valoroso troiano; aveva eseguito ogni ordine in silenzio e bene, con assoluta devozione; era di vent’anni il più anziano dei nostri: ed ecco, toccava a lui, a questo vecchio fedele e volonteroso servitore, morire.

Il cavaliere cadde in ginocchio accanto a lui, e gli baciò la mano singhiozzando come un fanciullo.

"Me ne vado, dottore?" chiese il moribondo.

"Tom, amico mio," risposi "tu ritorni al Creatore." "Avrei prima voluto regalare qualcuno dei miei confetti a quelli là..." "Tom" proruppe il cavaliere "dimmi che mi perdoni, vuoi?" "Le pare che sarebbe rispettoso, da me a lei, signor cavaliere?

Nondimeno, così sia. Amen!" Dopo un breve silenzio espresse il desiderio che qualcuno gli leggesse una preghiera. "E’ l’usanza, signore" aggiunse come per scusarsi. E poco dopo, senza altre parole, spirò.

Frattanto il capitano, del quale avevo osservato le tasche e il petto gonfi oltre misura, aveva tirato fuori un mucchio di cose le più disparate: la bandiera inglese, una bibbia, un rotolo di corda abbastanza forte, penna e calamaio, il libro di bordo, e una gran quantità di tabacco. Trovato poi nel recinto il fusto piuttosto lungo di un abete abbattuto e spoglio, l’aveva con l’aiuto di Hunter alzato nel posto della ridotta dove i tronchi incrociati formavano un angolo; e, arrampicatosi sul tetto, aveva con le sue stesse mani spiegata e issata la bandiera.

Questo parve riconfortarlo assai. Dopo di che rientrò nella casa e si accinse a passare in rassegna le provviste, come se nient’altro lo interessasse. Ma non mancò di badare al trapasso di Redruth, e appena questi ebbe chiuso gl occhi si avvicinò portando un’altra bandiera, e devotamente la distese sul cadavere.

"Non affliggetevi, signore" disse al cavaliere stringendogli la mano. "Egli è fortunato: nulla ha da temere un marinaio che è morto compiendo il proprio dovere verso il capitano e verso l’armatore. Può non essere buona teologia, questa, ma è un fatto." Poi mi tirò in disparte.

"Dottor Livesey" mi chiese «fra quante settimane credete che arriverà l’altra nave?" Gli risposi che non si trattava di settimane, bensì di mesi; che se noi non fossimo ritornati alla fine d’agosto, Blandly avrebbe mandato a cercarci, ma né prima né dopo. "Può lei stesso fare il conto" aggiunsi.

"Ebbene" riprese il capitano grattandosi la testa "pur contando molto sui benefici della Provvidenza, direi che siamo piuttosto mal ridotti.

"Cioè?" "E’ un peccato che abbiamo perduto questo secondo carico, ecco cosa intendevo dire" replicò il capitano. "Per le munizioni ce la potremo cavare, ma quanto a viveri siamo scarsi, assai scarsi: al punto, dottor Livesey, che quasi è un bene ritrovarci con quella bocca di meno." E accennò con l’indice al corpo che giaceva sotto la bandiera.

In quel momento con un ruggito e un sibilo una palla passò in alto al disopra del tetto della casa e andò a cadere lontano nella boscaglia "Ohò!" esclamò il capitano. "Fuoco volante! Avete già abbastanza poca polvere, i miei giovinotti!" Al secondo tentativo il colpo fu meglio diretto, e il proiettile cadde entro lo steccato sollevando un nuvolo di sabbia, ma senza provocare nessun altro danno.

"Capitano" fece il cavaliere "la casa è del tutto fuori dalla visuale del bastimento. Probabilmente mirano alla bandiera. Non converrebbe abbassarla?" "Abbassare la mia bandiera?" gridò il capitano. "No, signore, mai!". E queste parole riscossero il generale consenso, poiché quell’uscita rivelava non solo il maschio valoroso uomo di mare, ma anche l’accorgimento politico di chi intendeva mostrare al nemico che non temeva le sue cannonate.

Durante tutta la serata si accanirono a bombardare. L’una dopo l’altra le palle ci oltrepassavano, o non arrivavano fino a noi, o buttavano in aria la sabbia dello steccato: ma il tiro era così alto che la palla ricadeva morta e si affondava nella soffice arena. Non c’era da temere nessun rimbalzo, e sebbene un proiettile fosse penetrato dal tetto nella casa, andando a conficcarsi nel pavimento, presto ci abituammo a quel gioco grossolano senza dargli più importanza che al cricket.

"C’è una cosa buona, in tutto questo" osservò il capitano "ed è che il bosco dinanzi a noi è sgombro. La marea da un po’ di tempo si sta ritirando; le nostre provviste dovrebbero trovarsi all’asciutto. C’è qualcuno che voglia andare a prendere del lardo?" Gray e Hunter si offrirono per primi. Armati fino ai denti si slanciarono fuori dallo steccato, ma senza risultato, poiché gli ammutinati, più arditi di quanto non sospettassimo, ovvero fiduciosi nella perizia di tiratore di Israel, si stavano già impadronendo delle provviste e le trasportavano a guado in una delle imbarcazioni che era 1ì vicino e che un remo opportunamente manovrato manteneva ferma contro la corrente. Silver, installato a poppa, teneva il comando, e ognuno di loro adesso era munito di un moschetto tirato da non si sa quale nascondiglio.

Il capitano intanto, seduto davanti al libro di bordo, annotava:

"Alessandro Smollett, capitano; Davide Livesey, medico di bordo; Abraham Gray, secondo carpentiere; John Trelawney, armatore; John Hunter e Riccardo Joyce, servi dell’armatore, i soli dell’intero equipaggio rimasti fedeli, avendo viveri per dieci giorni a mezza razione, sbarcarono oggi e issarono la bandiera britannica sul fortino dell’Isola del Tesoro. Tomaso Redruth, servo dell’armatore, guardacaccia, ucciso dai ribelli, James Hawkins, mozzo..." Proprio in quel momento, mentre io mi commuovevo pensando alla sorte del ragazzo, una voce si sentì dalla parte di terra.

"Qualcuno che chiama" disse Hunter che era di guardia.

"Dottore! Cavaliere! Capitano! Hallo! Hunter, siete voi?" squillò la voce.

Ed io corsi alla porta, e giunsi in tempo per vedere Jim Hawkins sano e salvo scavalcare lo steccato.

 

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*

 

Capitolo 19

Il racconto è ripreso da Jim Hawkins: la guarnigione del fortino

 

Vedendo la bandiera, Ben Gunn si fermò trattenendomi per un braccio, e sedette. "Ecco là i tuoi compagni" disse "non c’è dubbio." "E’ più probabile che siano i rivoltosi" feci io.

"Che? in un posto come questo, dove non approdano se non pirati, Silver spiegherebbe la bandiera nera, stanne pur certo. Sono i tuoi compagni, ti dico. C’è stata battaglia, e credo che loro se la siano cavata bene, e ora stanno a terra nel vecchio fortino costruito anni e anni fa da Flint. Ah, ci aveva una testa, quel Flint! Rum a parte, un uomo di quello stampo non fu mai visto Nessuno gli faceva paura; nessuno eccetto Silver: Silver sì, aveva quel privilegio.

"Bene" dissi io "può essere così, e così sia: ragione in più, allora, perché io mi affretti a raggiungere i miei." "No, camerata" rispose Ben "niente affatto. Tu sei un buon ragazzo, se non m’inganno, ma non sei che un ragazzo, per dirla in una parola. Ora Ben Gunn sa. Neanche per del rum mi si tirerebbe dove vai, neanche per del rum, finché non abbia visto il tuo gentiluomo di nascita e ottenuto la sua parola d’onore. E non dimenticare le mie parole: ’Di gran lunga più fiducia’ (questo devi dire) ’di gran lunga più fiducia’: e qui gli dai un pizzicotto." E una terza volta, con la stessa aria di uomo che la sa unga, mi pizzicò.

"E quando ci sia bisogno di Ben Gunn, tu sai dove trovarlo, Jim.

Esattamente dove lo trovasti oggi E chi verrà tenga in mano qualcosa di bianco, e venga solo E tu dirai: ’Ben Gunn’, dirai, ’ha le sue brave ragioni’." "Bene" dissi io. "Credo di aver capito. Voi avete una proposta da fare, e desiderate vedere il cavaliere o il dottore, e visi troverà dove io vi ho trovato. E’ tutto?" "E a quale ora, di’?" aggiunse. "Ebbene, mettiamo da mezzogiorno alle tre, all’incirca." "Siamo intesi. E ora posso andare?" "Non ti dimenticherai mica?" chiese ansiosamente "’Di gran lunga più fiducia’ e ’le sue proprie ragioni’, questo è l’essenziale: te lo dico da uomo a uomo. Ebbene, allora," e seguitava a trattenermi "puoi andare, Jim. E, Jim, se per caso vedessi Silver, non lo tradiresti mica Ben Gunn? Neanche a tirarti con gli àrgani lo tradiresti. No, non è vero? E se i pirati si accampano a terra, Jim, che dirai tu se l’indomani ci saranno delle vedove?" A questo punto una forte detonazione lo interruppe, e una palla di cannone arrivò squarciando la macchia e andò ad affondarsi nella sabbia a meno di cinquanta metri dal luogo dove stavamo discorrendo. E noi fuggimmo a gambe levate, ciascuno per la sua strada.

Durante un’ora buona frequenti colpi continuarono a scuotere l’isola e le palle a sforacchiare con fracasso la boscaglia, mentre io passavo da un nascondiglio all’altro, sempre inseguito, almeno così mi pareva, da quei tremendi proiettili. Ma verso la fine del bombardamento, pur non osando ancora avventurarmi dalla parte del fortino, dove le palle battevano di preferenza, cominciai in certo modo a riprendere coraggio, e dopo un lungo giro verso est, strisciando fra gli alberi, scesi alla riva.

Il sole era appena tramontato: la brezza marina si alzava destando sussurri nella selva e increspando la superficie opaca della baia; la marea si era ritirata, scoprendo larghi tratti di sabbia, e l’aria fredda, seguita al calore del giorno, mi pungeva attraverso il camiciotto.

L’"Hispaniola" era sempre ancorata allo stesso posto; ma in cima all’albero maestro sventolava il Jolly Roger, il vessillo nero dei pirati. Mentre stavo guardando, un altro lampo rossastro balenò, con un tuono che risvegliò il coro degli echi, e un’altra palla tagliò l’aria sibilando. Era la fine del bombardamento.

Rimasi qualche tempo a osservare il trambusto che seguiva all’attacco. Sulla spiaggia vicino alla palizzata alcuni stavano demolendo qualcosa a colpi d’ascia: era il nostro piccolo disgraziato canotto, come più tardi mi accorsi. Più in là, presso l’imboccatura del fiume, un gran fuoco bruciava in mezzo agli alberi, e rischiarava una delle imbarcazioni che faceva la spola tra quel punto e la nave.

Gli uomini, che prima avevo visti così rabbuiati, ora remando schiamazzavano allegri come ragazzi. Ma quelle voci sgangherate tradivano il rum.

Mi parve finalmente di potermi incamminare verso il fortino. Io mi trovavo assai lontano, sulla lingua di terra bassa e sabbiosa che chiude l’ancoraggio ad est ed a mezza marea rimane congiunta con l’isolotto dello Scheletro; ed ecco che, alzatomi in piedi, vidi un po’ più in là su quella striscia di terra sorgere tra i cespugli bassi, molto alta nel cielo, e di un candore abbagliante, una rupe isolata: e pensai che fosse la rupe di cui Ben Gunn mi aveva parlato, dicendo che se un giorno o l’altro vi fosse bisogno di un canotto avrei saputo dove cercarlo.

Camminando rasente la boscaglia raggiunsi la parte posteriore della palizzata, dal lato della riva, e fui presto festosamente accolto dai fedeli camerati.

La mia storia fu immediatamente raccontata, dopo di che cominciai a guardarmi intorno. La casa, cioè tetto, muri, pavimento, era fatta di rozzi tronchi di pino. Il pavimento sovrastava qua e là di un piede, un piede e mezzo, il livello della sabbia. La porta dava in un vestibolo dove la piccola sorgente scaturiva, brillando dentro una vasca alquanto bizzarra, formata solo da una caldaia di ferro, da nave, privata del suo fondo e interrata nel suolo.

Poco rimaneva oltre la carcassa della casa; solo in un angolo si vedeva una lastra di pietra che faceva da posto per il fuoco, ed un vecchio e arrugginito recipiente di ferro destinato a contenere il fuoco.

I pendii del monticello e tutto l’interno della palizzata erano stati liberati dagli alberi per costruire la casa; e i ceppi stessi mostravano quale superbo e splendido bosco era stato distrutto. Dopo l’abbattimento degli alberi, quasi tutto il terreno vegetale era stato asportato dalle acque o seppellito sotto la duna; soltanto dove il piccolo ruscello, diramandosi dalla caldaia, scorreva, una spessa pelliccia di muschio, alcune felci e certi piccoli serpeggianti cespugli mettevano ancora tra la sabbia una nota verde. Addossato alla palizzata, troppo addossato per la difesa, dicevano essi, il bosco lussureggiava ancora alto e denso, esclusivamente formato di pini dalla parte del monte, e mescolato di querce sempreverdi dalla parte del mare.

La fresca brezza serale, della quale ho parlato, fischiava attraverso le fessure della rozza costruzione e seminava il pavimento di una incessante pioggia di sabbia fine. Dappertutto era sabbia: sabbia nei nostri occhi, sabbia tra i nostri denti, sabbia nelle nostre minestre, sabbia danzante nella sorgente al fondo della caldaia, simile a una zuppa quando apre il bollore. Un buco quadrato nel tetto faceva da camino: ma solo una parte del fumo vi trovava sfogo; il resto turbinava per la casa costringendoci a tossire e lacrimare.

Aggiungete che Gray, la nuova recluta, aveva la testa fasciata per una ferita riportata nello strapparsi agli ammutinati, e quel povero vecchio Tom, tuttora insepolto, giaceva lungo il muro, rigido sotto l’Union Jack.

Fossimo rimasti oziosi, la malinconia ci sarebbe saltata addosso; ma il capitano Smollett non era uomo da lasciare il tempo a ciò.

Chiamatici, ci divise in due squadre; da una parte il dottore, Gray ed io; dall’altra il cavaliere, Hunter e Joyce. Malgrado la stanchezza generale, due furono mandati per legna nel bosco, altri due messi a scavare la fossa per Redruth; il dottore ebbe il posto di cuoco; io di guardia alla porta, e lo stesso capitano andava dall’uno all’altro incoraggiandoci tutti e dando una mano dove occorreva.

Di tanto in tanto il dottore veniva alla porta a respirare un po’ d’aria e a riposare i suoi occhi irritati dal fuoco; e sempre aveva una parola per me.

"Questo Smollett" mi disse una volta "vale più di me. E ciò significa qualcosa, Jim." Un’altra volta, dopo un silenzio, piegò la testa da un lato e mi fissò chiedendo:

"Questo Ben Gunn che uomo è?" "Non saprei, signore. Non sono sicuro che sia sano di mente." "Se hai qualche dubbio di’ pure che non lo è" riprese il dottore.

"Un uomo rimasto tre anni a rosicchiarsi le unghie sopra un’isola deserta non potrà mai apparire sano di mente come uno di noi. Non è conforme alla natura. Ma tu mi dicevi che sospirava un pezzo di formaggio, no?" "Sì, signore, formaggio." "Ebbene, Jim, vedi che a qualcosa giova essere ghiotto. Tu conosci la mia tabacchiera, no? E mai mi vedesti prender tabacco. O sai perché? Perché nella tabacchiera tengo un pezzo di formaggio parmigiano: un formaggio fatto in Italia, assai nutriente. Ebbene, sarà per Ben Gunn." Prima di metterci a tavola seppellimmo il vecchio Tom nella sabbia, e per alcuni istanti restammo raccolti intorno a lui a capo scoperto, nel vento. Un bel mucchio di legna era stato radunato, ma non sufficiente a giudizio del capitano, che scosse la testa, e disse che l’indomani mattina bisognava rimettersi al lavoro "con un po’ più di accanimento". Dopo di che, mangiato il nostro lardo, e bevuto ciascuno un buon bicchiere di grog all’acquavite, i tre capi si riunirono in un angolo a esaminare la situazione.

Io credo che non sapessero come uscirne, essendo le provviste così scarse che la fame ci avrebbe costretti ad arrenderci prima che l’aiuto arrivasse. Il miglior partito, così conclusero, era di fare dei vuoti nelle file dei filibustieri fino a deciderli ad abbassare la bandiera o a scappare con l’"Hispaniola". Da diciannove essi erano già ridotti a quindici; altri due erano feriti, ed uno, almeno, il marinaio colpito vicino al cannone, in gravi condizioni, se pure non morto. Non dovevamo trascurare nessuna buona occasione di far fuoco, e stare bene attenti a risparmiarci. A parte ciò, avevamo due potenti alleati: rum e clima.

Quanto al primo, pur attraverso mezzo miglio di distanza, sentivamo quei dannati strepitare e cantare fino a notte alta; e quanto al secondo, il dottore scommetteva la sua parrucca che, accampati com’erano nel pantano e sprovvisti di medicine, non sarebbe passata una settimana che metà di loro sarebbero caduti come mosche.

"Sicché" aggiunse "se non siamo noi ad essere ammazzati prima, non gli sembrerà vero, a loro, di scapolarsela con l’’Hispaniola’. E’ sempre un bastimento, e potranno riprendere il loro mestiere." "Sarà il primo bastimento che perdo" disse il capitano.

Io ero morto di stanchezza, come si può immaginare; e quando mi coricai, il che non fu se non dopo un lungo andare e venire, dormii come una marmotta.

Gli altri erano in piedi da un pezzo, e avevano già fatto colazione e accresciuto di un’altra buona metà il mucchio della legna, quando fui svegliato da un trambusto e rumore di voci.

"Bandiera bianca!" sentii dire; e subito dopo, con un grido di sorpresa:

"Silver in persona!" Allora saltai giù, e stropicciandomi gli occhi corsi una feritoia.

 

*

 

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*

 

Capitolo 20

L’ambasciata di Silver

 

In realtà c’erano due uomini fuori dello steccato, uno dei quali sventolava un panno bianco, e l’altro gli stava tranquillamente accanto: nientemeno che Silver in persona.

Era ancora assai presto, e il freddo pungeva come non mai, e penetrava fino alle ossa. Il cielo era chiaro e pulito, e le cime degli alberi si coloravano di rosa nel sole. Ma, dove stava Silver col suo seguace, tutto era ancora in ombra, ed essi apparivano immersi fino al ginocchio in un denso e biancastro vapore che durante la notte era salito dalla palude. Freddo e vapore insieme raccontavano lo squallore dell’isola: luogo umido, pieno di febbri, malsano.

"Nessuno si muova" avvertì il capitano. "Dieci contro uno, questo è un tranello." Poi si volse al filibustiere:

"Chi va là? Fermo, o sparo." "Bandiera parlamentare" gridò Silver.

Il capitano si teneva nel vestibolo, attento a non esporsi ad un colpo sparato a tradimento. E rivolto a noi, comandò:

"La squadra del dottore a fare la guardia. Dottor Livesey, favorisca mettersi al lato nord; Jim all’est, Gray all’ovest.

L’altra squadra, tutti a caricare i moschetti. Svegli, ragazzi, e attenti." Poi di nuovo si rivolse ai ribelli.

"E voi che volete con la vostra bandiera parlamentare?" Questa volta fu l’altro a rispondere.

"E’ il capitano Silver, signore, che viene a fare delle proposte." "Il capitano Silver? Non lo conosco. Chi è costui?" gridò il capitano. E a mezza voce, come parlasse tra sé, l’udimmo aggiungere:

"Capitano! Una bella carriera, perbacco!" Long John replicò egli stesso:

"Sono io, signore. Questi poveri diavoli mi hanno scelto per capitano dopo la vostra diserzione" e calcò sulla parola "diserzione". "Noi siamo pronti a sottometterci purché ci si intenda sulle condizioni, senza tante cerimonie. Tutto ciò che io vi chiedo, capitano Smollett, è la vostra parola che mi lascerete uscire sano e salvo da questo recinto e mi concederete un minuto per portarmi fuori tiro prima che si apra il fuoco." "Amico mio" disse il capitano Smollett "io non desidero affatto parlare con voi. Se avete qualcosa da dirmi, potete entrare, ecco tutto. Se un tradimento ha da venire, verrà da parte vostra, e il Signore vi aiuti." "Non occorre altro" esclamò Long John, allegramente. "Una vostra parola mi basta. So riconoscere un galantuomo: siatene pur sicuro." Vedemmo il compagno dalla bandiera bianca tentare di trattenere Silver: né era da stupirsene, data la franca risposta del capitano. Ma Silver gli rise sonoramente sul muso e gli dette una pacca sulla schiena, quasi che l’idea di un pericolo fosse stata assurda. Poi si avvicinò alla palizzata, gettò al disopra la sua gruccia, alzò in aria una gamba, e con grande vigore e destrezza riuscì a scavalcare il recinto e a buttarvisi dentro illeso.

Confesso che io m’interessavo troppo a quanto stava accadendo, per essere della minima utilità come sentinella. Difatti, avevo già abbandonato la mia feritoia per sgusciare dietro al capitano; il quale stava ora seduto sulla soglia, i gomiti sui ginocchi, la testa nelle mani, e gli occhi fissi sull’acqua che gorgogliava versandosi fuori della caldaia di ferro e perdendosi nella sabbia.

E canticchiava tra sé: "Venite fanciulle e fanciulli".

Guadagnar la cima del monticello fu per Silver una faticaccia.

Contro la ripidezza dell’erta, gl’intricati ceppi degli alberi, e la mollezza della sabbia dove il piede affondava, egli con la sua gruccia penava come un battello nel vento avverso. Ma vi si accanì, in silenzio, come un bravo, e arrivò infine davanti al capitano che salutò col più squisito garbo di questo mondo. Si era abbigliato come meglio poteva: uno smisurato abito azzurro carico di bottoni d’oro gli arrivava fino alle ginocchia; e un cappello riccamente gallonato gli troneggiava sulla nuca.

"Eccovi qui" disse il capitano alzando il capo. "Ma fareste meglio a sedere." "Non vorreste lasciarmi entrare, capitano?" si lamentò Long John.

"In verità è troppo fredda la mattinata per seder fuori sulla sabbia." "Eh, Silver" obietto il capitano. "Se vi fosse piaciuto di rimanere un onest’uomo, potreste ora sedere nella vostra cucina.

Colpa vostra. O siete il cuoco del mio bastimento (e foste pure ben trattato!) o siete il capitano Silver, un volgare ribelle e pirata; e in questo caso potete andare a farvi impiccare!" "Bene, bene" replicò il mastro cuoco sedendo sulla sabbia secondo all’invito "mi darete poi una mano per rialzarmi, ecco tutto. Ma che delizioso posto avete trovato! Ah, ecco Jim! Buon giorno a te, Jim. Dottore, i miei rispetti. Ebbene, eccovi tutti riuniti insieme come una felice famiglia, se così posso esprimermi." "Se avete qualcosa da dire, amico mio, è meglio che vi sbrighiate" proferì il capitano.

"Più che giusto, capitano Smollett" replicò Silver. "Il dovere anzitutto, nessun dubbio. Ebbene, sentite: ci avete giocato un bel tiro l’altra notte. Un bel tiro davvero, non saprei negarlo.

Parecchi di voi sono discretamente abili nel maneggiare la manovella. E non negherò che alcuni dei miei siano stati scossi: o magari tutti, e magari io stesso: ed è probabilmente per questo che sono qui per trattare. Ma, badate bene, capitano: ciò non si ripeterà, perdio! Faremo buona guardia, e diminuiremo un tantino il rum. Voi forse pensate che eravamo tutti quanti fradici: ma v’assicuro che io non avevo bevuto una goccia; soltanto non ne potevo più dalla stanchezza, e se mi fossi risvegliato un secondo prima, vi avrei presi sul fatto, vi avrei. Egli non era ancora morto, quando lo raggiunsi, non era." "Sicché?" fece il capitano Smollett con la massima calma.

Tutte le chiacchiere di Silver erano per lui un enigma, ma nessuno mai l’avrebbe immaginato, a giudicare dall’intonazione della voce.

Quanto a me, cominciavo a scorgere un filo di luce. Le ultime parole di Ben Gunn mi tornarono a mente. Pensai che egli avesse visitato i filibustieri mentre giacevano ubriachi intorno al loro fuoco, e riflettei con gioia che non più di quattordici erano i nemici con cui ci restava da fare i conti.

"E dunque, ecco qua" disse Silver. "Noi vogliamo questo tesoro, e l’avremo: ecco il nostro punto. A voi preme di salvar la vostra pelle, suppongo: ed ecco il vostro. Voi avete una carta, non è vero?" "Può darsi" rispose il capitano.

"Oh, voi l’avete, sì, lo so bene, io" ribatté Long John. "Non è il caso di essere così ruvidi con la gente; non serve affatto, credete a me. Ciò che intendo dire è che ci occorre la vostra carta. Del resto, io per me non vi ho mai voluto male..." "Questo mi è indifferente, amico mio" interruppe il capitano. "Noi conosciamo perfettamente le vostre intenzioni, e non ce ne importa, perché, oramai, vedete, la cosa non è più possibile." E, guardandolo tranquillamente, il capitano prese a riempire la sua pipa.

"Se Abraham Gray..." insinuò Silver.

"Basta!" gridò il signor Smollett. "Gray non mi ha detto nulla, né io gli ho chiesto nulla; e, ciò che più importa, vorrei veder voi e lui e l’isola intera saltare in aria. Così, amico mio, sapete ciò che penso a tale riguardo." La piccola sfuriata smorzò i bollori di Silver. Egli, che già s’irritava, non tardò a ricomporsi.

"Può essere" disse addolcendo il tono. "Io non pretendo di decidere quello che la gente per bene può ritenere corretto o meno, a seconda del caso. E poiché vedo che voi vi preparate a fare una pipata, mi permetterò di imitarvi." E riempì la sua pipa, e l’accese; e i due uomini rimasero per un po’ a fumare in silenzio, ora guardandosi in faccia, ora calcando il tabacco, ora piegandosi a sputare. Era uno spasso vederli, come assistere a una scena di teatro.

"E ora" riprese Silver "ecco qua. Voi ci date la carta perché possiamo procurarci il tesoro, e smettete di sparare sui poveri marinai e spaccar loro la testa mentre dormono. Voi fate ciò, e noi vi lasciamo liberi di scegliere: o venite a bordo con noi una volta caricato il tesoro, nel qual caso io m’impegno sulla mia parola d’onore a sbarcarvi in qualche luogo sani e salvi; oppure, se ciò non vi aggrada, visto che parecchi dei miei uomini hanno un caratteraccio e conservano vecchie ruggini a causa di punizioni, allora potete restare qui, potete. Noi divideremo con voi le provviste, tanto per ciascuno, ed io m’impegno, come sopra, ad avvertire la prima nave che incontro, e a mandarla qui a prendervi. Ora mi ammetterete che questo è parlare. Potevate volermi più liberale di così? No di certo. Ed io spero" e qui alzò la voce "che tutti i vostri compagni qui dentro rifletteranno alle mie parole, perché ciò che è detto a uno è detto a tutti." Il capitano Smollett, alzatosi, batté la pipa contro il palmo della mano scuotendone la cenere.

"E’ tutto qui?" domandò.

"L’ultima mia parola, corpo di mille bombe!" rispose.

"Respingetela, e non avrete da me altro che pallottole di moschetto." "Benissimo" disse il capitano. "E ora sentite me. Se voi verrete uno per uno disarmati, io m’impegno a mettervi tutti quanti ai ferri e trasportarvi in Inghilterra dove vi si allestirà il vostro bravo processo. Se rifiutate, sappiate che io mi chiamo Alessandro Smollett, che ho issato la bandiera del mio sovrano, e vi spedirò tutti all’inferno. Voi non potete scoprire il tesoro. Voi non potete manovrare l’’Hispaniola’: non c’è tra voi un uomo capace di ciò. Voi non potete combatterci. Gray, qui, si è sbrigato di cinque di voi. La vostra barca è mal governata, mastro Silver; siete sottovento, e correte a battere nei frangenti. Ve ne accorgerete. Io rimango qui, ve lo dichiaro netto. Sono le ultime parole amichevoli che vi rivolgo, perché vi giuro in nome del Cielo che la prossima volta che v’incontrerò vi caccerò una palla nella schiena. Presto, ragazzo mio. Liberateci della vostra presenza, vi prego, e via, un piede dopo l’altro, e al galoppo." La faccia di Silver era impressionante: gli occhi, nella rabbia, gli schizzavano fuori della testa. Scuoté la pipa ancora accesa, e gridò:

"Datemi una mano!" "Io no!" replicò il capitano.

"Chi mi dà una mano per rialzarmi?" grugnì il miserabile.

Nessuno di noi si mosse.

Masticando le più zozze imprecazioni si trascinò sulla sabbia finché riuscì ad attaccarsi alla parete del vestibolo, e a alzarsi di nuovo sulla gruccia. Allora sputò nella sorgente.

"Ecco" gridò "il conto che faccio di voi. Entro un’ora vi riscalderò come un ponce nel vostro fortino. Ridete, corpo di Satanasso, ridete pure! Tra un’ora riderete al rovescio. Quelli che moriranno saranno i più fortunati." E con una spaventosa bestemmia si allontanò, inciampando e affondando nella sabbia; e con l’aiuto dell’uomo con il vessillo parlamentare riuscì, dopo quattro o cinque tentativi falliti, a scavalcare la palizzata.

Un istante dopo scompariva dietro gli alberi.

 

*

 

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*

 

Capitolo 21

L’attacco

 

Non appena Silver fu scomparso, il capitano, che l’aveva attentamente seguito, si volse verso l’interno della casa, e trovò che nessuno all’infuori di Gray era al proprio posto. Fu la prima volta che lo vedemmo in collera.

"Al vostro posto" ruggì. Poi, dopo che avemmo ubbidito: "Gray" disse "io citerò il vostro nome a titolo d’onore nel libro di bordo; voi avete compiuto il vostro dovere come un vero marinaio.

Signor Trelawney, mi meraviglio di lei! E lei, dottore, mi pareva che un tempo avesse portato l’uniforme reale! Ma se è così che ha servito a Fontenoy, avrebbe fatto meglio a rimanersene sotto le coperte".

La squadra del dottore era ritornata alle feritoie: gli altri stavano caricando i moschetti di riserva, e ciascuno, com’è naturale, col viso rosso e l’orecchio teso.

Il capitano ci guardò un momento in silenzio; poi riprese:

"Ragazzi miei, ho assestato a Silver una bordata. Gli ho bruciato la pelle di proposito. Prima che l’ora sia passata, com’egli ha detto, ci attaccheranno. Noi siamo in minor numero, non occorre dirlo: però combatteremo stando al coperto, e un minuto fa avrei soggiunto: con disciplina. Io non dubito minimamente che possiamo suonargliele, se voi volete." Dopo di questo, fece la ronda, e constatò, com’ebbe a dire, che tutto era in regola.

Sui due lati minori del fortino, a est e a ovest, c’erano soltanto due feritoie; sul lato sud, dove si trovava la porta, altre due; e sul lato nord, cinque. Disponevamo, noi sette, di una ventina di moschetti; la legna da bruciare era ammassata in quattro cataste, come tavole, direi quasi, una nel mezzo di ciascun lato, con sopra munizioni e quattro moschetti carichi a portata di mano dei difensori. Nel centro, allineati, i coltellacci.

"Gettate via il fuoco" ordinò il capitano. "Il freddo è passato, e non bisogna avere il fumo negli occhi." Il recipiente di ferro fu portato fuori dal signor Trelawney e le braci spente nella sabbia.

"Hawkins non ha ancora fatto colazione. Hawkins, prendi la tua colazione e ritorna al tuo posto a mangiarla" continuò il capitano Smollett. "Animo, ragazzo mio, e non perdiamo tempo. Hunter, passa a tutti un bicchiere di grappa." E mentre questi eseguiva, il capitano completava mentalmente il suo piano di difesa.

"Dottore" riprese "lei occuperà la porta. Attento a vedere, ma senza esporsi. Si tenga in dentro, e tiri dal vestibolo. Hunter, voi occuperete il lato est, là. Joyce, amico mio, voi starete all’ovest. Signor Trelawney, lei è il miglior tiratore: lei e Gray terrete questo lungo tratto nord con le cinque feritoie. Lì è il punto debole, lì... Se loro riuscissero a raggiungerlo e sparare attraverso le stesse nostre aperture, le cose prenderebbero una cattiva piega. Hawkins, né tu né io siamo dei tiratori valenti:

rimarremo lì per caricare e dare una mano." Come il capitano aveva detto, il freddo era passato. Non appena il sole ebbe scavalcato la nostra cintura di alberi, batté con tutta la sua forza sopra la radura e asciugò in un baleno i vapori. La sabbia diventò bruciante e la resina dei tronchi d’albero del fortino si liquefece. Camiciotti e vestiti furono buttati all’aria: i colli delle camicie rivoltati e le maniche rimboccate fin sulle spalle; e aspettammo lì, ciascuno al suo posto, come in una febbre, estenuati dal caldo e dall’ansia.

Passò un’ora.

"Possano morire impiccati!" borbottò il capitano. "Ci si crepa di noia. Gray, fischiate per chiamare il vento." Ma proprio in quel punto apparvero i primi segni dell’attacco.

"Scusi, signore," disse Joyce "se vedo qualcuno devo sparare?" "Ve l’ho ben detto!" sbuffò il capitano.

"Grazie, signore" rispose Joyce con la stessa placida gentilezza.

Non successe niente per un po’: ma quelle parole ci avevano messi all’erta: occhi aguzzati, orecchi tesi, i moschettieri con l’arma bilanciata nel pugno, il capitano nel mezzo del fortino con le labbra tirate e le sopracciglia aggrottate.

Passarono così alcuni secondi, finché d’improvviso Joyce puntò il suo moschetto e sparò. Il rimbombo non era ancora spento che altre detonazioni risposero dal di fuori con una diffusa scarica, colpo dietro colpo, in fila indiana, da ogni parte del recinto.

Parecchie palle colpirono il fortino, ma nessuna vi penetrò; e come il fumo si fu dileguato, gli alberi e lo steccato ricomparirono immobili e deserti come prima. Non un ramoscello oscillava, non il luccichìo d’una canna di fucile tradiva la presenza dei nostri nemici.

"Avete colpito il vostro bersaglio?" chiese il capitano.

"No, signore," rispose Joyce "non credo." "La più bella cosa è la verità" masticò il capitano Smollett.

"Carica il suo fucile, Hawkins Quanti ritenete che fossero dal vostro lato, dottore?" "Posso dirglielo con precisione. Tre colpi furono tirati da questo lato. Ho visto le tre vampe: due, vicinissime l’una all’altra, la terza più a ovest." "Tre" ripeté il capitano. "E quanti dalla sua parte, signor Trelawney?" Ma qui la risposta non fu così facile. Da nord ne erano arrivati molti: sette secondo i calcoli del cavaliere; otto o nove secondo Gray. Da est e da ovest un solo colpo era stato tirato. Era dunque chiaro che l’attacco veniva dal lato nord e che sui rimanenti tre fronti saremmo stati molestati da una semplice finta di ostilità.

Ma il capitano Smollett non cambiò per niente le sue disposizioni.

Se gli ammutinati riuscivano a superare la palizzata, pensava, si sarebbero impadroniti di ogni feritoia indifesa, e ci avrebbero uccisi come tanti sorci nella nostra stessa fortezza.

Del resto non ci si lasciò troppo agio a riflettere. D’improvviso, con un potente urrà, una piccola nube di pirati si precipitò fuori della boscaglia dalla parte nord, correndo dritta verso la palizzata. Nello stesso tempo da oltre gli alberi fu riaperto il fuoco, e una palla fischiò attraverso l’entrata e mandò in pezzi il moschetto del dottore.

Simili a un branco di scimmie gli assalitori balzarono in cima allo steccato. Il cavaliere e il dottore spararono continui colpi; tre uomini caddero: uno a testa in giù, dentro il recinto; due all’indietro, fuori: ma uno di questi era evidentemente più tramortito di spavento che ferito, perché in un attimo si alzò in piedi e scomparve nella macchia.

Due avevano morso la polvere, uno era fuggito, quattro erano riusciti a guadagnare il nostro trinceramento, e intanto, vicino agli alberi, sette od otto provvisti ognuno di parecchi moschetti dirigevano un accanito quanto innocuo fuoco contro il nostro fortino.

I quattro che erano entrati, puntavano diritti sulla casa correndo e gridando; e i compagni nascosti tra gli alberi con alti clamori li incoraggiavano. Alcuni colpi furono sparati, ma tanta era la furia dei tiratori, che nessuno colse nel segno. In un istante i quattro pirati avevano scalato il monticello, ed eccoli sopra noi.

La testa di Job Anderson, il nostromo, scattò nella feritoia del mezzo.

"Dai che ci sono tutti, dai!" ruggì con una voce di tuono.

Nello stesso momento un altro pirata afferrò il moschetto di Hunter per la canna, glielo strappò di mano, e con un tremendo colpo stese il povero ragazzo inanimato al suolo. E un terzo, girando incolume intorno alla casa, balzò improvvisamente nell’entrata e si lanciò con un coltellaccio sul dottore.

La nostra posizione era totalmente rovesciata. Poco prima, tiravamo stando al riparo, su un nemico scoperto; ora invece eravamo noi gli esposti e incapaci di restituire un colpo.

Il fortino era pieno di fumo e a questo dovevamo la nostra relativa sicurezza. Grida confuse, detonazioni di colpi di pistola, e un disperato lamento riempivano i miei orecchi!

"Fuori, ragazzi, fuori! Combattiamo all’aperto! Mano ai coltellacci!" comandò il capitano.

Io tolsi con furia un coltellaccio dal mucchio, e qualcuno, prendendone un altro nel medesimo istante, mi fece una sbucciatura alle dita che appena sentii. Mi slanciai fuori della porta in pieno sole. Qualcuno, ignoro chi, mi seguiva da vicino. Proprio davanti a me il dottore stava inseguendo il suo assalitore giù per il pendio, e nel momento stesso che i miei occhi caddero su di lui, egli raggiunse lo sciagurato, e lo colpì buttandolo riverso per terra e con un largo taglio nella faccia.

"Intorno alla casa, ragazzi, intorno alla casa!" gridava il capitano; ed io, pur in mezzo al tumulto, avvertii un cambiamento nella sua voce.

Macchinalmente obbedii; e rivoltomi a levante, col mio coltellaccio in aria, corsi all’angolo della casa. Un attimo, ed eccomi di fronte ad Anderson. Con un mugghio feroce egli alzò sopra la testa la lama che lampeggiò nel sole. Io non ebbi tempo di spaventarmi perché, mentre l’arma mi pendeva addosso, fulmineamente mi spostai spiccando un salto; e mancatomi un piede nella soffice sabbia, ruzzolai testa all’ingiù lungo il pendio.

Quando m’ero lanciato fuori della porta, gli altri ribelli stavano già arrampicandosi sullo steccato per farla finita con noi. Uno d’essi, con in testa un berretto rosso e il suo coltellaccio tra i denti, aveva persino raggiunto la cima e con una gamba l’aveva già scavalcata. Ebbene, l’intervallo era stato così breve, che quando io mi ritrovai di nuovo in piedi tutti erano ancora nella stessa posizione: l’uomo dal berretto rosso mezzo di qua e mezzo di là, e un altro cominciava a mostrar la testa al disopra dei pali. E nondimeno, in questo brevissimo lasso di tempo il combattimento era terminato, e la vittoria era nostra.

Gray, che mi seguiva da vicino, aveva abbattuto con un fendente il grosso nostromo senza lasciargli tempo, dopo che gli era fallito il colpo, di rimettersi in sesto. Un altro era stato freddato a una feritoia mentre tirava dentro la casa; e ora agonizzava, con in mano la pistola ancora fumante. Un terzo, come dissi, era stato spacciato dal dottore. Dei quattro che erano riusciti a scavalcare la palizzata, solo uno rimaneva incolume, il quale, abbandonato il suo coltellaccio sul teatro della mischia, si arrampicava un’altra volta per uscirne, col timore della morte alle calcagna.

"Fuoco, fuoco dalla casa!" ordinò il dottore. "E voi, ragazzi, ritornate al coperto!" Ma queste parole non furono sentite, nessun colpo partì, e l’ultimo ribaldo poté scapolarsela immergendosi con gli altri nel bosco. Degli assalitori non rimanevano, in tre secondi, che i cinque caduti: quattro dentro, e uno fuori dal recinto.

Il dottore, Gray ed io ci affrettammo a metterci al riparo. I superstiti avrebbero presto raggiunto il luogo dove avevano lasciato i loro moschetti; il fuoco avrebbe potuto ricominciare da un momento all’altro.

La casa si era intanto liberata un po’ dal fumo; e noi in un batter d’occhio misurammo il prezzo della nostra vittoria.

Hunter giaceva privo di sensi davanti alla sua feritoia; Joyce, vicino a lui con una palla nella testa, immobile per sempre; mentre nel mezzo il cavaliere sorreggeva il capitano: l’uno non meno pallido dell’altro.

"Il capitano è ferito" disse il signor Trelawney.

"Sono fuggiti?" chiese il signor Smollett.

«Tutti quelli che hanno potuto, state pur sicuro" rispose il dottore "ma ce ne sono cinque che non corre ranno più." "Cinque!" esclamò il capitano. "Ebbene, abbiamo progredito. Cinque da una parte e tre dall’altra, rimaniamo quattro contro nove. La disparità è meno forte. Alla partenza eravamo sette contro diciannove; o quanto meno lo pensavamo, il che non è affatto meglio (1)." Nota 1. Gli ammutinati rimasero presto soltanto otto, giacché l’uomo colpito dal signor Trelawney a bordo della goletta morì della sua ferita la sera stessa: ma ciò, naturalmente, non fu che più tardi a conoscenza del partito fedele.

 

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PARTE QUINTA

LA MIA AVVENTURA IN MARE

 

Capitolo 22

Dove incomincia la mia avventura

 

I ribelli non si fecero più vedere, né spararono un solo colpo dai loro nascondigli. Avevano avuto il fatto loro per quel giorno, per dirla col capitano; e noi, padroni del luogo, potemmo in tutta tranquillità ed agio vegliare i feriti e preparare il pranzo. A dispetto del pericolo io e il cavaliere facemmo la cucina all’aperto; e tuttavia anche lì ci raggiungevano gli acuti gemiti dei pazienti del dottore; era uno strazio e una disperazione sentirli.

Degli otto uomini caduti nell’azione, tre soltanto respiravano ancora: il pirata che era stato colpito davanti alla feritoia, Hunter e il capitano Smollett. I primi due potevano ritenersi perduti; difatti il rivoltoso mori sotto il bisturi del dottore, e Hunter malgrado le nostre cure non riprese più conoscenza. Egli languì l’intero giorno respirando pesantemente come il vecchio filibustiere a casa nostra dopo il suo colpo apoplettico; aveva avuto le costole fracassate e il cranio fratturato nella caduta, e così, nel corso della notte seguente, senza né un gesto né una sillaba, passò al Creatore.

Quanto al capitano, le sue ferite erano gravi in verità, ma non pericolose. Nessun organo era irrimediabilmente leso. La palla di Anderson, giacché era stato Anderson il primo a sparargli, gli aveva spezzato una scapola e toccato leggermente il polmone; l’altra gli aveva soltanto lacerato e spostato qualche muscolo del polpaccio. Egli sarebbe senza dubbio guarito, secondo quanto affermava il dottore, ma intanto e per alcune settimane, doveva astenersi dal camminare o dal muovere il braccio; e, possibilmente, evitare di parlare.

La mia sbucciatura alle dita non aveva più importanza di un morso di pulce. Il dottor Livesey ci mise sopra un impiastro, e per soprappiù vi aggiunse una tiratina d’orecchi.

Dopo pranzo il cavaliere e il dottore si consultarono un momento al capezzale del capitano; e ragionato che ebbero a loro piacimento, essendo di poco passato mezzogiorno, il dottore prese il cappello e le pistole, cinse un coltellaccio, mise la carta in tasca, e con un moschetto sulle spalle scavalcò la palizzata dal lato nord e s’inoltrò di buon passo nel bosco.

Gray ed io ci eravamo ritirati all’estremità del fortino per non udire i discorsi dei nostri superiori. La stupore del mio compagno nel vedere quella uscita fu tale che si levò la pipa di bocca e non pensò più a rimettervela.

"Per Satanasso" proruppe "il dottor Livesey è matto?" "Io non lo credo" risposi. "Sono sicuro che è l’ultimo di noi a correre questo rischio." "Ebbene, amico mio, ti ammetterò che non sia pazzo; ma allora, ascoltami bene, se non è pazzo LUI, lo sono io." "Io suppongo" replicai "che il dottore ha una sua idea. Se non sbaglio, va in cerca di Ben Gunn." Indovinavo, infatti, come più tardi risultò; ma intanto, poiché nella casa si moriva dal caldo e la sabbia dentro il recinto, sotto il sole di mezzogiorno, mandava riverberi arroventati, io a poco a poco mi lasciai prendere da un’altra idea che non era proprio altrettanto giusta. Cominciai a invidiare il dottore che, beato lui, se ne camminava nella fresca ombra degli alberi, godendosi i canti degli uccelli e il gradito aroma dei pini, mentre io, inchiodato lì, arrostivo, coi miei abiti appiccicati alla calda resina, e con quel sangue sparso, e quei poveri cadaveri stesi intorno a me... Mi prese a poco a poco un tale disgusto di quel luogo, che quasi finì per divenire terrore.

Per tutto il tempo che impiegai a ripulire la casa e a lavare il vasellame, questo disgusto e il desiderio di evadere si fecero sempre più tormentosi, finché, trovandomi non osservato da alcuno, accanto a un sacco di pane, mi riempii le tasche di biscotti, e detti inizio alla mia scappata.

Ero pazzo, se vogliamo, e certo stavo per abbandonarmi a un’azione insensata e temeraria: ma ero deciso a compierla senza trascurare ogni possibile precauzione. Questi biscotti, qualunque cosa mi capitasse, mi avrebbero evitato di morire di fame almeno fino a tutto l’indomani. Altro, di cui m’impadronii, fu un paio di pistole; e siccome già possedevo una fiaschetta di polvere e pallottole, mi credetti sufficientemente armato.

Quanto al disegno che avevo in testa, non era in se stesso cattivo. Mi proponevo di partire dalla lingua di sabbia che separa a levante l’ancoraggio dal mare aperto, portarmi fino alla Roccia Bianca che avevo osservato la sera prima, ed accertarmi se era lì o no che Ben Gunn teneva nascosto il canotto; fatica tutt’altro che oziosa, come tuttora penso. Ma, essendo certo che non mi avrebbero permesso di lasciare il recinto, il mio unico mezzo era congedarmi alla francese, e scappar via mentre nessuno mi badava:

e questo era un modo di agire così brutto che mi rendeva la cosa stessa nettamente riprovevole. Ma io non ero che un ragazzo, e avevo preso la mia decisione.

Orbene, le circostanze si disposero infine in modo da crearmi una magnifica occasione. Il cavaliere e Gray erano occupati a cambiare le bende al capitano; la costa appariva sgombra; io rapido come una saetta scavalcai lo steccato, tuffandomi nel folto degli alberi; e, prima che la mia assenza fosse notata, non ero già più a portata di voce dei miei compagni.

E fu questa la mia seconda follia, peggiore assai della prima, dato che a guardia del fortino io non lasciavo che due soli uomini validi: ma al pari della prima contribuì alla comune salvezza.

Io mi rivolsi dritto verso la costa a levante dell’isola, perché avevo deciso di percorrere la lingua di sabbia dal lato del mare, per evitare il rischio di farmi scoprire dall’ancoraggio.

Nonostante che il pomeriggio fosse già inoltrato, l’aria si manteneva rovente. Continuando il mio cammino attraverso l’alta selva, sentivo lontano davanti a me, insieme col continuo fragore dei marosi, un mormorìo di frasche, un agitarsi di rami, segni evidenti che la brezza marina si era alzata più vivace del solito.

Presto alcune fresche folate mi raggiunsero; e fatti alcuni passi mi ritrovai sul margine del bosco, e vidi il mare stendersi azzurro e luminoso fino all’orizzonte, e la risacca abbattersi fumante di spuma lungo la spiaggia.

Io non ricordo di aver mai visto il mare calmo intorno all’Isola del Tesoro. Il sole poteva dardeggiare dall’alto, l’aria restare senza un soffio, le acque dell’ancoraggio essere lisce e azzurre; ma sempre ancora lungo la costa esterna quei cavalloni si rovesciavano tuonando e tuonando giorno e notte; né io credo vi fosse un punto dell’isola dove quel dannato clamore non arrivasse.

Avanzai camminando con grande piacere lungo i frangenti, finché, sembrandomi di essermi ormai spinto abbastanza a sud, approfittai del riparo di alcuni folti cespugli per strisciare cautamente fin sulla punta della lingua di terra.

Dietro di me c’era il mare aperto: di fronte, l’ancoraggio. Come se la brezza marina si fosse sfogata più presto del solito nell’inconsueta violenza, era già spenta; un leggero e instabile venticello da sud e sud-est era seguito, portando vasti banchi di nebbia; e l’ancoraggio, riparato dall’isolotto dello Scheletro, giaceva quieto e plumbeo come la prima volta che vi eravamo entrati. In quell’intatto specchio l’"Hispaniola" si rifletteva dalla cima degli alberi fino alla linea d’immersione, compresa la bandiera corsara che pendeva dalla punta dell’albero di maestra.

Lungo il bordo era accostato uno dei canotti governato da Silver (lui lo riconoscevo sempre) verso cui si chinavano, appoggiati al bastingaggio, due uomini, uno dei quali, con in testa un berretto rosso, era lo stesso furfante che alcune ore prima avevo visto a cavalcioni sulla palizzata. Sembrava che parlassero e ridessero:

però a quella distanza, più di un miglio, non potevo naturalmente afferrare una sillaba. D’improvviso scoppiò un atroce infernale gridìo, che a tutta prima mi gelò il sangue; ma riconobbi subito la voce di "capitano Flint", e mi sembrò anche, dalle penne sgargianti, di distinguere l’uccello posato sul polso del suo padrone.

Poco dopo, il canotto si distaccò, dirigendosi verso la spiaggia, e l’uomo dal berretto rosso e il suo compagno si calarono dentro la cabina.

Nel frattempo il sole era tramontato dietro il Cannocchiale, e poiché la nebbia si andava rapidamente addensando, l’aria cominciava a scurire. Volendo rintracciare il canotto quella sera stessa, non dovevo perdere tempo.

La Roccia Bianca, abbastanza visibile al disopra dei cespugli, era ancora circa un ottavo di miglio distante, giù sulla lingua di terra, e mi ci volle un po’ per arrivarci, strisciando spesso carponi attraverso il forteto. La notte già incombeva quando misi la mano sul suo scabro fianco. Proprio sotto di essa c’era una piccola cavità erbosa nascosta da rocce e da una lussureggiante vegetazione che mi arrivava al ginocchio; e nel mezzo della buca c’era proprio una piccola tenda di pelle di capra simile a quella che gli zingari si portano dietro in Inghilterra.

Saltai nella buca, sollevai l’orlo della tenda, ed ecco il canotto di Ben Gunn: rustico lavoro, se altro mai ve ne fu, consistente in una rozza bistorta carcassa di legno duro, con tesa sopra una coperta di pelle di capra, col pelo verso il di dentro. Lo scafo era estremamente piccolo anche per me, e non so immaginarmi come potesse portare un adulto. C’era un sedile collocato più in basso che fosse possibile, una specie di pedana alle due estremità, e una doppia pagaia come propulsore.

Non avevo mai visto una piroga, il battello degli antichi Bretoni, ma ne vidi poi una, e non saprei dare una più chiara idea dell’imbarcazione di Ben Gunn che confrontandola con la prima e più informe piroga che mano d’uomo avesse costruita. Ma un gran vantaggio alla piroga non le mancava di certo, leggerissima com’era, e portatile.

Ora che avevo trovato il battello, sembrava naturale che l’avventura finisse lì; ma nel frattempo un’altra idea m’era saltata in mente, e me ne ero così ardentemente innamorato, che l’avrei realizzata, credo, anche a dispetto dello stesso capitano Smollett. Si trattava di sgusciare fuori protetto dall’oscurità notturna, tagliare l’ormeggio dell’"Hispaniola" e lasciarla andare alla deriva contro la costa come meglio le piacesse. Ero sicuro che ai ribelli, dopo lo scacco del mattino, nulla stesse tanto a cuore quanto levare l’àncora e prendere il largo; sarebbe, pensavo, un bel colpo impedirglielo; e poiché avevo constatato come lasciassero i loro guardiani sprovvisti di una imbarcazione, credevo di poter attuare il mio progetto con poco rischio.

Messomi a sedere, per attendere che fosse buio, mangiai di gusto il mio biscotto. Notte più propizia al mio disegno non si sarebbe potuta scegliere tra mille. La nebbia aveva ormai invaso tutto il cielo. Quando le ultime luci del giorno diminuirono fino a scomparire del tutto, un’assoluta oscurità avvolse l’Isola del Tesoro. E quando infine mi caricai sulle spalle la piroga, e, districatomi a fatica dalla buca dove avevo mangiato, presi a tastoni la strada, non vi erano in tutto l’ancoraggio che due soli punti visibili.

Uno era il gran fuoco acceso sulla riva, intorno al quale gli sconfitti pirati stavano gozzovigliando. L’altro, uno scialbo luccichio nelle tenebre, indicava il punto dove la goletta era ancorata. Il riflusso l’aveva fatta girare; ora mi presentava la prua; e poiché i soli lumi a bordo erano nella cabina, ciò che io vedevo non era che il riverbero dentro la nebbia dei vivi raggi che scaturivano dalla finestra di poppa.

La marea calava già da qualche tempo, e mi toccò attraversare un lungo banco di sabbia pantanosa, affondandovi più volte fin sopra il collo del piede, prima di raggiungere il limite del mare. Mi addentrai un po’, e, con un po’ di forza e destrezza, deposi sulla superficie, a chiglia in giù, la piroga.

 

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Capitolo 23

La marea discende

 

La piroga, com’ebbi modo di constatare prima di lasciarla, era un’imbarcazione molto sicura per una persona della mia statura e peso, leggera e adatta a tenere il mare: ma, così stramba e sbilenca, era pure il più difficile scafo da governare. In qualunque maniera la si prendesse, andava sempre alla deriva, e la miglior manovra che sapesse fare era girare in tondo. Lo stesso Ben Gunn aveva ammesso che era "dura da maneggiare finché non si conoscevano i suoi modi".

Io certamente non conoscevo i suoi modi. Si girava verso tutte le direzioni fuorché verso quella quella dove mi premeva andare: la maggior parte del tempo avanzavamo di traverso, e se non fosse stato per il rincalzo della marea, sono sicurissimo che non avrei mai abbordato la nave. Per fortuna, mentre pagaiavo alla meglio, la marea seguitava a sospingermi avanti, e l’"Hispaniola" stava giusto sulla mia rotta, difficilmente mi sarebbe sfuggita.

Da principio mi si parò davanti come una macchia di qualcosa più nero ancora delle tenebre, poi alberi e scafo presero forma, e subito dopo, siccome più avanzavo e più la corrente della marea rinforzava, mi trovai vicino alla gòmena, e l’afferrai.

La gòmena era tesa come la corda di un arco, tanto la nave tirava su l’àncora. Tutt’intorno allo scafo, nel buio, la maretta della corrente sobbolliva e gorgogliava come un piccolo torrente montano. Un colpo del mio coltellaccio, e l’"Hispaniola" se ne sarebbe andata mormorando con la marea. Graziosissima prospettiva.

Ma mi ricordai in tempo che il taglio improvviso d’una gòmena tesa è non meno pericoloso di un cavallo che spara calci. Fossi stato così temerario da tagliare il cavo che legava l’"Hispaniola" all’àncora, c’erano dieci probabilità contro una che io e la piroga insieme saremmo stati sbalzati in aria.

Questa riflessione mi trattenne; e se il caso non mi avesse favorito in modo speciale, avrei dovuto abbandonare il mio disegno. Ma la leggera brezza che aveva cominciato a soffiare da sud-est e sud, si era, col cadere della notte, girata verso sud- ovest. Mentre appunto stavo meditando, arrivò una folata, investì l’"Hispaniola", e la sospinse contro corrente; e, con mia grande gioia, sentii la gòmena allentarsi nel mio pugno, e la mano con la quale la tenevo tuffarsi per un secondo nell’acqua.

Ciò mi decise; tirai fuori il coltellaccio, l’aprii coi denti, e tagliai i cordoni del cavo finché non me ne rimasero che due o tre a trattenere il bastimento. Dopo di che rimasi tranquillo, aspettando di tagliare gli ultimi quando la loro tensione fosse un’altra volta diminuita in seguito a un soffio di vento.

Durante tutto questo tempo un brusìo dalla cabina era giunto al mio orecchio; ma, a dire il vero, la mia mente era talmente presa da altro, che non vi avevo troppo fatto caso. Adesso però, che non avevo più niente da fare, cominciai a prestarvi maggiore attenzione.

Riconobbi una voce come quella del quartiermastro Israel Hands, già cannoniere di Flint; l’altra era naturalmente la voce dell’amico mio dal berretto rosso. Tutti e due erano ubriachi fradici, eppure trincavano ancora, poiché, mentre io tendevo l’orecchio, uno di essi con un’imprecazione aprì la finestra di poppa e buttò via qualche cosa che indovinai essere una bottiglia vuota. Ma essi non erano solo brilli; si capiva che erano anche furiosamente arrabbiati. Le bestemmie volavano come grandine, e di tanto in tanto culminavano in una tale esplosione che pareva non potesse finire se non in una zuffa. Ma ogni volta la contesa si placava e il tono delle voci si abbassava, finché un’altra crisi non sopraggiungeva per passare allo stesso modo, senza alcun risultato.

A terra io potevo vedere il chiarore del grande fuoco dell’accampamento che bruciava tra gli alberi della riva. Qualcuno andava cantando una vecchia triste e uggiosa canzone marinaresca, con un languido tremolare alla fine di ogni strofa, che pareva non dovesse aver termine se non con la pazienza del cantore. Più d’una volta durante il viaggio io l’avevo sentita, e ricordavo queste parole:

Un solo della ciurma restò in vita Che numerosa era sul mare uscita.

E pensai che era un ritornello troppo lugubremente appropriato a una brigata che il mattino aveva incontrato così crudeli perdite.

Ma, in verità, a quanto vedevo, tutti questi scellerati erano altrettanto insensibili quanto il mare su cui navigavano.

Finalmente la brezza arrivò; la goletta si spostò nell’oscurità, e mi si portò più vicina; io sentii la gòmena mollare un’altra volta, e con un rude sforzo troncai le ultime fibre.

La brezza non ebbe che una debole azione sulla mia piroga, ed io fui quasi istantaneamente proiettato contro la prua dell’"Hispaniola". Nello stesso tempo la goletta prese lentamente a girare sul suo calcagnòlo in mezzo alla corrente.

Io mi agitavo come un demonio aspettandomi di dover affogare da un momento all’altro, e quando mi fui accorto che non mi era possibile distaccare con un colpo la piroga, mi portai dritto verso poppa. Finalmente libero da quella pericolosa vicinanza, e giusto mentre stavo dando l’ultima spinta, le mie mani si scontrarono con una funicella che penzolava fuori bordo dal cassero di poppa. Immediatamente l’afferrai.

Perché avessi fatto ciò, non saprei dire. Fu dapprima un atto istintivo: ma non appena ebbi in pugno la corda e la sentii salda, la curiosità prese il sopravvento, e decisi di gettare un’occhiata dalla finestra della cabina.

A forza di braccia tirai a me la corda, e quando mi ritenni abbastanza vicino, mi alzai con mio grande rischio quasi in piedi sulla piroga, e potei scoprire il soffitto e parte dell’interno della cabina.

Intanto la goletta e la sua piccola seguace scivolavano velocemente sull’acqua: difatti eravamo già arrivati all’altezza del fuoco dell’accampamento. Il bastimento chiacchierava, come dicono i marinai, abbastanza forte, rompendo con un incessante sobbollimento di spuma le innumerevoli increspature del mare; e finché io non gettai l’occhio al disopra del davanzale della finestra, non potei comprendere come mai i guardiani non avessero dato l’allarme. Uno sguardo peraltro fu sufficiente; e fu il solo che osai lanciare da quell’instabile scafo. Esso mi mostrò Hands e il suo compagno stretti in una lotta mortale, ognuno con la mano sulla gola dell’altro.

Io mi lasciai ricadere sul banco e giusto in tempo, perché ero quasi fuori bordo. Per un momento non vidi altro che quelle due facce scarlatte di furore, ondeggianti sotto la lampada fumosa; e chiusi le palpebre per dare modo ai miei occhi di riabituarsi alle tenebre.

L’eterna canzone si era infine zittita, e intorno al fuoco dell’accampamento la decimata banda aveva intonato il coro che così spesso io avevo udito:

"Quindici sulla cassa del morto, Yò, hò-hò, e una bottiglia di rum!

Satana agli altri non ha fatto torto, Con la bevanda li ha spediti in porto.

Yo, hò-hò, e una bottiglia di rum!" Io stavo pensando all’opera che in quel preciso momento bevanda e diavolo compivano nella cabina dell’"Hispaniola", quando fui sorpreso da un improvviso rullìo della piroga. Nel medesimo istante essa si torse violentemente e sembrò cambiare rotta. La sua velocità era intanto stranamente aumentata.

Spalancai gli occhi. Tutt’intorno a me ila mare bolliva con piccole irte creste ronzanti e fosforescenti. La stessa "Hispaniola" nel cui solco, a distanza di pochi metri, io fuggivo aggirato, pareva esitare sulla direzione da prendere, ed io vidi i suoi alberi tentennare contro l’oscurità della notte; poi, guardando meglio, mi accertai che anch’essa virava verso il sud.

Gettai un’occhiata obliqua al disopra delle mie spalle, e il mio cuore sussultò. Là, proprio dietro a me, c’era il chiarore del fuoco dell’accampamento. La corrente si era piegata ad angolo retto, trascinando con sé l’alta mole della goletta; e la minuscola saltellante piroga, sempre accelerando la sua corsa e con più acuto stridere e borbottare di acqua, filava per lo stretto verso il mare aperto.

D’improvviso la nave virò violentemente, deviando di forse una ventina di gradi. Quasi nello stesso momento due urli si susseguirono a bordo, ed io sentii un calpestìo di passi su per la scala del corridoio, e compresi che i due beoni erano infine stati interrotti nella loro contesa e richiamati al senso dell’imminente disastro.

Io mi coricai supino nel fondo di quel disgraziato scafo e devotamente raccomandai la mia anima al Creatore. Ero sicuro che all’uscita dallo stretto saremmo andati a sbattere contro i furiosi frangenti di qualche scogliera dove tutti i miei affanni avrebbero trovato immediata fine; e sebbene fossi abbastanza forte da sopportare la morte, mal sopportavo la visione dell’avvicinarsi del mio destino.

Credo di aver continuato a rimanere in tale stato per ore, continuamente sbalzato qua e là dai marosi e inzuppato dai loro spruzzi; e sempre aspettando, a un prossimo tuffo, la morte. A poco a poco la stanchezza mi vinse; un torpore, un passeggero stupore occuparono, pure in mezzo ai miei terrori, il mio spirito; finché il sonno mi prese, ed io, giacendo nella mia piroga sballottata dai flutti, sognai la mia casa e il mio vecchio "Ammiraglio Benbow".

 

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Capitolo 24

La crociera della piroga

 

Era pieno giorno quando mi svegliai e mi trovai a navigare all’estremità sud-ovest dell’Isola del Tesoro. Il sole era già alto, ma nascosto alla mia vista dalla mole del Cannocchiale che da questo lato discendeva fino quasi al mare in paurosi dirupi.

La punta Issa la Bolina e il monte dell’Albero di Mezzana erano vicini; il monte, nudo e fosco; la punta, turrita di rupi alte quaranta o cinquanta piedi e contornate in basso da grossi blocchi di roccia franata. Ero appena un quarto di miglio al largo e il mio primo pensiero fu di pagaiare verso la costa e approdare.

Questo progetto fu presto abbandonato. Tra i massi rovinati la risacca tempestava urlando; clamorosi rimbombi, torrenti di spume lanciati in alto e che ricadevano pesantemente, si susseguivano di attimo in attimo, ed io mi vidi - se avessi osato avventurarmi più da vicino - sfracellato contro la selvaggia riva o condannato ad esaurirmi nel vano tentativo di scalare le rocce a strapiombo.

Né questo era tutto, perché dei mostri melmosi mi apparvero, simili a lumaconi di straordinaria grandezza, che a branchi di due o tre dozzine strisciavano sulla piatta superficie dei macigni, o si lasciavano con grande strepito ricadere in mare sollevando coi loro latrati gli echi delle insenature.

Seppi in seguito che erano dei leoni marini assolutamente innocui.

Ma il loro aspetto, aggiunto alla difficoltà della spiaggia e alla furia dei cavalloni, fu più che sufficiente a disgustarmi di quell’approdo. In verità, preferivo morire di fame in mare, piuttosto che affrontare simili pericoli.

Frattanto mi si offriva, o mi così mi sembrò, una soluzione migliore. A nord del Capo Issa la Bolina la costa corre per un buon tratto lasciando, con la bassa marea, scoperta una lunga striscia di sabbia gialla. Oltre quel capo, ancora a nord, ne spunta un altro, il Capo dei Boschi, com’era segnato sulla carta, rivestito di secolari pini verdi che discendevano fino a sfiorare il mare.

Ricordavo di aver sentito da Silver che lungo tutta la costa occidentale dell’Isola del Tesoro la corrente va verso nord, e rilevando dalla mia posizione che io ero già sotto la sua influenza, pensai che era meglio lasciarmi dietro il Capo Issa la Bolina e riservare le mie forze per un tentativo di approdo al più attraente Capo dei Boschi.

Nel mare c’erano onde grandi e lisce. Un vento piacevole e costante soffiava da sud, e non essendovi contrasti fra esso e la corrente, i marosi si alzavano e ricadevano senza frangersi.

Fosse stato diversamente, io sarei morto da un pezzo: ma in quelle condizioni era stupefacente la facilità e la sicurezza con cui la mia piccola e leggera imbarcazione navigava. Spesso, stando ancora coricato sul fondo della piroga senza alzare più di un occhio al disopra del bordo, vedevo pendere su me minacciosa una grossa cresta azzurra; ma la piroga non faceva che sobbalzare un po’, danzare come in cima a delle molle, e calarsi dall’altra lato dell’onda come in un nido con la disinvoltura di un uccello.

Presi presto coraggio, e mi misi a sedere per provare la mia bravura a pagaiare. Ma basta un minimo cambiamento nella disposizione del peso a provocare una alterazione nel comportamento di una piroga. Ed io mi ero appena mosso, che il canotto, interrompendo di colpo la sua danzante andatura, precipitò lungo un così rapido pendio d’acqua che mi dette le vertigini, e con una nuvola di schiuma affondò il naso nel fianco dell’ondata successiva.

Inzuppato e atterrito mi lasciai immediatamente ricadere nella primitiva posizione, al che la piroga sembrò tornare in sé, e riprese a portarmi tra i marosi con la delicatezza di prima. Era chiaro che non bisognava contrariarla; ma di questo passo, non avendo io modo di influire sulla sua rotta, come potevo sperare di prender terra?

Mi prese una tremenda paura, e tuttavia non perdetti la testa.

Innanzitutto, muovendomi con grande precauzione, aggottai col mio berretto marino l’acqua dalla piroga; e poi, allungando ancora una volta lo sguardo al disopra del bordo, presi a studiare come faceva a scivolare così dolcemente fra i cavalloni.

Mi accorsi che ogni cavallone, anziché la voluminosa uguale e liscia eminenza che sembra dalla riva o dal ponte d’una nave, era del tutto simile a una catena di montagne terrestri, ricca di picchi, di altipiani e di valli. La piroga, abbandonata a se stessa, piegandosi ora sull’uno ora sull’altro fianco, s’infilava per così dire nei punti più bassi, evitando i ripidi declivi e le più alte ed irte creste.

"Ebbene" dissi a me stesso "è chiaro che mi conviene rimanere dove sono e non turbare l’equilibrio, ma è anche chiaro che posso passare la pagaia al disopra del bordo, e di tanto in tanto, nelle zone piane, dare un colpo o due verso terra." Detto fatto. Mi alzai sui gomiti, e stando in questa disagiatissima posizione davo a intervalli qualche debole colpo per far volgere la prua verso la costa.

Era una lenta e spossante fatica. Tuttavia guadagnavo terreno, e avvicinandomi al Capo dei Boschi, per quanto lo vedessi irremissibilmente perduto, constatai che avevo fatto qualche centinaio di metri ad est. In realtà, ero assai vicino a terra.

Vedevo le fresche verdi cime degli alberi oscillare alla brezza, e ero sicuro di approdare al prossimo promontorio.

Era davvero tempo, poiché la sete cominciava a torturarmi. Le vampe del sole spioventi dall’alto, le miriadi di riflessi lanciati dalle onde, gli spruzzi marini che mi cadevano addosso e si seccavano incrostando le mie labbra di sale, si alleavano per bruciare la mia gola e indolenzirmi la testa. La vista degli alberi così vicini mi consumava di smania: ma presto la corrente mi trascinò oltre il promontorio, e quando la nuova distesa di mare mi si aprì alla vista, io scorsi qualcosa che cambiò il cammino dei miei pensieri.

Davanti a me, a distanza di neppure un miglio, scorsi l’"Hispaniola" alla vela. Ebbi naturalmente la certezza che sarei stato preso; ma ero talmente afflitto dalla mancanza d’acqua, che non sapevo io stesso se rallegrarmi o dolermi di quella prospettiva; e assai prima di giungere a una conclusione, la sorpresa si era al tutto impadronita di me, e non potei fare altro che sbarrare gli occhi e stupire.

L’"Hispaniola" era sotto la vela di trinchetto e due fiocchi, e la bella candida tela splendeva al sole come neve o argento. Nel primo istante che la vidi, tutte le sue vele portavano, ed essa faceva rotta per nord-ovest, cosicché io presumevo che i suoi marinai aggirassero l’isola per ritornare all’ancoraggio. Ora, invece, appoggiava sempre più verso ovest, cosicché credetti che mi avessero scoperto e mi dessero la caccia. Ma finalmente entrò in pieno vento, fu respinta indietro, e restò là un momento inerte, con le vele che sbattevano.

"Che balordi!" dissi tra me "devono essere pieni come otri." E pensai a come il capitano Smollett li avrebbe fatti ballare.

Frattanto la goletta a poco a poco andava alla banda e iniziava un’altra bordata navigando velocemente un minuto o due, per rimanere di nuovo in panne. Questo si ripeté varie volte. Di qua, di là, di su, di giù; a nord, a sud, a est, a ovest:

l’"Hispaniola" navigava a colpi impetuosi, e ogni ripetizione si concludeva come era cominciata, con un vano sbattere di vele. Mi persuasi che nessuno la governava. Ma, e gli uomini? O erano ubriachi fradici, o avevano disertato, pensavo; e forse, potendo io salire a bordo, riuscirei a restituire la nave al capitano.

La corrente sospingeva piroga e goletta a sud a una stessa velocità. Ma la navigazione di quest’ultima era così insensata e incoerente, e il bastimento indugiava così tanto a virare, che sicuramente non guadagnava nulla, seppure addirittura non perdeva.

Bastava soltanto che osassi alzarmi a pagaiare, e l’avrei sicuramente raggiunta. Il progetto aveva un’aria di avventura che mi tentava, e il pensiero della cassa d’acqua accanto al cassero di prua raddoppiava il mio rinascente coraggio.

Alzatomi, fui quasi subito accolto da un’altra nuvola di sbruffi, ma stavolta tenni duro nel mio proposito, e mi misi con tutta forza e cautela a pagaiare dietro la malgovernata "Hispaniola".

Ad un certo punto imbarcai un tale colpo di mare che dovetti fermarmi e aggottare, col cuore palpitante come un uccello; ma a poco a poco imparai la manovra e guidai la piroga tra i flutti senz’altro fastidio che, di tanto in tanto, un urto nella prua e uno schizzo di schiuma sulla mia faccia.

Ora guadagnavo rapidamente sulla goletta; potevo vedere il rame luccicante sulla barra del timone quando si piegava da un lato; e tuttavia non un’anima appariva sul ponte. Indubbiamente l’"Hispaniola" era abbandonata. Oppure gli uomini, cotti dal rum, giacevano sotto, dove io avrei potuto chiuderli, forse, e disporre della nave a mio piacimento.

Da qualche momento essa si stava comportando nella peggior maniera possibile per me. Teneva la prua quasi a sud, continuando, naturalmente, a zigzagare. Ogni volta che andava alla banda, le sue vele si gonfiavano parzialmente, e non tardavano di nuovo a drizzarla contro il vento. Ho detto che ciò era il peggio per me; infatti, deserta come sembrava, con le vele che sbattevano fragorose come cannoni, i bozzelli che ruzzolavano sul ponte e lo tempestavano di colpi, essa continuava ad allontanarsi da me, aggiungendo alla velocità della corrente quella non piccola della sua deriva.

Ma finalmente la fortuna mi aiutò. Per alcuni secondi la brezza cadde fino a diventare un soffio, e sotto l’azione della corrente l’"Hispaniola" piano piano girò sul proprio asse, presentandomi da ultimo la poppa con la finestra della cabina spalancata e sul tavolo la lampada ancora accesa in pieno giorno. La vela di trinchetto pendeva floscia come una bandiera. Salvo la corrente, la nave era immobile.

Durante gli ultimi istanti ero di nuovo rimasto indietro; ma ora, moltiplicando i miei sforzi, raggiungevo un’altra volta la mia preda.

Non distavo da lei più di cento metri, quando tornò il vento con una brusca folata; l’"Hispaniola" ripartì, mura a babordo, e di nuovo si allontanò, inclinata sul fianco, sfiorando l’acqua come una rondine.

Il mio primo moto fu di disperazione, ma il secondo fu di gioia.

La goletta virò fino a mostrarmi il fianco, e poi ancora fino a coprire una metà e poi due terzi e poi tre quarti dello spazio che ci divideva. Vedevo i marosi bollire bianchi di spuma sotto la sua prua. Mi sembrava smisuratamente alta, guardata dall’umiltà della mia piroga.

D’improvviso compresi. Non ebbi tempo né di riflettere ne di agire per salvarmi. Ero sulla cima di un’onda quando la goletta arrivò con impeto sulla successiva. Il bompresso era sulla mia testa.

Scattai in piedi, e mi slanciai, respingendo con un calcio la piroga sott’acqua. Con una mano mi aggrappai al bastone di fiocco, mentre il mio piede si collocava fra lo straglio e il braccio; e stando io così agganciato e tutto ansimante, un sordo colpo m’avvertì che la goletta aveva investito e fracassato la piroga, e che io mi trovavo senza possibilità di scampo prigioniero dell’"Hispaniola".

 

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Capitolo 25

Ammaino il Jolly Roger

 

Mi ero appena installato sul bompresso, che il flocco volante si riscosse e si riempì di vento cambiando murata, col rumore di una schioppettata. Sotto l’urto la goletta tremò fino alla chiglia, ma di lì a poco, continuando le altre vele a portare, il fiocco tornò a svolazzare, e poi ricadde ozioso.

Poco mancò che lo scossone non mi gettasse in mare. Senza perdere tempo strisciai lungo il bompresso e piombai, testa in avanti, sul ponte.

Ero sottovento al cassero di prua, e la randa maestra, che portava sempre, mi nascondeva una parte della coperta di poppa. Non si vedeva anima viva. Il tavolato, non più scopato dopo la rivolta, portava l’impronta di molte pedate; e una bottiglia vuota, col collo rotto, rotolava di qua e di là per gli ombrinali come una cosa viva.

D’improvviso l’"Hispaniola" prese il vento in pieno. I fiocchi alle mie spalle strepitarono forte, la barra del timone si abbatté, l’intera nave ebbe un doloroso sussulto; nello stesso istante la verga di randa rientrò dentro il bordo, e la vela, stridendo nei bozzelli, mi permise di vedere la parte della coperta di poppa.

Le due guardie erano là: Berretto Rosso supino, rigido come una stanga, con le braccia spalancate come quelle d’un crocifisso, le labbra semichiuse che scoprivano i denti; Israel Hands appoggiato contro il bastingaggio, il mento sul petto, le palme delle mani aperte davanti a sé, e la faccia, sotto la tinta bronzea, scialba come una candela di sego.

Per un momento la nave si contorse andando storta come un cavallo vizioso, mentre le vele prendevano il vento ora da un bordo ora dall’altro, e la verga di randa, balzando di qua e di là, faceva, sotto lo sforzo, lamentare l’albero. Di tanto in tanto una nuvola di spruzzi saltava al disopra del bastingaggio e la prua cozzava violentemente contro un maroso; il grande e bene attrezzato veliero navigava assai peggio della rustica e bistorta piroga ormai seppellita in fondo al mare.

A ogni sobbalzo della goletta Berretto Rosso scivolava da una banda all’altra: ma, cosa oscena a vedere, né il suo atteggiamento, né la smorfia che gli metteva in luce i denti, erano modificati da questi bruschi spostamenti. A ogni sobbalzo pure Hands lo si vedeva ripiegarsi su se stesso e abbioccarsi sulla coperta come un sacco vuoto; i suoi piedi sdrucciolavano sempre più lontani, e tutto il corpo s’inclinava verso poppa, cosicché il suo viso a poco a poco mi fu nascosto, e alla fine non emerse più che un orecchio e la punta di un baffo.

In quell’istante mi accorsi di macchie di sangue annerito sul tavolato intorno a loro, il che mi fece pensare che nel furore dell’ubriachezza i due si fossero massacrati.

Stavo così guardando e meravigliandomi, quando, in un momento di calma in cui il bastimento smise di rullare, Israel Hands si girò a metà verso di me, e torcendosi con un fioco gemito riprese la posa nella quale lo avevo trovato prima. Quel gemito che tradiva una pena e una debolezza mortali, e il modo come quella mascella aperta pendeva, mi andarono diritti al cuore. Ma ricordandomi il discorso che avevo sentito dal barile di mele, ogni pietà venne meno.

Avanzai verso poppa fino all’albero di maestra.

"Venite a bordo, signor Hands" dissi ironicamente.

Egli girò a fatica i suoi occhi: ma era troppo abbrutito per esprimere sorpresa. Tutto quanto poté fare fu di dire una parola:

"Acquavite." Io riflettei che non c’era tempo da perdere, e spostando la verga di randa che di nuovo dondolava di traverso alla coperta, scappai a poppa e per la scala del cassero discesi nella cabina.

Era una scena di disordine difficilmente immaginabile. Tutti i cassetti chiusi a chiave erano stati scassinati per cercare la carta. Sul pavimento, due dita di mota, dove i banditi s’erano sdraiati a cioncare e consultarsi dopo essersi impantanati nello stagno che contornava il loro campo. Le paratie, tutte dipinte in bianco-argento e fregiate di dorature tutt’intorno, avevano impronte di mani sporche. Dozzine di bottiglie vuote tintinnavano insieme, urtandosi negli angoli al rullìo della nave. Uno dei libri di medicina del dottore stava aperto sulla tavola con metà delle pagine strappate, probabilmente per accendere la pipa. In mezzo a tutto ciò la lucerna diffondeva ancora una luce fumosa e rossastra, come terra d’ombra.

Passai nella cantina. Le botti erano sparite e la maggior parte delle bottiglie erano state bevute e buttate via. Dall’inizio dell’ammutinamento nessun di loro certamente aveva smesso di bere e di ubriacarsi.

Rovistando qua e là trovai una bottiglia con un resto d’acquavite per Hands; e per me afferrai alcuni biscotti, un po’ di frutta in conserva, un grosso grappolo d’uva, e un pezzo di formaggio. Con questa roba risalii in coperta; deposi la mia provvista dietro la testa del timone, e tenendomi a doverosa distanza dal quartiermastro, raggiunsi a prua la cassa d’acqua, dove con una buona interminabile sorsata spensi la mia sete; e allora, ma solamente allora, porsi a Hands l’acquavite.

Credo ne bevesse un quarto di litro prima di decidersi a staccar la bottiglia dal muso.

"Ah" disse "un po’ di questa ci voleva, per mille diavoli!" Io, seduto nel mio angoletto, avevo già cominciato a mangiare.

"Molto ferito?" gli chiesi.

Egli grugnì, o piuttosto latrò:

"Se quel dottore fosse a bordo, un paio di volte che mi visitasse mi rimetterebbe in piedi, ma non ho fortuna io, vedi, ed è questo che mi secca. Quanto a quella ramazza, è bell’e andata" aggiunse indicando l’uomo dal berretto rosso. "Non è mai stato un marinaio, del resto. Ma da dove sei saltato fuori, tu?" "Sono venuto a bordo per prendere possesso di questa nave, signor Hands; e fino a nuovo ordine siete pregato di considerarmi come vostro capitano." Mi guardò stizzito, ma non articolò sillaba. Sulle sue guance era tornato un po’ di colore, benché apparisse ancora molto sfinito e continuasse a scivolare e ricadere a secondo delle scosse del bastimento.

"A proposito" continuai io "non posso battere questa bandiera, signor Hands, e con vostra licenza l’abbasserò. Meglio nessuna che questa." E, spostando un’altra volta la verga di randa, corsi alla drizza della bandiera, ammainai quella maledetta insegna, e la scagliai in mare.

"Dio salvi il Re!" esclamai agitando il mio berretto. "E’ finita col capitano Silver!" Egli mi osservava acuto e furtivo senza levare il mento dal petto.

"Io suppongo" disse infine "io suppongo, capitano Hawkins, che tu avrai voglia di approdare, ora. Vogliamo discutere?" "Ma sì, con tutto il cuore, signor Hands. Dite pure." E mi rimisi a mangiare di buon appetito.

"Quest’uomo" cominciò egli con un debole cenno del capo verso il cadavere, O’Brien si chiamava, un bestione d’irlandese, quest’uomo ed io avevamo messo alla vela con l’intenzione di ricondurre il bastimento all’ancoraggio. Ebbene, adesso lui è morto, morto come la sentina, e io non vedo chi sarà capace di manovrare questo bastimento, non vedo. Se non ti do qualche consiglio non te la cavi, questo è quanto io posso dire. Ora, ascoltami: tu mi darai da bere e da mangiare, e una vecchia sciarpa per fasciarmi la ferita, mi darai; e io ti dirò come manovrare. Mi sembra che la proposta quadri, no?" "Dovete sapere una cosa" dissi io "ed è che io non intendo ritornare all’ancoraggio del capitano Kidd. Io conto di andare nella baia del Nord e arenarmi là tranquillamente." "Me l’aspettavo" gridò lui. "E dunque tu vedi che non sono poi un così perfetto idiota, dopo tutto. Le cose le conosco anch’io, no?

Ho tentato il mio colpo, ho tentato; e ho perduto, e sei tu adesso che hai il sopravvento su me. La baia del Nord? E sia. Non ho possibilità di scelta, io. Vorrei piuttosto aiutarti a portarci alla Riva delle Forche, questo sì, per Satanasso!" La proposta mi parve abbastanza sensata. Concludemmo senz’altro il patto. Tre minuti dopo, l’"Hispaniola" filava spedita col vento in poppa lungo la costa dell’Isola del Tesoro, con buona speranza di doppiare prima di mezzogiorno l’estrema punta settentrionale ed entrare nella baia prima dell’alta marea, per poter arenare in salvo e aspettare che la bassa marea ci permettesse di sbarcare.

Legai allora la barra del timone e scesi dabbasso a prendere nel mio baule uno dei fazzoletti di seta fina, regalo di mia madre.

Col quale, e col mio aiuto, Hands poté bendare la larga sanguinante ferita della pugnalata ricevuta sulla coscia; e dopo che ebbe mangiato e tracannato ancora uno o due sorsi di acquavite, cominciò a visibilmente a risollevarsi, si tenne meglio dritto, parlò più forte e più chiaro, e sembrò completamente un altro uomo.

La brezza ci favoriva magnificamente. Procedevamo davanti a lei con la leggerezza di un uccello. La costa fuggiva come il lampo, e la scena cambiava ogni momento. Presto oltrepassammo i luoghi montuosi, volammo lungo una regione piatta e sabbiosa sporadicamente picchiettata di pini nani, e superata anche quella girammo lo sprone della collina rocciosa che chiude l’isola a nord.

Io ero molto fiero del mio nuovo posto di comando, e mi godevo il tempo chiaro e luminoso, e i vari aspetti della costa. Possedevo acqua in abbondanza, e buone cose da mangiare, e la mia coscienza, che già mi aveva duramente rimorso per la mia diserzione, si acquietava ora nella grande conquista che ero riuscito a fare.

Nulla mi sarebbe più rimasto da desiderare se non ci fossero stati gli occhi del quartiermastro che mi seguivano beffardi per tutto il ponte, ed il sinistro sorriso che di continuo affiorava sulle sue labbra. Era un sorriso fatto di sofferenza e debolezza insieme, un sorriso di vecchio disfatto: ma c’era pure, oltre a ciò, una punta di scherno, un’ombra di perfidia, nella sua espressione, mentre egli scaltramente mi spiava e spiava e spiava seguendo il mio lavoro.

 

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Capitolo 26

Israel Hands

 

Il vento favoriva il nostro desiderio soffiando verso ponente, cosicché potevamo correre dalla punta nord-est dell’isola alla bocca della baia del Nord molto più agevolmente. Non avendo però la possibilità di ancorarci, e non osando arenare prima che la marea fosse salita un bel po’, avevamo del tempo d’avanzo. Il quartiermastro mi disse in quale modo mettere il bastimento in panna; vi riuscii dopo molti tentativi, e in silenzio ci sedemmo per fare un altro pasto.

"Capitano" disse infine con lo stesso inquietante sorriso "ecco qui il mio vecchio camerata O’Brien. Io penso che tu vorrai bene gettarlo in mare. Io, in genere, non sono troppo delicato, e non mi faccio nessuna colpa per averlo conciato così; ma, non lo trovo decorativo, ti pare?" "Io non mi sento forte abbastanza" risposi "e non è una faccenda che mi piaccia. Per me, può restare dov’è." "E’ un bastimento che porta disgrazia questa ’Hispaniola’, Jim" continuò lui ammiccando. "Un mucchio di uomini sono stati uccisi su questa ’Hispaniola’: una fila di poveri marinai morti e seppelliti da quando tu ed io ci imbarcammo a Bristol. Mai ho visto una così maledetta sorte, io, mai. Questo O’ Brien era pure dei nostri, e ora è morto, no? Ebbene, senti, io non sono istruito, mentre tu sei un ragazzo capace di leggere e scrivere; per parlar chiaro, credi tu che un uomo morto sia morto per davvero, o torni a vivere di nuovo?" "Voi potete uccidere il corpo, signor Hands, ma non lo spirito, dovreste pur saperlo. O’ Brien è passato in un altro mondo, e forse in questo momento ci spia." "Ah" disse lui "questo è spiacevole: vuol dire che ammazzare la gente non è che un perder tempo. Comunque sia, gli spiriti non contano molto, a quanto ho visto.

Mi ci voglio misurare, io, con gli spiriti, Jim. E ora, che hai parlato liberamente, mi useresti una vera cortesia se volessi scendere giù in cabina a prendermi una... ma sì, una... corpo di Satanasso! non riesco a tirar fuori il nome; ah, ecco, una bottiglia di vino, Jim; quest’acquavite è troppo forte per la mia testa." L’esitazione del quartiermastro non mi parve naturale, e quanto al suo preferire il vino all’acquavite, non gli credetti affatto.

L’intera storia non era che un pretesto. Egli voleva allontanarmi dal ponte, questo era evidente: ma, a quale scopo, non riuscivo a immaginare. I suoi occhi evitavano di incontrarsi coi miei: essi vagavano senza posa da un punto all’altro; e ora si volgevano al cielo, ora con un rapido sguardo al cadavere di O’ Brien. Egli non smetteva di sorridere e di tirar fuori la lingua con un’aria così colpevole e imbarazzata che persino un ragazzo avrebbe detto che stava macchinando qualche tradimento. Io peraltro non esitai a rispondere, perché ero conscio della mia superiorità su di lui, e convinto che con un essere così supinamente stupido, avrei potuto facilmente tener nascosti i miei sospetti fino alla fine.

"Del vino?" dissi. "Perfettamente. Bianco o rosso?" "Bah! Ti confesso che per me è quasi la stessa cosa. Purché sia forte e abbondante, che differenza c’è?" "Benissimo" risposi. "Vi darò del Porto, signor Hands. Ma mi toccherà faticare, per trovarlo." Dopo di che mi infilai nel portello con tutto il fracasso possibile; mi levai le scarpe, percorsi piano piano il corridoio, e salito per la scala di prua, misi fuori la testa da quel boccaporto. Io sapevo che lui non si sarebbe aspettato di vedermi là, tuttavia non trascurai nessuna precauzione, ed effettivamente i miei peggiori sospetti risultarono giustificati.

Egli si era alzato sulle mani e sulle ginocchia, e sebbene la gamba gli facesse un gran male mentre si muoveva - lo sentii infatti soffocare un gemito - riuscì tuttavia a attraversare abbastanza rapidamente il ponte. In mezzo minuto raggiunse gli ombrinali di babordo, e tirato fuori da un rotolo di cordame un lungo coltello, o meglio un corto pugnale macchiato di sangue fino all’impugnatura, lo esaminò un istante con una truce smorfia, ne provò la punta sulla mano, poi, nascostolo in fretta sotto il camiciotto, raggiunse precipitosamente il suo posto di prima contro il bastingaggio.

Avevo visto abbastanza. Israel poteva muoversi, era armato adesso; e la gran pena che si era data per liberarsi della mia presenza diceva chiaro che ero io la vittima designata. Che cosa avrebbe fatto poi? Si sarebbe sforzato per attraversare l’isola trascinandosi dalla baia del Nord al campo della palude? O avrebbe sparato un colpo di cannone con la speranza di far accorrere i compagni in suo aiuto? Qui, naturalmente, ero al buio.

Sentivo però di potermi fidar di lui riguardo a un punto di comune interesse; ed era la sorte della goletta. Tutti e due tenevamo a portarla ad arenare in salvo; in un luogo riparato, di modo che, a tempo opportuno con poco rischio e disagio, la si potesse condurre fuori di là: finché ciò non fosse avvenuto, la mia vita, pensavo, sarebbe stata sicuramente risparmiata.

Mentre la mia mente girava intorno a queste cose, il mio fisico non era rimasto inoperoso. Di furia ero ritornato nella cabina, mi ero rimesso le scarpe, avevo arraffato a caso una bottiglia di vino; e, con questa in mano a giustificazione del ritardo, ero riapparso in coperta.

Hands giaceva come l’avevo lasciato, ripiegato su di sé, e raggomitolato, le palpebre abbassate come fosse troppo debole per sopportare la luce. Al mio sopraggiungere dette peraltro una sbirciata in su, ruppe il collo della bottiglia con la disinvoltura d’uno abituato a quel gesto, e tracannò un lungo sorso accompagnandovi il suo brindisi favorito: "Alla nostra buona fortuna!". Rimase un momento quieto, e poi, tirato fuori un rotolo di tabacco, mi pregò di tagliargli una cicca.

"Tagliami un pezzetto di questo," disse "non ho il coltello, io, e se anche lo avessi mi mancherebbe la forza. Ah, Jim, Jim, riconosco che ho sbagliato manovra! Tagliami un pezzetto, che sarà forse l’ultimo, ragazzo; perché io sto incamminandomi verso quella lontana dimora, e non c’è dubbio!" "Sta bene, vi taglierò un po’ di tabacco; ma se fossi in voi e mi sentissi così male, io direi le mie orazioni da buon cristiano." "O perché?" fece lui. "Su, dimmi un po’ perché." "Perché?" gridai. "Non stavate poco fa interrogandomi a proposito del morto? Voi avete mancato alla parola data, siete vissuto in peccato menzogna e sangue; c’è qui un uomo che avete ucciso e vi giace ai piedi in questo momento, e voi mi domandate perché! Per l’amor di Dio, mastro Hands, ma è questo il perché!" Parlavo con un certo calore pensando al pugnale insanguinato che egli teneva nascosto nella sua tasca e destinato al suo perfido disegno di sopprimermi. Egli, dal canto suo, bevve un’altra lunga sorsata di vino, e con un tono di eccezionale solennità riprese:

"Durante trent’anni ho corso i mari e ho visto il buono e il cattivo, e il meglio e il peggio, il bel tempo e la burrasca, e le provviste esaurirsi, e i coltelli lavorare, e cos’altro non ho visto? Ebbene, ora io ti dico che mai ho visto dalla bontà uscire il bene. Io sono per chi picchia per primo; i morti non mordono:

questa è la mia opinione... amen, così sia. E ora ascoltami" aggiunse cambiando tono a un tratto "basta con queste sciocchezze.

La marea è sufficientemente alta, adesso. Ti darò i miei ordini, capitano Hawkins, e sarà cosa fatta." Ci rimanevano appena, tutto calcolato, un paio di miglia da fare; ma la navigazione era delicata, l’imboccatura di questo ancoraggio nord era non solo stretta e poco profonda, ma orientata da est a ovest, in modo che per entrare bisognava governare la goletta con molta abilità. Io ero, credo, un buon subalterno e Hands era certamente un ottimo pilota, poiché andammo intorno intorno piegando di qua e di là, rasentando i banchi di sabbia con una precisione e accuratezza che facevano piacere a vedere.

Subito dopo superata la bocca, la terra ci circondò da ogni parte.

Le rive della baia del Nord erano altrettanto boscose quanto quelle dell’ancoraggio sud; ma lo specchio d’acqua si distendeva più lungo e più stretto, e somigliava di più all’estuario di un fiume, come in realtà era. Dritta davanti a noi, all’estremità sud, si scorgeva la carcassa d’un bastimento naufragato in completo sfacelo. Era stato un grande trealberi, ma tante intemperie e stagioni vi erano passate sopra, che lungo i fianchi gli pendevano come delle reti di alghe gocciolanti, e in coperta erbe terrestri avevano messo radici, e ora si ornavano di una ricca fioritura. Malinconico spettacolo, in verità, ma che denotava la tranquillità del rifugio.

"E ora," disse Hands "guarda: c’è un bel posticino là per arenarvi. Un fondo di sabbia fina e liscia, senza una ruga; alberi tutt’intorno e fiori che sbocciano come un giardino su quella vecchia nave." "Ma una volta arrenati" domandai "come faremo a rimetterci a galla?" "Ebbene," rispose lui "ascolta. Con la bassa marea, tu porti un cavo a terra, da quell’altra parte; lo fai girare intorno al tronco di uno di quei grossi pini; riporti il cavo a bordo, lo leghi all’àrgano, e aspetti l’alta marea. Venuta l’alta marea, tutto l’equipaggio sul cavo ad alare, e il bastimento esce via facile come un olio. E ora, ragazzo mio, attenzione. Siamo vicini al posto, e abbiamo troppo abbrivo. Un po’ più a tribordo, così, diritto, a tribordo, a babordo un po’, diritto, diritto!" Così egli lanciava i suoi comandi che io eseguivo senza fiatare, finché tutt’a un tratto gridò: "E ora, mio caro, forza!" Ed io con tutta la mia forza passai la barra al vento, e l’"Hispaniola" virò rapidamente e corse con alta la verga di prua verso la piatta riva boscosa.

L’eccitazione di queste ultime manovre aveva molto allentato la vigilanza da me fino ad allora esercitata con sufficiente attenzione sul quartiermastro. Completamente assorto nell’attesa che la nave toccasse, avevo del tutto dimenticato il pericolo che incombeva, e stavo curvo sul bastingaggio di tribordo a osservare la schiuma che si allargava davanti al tagliamare; quando mi guardai attorno, Hands era lì vicino a me e che col pugnale nella sua destra.

Credo che tutti e due gettammo un forte grido quando i nostri occhi si incontrarono: ma mentre il mio era il grido del terrore bianco, il suo era un ruggito di rabbia pari a quello del toro che assale. Egli mi si lanciò contro, ed io con un balzo mi spostai di lato, verso prua. In quell’atto mollai la barra del timone che si abbatté violentemente a babordo; e fu indubbiamente questo che mi salvò la vita, giacché la barra colpì Hands in pieno petto e lo lasciò per un momento intontito.

Prima che potesse riaversi io ero al sicuro fuori dall’angolo dove mi aveva stretto, con davanti, libera tutta la coperta. Proprio di fronte all’albero di maestra mi fermai, tirai fuori dalla tasca una pistola, mirai con sangue freddo, anche se si era già voltato e mi si gettasse di nuovo contro, e tirai il grilletto. Il cane si abbassò, ma non seguì né lampo né detonazione: l’umidità marina aveva guastato la polvere. Maledissi la mia trascuratezza. Come mai non avevo da tanto tempo cambiato l’esca e la polvere delle mie uniche armi? Non sarei stato come adesso un nudo agnello che fugge dinanzi al beccaio.

Sorprendente era la sveltezza con cui, ferito com’era, egli si muoveva, coi suoi capelli grigi spioventi sugli occhi, rosso in viso come il rosso d’una bandiera, ubriaco di precipitazione e di furore. Io non ebbi tempo né, in realtà, molta voglia di provare l’altra pistola, persuaso che sarebbe stato inutile. Una cosa vidi chiaramente: cioè che non dovevo limitarmi a indietreggiare, altrimenti ben presto egli mi avrebbe spinto e stretto contro la prua, così come un attimo prima quasi mi aveva stretto contro la poppa. Una volta così catturato, nove o dieci pollici del pugnale sporco di sangue sarebbero stati l’ultima mia esperienza da questa parte dell’eternità. Appoggiai il palmo delle mani sull’albero di maestra, che era di notevole grossezza, e aspettai con tutti i miei nervi tesi.

Vedendo che io mi preparavo a spostarmi, si fermò anche lui, e passarono alcuni istanti in finte da parte sua e corrispondenti mosse da parte mia. In questo modo io avevo spesso giocato a casa, tra le rocce della baia della Montagna nera, ma non certo, lo si può credere, con un simile batticuore. Tuttavia, come sto dìcendo, era un gioco da ragazzi, ed io mi sentivo capace di vincere la partita, contro un marinaio anziano e ferito a una coscia. In verità ero talmente imbaldanzito che mi permisi alcune furtive riflessioni sulla probabile fine della contesa. Ma, mentre ero certo di poterla tirare molto in lungo, non vedevo alcuna speranza di un definitivo scampo.

Le cose stavano a questo punto, quando all’improvviso l’"Hispaniola" urtò contro il fondo, vacillò, sfregò un istante con la chiglia la sabbia, e poi, come sotto un potente ceffone, sbandò sulla sinistra, in modo tale che il ponte fece un angolo di quarantacinque gradi e dai fori degli ombrinali scaturì una mezza tonnellata d’acqua che si allargò come uno stagno fra il mezzo del ponte e il bastingaggio.

Tutti e due noi andammo a gambe levate e quasi insieme ruzzolammo negli ombrinali, mentre il morto dal berretto rosso, con le sue braccia sempre stese in croce, venne rigido a sbattere dietro a noi. Eravamo così vicini, che la mia testa urtò sul piede del quartiermastro e i miei denti ne scricchiolarono. Malgrado il colpo e tutto, fui io il primo a rialzarmi, tanto più che Hands era rimasto ostacolato dal corpo dell’ucciso. L’improvviso sbandamento della nave aveva reso il ponte inadatto alla corsa:

dovevo escogitare qualche altro mezzo di evasione, e questo all’istante, poiché il mio avversario mi era quasi alle costole.

Rapido come il lampo saltai sulle sartie di mezzana, divorai le griselle una dopo l’altra, e non ripresi fiato se non quando mi trovai installato sulla verga di gabbia.

La mia prontezza mi aveva salvato: il pugnale aveva colpito neanche un mezzo piede al disotto di me, mentre io scappavo su, e Israel Hands rimase lì a bocca aperta, la faccia tesa verso di me, proprio come fosse la statua della sorpresa e della delusione.

Poiché l’attimo era mio, non indugiai a cambiare l’innesco alla mia pistola, e appena una fu in ordine, mi affrettai, per maggior sicurezza, a vuotare l’altra e ricaricarla da capo.

La mia nuova occupazione sconvolse Hands: egli cominciò a capire che la sorte gli girava le spalle; e dopo una evidente esitazione si alzò pesantemente fra le sartie e col pugnale tra i denti incominciò con penosa lentezza a salire. Gli ci volle molto tempo e lamenti a tirarsi dietro la sua gamba ferita; ma prima che egli avesse coperto poco più di un terzo della distanza che ci separava, io avevo tranquillamente finito i miei preparativi.

Allora con una pistola in ogni mano mi rivolsi a lui.

"Un passo di più, mastro Hands, e vi brucio le cervella. I morti non mordono, lo sapete bene" aggiunsi con una risatina.

Di colpo si fermò. Io lessi nelle contrazioni del suo volto gli sforzi che egli faceva per riflettere; e il processo era così lento e laborioso che, forte della mia recuperata sicurezza, scoppiai in una risata. Finalmente, dopo aver inghiottito una o due volte la saliva, parlò con ancora sulla faccia i segni della stessa estrema perplessità. Dovette, per parlare, togliersi il pugnale dalla bocca, ma non fece altro.

"Jim," disse "vedo che siamo a un brutto punto, tu ed io, e ci conviene concludere la pace. Io ti avrei preso se non fosse stato per quello sbandamento, ma non ho fortuna, io, e vedo che mi tocca ammainare; cosa dura, capisci, per un mastro marinaio come me, di fronte a uno sbarbatello tuo pari, Jim." Io bevevo le sue parole sorridendoci sopra, tronfio come un gallo in cima a un muro, quando in un battibaleno la sua mano destra sormontò le sue spalle. Qualche cosa ronzò come una freccia attraverso l’aria; io sentii un urto e poi un lancinante dolore e mi trovai conficcato all’albero per una spalla. Nel bruciore dello spasimo e nella scossa della sorpresa, non posso dire completamente di mia volontà ma sono comunque certo che non mirai, tutt’e due le mie pistole scattarono, e tutt’e due mi caddero di mano. Esse non caddero sole: con un grido soffocato il quartiermastro lasciò andare le sartie, e piombò in mare a capofitto.

 

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Capitolo 27

"Pezzi da otto"

 

Stante l’inclinazione della nave, gli alberi pendevano per un bel pezzo sull’acqua, e dalla mia gruccia del pennone di gabbia io non avevo sotto di me che la superficie della baia. Hands, che non era salito tanto, stava perciò più vicino al bastimento, ed era caduto fra me e il bastingaggio. Egli tornò a galla una volta in un cerchio di spuma e sangue, dopodiché affondò per davvero. Tornata calma l’acqua lo vidi giacere raggomitolato sulla nitida sabbia lucente, nell’ombra dei fianchi della nave. Uno o due pesci guizzarono lungo il suo corpo. A volte nel tremolìo dell’acqua sembrava muoversi un po’, quasi tentasse di alzarsi. Ma, colpito da un paio di palle, e per giunta annegato, egli era ben morto, ed era carne per i pesci in quel preciso luogo dove egli aveva pensato di scannarmi.

Mi ero appena convinto di questo, che cominciai a sentirmi venir meno per la stanchezza e la paura. Il sangue caldo mi scorreva sul petto e per la schiena. Il pugnale, nel punto dove m’aveva inchiodato la spalla all’albero, bruciava come un ferro arroventato: tuttavia quello che mi torturava non era tanto questa sofferenza fisica, che avrei sopportato senza lamentarmi, quanto il timore di piombar giù dal pennone in quelle quiete acque verdi, accanto al cadavere del quartiermastro.

Mi aggrappai con tutte e due le mani fino a farmi dolere le unghie, e chiusi gli occhi, quasi a nascondermi la vista del pericolo. Piano piano recuperai la mia calma, il mio polso rallentò i suoi battiti ed io ripresi possesso del mio equilibrio.

Il mio primo pensiero fu di tirar via il pugnale; ma, o che fosse penetrato troppo in profondità, o che i miei nervi non resistessero, ci rinunziai con un violento brivido. Cosa strana, quel brivido fu provvidenziale. Difatti per poco il colpo non era fallito; la lama mi tratteneva appena per una linguetta di pelle, e quel sussulto la lacerò. Il sangue corse naturalmente più spedito, ma io mi ritrovai padrone dei miei movimenti, rimanendo attaccato all’albero soltanto col camiciotto e la camicia.

Con un energico strappone staccai l’uno e l’altra e per le sartie di tribordo riguadagnai la coperta. Per nulla al mondo, agitato come ero, mi sarei una seconda volta arrischiato sulle sartie strapiombanti di bordo da dove Israel era appena precipitato.

Scesi dabbasso e fasciai come meglio potei la mia ferita. Essa mi pungeva assai e sanguinava abbondantemente, ma non era né profonda né pericolosa, né m’infastidiva granché mentre adoperavo il mio braccio. Mi guardai attorno, e poiché la nave adesso era in un certo senso mia proprietà, mi detti a pensare al modo di liberarla del suo ultimo passeggero, il morto O’ Brien.

Come dissi, egli era stato sbattuto contro il bastingaggio dove se ne stava simile a una specie di osceno e goffo pupazzo; di grandezza naturale, sì, ma quanto diverso dai colori e dalla grazia della vita! Data la sua postura ci riuscii facilmente; e poiché le tragiche avventure alle quali ero abituato mi avevano reso quasi insensibile all’orrore della morte, lo presi per la cintola come fosse un sacco di crusca, e con una poderosa spinta lo mandai fuori bordo. Egli affondò con un sonoro tonfo, perdendo il berretto rosso che rimase a galleggiare sulla superficie; e quando le acque si ricomposero vidi lui e Israel coricati l’uno accanto all’altro, che tutti e due parevano tremare attraverso il leggero increspamento dell’acqua. O’ Brien sebbene ancora giovane era molto calvo. E ora stava là con quel suo cranio pelato contro le ginocchia dell’uomo che l’aveva ucciso, e i pesci passeggiavano alacremente sopra l’uno e l’altro.

Ero ormai solo sul bastimento. La marea cominciava a scendere. Il sole era così poco lontano dal tramonto che già l’ombra dei pini della riva ovest si allungava dentro l’ancoraggio, stampandosi in ritagli di figure sul ponte. La brezza della sera erasi svegliata, e per quanto la baia fosse ben riparata dalla montagna dei due picchi situata a est, il cordame cominciava a zufolare una sua piccola dolce canzone e le vele oziose chiacchieravano sbattendo qua e là.

Mi accorsi del pericolo che la nave correva. Abbassai prontamente i flocchi raccogliendoli in un mucchio sul ponte, ma quanto alla grande vela fu un affare serio. Al momento dello sbandamento della nave la verga s’era naturalmente abbattuta fuori bordo e il capo di essa, con un piede o due della vela, pescavano dentro l’acqua.

Ciò aumentava il pericolo: ma la tensione era così forte che io esitavo a metter le mani nella faccenda. Finalmente presi il coltello e tagliai le drizze. Il picco cadde, la vela con una gran pancia si accasciò sull’acqua, ma io ebbi poi un bel tirare: non potei rimuovere l’ala bassa. Questo fu tutto ciò che le mie forze mi permisero di fare: per il resto l’"Hispaniola" doveva al pari di me confidare nella sua buona stella.

Intanto l’ombra aveva occupato l’intero ancoraggio, e gli ultimi raggi di sole, ricordo, lampeggiando attraverso un’apertura del bosco spargevano splendori come di gioielli sul mantello fiorito della nave naufragata. L’aria cominciava a mordere; le acque fluivano rapide verso l’alto mare, e la goletta si coricava sempre più sul suo fianco.

Mi arrampicai a prua e guardai giù. L’acqua sembrava poco profonda; e per maggior sicurezza, tenendomi con tutte e due le mani al provese tagliato, mi lasciai dolcemente scivolare fuori bordo. L’acqua mi arrivava appena alla cintola; la sabbia era salda e attraversata da rughe, ed io lietamente raggiunsi la riva lasciando l’"Hispaniola" inclinata a quel modo, con la gran vela appollaiata sulla superficie della baia. E il sole sparì del tutto e la brezza sibilò nel crepuscolo fra gli ondeggianti ombrelli dei pini.

Ero almeno e, finalmente, fuori dal mare, e non me ne tornavo a mani vuote. La goletta, libera ormai dei filibustieri e pronta a imbarcare i nostri uomini e a prendere il largo, era là. Io non desideravo solo rientrare nello steccato e farvi sfoggio delle mie prodezze. Rischiavo forse di essere un po’ biasimato per la mia audacia, ma la ripresa dell’"Hispaniola" costituiva uno stringente argomento, ed io speravo che lo stesso capitano Smollett avrebbe riconosciuto che io non avevo sprecato il mio tempo.

Inebriato da tali pensieri mi preparai a ritornare al fortino, dai miei compagni. Ricordandomi che il più orientale dei fiumi che si riversavano nell’ancoraggio del capitano Kidd discendeva dalla montagna dei due picchi posta alla mia sinistra, mi diressi da quella parte per poter attraversare il corso d’acqua alla sorgente. La selva non era troppo intricata, e camminando lungo gli speroni inferiori del monte riuscii presto ad aggirarlo e poco dopo, con l’acqua ai polpacci, guadai il fiumicello.

Arrivai così vicino al luogo dove avevo incontrato Ben Gunn, e perciò mi inoltravo con maggior precauzione, tenendo gli occhi ben spalancati. L’oscurità era quasi completa, e quando sboccai dalla valle che divideva i due picchi, scorsi laggiù contro il cielo un vacillante riverbero, e pensai che l’uomo dell’isola stesse cuocendo la sua cena davanti a un gagliardo fuoco. E però mi meravigliavo dentro di me di tanta imprudenza, poiché se la vedevo io quella luce, non poteva esser vista dallo stesso Silver accampato sulla riva paludosa?

La notte diventava sempre più scura: era tanto se riuscivo a orientarmi approssimativamente verso la mia destinazione: la doppia montagna dietro di me e il Cannocchiale alla mia destra si disegnavano nelle tenebre sempre più sfumati; poche e pallide le stelle; e procedendo lungo il terreno ondulato, continuamente inciampavo nei cespugli e cadevo nelle buche della sabbia.

D’improvviso un lieve chiarore si diffuse intorno a me. Alzai gli occhi: la cima del Cannocchiale appariva debolmente illuminata; poco dopo qualcosa di argenteo luccicò laggiù dietro gli alberi: la luna si era alzata.

Con quest’aiuto compii in fretta il resto del mio cammino; e, a volte camminando, altre correndo, mi avvicinavo impazientemente alla palizzata. Tuttavia, addentrandomi nella boscaglia che la fronteggiava, non fui così spensierato da non rallentare il passo e procedere con un po’ più di cautela. Misera in verità sarebbe stata la conclusione delle mie avventure se per sbaglio mi fossi presa una palla dai miei stessi compagni.

La luna saliva sempre più su: la sua luce cadeva qua e là a chiazze nelle zone più rade del bosco, e proprio davanti a me un lume di diverso colore filtrava attraverso gli alberi. Era di un rosso ardente che, di quando in quando, si velava un po’ come se provenisse dalle braci di un falò agonizzante.

Per quanto aguzzassi gli occhi non riuscivo a capire di che si trattasse.

Arrivai infine al limite della radura. L’estremità ovest era già inondata dal plenilunio; il resto e lo stesso fortino rimaneva tuttora immerso in una nera oscurità solcata da lunghe strisce di luce argentata. Dall’altro lato della casa un enorme fuoco aveva bruciato, le cui braci spargevano attorno un robusto riverbero purpureo nettamente contrastante col molle pallore della luna. Non un’anima che si muovesse, non un suono, eccetto i bisbigli della brezza tra gli alberi.

Mi fermai molto sorpreso in cuor mio e forse anche un po’ spaventato. Noi non usavamo accendere grandi fuochi; secondo gli ordini del capitano eravamo infatti molto guardinghi circa il bruciar legna; cosicché io cominciai a dubitare che le cose in mia assenza avessero preso una cattiva piega.

Quatto quatto feci il giro dall’estremità est, tenendomi vicino all’ombra, e trovato il punto propizio dove il buio era più fitto, scavalcai lo steccato.

Per maggior sicurezza mi buttai a terra carponi e strisciai silenzioso verso l’angolo della casa. Avvicinandomi mi entrò in cuore un improvviso sollievo. Non è un grato rumore in sé, ed io l’ho spesso, altre volte, maledetto; ma quella notte fu come una musica al mio orecchio il russare concorde e fragoroso dei miei amici nel loro placido sonno. II grido marino della sentinella, quel "Tutto bene!" mai mi diede un così beato senso di sicurezza.

Intanto una cosa era certa: essi facevano una pessima guardia.

Fosse stato Silver, coi suoi, ora al mio posto, non un anima avrebbe visto l’aurora. Ecco cosa voleva dire, pensavo, avere il capitano ferito; e di nuovo aspramente mi rimproverai di averli lasciati in quel pericolo e con una così scarsa guardia.

Giunto intanto alla porta, mi alzai in piedi. Buio pesto, là dentro; i miei occhi non distinguevano nulla. Quanto a rumori, udivo il continuo ronzìo di calabrone dei dormenti, e, a intervalli, un timido suono, quasi uno svolazzare e beccare, di cui non riuscivo a rendermi conto.

Tendendo le braccia in avanti mi inoltrai. Mi sarei coricato al mio posto (con una tacita risatina pensavo) e goduto le loro facce sorprese quando mi avrebbero scoperto al mattino.

Il mio piede urtò in qualcosa di molle: le gambe di un dormente; il quale si voltò grugnendo, ma senza svegliarsi.

D’improvviso una voce stridula lacerò le tenebre:

"Pezzi da otto! Pezzi da otto! Pezzi da otto! Pezzi da otto! Pezzi da otto!" e così via, senza pausa né cambiamento, come lo strepito di un piccolo mulino.

Il pappagallo verde di Silver, capitano Flint! Era lui che avevo sentito picchiare col becco su un pezzo di corteccia; era lui che, vigilando meglio di qualsiasi essere umano, annunciava del mio arrivo col suo noioso ritornello.

Mi mancò il tempo di riavermi. Agli acuti strilli del pappagallo gli uomini si svegliarono e saltarono in piedi, e con una infernale imprecazione la voce di Silver tuonò:

"Chi va là?" Voltatomi per fuggire, battei violentemente contro uno, indietreggiai, e caddi nelle braccia di un altro che mi strinse e tenne saldo.

"Porta una torcia, Dick" comandò Silver non appena la mia cattura fu assicurata.

E uno di loro lasciò la casa per rientrare subito dopo con un tizzone acceso.

 

*

 

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*

 

PARTE SESTA

IL CAPITANO SILVER

 

Capitolo 28

Nel campo nemico

 

Il rosso bagliore della fiaccola, illuminando l’interno del fortino, mi mostrò realizzate le mie peggiori apprensioni. I pirati erano in possesso della casa e delle provviste: ecco il barile dell’acquavite, ecco la carne salata, ecco il biscotto:

tutto come prima; e, ciò che moltiplicava la mia angoscia, nessuna traccia di prigionieri. Non potevo pensare altro se non che fossero tutti morti; e il rimorso di non essermi trovato lì, a morire insieme con loro, mi spaccava il cuore.

Erano in tutto sei: nessun altro era sopravvissuto. Cinque di essi scossi all’improvviso dal primo sonno dell’ubriachezza, stavano in piedi, ancora accesi e gonfi. Il sesto si era sollevato soltanto su un gomito: il suo viso era coperto da un pallore mortale, e le bende sporche di sangue che gli avvolgevano la testa dicevano che era stato ferito di recente e ancora più di recente fasciato. Mi ricordai di uno che durante il grande attacco, colpito da una palla, era scappato nel bosco: senza dubbio era lui.

Il pappagallo si lisciava le penne, appollaiato sulla spalla di Long John. Questi mi parve alquanto più pallido e duro del solito.

Portava ancora lo stesso bell’abito di panno con il quale aveva compiuto la sua missione: ma quest’abito, per un amaro contrasto, era sporco di fango e lacerato dagli spini dei rovi.

"E così, ecco qua Jim Hawkins, morte delle mie ossa, piovuto a farci visita, eh? Vieni, vieni pure, io prendo la cosa amichevolmente." Così dicendo sedette sul barile dell’acquavite e si mise a riempire la pipa.

E, dopo che ebbe acceso:

"Va bene, ragazzo: pianta la torcia nella catasta della legna; e voi, signori miei, andate pure: non è il caso dl rimanere in piedi per il signor Hawkins: egli vi scuserà, state tranquilli." "E così, Jim" e caricava il tabacco "eccoti qui: una ben amabile sorpresa per il povero vecchio John. Io m’ero accorto che tu eri un ragazzo sveglio, quando ti misi gli occhi addosso la prima volta: ma ora quest’improvvisata finisce di sbalordirmi, finisce." A tutto ciò, naturalmente, io nulla replicai. Essi mi avevano messo con le spalle al muro; ed io rimanevo là, guardando Silver in faccia, con un piglio abbastanza coraggioso, forse, ma con in cuore la più cupa disperazione.

Silver tirò con molto sussiego una o due boccate di fumo, e continuò:

"E ora, Jim, dal momento che ti trovi qui, voglio un po’ dirti come la penso. Tu mi sei sempre stato caro come un ragazzo di spirito, ed io t’ho amato come l’immagine di me stesso quando ero giovane e bello. Ho sempre desiderato che ti unissi a noi per avere la tua parte e morire da gentiluomo; e ora, ecco che ci sei venuto, mio piccolo ardito. Il capitano Smollett è un distinto uomo di mare, non mi stancherò di riconoscerlo: ma quanto a disciplina è inflessibile. "Il dovere è dovere" dice lui, e ha ragione. Devi guardarti dal capitano, tu. Lo stesso dottore ce l’ha a morte con te: "ingrato furfante", così ti chiamava; e insomma la conclusione è questa, che tu non puoi ritornare coi tuoi perché di te non si vuol più sapere; e a meno che tu non formassi un terzo equipaggio, nel qual caso non raccoglieresti gran compagnia, non ti resta che unirti al capitano Silver." Fin qui tutto andava bene. I miei amici vivevano dunque, e sebbene io credessi vera in parte l’affermazione di Silver, che quelli della cabina me ne volevano per la mia diserzione, le parole udite mi diedero più sollievo che afflizione.

"Quanto al fatto che sei nelle nostre mani" continuò Silver "e che ci sei non ne puoi dubitare, io non dirò nulla. Io preferisco ragionare: dalle minacce non ho mai visto uscir niente di buono.

Se il servizio ti quadra, ebbene, tu ti arruoli con noi; se non ti quadra, sei padrone padronissimo di dir di no, camerata mio; e se c’è un marinaio al mondo capace di parlare più chiaro di così, Dio mi fulmini!" Attraverso tutte queste beffarde parole io avevo bene avvertito la minaccia di morte che mi pendeva sul capo; le mie guance scottavano e il mio cuore martellava affannosamente dentro il mio petto.

"Devo dunque rispondere?" chiesi con un filo di voce.

"Nessuno ti sta alle costole, ragazzo mio. Rileva la tua posizione. Nessuno vuole farti premura; il tempo, come vedi, scorre così piacevolmente in tua compagnia." "Ebbene" dissi io prendendo un po’ di coraggio "se devo scegliere, dichiaro che ho diritto di sapere che cosa è successo, e perché voi siete qui, e dove si trovano i miei amici." "Che cosa è successo?" echeggiò uno dei filibustieri con un sordo grugnito. "Fortunato chi lo sa!" "Sarebbe meglio che tenessi chiusi i tuoi boccaporti fino a quando non ti si dirige la parola, amico mio" intervenne Silver trucemente. E rivolgendosi a me con l’amabile tono di prima, rispose: "Ieri mattina, durante il piccolo quarto, si presenta il dottor Livesey con bandiera bianca. Capitano Silver, mi dice, siete tradito. Il bastimento non c’è più. Ebbene, può darsi che nella notte avessimo bevuto un bicchiere di più, e cantato magari per farla passare. Non dico di no. Comunque, nessuno di noi aveva messo il muso fuori. Guardammo, e, corpo di mille bombe, la vecchia goletta non c’era più. Io non ho mai visto una banda di minchioni restare lì con un’aria più istupidita. Ebbene, dice il dottore, vogliamo trattare? Trattammo, lui ed io, e il risultato eccolo qui: provviste, acquavite, fortino, legna da ardere che voi aveste la preveggenza di tagliare e accatastare; e, per così dire, tutta quella benedetta nave, dalle crocette alla chiglia, nelle nostre mani. Quanto a loro, sono filati via, né so dove si trovino." Tirò placidamente un’altra boccata di fumo, e proseguì:

"E perché tu non ti metta in testa che sei compreso nel patto, ecco le ultime parole pronunciate: Quanti siete, dico io, ad andarvene? Quattro, dice lui, quattro, uno dei quali ferito.

Quanto a quel ragazzo, ignoro dov’è, che il diavolo se lo porti, dice lui, non me ne importa affatto. Ne siamo stufi. Queste furono le sue parole." "E’ tutto qui?" "Sì, è tutto quanto devi sapere, figliolo mio." "E ora devo scegliere?" "Ora devi scegliere, sicuro." "Ebbene" dissi io "io non sono così sciocco da non sapere che cosa mi aspetta. Ma accada quel che accada, non me ne importa. Ne ho visti morire abbastanza da quando vi ho incontrato. Ci sono però una o due cose che mi preme dirvi" e mentre così parlavo ero assai eccitato "e la prima è questa: voi siete in una brutta situazione: nave perduta, tesoro perduto, uomini perduti: tutta la vostra impresa naufragata; e se desiderate sapere chi ne è stato la causa, io sono stato. Io stavo acquattato nel barile delle mele la sera che avvistammo l’isola, e sentii voi, John, e voi, Dick Johnson, e Hands che dorme ora in fondo al mare, e immediatamente riferii sillaba per sillaba ciò che avevate detto. E quanto alla goletta, sono stato io a tagliare il cavo, io a uccidere gli uomini che erano a bordo, io a portarla dove né voi né nessuno dei vostri uomini la rivedrà mai. E sono io che posso ridere; il filo della matassa era in mano mia, e voi non mi fate paura più di una mosca. Ammazzatemi o risparmiatemi come più vi piacerà. Ma una sola cosa dirò ancora: se voi mi risparmiate, dimenticherò il passato, e quando comparirete davanti alla corte sotto l’accusa di pirateria, vi difenderò con tutte le mie forze. Tocca a voi scegliere. O sopprimermi senza trarne il minimo utile, o risparmiarmi assicurandovi un testimonio che vi salverà dalla forca." M’interruppi perché proprio mi mancava il respiro. Con mia gran meraviglia nessuno di loro si mosse; rimasero tutti a guardarmi mogi come tante pecore. E mentre così mi guardavano, ripresi: "E ora, mastro Silver, poiché voi siete il migliore di tutti, se le cose andassero alla peggio usatemi la cortesia di far conoscere al dottore in che modo mi sono comportato." "Me lo ricorderò" disse Silver con un accento così curioso che io non avrei potuto, anche a prezzo della mia vita, decidere se si burlasse della mia richiesta o fosse simpaticamente commosso dalla mia prova di coraggio.

"Aggiungerò io qualche cosa" gridò il vecchio marinaio dalla faccia color di mogano, detto Morgan, che avevo visto nella taverna di Silver sulla banchina di Bristol "è stato lui a riconoscere Can-Nero." "E sentite me" intervenne il mastro cuoco "che ve ne dico un’altra, corpo d’una saetta: è stato questo ragazzo a sgraffignare la carta a Billy Bones. Dal principio alla fine, Jim Hawkins è stato il nostro scoglio!" "E allora, ecco per lui" proferì Morgan accompagnandovi una bestemmia.

E balzò in piedi tirando fuori il coltello con selvaggia irruenza.

«Alto là!" gridò Silver. "Chi sei tu, Tom Morgan? Ti credi forse di essere il capitano? Se così è, per mille diavoli, ti mostrerò che t’inganni. Prova a mettermiti contro, e andrai dove tanti cristiani da trent’anni a questa parte sono andati prima di te, dal primo all’ultimo: qualcuno sulla punta del pennone, che Dio mi fulmini, qualcuno fuori bordo, e tutti quanti a pascere i pesci.

Non c’è mai stato nessuno che mi abbia guardato nel bianco degli occhi e abbia poi visto un giorno felice, Tom Morgan, te l’assicuro io." Morgan tacque; ma tra gli altri sorse un roco mormorìo.

"Tom ha ragione" disse una voce.

"Io sono stato seccato abbastanza da un capitano" aggiunse un altro. "M’impicchino se mi lascio romper le scatole da voi, John Silver." "C’è qualcuno di voi, miei signori, che voglia venire a spiegarsi di fuori con me?" urlò Silver sporgendosi di sul caratello con in pugno la sua pipa accesa. "Coraggio, su: parlate: non siete mica muti? Chi lo desidera sarà servito. Avrò dunque vissuto tanti anni per vedermi provocare dal figlio di un ubriaco? Voi conoscete le regole: siete gentiluomini di fortuna, a quanto dite. Ebbene, eccomi pronto. Prenda un coltellaccio chi ha fegato, e io vi prometto che vedrò il colore delle sue budella malgrado la mia gruccia e tutto, prima che questa pipata sia finita." Nessuno si mosse, nessuno rispose.

"Così siete voi, no?" aggiunse riportando la pipa alla bocca. "Ah, bellissimi da vedere, non c’è dubbio. Ma non troppo bravi sul terreno, no davvero. Ma se vi parlo nell’inglese di Re Giorgio credo che mi capirete. Orbene: io sono vostro capitano per elezione. Io sono il capitano qui perché sono migliore di tutti d’un buon miglio marino. Voi rifiutate di battervi come dovrebbero dei gentiluomini di fortuna. Allora, corpo d’una saetta, obbedirete, state pur certi. Ora, io voglio bene a questo ragazzo: non ho mai visto un ragazzo migliore di lui. Vale più lui d’un qualsiasi paio di vigliacchi che siete qui dentro; ed ecco cosa vi dico: vorrò vedere chi oserà mettergli le mani addosso, ecco che cosa vi dico, e potete star sicuri." Seguì un lungo silenzio. Io stavo dritto con le spalle al muro, e con il cuore che continuava a battere come il martello d un fabbro; ma un raggio di speranza ora mi spuntava dentro. Silver si piazzò contro il muro, con le braccia incrociate, la pipa all’angolo della bocca, immobile come fosse in chiesa; ma lanciava intorno sguardi furtivi, e con la coda dell’occhio spiava i suoi irrequieti compagni. I quali si andavano gradatamente raccogliendo all’estremità del fortino, e il loro sommesso bisbigliare risuonava continuo al mio orecchio come un ruscello. Uno dopo l’altro alzavano gli occhi, e la luce rossastra della fiaccola batteva per un istante sulle loro torbide facce: ma non era su me, era su Silver che cadevano i loro sguardi.

"Sembra che ne abbiate delle cose da dire" osservò Silver lanciando lontano uno sputo. "Cantatemela, che la possa sentire, o se no, mettetevi alla cappa." "Chiedo perdono, capitano" replicò uno degli uomini "voi prendete un po’ troppo alla leggera qualcuna delle nostre regole. Questo equipaggio è scontento; questo equipaggio non ama le intimazioni più dei colpi di agucchione; quest’equipaggio ha i suoi diritti non meno degli altri; mi permetto di dirlo; e a norma delle stesse vostre regole sostengo che noi possiamo discutere insieme. Chiedo perdono, vi riconosco come capitano in questo momento, ma reclamo il mio diritto, ed esco per tenere consiglio." E con un diligente saluto marittimo, quest’individuo, un uomo di trentacinque anni, alto, malaticcio, dagli occhi gialli, si diresse freddamente verso la porta e scomparve. I rimanenti, uno dopo l’altro, seguirono il suo esempio; ciascuno facendo il proprio saluto, passando, e accompagnandovi qualche scusa.

"Conforme alle regole" disse uno. "Consiglio di prua" disse Morgan. E così, con una o un’altra frase, sfilarono tutti lasciando Silver e me soli alla luce della torcia.

Il mastro cuoco si levò la pipa dalla bocca.

"Ora stai attento, Jim Hawkins" disse con voce ferma, ma così sommessa che appena mi arrivava all orecchio. "Tu sei a due passi dalla morte, e, ciò che è ben peggio, dalla tortura. Essi stanno per disfarsi di me. Ma io ti assicuro che qualunque cosa accada, sarò con te. In verità non era questa la mia precisa intenzione prima di averti sentito, no. Ero quasi disperato di perdere questa grossa focaccia e rischiare di essere impiccato per giunta. Ma ho visto che tu sei di buona razza. E mi son detto: sostieni Hawkins, John, e Hawkins sosterrà te. Tu sei l’ultima sua carta, e, corpo di mille bombe, John è la tua. Spalla a spalla, dico io. Tu salvi il tuo testimonio, e lui salverà la tua testa." Cominciavo più o meno a capire.

"Intendete dire che tutto è perduto?" "Ma sì, perdio, sì! Partita la nave, partirà la mia testa: una cosa tira l’altra. Quando guardai la baia, Jim Hawkins, e non vidi più la goletta, ebbene, duro come sono, mi diedi per vinto. Per ciò che riguarda quella combriccola e il loro consiglio, credi a me, non sono che degli stupidi e dei vigliacchi sputati. Io ti salverò, se mi riesce, dalle loro grinfie. Ma, attenzione, Jim: tu in compenso salverai Long John dalla forca." Io ero sgomento: mi sembrava una cosa così disperata quella che mi chiedeva, lui, il vecchio pirata, il caporione della banda.

"Ciò che potrò lo farò" dissi.

"Affare fatto!" gridò Long John. "Tu parli da ragazzo coraggioso, e, corpo d’una bomba, io non sono ancora perduto." Arrancò fino alla torcia infissa nel mucchio della legna, e riaccese la pipa.

"Ascoltami bene, Jim" riprese tornando. "Io ho la testa sul collo.

Io sono dalla parte del cavaliere, ormai. So che tu hai condotto l’"Hispaniola" in salvo, e non importa dove. Come tu abbia fatto, lo ignoro; ma in salvo c’è. Immagino che Hands e O’Brien sono rimbecilliti. In verità non ho mai nutrito eccessiva fiducia in nessuno dei due. Ora, bada a ciò che ti dico. Io non faccio domande né desidero che altri me ne faccia. Quando una partita è perduta io lo riconosco, io. E riconosco quando un ragazzo è bravo. Ah, tu che sei giovane, quante belle cose avremmo potuto combinare insieme, tu ed io!" Spillò dalla botticella un po’ d’acquavite.

"Vuoi assaggiare, camerata?" E, avuto il mio rifiuto, disse:

"Bene, ne prenderò un sorso io, Jim. Ho bisogno di calafatarmi, io, perché c’è del torbido in vista. E a proposito di torbido, Jim, mi sai dire perché mai quel dottore mi ha dato la carta?" Il mio viso espresse un così ingenuo stupore che egli giudicò inutile pormi altre domande.

"Comunque sia, me l’ha data. E là sotto c’è qualche cosa, senza dubbio, qualche cosa sicuramente, là sotto, Jim, di cattivo o di buono." E inghiottì un altro sorso d’acquavite, scotendo la grossa testa bionda con l’aria di uno che non presagisce niente di allegro.

 

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Capitolo 29

Di nuovo la macchia nera

 

Il consiglio dei pirati durava da qualche tempo, quando uno di loro rientrò nella casa; e, ripetendo lo stesso saluto che aveva ai miei occhi un senso ironico, chiese per un momento in prestito la torcia. Silver acconsentì e quello si ritirò lasciandoci al buio.

"La burrasca s’avvicina, Jim" disse Silver che frattanto aveva preso un tono schiettamente amichevole e familiare.

Mi accostai alla feritoia più vicina, e guardai. Le braci del grande fuoco si erano consumate e la fioca luce che ora mandavano spiegava il perché della richiesta della torcia. Essi stavano radunati lungo il pendio, a metà strada dalla palizzata; uno reggeva la torcia, un altro era in ginocchio in mezzo a loro, ed io vidi la lama di un coltello aperto nel suo pugno balenare colorandosi ora al lume della luna ora a quello della torcia, mentre gli altri, curvi, osservavano i suoi movimenti. Riuscii poi a scorgere che oltre al coltello teneva in mano un libro, e ancora non avevo finito di stupirmi di come un così strano oggetto fosse capitato in loro possesso, che l’inginocchiato si rialzò e l’intera banda si incamminò verso la casa.

"Vengono" dissi; e ripresi il posto di prima, sembrandomi poco dignitoso farmi sorprendere a spiare.

"Bene, lasciali venire, piccolo mio, lasciali venire;" fece Silver allegramente "io ho ancora una palla nella mia sacca." La porta si aprì, e i cinque ammucchiati sulla soglia spinsero avanti uno di loro. In altre circostanze sarebbe stato comico vedere costui procedere adagio, un piede dopo l’altro, esitando e tendendo davanti a sé la sua mano chiusa.

"Avanti, ragazzo, avanti" gridò Silver. "Non ti voglio mica mangiare. Dai qui, marinaio d’acqua dolce. Conosco le regole, e mi guarderò bene dall’offendere una deputazione." Rinfrancato da queste parole, il filibustiere si affrettò, e dopo aver passato qualcosa a Silver da mano a mano, si ritirò più veloce ancora nel gruppo dei compagni. Il cuoco dette un’occhiata a ciò che gli era stato consegnato.

"La macchia nera! Me l’aspettavo. O dove mai avete pescato questo pezzo di carta? Oh! Oh! Guardate un po’ qui! Non vi porterà fortuna: da una bibbia, l’avete strappato. Ma chi è quell’idiota che strappa una bibbia?" "Ecco," proruppe Morgan "ecco! Che vi dicevo io? Niente di buono ne verrà fuori, vi dicevo." "Ebbene, ormai è cosa fatta per tutti" riprese Silver. "Prevedo che sarete tutti impiccati. Ma chi è quel rammollito che possedeva una bibbia?" "E’ Dick" disse una voce.

"Dick? Allora Dick può andare a pregare per l’anima sua. Ha visto i suoi giorni migliori, credete a me." A questo punto l’uomo dagli occhi gialli interruppe.

"Piantala, John Silver, con queste chiacchiere. L’equipaggio ti ha decretato la macchia nera con voto unanime, conforme dovuto; rivolta la carta conforme dovuto, e leggi ciò che c’è scritto.

Poi, potrai parlare." "Grazie, Giorgio" replico il cuoco. "Tu sei sempre sveglio, in fatto d’affari; e le regole le sai a memoria, come mi piace di constatare. Ebbene, a ogni modo, cos’è questo? Ah! Destituito!

così, non è vero? Molto elegantemente scritto davvero; quasi giurerei che è stampato. E’ la tua scrittura, Giorgio? Eh, tu vai diventando un uomo di comando, in questo equipaggio. Potresti essere capitano domani, che non mi stupirei affatto. Porgimi ancora quella torcia per cortesia, vuoi? Questa pipa non tira." "Andiamo" scattò Giorgio. "Finisci di prenderti gioco di quest’equipaggio. Lo sappiamo che sei un buffone, ma ormai non rappresenti più nulla e puoi scendere dal barile e prendere parte alla votazione." "Mi pareva d’averti sentito dire che conosci le regole" ribatté Silver con fare sprezzante. "In ogni caso, se tu non le conosci, le conosco io, e rimarrò qui, perché sono ancora il vostro capitano, badate, fino a che voi non abbiate presentato i vostri reclami ed io non vi abbia risposto. Nel frattempo, la vostra macchia nera non vale un biscotto. Dopo ciò, vedremo." "Oh" replicò Giorgio "non dubitare: noi siamo tutti d’accordo.

Primo, ci hai messo in un bell’imbroglio con questa crociera: non sarai così sfacciato da volerlo negare. Secondo, hai lasciato uscire il nemico da questa trappola per che cosa? per nulla.

Perché tenevano ad andarsene loro? Io non lo so, ma è chiaro che ci tenevano. Terzo, non ci hai permesso di saltare loro addosso, mentre si ritiravano. Oh, noi ti leggiamo dentro, John Silver: tu vuoi barare al gioco: è lì dove tu zoppichi. E finalmente, quarto, c’è questo ragazzo qui." "E’ tutto?" domandò Silver senza scomporsi.

"E mi pare che basti" suggellò Giorgio. "Noi saremo impiccati e seccheremo al sole a causa della tua maledetta incapacità." "Ebbene, ora sentite: io risponderò su questi quattro punti: l’uno dopo l’altro, risponderò su tutti. Vi ho messo in un imbroglio con questa crociera, vi ho messo? Oh, vediamo un po’: voi tutti sapete che cosa io volevo, e voi tutti sapete che se ciò fosse stato fatto noi saremmo questa notte come eravamo prima, a bordo dell’"Hispaniola", tutti quanti vivi e in gamba, e pieni di buona torta di prugne, e col tesoro in fondo alla stiva, corpo d’una saetta! Ebbene, chi mi ha attraversato? Chi mi ha forzato la mano a me, legittimo capitano? Chi mi destinò la macchia nera il giorno stesso che sbarcammo, e aprì questo ballo? Ah, un grazioso ballo, ed io ci sono dentro con voi; un ballo che mi sembra una cornamusa all’estremità d’una corda sulla Riva delle Forche presso la città di Londra, mi sembra. Ma, e chi ha fatto questo? Ebbene, Anderson è stato, e Hands, e tu, Giorgio Merry! E tu, l’ultimo a bordo di quella manica d’intriganti, hai la diabolica tracotanza di presentarti come capitano al mio posto, tu che ci hai colati a picco tutti quanti! Per Satanasso! Questo supera qualunque più sbalorditiva storia." Silver fece una pausa, ed io mi accorsi dal volto di Giorgio e dei suoi camerati che quelle parole non erano state dette invano.

"Questo per il numero uno" proclamò l’accusato asciugandosi il sudore della fronte, poiché aveva parlato con tale veemenza che ne tremava la casa. "Ebbene, vi do la mia parola che mi fa nausea di dover discorrere con voi. Non avete né buon senso né memoria, voi, e Dio sa dove avevano la testa le vostre madri quando vi mandarono sul mare. Sul mare, voi, gentiluomini di fortuna! Sarti, dovevate essere: ecco il vostro mestiere!" "Tira via, John" disse Morgan. "Rispondi sugli altri punti." "Ah, sì, gli altri. Formano un bel mazzetto, no? Voi dite dunque che questa crociera è andata male. Ah, per Iddio, se poteste capire fino a che punto è andata male, vedreste! Siamo così vicini alla forca che il mio collo già si irrigidisce solo a pensarci.

Voi li avete visti gli impiccati, incatenati, con gli uccelli che gli svolazzano intorno, e gli uomini di mare che li segnano a dito mentre discendono per la spiaggia con la marea. Oh, chi è quello là? dice uno. Quello? Ma quello è John Silver. Io l’ho conosciuto bene, dice un altro. E sentite le catene che tintinnano mentre passate e arrivate all’altra boa. Ed ecco a che punto all’incirca ci troviamo noi tutti figli delle nostre madri, grazie a lui, a Hands, ad Anderson e altri disastrosi imbecilli che sono tra voi.

E se volete che vi risponda riguardo al quarto punto: o questo ragazzo, possa io crepare, non è forse un ostaggio? E noi vogliamo privarci d’un ostaggio? Ah, no, signori miei: potrebbe essere la nostra ultima àncora che io non me ne meraviglierei. Ammazzare questo ragazzo? Io no, camerati! E il numero tre? Ah sì, c’è della roba da dire sul numero tre. Forse che non conta niente per voi il fatto di avere un vero dottore d’università che viene a visitarvi ogni giorno, te, John, con la tua testa rotta, o te, Giorgio Merry, che solo sei ore fa avevi addosso i brividi della febbre e che ancora in questo momento hai gli occhi color della buccia di limone? E magari voi non pensate che può arrivare una nave di conserva, eh? Eppure verrà, e non si farà aspettare molto, e vedremo allora chi sarà contento di possedere un ostaggio al momento buono. E quanto al numero due, perché sono sceso a patti, ebbene, in ginocchio, strisciando, siete venuti da me a supplicarmi che lo facessi, in ginocchio siete venuti, tanto eravate abbattuti, e sareste morti di fame se non l’avessi fatto:

ma tutto ciò è un’inezia: guardate, qui, l’importante è questo!" E gettò in terra qualcosa che io tosto riconobbi per quella stessa carta ingiallita, con le tre croci rosse che avevo rinvenuta, avvolta nella tela cerata, in fondo al baule del capitano. Perché il dottore l’avesse data, non riuscivo a immaginarlo.

Ma se era inesplicabile per me, l’apparizione della carta sembrò una cosa addirittura incredibile agli ammutinati. Come gatti sopra un sorcio vi saltarono sopra. Essa passò di mano in mano; a vicenda se la strappavano. A sentire le bestemmie, le esclamazioni, i puerili scoppi di risa con cui essi accompagnavano il loro esame, avreste detto non solo che palpavano l’oro, ma che già si trovavano in mare con l’oro nella stiva e, per di più, in sicurezza.

"Sì" disse uno "è proprio quella di Flint. J. F., con sotto una sbarra e le due mezze chiavi; così ha sempre firmato." "Splendido" disse Giorgio. "Ma come faremo a portar via il tesoro senza la nave?" Silver si drizzò di colpo, e appoggiandosi con una mano al muro gridò:

"Prendi nota, Giorgio. Ancora un’impertinenza, e t’invito a misurarti con me. Come faremo! E che ne so io? Piuttosto tu, me lo dovresti dire: tu e gli altri che avete perduto la mia goletta coi vostri maneggi, che il diavolo v’incenerisca. Ma tu no, tu non lo sai, che non hai più cervello d’un pollo. Ma puoi parlare corretto, e ci parlerai, Giorgio Merry, stanne pur certo." "La carta è già qualche cosa" fece il vecchio Morgan.

"Qualche cosa! Lo credo bene" riprese il cuoco. "Voi perdete la nave, io trovo il tesoro. Chi vale meglio? E ora, io mi ritiro, corpo d’una bomba! Eleggete chi vi aggrada a vostro capitano; io ne ho fin sopra i capelli." "Silver!" esclamarono in coro. "Porco-Arrostito per sempre! Viva Porco-Arrostito! Porco-Arrostito nostro capitano!" "E questa è la nuova musica, no?" gongolò il cuoco. "Giorgio, amico mio, io credo che ti conviene aspettare un altro turno, e buon per te che io non sono vendicativo. No, non è mai stato il mio sistema. E ora, camerati, questa macchia nera? Non vale più gran che, non è vero? Dick ha contrariato la sua buona sorte e guastato la bibbia, e questo è tutto." "Ma gioverà sempre ancora baciare il libro, no?" mormorò Dick, naturalmente preoccupato per la maledizione che s’era tirata addosso.

"Una bibbia con un pezzo di meno?" rispose Silver beffardo. "No.

Quella non vale più d’un libro di canzoni." "E’ così?" esclamò Dick quasi gioioso. "Allora credo che mi conviene conservarla ancora." "Prendi, Jim, ecco una curiosità per te" disse Silver porgendomi la carta.

Era un disco grande all’incirca come uno scudo. Un lato, che rispondeva all’ultima facciata del libro, era bianco; l’altro recava alcuni versetti dell’Apocalisse: queste parole, fra le altre, che mi colpirono profondamente:

"Fuori sono i malvagi e gli assassini". Il lato stampato era stato annerito con carbone di legna che già cominciava a sfumar via macchiandomi le dita; sul lato bianco era stato scritto con lo stesso mezzo la parola: "Destituito". Ho sotto gli occhi, mentre stendo il mio racconto, codesta curiosità: nessuna traccia di scritto rimane all’infuori di un semplice graffio come quello che vi avrebbe lasciato un colpo di unghia.

Così finì la notte avventurosa. Poi, dopo aver bevuto tutti, ci si coricò per dormire, e Silver restrinse la sua vendetta apparente al solo fatto di mettere Giorgio Merry di sentinella, minacciandolo di morte se non avesse fatto buona guardia.

Passò del tempo prima che potessi chiudere gli occhi, e Dio sa se avevo materia su cui riflettere: l’uomo da me ucciso nel pomeriggio; la mia posizione estremamente rischiosa, e soprattutto la formidabile partita nella quale vedevo Silver impegnato, che con una mano teneva insieme gli ammutinati, e con l’altra si sforzava, adoperando ogni possibile ed impossibile mezzo, di ottenere la sua pace e salvare la sua miserabile esistenza. Egli stesso dormiva tranquillo e ronfava sonoramente: ma il mio cuore si addolorava per lui, pure perverso com’era, pensando agli oscuri pericoli che l’accerchiavano, ed alla vergognosa forca che lo aspettava.

 

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Capitolo 30

Sulla parola

 

Fui svegliato, ossia fummo svegliati, giacché vidi anche la sentinella drizzarsi di soprassalto dallo stipite della porta contro il quale si era appoggiato, da una voce chiara e cordiale che ci chiamava dal margine del bosco.

"Ohé, del fortino!" gridava "C’è qui il dottore." Era lui infatti. Ma la gioia di riascoltare quella voce non fu senza amarezza. Ricordando la mia insubordinata condotta e vedendo in mezzo a quale compagnia e tra quali pericoli essa m’aveva gettato, arrossivo di vergogna e non osavo guardare in faccia il nuovo venuto.

Egli doveva essersi alzato quando era ancora buio, perché appena ora incominciava a schiarire. Affacciatomi a una feritoia lo vidi dritto, come Silver l’altra volta, e immerso fino al ginocchio nella nebbia stagnante.

"Lei, dottore! Buon giorno a lei!" scattò Silver completamente sveglio e raggiante d’amabilità. "Svelto e mattiniero, davvero. E difatti, è l’uccello mattiniero che acchiappa i buoni bocconi, come si suol dire. Su, Giorgio, scuotiti, e fai entrare il dottore. Stanno tutti bene, anche i vostri pazienti: tutti bene, e allegri." Così blaterava, in piedi sulla cima del monticello, con la gruccia sotto l’ascella e una mano sulla parete del fortino, il vecchio John ancora tale e quale: nella voce, nelle maniere, nell’espressione.

"E abbiamo anche una sorpresa per lei, una vera sorpresa, signore" continuò. "Un piccolo forestiero, qui, eh! eh! Un nuovo dozzinante e inquilino, signore, dall’aspetto sano e gagliardo: come un sopraccarico ha dormito, accanto a John: bordo a bordo siamo stati, tutta la notte." Il dottore Livesey era in quel momento di qua dello steccato e assai vicino al cuoco. Udii la sua voce alterata domandare:

"Mica Jim?" "Proprio lui; e più Jim che mai" rispose Silver.

Il dottore si arrestò di colpo, e rimase alcuni istanti senza parola, come interdetto.

"Bene bene" disse infine "prima il dovere e poi il piacere, come direste voi stesso, Silver. Vediamo questi vostri pazienti." Entrò nel fortino, e, rivoltomi un fervido cenno del capo, procedette alla visita degli ammalati. Egli non tradiva alcuna apprensione malgrado sapesse che la sua vita tra quei perfidi demoni era sospesa a un filo; e passava discorrendo dall’uno all’altro quasi facesse un’ordinaria visita professionale presso qualche pacifica famiglia inglese. I suoi modi credo influissero sugli uomini i quali si comportavano con lui come se nulla fosse accaduto, ed egli fosse ancora il medico di bordo e loro altrettanta fedele gente di prua.

"Voi state meglio, amico mio" disse all’individuo dalla testa fasciata. "Se mai qualcuno l’ha scampata bella, siete voi quello; la vostra testa dev’essere dura come il ferro. E voi, Giorgio, come va? Il vostro colore è buono, nessun dubbio; ma il vostro fegato, mio caro, è guasto. L’avete presa la medicina? Dite voi, ragazzi, l’ha presa la medicina?" "Sì, signore, sì, l’ha presa" rispose Morgan.

"Perché, vedete, da quando mi ritrovo a essere medico di ribelli, o di prigionieri, per meglio dire," continuò il dottore Livesey col suo tono più allegro "io mi faccio un punto d’onore di non sottrarre un uomo a Re Giorgio (Dio lo benedica) e alla forca." I furfanti si scambiarono un’occhiata, ma ricevettero la botta in silenzio.

«Dick non si sente bene, signore" disse uno.

"No? Venite qui, Dick, e fatemi vedere la vostra lingua. Difatti, sarei stupito se con una lingua simile si sentisse bene. E’ una lingua da far paura ai francesi. E siamo daccapo con la febbre." "Ecco" interloquì Morgan "cosa si guadagna a rovinare la bibbia." "Ecco cosa si guadagna, come dite voi, a essere degli asini matricolati," ribatté il dottore "e a non aver giudizio sufficiente per distinguere l’aria buona dal veleno, e la terra asciutta da un vile pestifero pantano. Io sono convinto (ma naturalmente è una semplice opinione) che non ci vorrà meno del diavolo per estirpare la malaria dai vostri organismi. Accamparsi in una palude! Mi meraviglio di voi, Silver. Tutto calcolato siete meno sciocco di tanti altri, ma mi sembrate sprovvisto della più elementare nozione delle regole igieniche." Dopo che li ebbe medicati tutti, seguendo essi le sue prescrizioni con una specie di comica sottomissione che li rendeva piuttosto simili a scolaretti che a sanguinari ribelli e pirati: "Ebbene," aggiunse "per oggi è fatto. E ora vorrei, se non vi rincresce, avere un colloquio con quel ragazzo." E accennò a me con la testa, con aria indifferente.

Giorgio Merry, che stava sulla porta sputando e bofonchiando per non so che amara medicina ingoiata, alla prima parola del dottore si girò tutto infiammato e reagì con un violento «No!" e un’imprecazione.

Silver piantò un colpo sul barile con il palmo aperto.

"Silenzio!" ruggì. E girò intorno uno sguardo leonino. "Dottore" continuò poi col suo tono abituale "ci pensavo appunto, conoscendo il suo debole per questo ragazzo. Noi le siamo tutti devotamente grati per la sua bontà, e, come vede, abbiamo fede in lei, e trangugiamo le sue droghe come fossero grog. Ora io credo di aver trovato una soluzione soddisfacente per tutti. Hawkins, vuoi tu darmi la tua parola d’onore di giovane gentiluomo (perché un giovane gentiluomo tu lo sei per quanto di umile origine), la tua parola d’onore che non taglierai la corda?" Io m’affrettai a promettere.

"Allora, dottore," riprese Silver "lei mi usi la cortesia di uscire dal recinto. Una volta fuori, io porterò il ragazzo laggiù nell’interno, di fronte a lei, e ritengo che attraverso la palizzata potrete discorrere. Buon giorno a lei, signore, e tutti i nostri rispetti al cavaliere e al capitano Smollett." L’esplosione di malcontento, che soltanto le occhiate minacciose di Silver aveva represso, scoppiò non appena il dottore ebbe lasciato la casa. Silver fu nettamente accusato di fare il doppio gioco, di cercare di ottenere una pace separata, di sacrificare gli interessi dei suoi complici e vittime: in una parola, di ciò che precisamente stava facendo. Il tradimento mi pareva in questo caso talmente evidente che non sapevo immaginare come egli sarebbe riuscito a distogliere la loro collera. Ma Silver valeva da solo due volte tutti gli altri; e la vittoria della notte lo aveva enormemente innalzato ai loro occhi. Si scagliò contro tutti quanti trattandoli da perfetti cretini, affermò che era necessario che io parlassi col dottore, e agitando loro la carta sotto il naso, domandò se volevano rompere il trattato il giorno stesso di muovere alla ricerca del tesoro.

"No, perdio!" gridò. "Saremo noi che stracceremo il trattato al momento opportuno; e fino ad allora io abbindolerò il dottore, dovessi magari ungergli gli stivali con dell’acquavite." Dopo di che comandò di accendere il fuoco, e s’incamminò trionfante, appoggiato sulla sua gruccia, con una mano sulla mia spalla, lasciandoseli dietro disorientati e ridotti al silenzio dalla sua volubile e prestigiosa parola, più che convinti delle sue ragioni.

"Adagio, piccolo, adagio" mi sussurrava. "Ci salterebbero addosso in un batter d’occhio, se ci vedessero affrettarci." Con meditata lentezza dunque attraversammo la sabbia dirigendoci verso il punto dove il dottore, dall’altro lato della palizzata, aspettava; e giunti a portata di voce, Silver si fermò.

"Lei terrà conto anche di questo, dottore; e il ragazzo le dirà come gli ho salvato la vita, e come sono stato destituito appunto per questo! Dottore, quando un uomo naviga così stretto al vento come faccio io, e gioca a testa e croce, per così dire, il suo ultimo respiro, non le sembrerà troppo, forse, di regalargli una buona parola. Lei vorrà tener presente che non è più soltanto la mia vita, ma è quella di questo ragazzo ora che è in gioco; e mi parlerà schiettamente, dottore, e mi darà un briciolo di speranza per tirare avanti, per misericordia." Subito dopo aver girato le spalle ai suoi compagni e al fortino, Silver aveva cambiato aspetto: le sue guance sembravano infossate; la voce gli tremava: mai vidi creatura più mortalmente abbattuta.

«John, non avrete mica paura?" chiese il dottor Livesey.

"Dottore, io non sono un vile, no, affatto: neppure tanto così (e fece schioccar le dita). Se lo fossi, non parlerei. Ma confesso francamente che l’idea della forca mi dà i brividi. Lei è buono, lei è un vero uomo; il migliore che io abbia mai incontrato. E lei non dimenticherà ciò che ho fatto di bene, alla stessa maniera che non dimenticherà il male. E ora io mi allontano, come vede, e lascio soli lei e Jim. E lei terrà conto anche di questo, perché è uno spingersi molto in là anche questo!" Ciò dicendo si tirò indietro di un po’, tanto da non poterci ascoltare, sedette sopra un ceppo d’albero e si mise a fischiare, voltandosi di tanto in tanto in modo da poter sorvegliare ora me e il dottore, ora i suoi turbolenti ribaldi che andavano su e giù per la sabbia tra il fuoco che erano intenti a riaccendere e la casa da dove prendevano lardo e biscotto per la colazione.

"E così, Jim" mi disse tristemente il dottore "eccoti qui. La birra che ti sei fatta ti tocca berla, figlio mio. Iddio mi è testimonio che non ho il coraggio di rimproverarti: ma, ti piaccia o non ti piaccia, desidero dirti questo: quando il capitano Smollett stava bene, non osasti distaccarti da noi; quando s’ammalò e non era in grado d’impedirti... ah, perdio, quella fu una vera bassezza!" Confesso che a questo punto io non potei trattenere le lacrime.

"Dottore" dissi "mi risparmi. Mi sono rimproverato io stesso abbastanza: la mia vita è oramai condannata, e io sarei già morto se Silver non avesse preso le mie parti; e, dottore, mi creda, saprò morire, e riconosco che lo merito: ma il mio spavento è la tortura. Se arriveranno a torturarmi..." "Jim" interruppe il dottore con tutt’altro tono di voce. «Jim, questo non deve accadere. Salta la palizzata, e fuggiamo.

"Dottore, ho dato la mia parola. :~ "Lo so, lo so. E che vuoi farci, Jim, adesso? Mi addosserò io tutto: vergogna e biasimo, ragazzo mio: ma lasciarti qui, no, non posso. Salta! Un salto, e sei fuori, e filiamo come gazzelle." "No" replicai. "Ciò che lei mi consiglia so benissimo che non lo farebbe lei stesso; né lei né il cavaliere né il capitano, e neanch’io lo farò. Silver si è fidato di me, io gli ho dato la mia parola, e ritorno con lui. Ma, dottore, mi lasci finire. Se mi mettono alla tortura potrebbe sfuggirmi una parola a proposito del posto dov’è l’’Hispaniola’; perché io l’ho presa, l’’Hispaniola’, con l’aiuto della sorte e dell’audacia insieme; e ora si trova nella baia del Nord, sulla spiaggia sud, quasi al livello dell’alta marea. A mezza marea dovrebbe essere a secco." "L’’Hispaniola!’" esclamò il dottore.

Io gli feci una rapida narrazione delle mie avventure che lui ascoltò in silenzio.

"C’è una specie di fatalità in tutto questo" osservò appena ebbi finito. "A ogni passo, sei tu che ci salvi la vita; e tu credi che noi possiamo lasciarti morire? Sarebbe una ben meschina ricompensa, figlio mio. Tu hai scoperto la congiura, tu hai trovato Ben Gunn, la più bella cosa che tu hai fatto o potrai mai fare, dovessi pur campare cent’anni. Oh, per Giove, a proposito di Ben Gunn, questo è il colmo della sfortuna! Silver" chiamò "Silver! Desidero darvi un consiglio." E come il cuoco si fu avvicinato:

"Per quel tesoro non affrettatevi troppo." "In fede mia, signore, io cercherò di tirare le cose in lungo; però non posso, scusi tanto, salvare la mia vita e quella del ragazzo se non mettendomi a cercare quel tesoro, creda a me." "Ebbene, Silver, quando è così, farò ancora un passo: attento alle burrasche, quando lo troverete." "Signore, sia detto tra noi: questo che lei mi aggiunge o è troppo o è troppo poco. A quale scopo sta puntando: perché abbandonare il fortino, perché darmi quella carta, io non lo so, non è vero? E tuttavia ho fatto la sua volontà, a occhi chiusi, senza ricevere una parola di speranza. Ma questo, no: questo è troppo. Se lei non vuole spiegarmi nettamente le sue intenzioni, ebbene, me lo dica, ed io lascerò il timone." "No" fece il dottore con aria pensosa. "Non ho il diritto di dire di più: il segreto non è mio, capite, Silver; altrimenti vi do la mia parola che ve lo aprirei. Ma con voi andrò più lontano che posso, ed anche un passo più in là; dopo di che la mia parrucca se la dovrà vedere col capitano, se non sbaglio! E, in primo luogo, voglio darvi un po’ di speranza. Silver, se voi ed io usciamo da questa trappola da lupi, farò per salvarvi tutto quanto posso, eccetto il falso testimone.

La faccia di Silver era raggiante.

"Lei non potrebbe parlar meglio, ne sono persuaso, fosse pure mia madre." "Ebbene, questa è la mia prima concessione" riprese il dottore.

"La seconda è un consiglio: custodite bene il ragazzo, e se vi serve aiuto, chiamate. Io vado a procurarvelo, e ciò stesso vi proverà che non parlo a casaccio. Arrivederci, Jim." E il dottor Livesey mi strinse la mano attraverso la palizzata; e, rivolto a Silver un cenno di saluto, entrò di buon passo nel bosco.

 

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Capitolo 31

La caccia al tesoro: l’indice di Flint

 

"Jim" disse Silver quando fummo soli "se io ho salvato la vita a te, tu l’hai salvata a me, e questo non lo scorderò. Ho visto che il dottore ti sollecitava a scappare; con la coda dell’occhio l’ho visto; e ho visto che tu dicevi di no, chiaro come se ti udissi.

Jim, questo è un buon punto per te. E’ il primo lampo di speranza dopo l’attacco fallito, ed è a te che io lo devo. E ora, Jim, ci tocca metterci alla caccia del tesoro con ordini suggellati, come si direbbe, cosa che a me non garba. Ma noi due dobbiamo tenerci stretti come fossimo cuciti insieme, per salvare la nostra testa a dispetto della sorte e del destino." In quel momento un uomo ci chiamò perché la colazione era pronta, e presto sedemmo sulla sabbia, intorno al fuoco, con davanti biscotto e lardo fritto. Avevano acceso un fuoco da arrostire un bue, e questo fuoco era talmente divampato e ardente che non ci si potevano accostare che dal lato del vento, e non senza precauzione. Mossi dallo stesso spirito di dissipazione, avevano cotto tre volte più roba di quanta non ne potessimo mangiare, e uno di loro, con una risata da scemo, gettava i resti nel braciere che ravvivato da quell’insolito alimento tornava a fiammeggiare e scoppiettare. Io non vidi in vita mia gente più noncurante del domani. "Giorno per giorno" è l’unica espressione adatta a qualificare la loro maniera di vivere; tanto per lo sciupìo delle provviste quanto per le sentinelle addormentate; e sebbene essi fossero abbastanza arditi per affrontare una breve scaramuccia, io vedevo chiaramente la loro assoluta inettitudine a sostenere qualcosa come una campagna prolungata.

Lo stesso Silver, che mangiava col capitano Flint sulla spalla, non aveva una parola di rimprovero per la loro indifferenza, cosa che mi stupiva, tanto più che ben di rado egli si era mostrato così accorto come poco fa.

"Si, compagni" diceva lui "è una vera bazza per voi avere Porco- Arrostito che pensa per voi con questa sua zucca qui. Io ho ottenuto ciò che volevo, io. Certo, essi tengono la nave. Dove la tengano, non lo so: ma una volta acciuffato il tesoro, ci metteremo a cercarla e la scoveremo. E allora, amici miei, poiché abbiamo i canotti, avremo il sopravvento." Così andava discorrendo con la bocca piena di lardo scottante; e mentre ristorava la loro speranza e fiducia, credo bene che risollevava insieme se stesso.

"Quanto all’ostaggio" continuò "suppongo che quella sarà l’ultima sua chiacchierata con la gente che ama tanto. Io ho avuto la mia parte di notizie; e gliene sono grato; ma oramai è cosa finita. Lo terrò al guinzaglio mentre andremo alla caccia del tesoro, perché ci converrà custodirlo come fosse oro, in caso di accidente, capite, e per il momento. Una volta in possesso della nave e del tesoro, e che navigheremo come allegri compagni, oh, allora parleremo col signor Hawkins, parleremo, e gli daremo la sua razione, sicuro, in compenso delle sue gentilezze." Che gli uomini fossero ora di buon umore, nessuna meraviglia.

Quanto a me, ero tremendamente abbattuto. Qualora il piano che egli aveva finito d’abbozzare fosse diventato attuabile, Silver, già due volte traditore, non avrebbe esitato ad adottarlo. Egli aveva ancora un piede da una parte e uno dall’altra, e non c’è dubbio che avrebbe preferito la libertà e la ricchezza coi pirati alla prospettiva di sfuggire semplicemente all’impiccagione, che era quanto di meglio potesse sperare da parte nostra.

Inoltre, e anche se la forza delle cose lo avesse costretto a mantenere la parola data al dottor Livesey, anche allora quale pericolo dinanzi a noi! Che momento, quando i sospetti dei suoi seguaci si fossero trasformati in certezza, ed io e lui ci fossimo trovati a dover difendere la nostra vita, lui, uno sciancato, ed io, un ragazzo, contro cinque robusti e svelti marinai!

Si aggiunga a questa duplice apprensione il mistero che tuttora circondava la condotta dei miei amici, il non chiarito abbandono del fortino, l’inesplicabile cessione della carta, e, più duro ancora da comprendere, l’ultimo avvertimento a Silver: "Attento alle burrasche quando lo troverete" e sembrerà naturale il fatto che io gustassi così poco la mia colazione e con il cuore agitato seguissi i miei carcerieri alla ricerca del tesoro.

Dovevamo fare una curiosa figura, a chi ci avesse visti, sporchi nei nostri panni marinareschi, e tutti, eccetto me, armati fino ai denti. Silver portava due fucili a tracolla, l’uno davanti, l’altro di dietro, oltre al grosso coltellaccio alla cintura e a una pistola in ciascuna tasca del suo abito a falde quadrate. A completare questo strano spettacolo, il capitano Flint stava appollaiato sulla sua spalla, gracchiando stramberie e brani d’insensate chiacchiere di bordo. Legato alla vita da una corda, io seguivo docilmente il cuoco che teneva un dei capi ora nella mano libera ora tra i suoi poderosi denti. Ero proprio condotto come un orso addomesticato.

Gli altri erano variamente caricati: alcuni portavano picconi e pale che avevano sbarcato dall’"Hispaniola" come arnesi di prima necessità; altri lardo, biscotti e acquavite per il pasto di mezzogiorno. Tutte queste provviste osservai che provenivano dalla nostra riserva, e potei così constatare la verità delle affermazioni di Silver. Non avesse concluso un patto col dottore, la perdita della nave avrebbe ridotto lui e i suoi seguaci a sostentarsi di acqua e dei prodotti della loro caccia. L’acqua non sarebbe stata di loro gusto; un marinaio non è di solito buon tiratore; oltre al fatto che, trovandosi così scarsi di viveri, non sembrava che dovessero neppure abbondare di polvere.

Così dunque equipaggiati, e marciando in fila indiana, ci avviammo tutti, compreso quello dalla testa fasciata, che meglio certo avrebbe fatto a rimanersene quieto, e raggiungemmo la riva dove i due canotti ci attendevano. Anche questi portavano traccia della ubriaca follia dei pirati: uno aveva un sedile rotto, e tutti e due erano imbrattati di fango e mezzo pieni d’acqua. Dovevamo portarli con noi per maggior sicurezza, e così, imbarcati parte su uno parte sull’altro, attraversammo la baia.

Mentre remavamo, nacque una disputa a proposito della carta. La croce rossa era naturalmente un segno troppo grande per costituire un preciso punto di riferimento, e i termini della nota scritta dietro erano alquanto ambigui. Come il lettore forse ricorderà, la nota diceva:

"Grande albero, contrafforte del Cannocchiale, punto di direzione Nord-Nord-Est, quarta a Nord. Isola dello Scheletro Est-Sud-Est, quarta a Est. Dieci piedi".

Un grande albero era dunque il dato principale.

Ora, diritto davanti a noi, la baia era chiusa da un pianoro alto da due a trecento piedi che verso nord si riuniva alle pendici meridionali del Cannocchiale e verso sud si drizzava fino a collegarsi all’aspra e scoscesa altura denominata la Montagna dell’Albero di Mezzana. Il pianoro era folto di pini di diversa altezza. Esemplari di varia specie si ergevano qua e là, superando di quaranta o cinquanta piedi i loro vicini; ma solo stando sul posto e consultando la bussola si sarebbe potuto stabilire quale di questi fosse il preciso grande albero del capitano Flint.

Tuttavia, prima ancora che le imbarcazioni fossero a metà strada, già ciascuno si era scelto il suo preferito. Solo Long John scrollava le spalle e pregava di star tranquilli fino a che non si fosse lassù.

Vogavamo adagio, per ordine di Silver, di modo che gli uomini non si stancassero presto; e dopo una lunga traversata sbarcammo alla foce del secondo torrente che precipita lungo una boscosa forra del Cannocchiale. Di lì, piegando a sinistra, cominciammo a salire l’erta che portava al pianoro.

All’inizio il terreno grasso e melmoso e il groviglio delle erbe palustri ostacolarono grandemente i nostri passi: a poco a poco, però, la montagna diventò più ripida e rocciosa, mentre il bosco, cambiando carattere, cresceva più rado e meno disordinato. Era in verità uno dei più incantevoli posti dell’isola, questo dove ci addentravamo. Ginestre dal profumo acuto e arbusti vari fioriti avevano preso il posto dell’erba. Sulle verdi macchie degli alberi di noce moscata spiccavano i rossi fusti dei pini dai larghi ombrelli; e il miscuglio dei loro aromi impregnava l’aria, che era fresca ed eccitante, cosa che sotto i raggi perpendicolari del sole ci dava un dolcissimo refrigerio.

Con grida e salti la brigata si sparse intorno a ventaglio. Molto in coda, Silver ed io seguivamo: io impastoiato dalla corda, lui arando con un profondo ansimare la sdrucciolevole ghiaia. E di tanto in tanto occorreva anche che gli dessi una mano per evitare che gli mancasse un piede e ruzzolasse giù per il pendio.

Avevamo così percorso circa mezzo miglio e stavamo per toccare il ciglio del pianoro, quando dall’individuo più lontano sulla sinistra partì un urlo di orrore a cui seguirono reiterate grida che fecero accorrere i compagni.

"Che abbia trovato il tesoro non può darsi" osservò il vecchio Morgan affrettandosi dietro a noi "perché il tesoro è assolutamente in cima." In realtà, come assodammo non appena sul posto, si trattava di qualcosa di ben diverso. Ai piedi di un grosso pino e mezzo nascosto in un verde cespuglio tra i cui rami erano impigliati alcune piccole ossa, uno scheletro umano giaceva sul terreno con alcuni brandelli di vestito. Questa vista mise, credo, un gelo acuto in ogni cuore.

"Era un uomo di mare" dichiarò Giorgio Merry, che più coraggioso di tutti si era chinato là sopra per esaminar da vicino i brani del vestito. "In ogni modo, questa è tela da marinaio bell’e buona." "Già, già," disse Silver "è probabile. Né io penso che ti aspettassi di trovare un vescovo, qui. Ma in che strano modo sono disposte queste ossa! Non è naturale." Infatti, tornando a guardare, non si poteva credere che il corpo fosse in una posizione normale. A parte qualche disordine (dovuto forse agli uccelli che si erano nutriti di lui o alla lenta crescita delle piante che a poco a poco ne avevano avvolto i resti) l’uomo giaceva in una posizione perfettamente rettilinea, i piedi orientati in un senso, le mani tese sopra la testa come quelle di un tuffatore, nella opposta direzione.

"Mi è venuta un’idea, nella mia vecchia zucca" annuncio Silver.

"Ecco qui la bussola, ecco laggiù la più alta punta dell’isolotto dello Scheletro che spicca simile a un dente. Vogliamo rilevare il punto sulla linea di queste ossa?" Così fu fatto. Il corpo era appunto orientato in direzione dell’isolotto, e la bussola dava precisamente Est-Sud-Est, quarto Est.

"Ne ero certo" gridò il cuoco. "Questo è un segno indicatore. In dirittura di questo troviamo la stella polare e il nostro bell’oro splendente. Ma, corpo d’una saetta, lo credereste che sento un freddo nella schiena se penso a Flint? Questo è uno dei suoi scherzi, non c’è dubbio. Egli era solo qui con sei. Li ha uccisi tutti, uno dopo l’altro, e questo l’ha rimorchiato qui e orientato con la bussola, morte delle mie ossa! Era grande, quest’uomo, e aveva i capelli biondi. Sì, doveva essere Allardyce. Ti ricordi di Allardyce, Tom Morgan?" "Ma sì, ma sì che me ne ricordo;" rispose l’interpellato "mi doveva del denaro, mi doveva, e sbarcando mi portò via il coltello." "A proposito di coltello" fece un altro "o perché non cerchiamo il suo lì intorno? Flint non era uomo da vuotare le tasche d’un marinaio, e gli uccelli un coltello non se lo mangiano, mi pare." "Questo è vero, perdio" esclamò Silver.

"Nulla, proprio nulla è rimasto qui" fece Merry continuando a frugare tra le ossa. "Né un centesimo né una tabacchiera. Questo non mi sembra naturale." "No, perbacco, no" rincalzò Silver "né naturale né simpatico, per niente. Per mille diavoli, amici miei, se soltanto Flint fosse in vita, ci scotterebbe abbastanza, qui, e per voi e per me. Erano sei come noi, essi, e non sono più che ossa." "L’ho visto morto io con questi occhi, Flint, l’ho visto" disse Morgan. "Billy mi portò dentro. Egli era là coricato, con dei soldoni sugli occhi." "Morto sì, certamente, morto e sotterrato," fece l’individuo dalla testa fasciata "ma se ci sono spiriti che ritornano, Flint dovrebbe essere tra quelli. Perché, Dio mio, ha fatto una brutta fine Flint, ha fatto." "Oh, sì che l’ha fatta" aggiunse un altro. "Un momento delirava, un altro momento strepitava per del rum, oppure cantava: "Quindici sopra la cassa del morto..." Era la sua unica canzone, camerati; e vi dico la verità, io non l’ho mai più potuta sentire, da allora.

Faceva un caldo d’inferno, la finestra era aperta, e io sentivo quella vecchia canzone che risuonava chiara chiara, e intanto la morte gli stava con le unghie addosso." "Via, via, finiscila con la tua storia. E’ morto, e non cammina più, per quel che so io; o quanto meno, non va in giro di giorno, state pur sicuri" interruppe Silver. "La paura è fatta di nulla.

Andiamo avanti per i doppioni." Riprendemmo il cammino: ma, a dispetto del sole ardente e della luce accecante, i pirati smisero di correre ciascuno per proprio conto gridando per il bosco; ma procedevano stretti l’uno all’altro e parlavano sottovoce. Il terrore del morto filibustiere incombeva su di loro.

 

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Capitolo 32

La caccia al tesoro: la voce tra gli alberi

 

Per liberarsi da quel turbamento, e per dar modo a Silver e al malato di riposare, l’intera brigata si mise a sedere non appena giunta in cima alla salita.

Essendo il pianoro leggermente inclinato verso occidente, il punto dove sostammo dominava da tutti e due i lati una vasta distesa. Di fronte, al di là delle vette degli alberi, scoprivamo il Capo delle Foreste frangiato di spuma; dietro, non soltanto la baia laggiù, con l’Isola dello Scheletro, ma anche verso est, oltre la lingua di terra e la pianura orientale, un grande spazio di mare aperto. Erto sopra di noi si drizzava il dorso del Cannocchiale punteggiato di rari pini e zebrato di oscuri burroni. Si sentiva solo il rumore della lontana risacca, montante da ogni parte, e il ronzìo d’innumerevoli insetti nella macchia. Non un essere umano, non una vela in mare: l’immensità del panorama accresceva il senso di solitudine.

Silver sedette e rilevò con la bussola alcune orientazioni.

"Ci sono tre "grandi alberi"" disse poi "sulla linea press’a poco dell’Isolotto dello Scheletro. ’Contrafforte del Cannocchiale’ indica, se non sbaglio, quella più bassa cresta laggiù. Ormai, trovare la mercanzia è solo un gioco da ragazzi. Ma io avrei voglia di mangiare, prima." "Io non ho appetito" borbottò Morgan. "E’ il pensiero di Flint, credo, che me l’ha tolto." "Oh per questo, figlio mio, puoi ringraziare la tua stella che è morto" disse Silver.

"Era brutto come il diavolo" saltò su un terzo con un moto di raccapriccio. "Ah quella faccia paonazza!" "Così l’aveva ridotto il rum" aggiunse Merry. "Paonazza, sì, siamo d’accordo. E’ la parola giusta." Dopo che, scoperto lo scheletro, avevano lasciato ai loro pensieri prendere questa piega, si erano ridotti a parlare sempre più sottovoce, fino quasi a bisbigliare, cosicché il suono delle loro parole interrompeva appena il silenzio della foresta. Tutto a un tratto dal folto degli alberi di fronte a noi si sentì una voce sottile, acuta e tremula, intonare l’aria e le parole ben note:

"Quindici sopra la cassa del morto Yò, hò-hò e una bottiglia di rum!" Io non vidi mai uomini più terribilmente sbigottiti dei nostri pirati. I loro visi si scolorirono come per incanto; alcuni balzarono in piedi, altri si avvinghiarono ai loro vicini; Morgan si dibatteva per terra.

"E’ Flint, per...!" gridò Merry.

Il canto cessò di colpo, troncato nel mezzo di una nota, quasi che una mano avesse tappato la bocca del cantore. Venendo da così lontano, attraverso la limpida e luminosa atmosfera tra il verde degli alberi, era risuonato leggero e melodioso, e l’effetto prodotto sui miei compagni mi parve più strano che mai.

"Andiamo" disse Silver stentando a tirare fuori le parole dalle sue labbra color cenere "questo non è niente. Pronti a virare! E’ una impressione curiosa, che mi fa questa voce. Io non saprei che nome darle: ma è certo qualcuno che si burla di noi, qualcuno in carne e ossa, credete a me." Mentre così parlava, riprendeva coraggio, e il suo viso riprendeva colore. Già gli altri incominciavano a lasciarsi persuadere, e ritornavano un poco in sé, quando la stessa voce ruppe di nuovo il silenzio. Non era più un canto, questa volta, ma un debole lamentoso appello che gli echi della gola del Cannocchiale si rimandavano anche più affievolito.

"Darby Mac Graw!" gemeva la voce (è questa la parola che meglio rende il suono) "Darby Mac Graw! Darby Mac Graw!" ancora e ancora e ancora; e poi, fattasi alquanto più acuta, e con una bestemmia che tralascio:

"Portami il rum, Darby!" Lo spavento inchiodò al suolo i filibustieri. Gli occhi fuori della testa, essi stavano ancora lì dopo un pezzo che la voce non si sentiva più, guardando davanti a sé, muti e allibiti.

"Non c’è dubbio" balbettò uno. "Andiamo via!" "Sì, furono queste le sue ultime parole" gemette Morgan "le sue ultime parole su questa terra." Dick aveva tirato fuori la bibbia, e pregava con ardore. Egli aveva ricevuto una buona educazione, prima di darsi al mare e imbarcarsi con cattivi compagni.

Silver teneva ancora duro. Sentivo che batteva i denti, ma non si arrendeva.

"Nessuno in quest’isola ha mai sentito parlare di Darby" mormorò egli "nessuno all’infuori di noi qui." E, facendo un enorme sforzo: "Camerati" gridò "io sono qui per acciuffare quella mercanzia, e non mi lascerò mettere nel sacco né da un uomo né dal diavolo. Non ho mai avuto paura di Flint da vivo, e, per mille diavoli, saprò affrontarlo da morto. A meno di un quarto di miglio da qui, ci sono settecentomila sterline. Quando mai un gentiluomo di fortuna ha voltato la poppa a tanta grazia di Dio per timore di un vecchio beone di marinaio dalla gola paonazza, e per giunta morto?" Ma non si vedeva segno di un risveglio di coraggio nei suoi seguaci: il loro terrore, piuttosto, sembrava accresciuto dall’empietà delle parole.

"Smettila, John" disse Merry. "Non prendertela con uno spirito." Gli altri erano troppo spaventati per aprir bocca. Se la sarebbero data a gambe ciascuno per conto proprio, se avessero osato: ma la paura li raggruppava insieme e li stringeva a John quasi che dal suo coraggio potessero trarre sostegno. Lui, dal canto suo, aveva quasi completamente vinto la sua debolezza.

"Uno spirito? Sia pure," disse "ma c’è qualcosa che io non vedo chiaro, qui. Voi avete sentito un’eco. Ora, nessuno ha mai visto uno spirito con un’ombra. E allora, che bisogno avrebbe egli di un’eco? Vorrei saperlo. Questo non è certo naturale." L’argomento mi parve assai debole. Ma nessuno può mai sapere come reagisca la gente superstiziosa; e, con mia grande sorpresa, vidi Giorgio Merry molto sollevato.

"E’ proprio così" approvò egli. "Tu hai la testa sul collo, John, non c’è dubbio. Svelti a virare, camerati. Quel marinaio là, sbaglia di bordata, credo. E, ripensandoci, sì, somigliava alla voce di Flint, lo ammetto: ma non era però così chiara, in fondo.

Si sarebbe piuttosto detta la voce di qualcun altro... la voce di..." "Di Ben Gunn, per mille diavoli!" ruggì Silver.

"Sì, era così infatti" esclamò Morgan levandosi sulle ginocchia.

"Era proprio Ben Gunn!" "Questo non fa una gran differenza, non vi pare?" intervenne Dick.

"Ben Gunn non è qui in carne ed ossa più di quanto c’è Flint." Quest’osservazione suscitò lo sdegno dei marinai anziani.

"E che c’importa di Ben Gunn?" gridò Merry. "Morto o vivo, non c’importa niente di lui." Io ero stupito di vedere come avevano ripreso animo, e come sui loro visi era tornato il colore naturale. Presto si rimisero a chiacchierare, mettendosi di tanto in tanto in ascolto; e poco dopo, non sentendo più niente, si rimisero in spalla i loro arnesi e proseguirono il cammino, preceduti da Merry che portava la bussola di Silver per mantenerli nella linea dell’Isola dello Scheletro. Merry non s’era ingannato: morto o vivo, nessuno si curava di Ben Gunn.

Solo Dick aveva sempre la sua bibbia aperta, e camminando lanciava intorno occhiate tremanti, ma senza incontrare consensi, mentre Silver lo canzonava per le sue precauzioni.

"Te l’avevo ben detto, te l’avevo ben detto io, che avevi guastato la bibbia. Se non è più buona per giurarci sopra, che vuoi che se ne faccia uno spirito? Neanche questo!" E soffermatosi sulla gruccia, fece schioccare le sue grosse dita.

Ma Dick non era uomo da poter essere confortato; io non tardai ad accorgermi che si reggeva appena in piedi: sotto l’influenza del caldo, della stanchezza e dello spavento, la febbre prevista dal dottor Livesey saliva rapidamente.

Il terreno sgombro rendeva facile la marcia sulla cima che il nostro sentiero costeggiava da un lato, poiché, come già dissi, il pianoro era inclinato verso occidente. I pini grandi e piccoli crescevano nello spazio aperto; e anche fra i gruppi di noci moscati e di azalee, vaste radure si stendevano, arroventate dal sole. Tagliando l’isola come facevamo quasi per nord-ovest, ci avvicinavamo sempre più ai contrafforti del Cannocchiale da una parte, e dall’altra scoprivamo sempre meglio quella baia occidentale che io tutto tremante e sballottato dalle onde avevo attraversato con la piroga.

Raggiunto il primo dei grandi alberi e rilevata la posizione, si vide che non era quello buono. Stesso risultato col secondo. Il terzo si elevava quasi duecento piedi al disopra del bosco ceduo:

gigante vegetale dal fusto rosso, voluminoso come una casetta, alla cui immensa ombra avrebbe manovrato una compagnia. Lo si scorgeva dall’alto mare, da levante e da ponente, e avrebbe potuto figurare come punto di riferimento sulla carta.

Ma non era la sua altezza ciò che impressionava i miei compagni, bensì il sapere che settecentomila sterline in oro stavano sotterrate in qualche punto della sua diffusa ombra. Il pensiero del denaro, mano a mano che essi si avvicinavano, assorbiva i loro terrori di poco fa. I loro occhi fiammeggiavano, i loro piedi correvano più svelti e leggeri: l’intera loro anima era incatenata da quella ricchezza che li attendeva là e prometteva a ognuno di loro tutta una vita di piacere e di gozzoviglia.

Silver arrancava grugnendo, sulla sua gruccia; le sue narici dilatate tremavano; egli bestemmiava come un turco quando le mosche gli si posavano sul volto acceso e lucido di sudore: dava furiosi strattoni alla corda che mi legava a lui, e di tanto in tanto si girava verso di me con un’occhiata assassina. Non si preoccupava certo di nascondere i suoi pensieri che io leggevo come in un libro aperto. Nella immediata prossimità dell’oro, aveva dimenticato tutto il resto: la promessa fatta al dottore, e il suo avvertimento appartenevano ormai al passato; e senza dubbio egli sperava d’impadronirsi del tesoro, ritrovare l’"Hispaniola", imbarcarsi col favore della notte dopo aver scannato ogni onest’uomo che lì rimasto, e darsi alla fuga come prima aveva progettato, filando via carico di crimini e di ricchezze.

Assediato da tali timori, faticavo a tener dietro al rapido passo dei cercatori del tesoro. Spesso inciampavo, ed era allora che Silver tirava così bruscamente la corda e mi fulminava coi suoi sguardi. Dick, che ora si era accodato a noi, e formava la retroguardia, parlava tra sé nella crescente eccitazione della febbre, biascicando preghiere e bestemmie. Anche questo aggravava la mia angoscia, e per colmo di pena ero tormentato dalla visione della tragedia che doveva un giorno essersi svolta su quel pianoro, quando quel dannato filibustiere dalla faccia paonazza morto poi a Savannah cantando e reclamando da bere, aveva con le sue mani trucidato i suoi sei complici. Questo bosco adesso così tranquillo doveva aver rintronato di urla quel giorno; e pensandoci ora, nel calore dell’immaginazione, mi pareva di sentirlo rintronare ancora.

Toccavamo intanto il margine della macchia.

"Urrà, compagni! Su, tutti insieme!" tuonò Merry; e quelli che erano in testa si slanciarono.

Ma non avevano fatto più di dieci metri, che li vedemmo di botto arrestarsi. Un grido strozzato ferì l’aria. Silver accelerò il passo, zappando col piede della sua gruccia come un indemoniato; e in un attimo piombammo là.

Una larga buca ci si apriva davanti, scavata da tempo, perché i fianchi erano franati, e sul fondo germogliava l’erba. Lì dentro stavano un manico di vanga spezzato in due; e, sparse qua e là, tavole di casse da imballaggio. Sopra una di queste assi io lessi, impresso a fuoco, il nome di "Walrus" - il nome della nave di Flint.

Tutto era chiaro fino all’evidenza. Il nascondiglio era stato scoperto e svaligiato: le settecentomila sterline erano sfumate!

 

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Capitolo 33

La caduta di un capo

 

Non fu mai visto al mondo un simile capovolgimento: Tutti i sei uomini sembravano fulminati. Ma Silver superò presto il colpo.

Tutti i suoi desideri si erano avventati verso quel denaro come cavalli da corsa; e, per quanto fermato all’improvviso, di netto, aveva mantenuto il suo sangue freddo, recuperato il suo equilibrio, e modificato il suo piano prima ancora che gli altri avessero avuto tempo di misurare le proporzioni del loro disinganno.

"Jim" mi disse sottovoce "prendi questa, e difenditi." E mi passò una pistola a due colpi.

Intanto si muoveva tranquillamente verso nord, spostandosi in modo che la buca rimanesse tra noi due e gli altri cinque. Poi mi guardò scotendo la testa come per dire "Eccoci in una brutta situazione", cosa che purtroppo pensavo anch’io.

Il suo aspetto era adesso del tutto amichevole; e questi continui cambiamenti mi indignavano al punto che non potei trattenermi dal mormorargli: "E così, avete di nuovo cambiato partito!" Non ebbe tempo di rispondermi. Con grida e bestemmie i pirati, uno dietro l’altro, erano saltati nella buca, e ora scavavano con le loro unghie buttando di lato le assi: Morgan rinvenne una moneta d’oro. Egli la sollevò in alto in un turbine di bestemmie. Era una doppia ghinea: e passò lampeggiando di mano in mano.

"Due ghinee!" ruggì Merry brandendola verso Silver. "Sono queste le tue settecentomila sterline, non è vero? E tu sei l’uomo che ti intendi d’affari, non è vero? Sei quello che non ha mai guastato nulla, tu, razza di poltrone, testa di legno!" "Scavate, ragazzi: avanti, scavate" disse Silver con tranquillissima insolenza; "non mi stupirei che trovaste dei tartufi." "Dei tartufi!" strillò Merry. "Lo sentite, camerati? Ebbene, io vi dico che quell’uomo sapeva tutto. Guardatelo: glielo si legge in faccia." "Eh, Merry" esclamò Silver "di nuovo aspiri al posto di capitano?

Sei un ragazzo che sa farsi strada, non c’è dubbio." Ma questa volta tenevano tutti per Merry. Cominciarono ad arrampicarsi fuori dalla buca, lanciando occhiate furibonde.

Particolare di buon augurio per noi: uscivano tutti dal lato opposto a Silver.

E così restammo: due da una parte, cinque dall’altra, divisi dalla buca, senza che nessuno trovasse l’ardire di sparare il primo colpo. Silver non si muoveva: ben dritto sulla sua gruccia, li sorvegliava, e sembrava più impassibile che mai. Innegabilmente era coraggioso.

Alla fine Merry stimò bene di parlare.

"Camerati" disse "ecco là due di ’loro’ soli: uno è il vecchio storpio che ci ha portati qui, e messi in questo pasticcio; l’altro è quel moccioso a cui io voglio strappare le budella. E adesso, camerati..." Alzò la voce e insieme il braccio col gesto di chi incita a un assalto, quando: pan! pan! pan!, tre colpi di moschetto balenarono dalla macchia. Merry piombò a capo fitto nella buca; l’uomo dalla testa bendata girò su se stesso come una trottola, e stramazzò su di un fianco, restando lì fra le convulsioni dell’agonia; gli altri tre girarono la schiena e schizzarono via con quanta forza avevano in corpo.

In un batter d’occhio John aveva scaricato i due colpi di una pistola contro Merry che rantolava, e poiché il moribondo in uno sforzo estremo alzò gli occhi verso di lui: "Giorgio" gli disse "eccoti pagato." In quel mentre il dottore, Gray e Ben Gunn con in pugno i loro moschetti fumanti sbucarono dalla macchia di noci moscati e si avvicinarono a noi.

"Avanti, ragazzi" gridò il dottore. "Di corsa: dobbiamo impedire loro di raggiungere i canotti." E partimmo di gran carriera affondando a volte nei cespugli fino al petto.

Silver teneva molto a non staccarsi da noi. Lo sforzo che quest’uomo doveva compiere saltando sulla sua gruccia fino quasi a farsi scoppiare i muscoli del petto, era tale che, secondo il dottore, nessun valido individuo ne sarebbe stato capace. Malgrado ciò, egli rimaneva già indietro di trenta passi, ed era del tutto esausto, quando toccammo l’estremità del pendìo.

"Dottore" avvertì egli "guardi là. Non c’è fretta." Infatti non c’era fretta. In una zona più aperta del pianoro scorgemmo i superstiti che continuavano a correre nella stessa direzione verso cui si erano incamminati, ossia verso il Monte dell’Albero di Mezzana. Visto che eravamo già fra loro e i canotti, sedemmo per riprendere fiato, mentre Long John asciugandosi il sudore lentamente ci raggiungeva.

"Grazie di cuore, dottore" disse "lei è arrivato al giusto momento, credo, per me e per Hawkins... E così, sei tu, Ben Gunn... Ebbene, tu sei gentile, non c’è che dire..." "Io sono Ben Gunn, sono" rispose il "maroon" torcendosi come un’anguilla nel suo imbarazzo. E aggiunse dopo una lunga pausa "Come state voi, mastro Silver? Benissimo, vi ringrazio, non è vero?" "Ben, Ben" mormorò Silver "se penso a ciò che mi hai fatto!" Il dottore mandò Gray a prendere una delle vanghe abbandonate dai ribelli nella loro fuga; e mentre continuavamo a discendere con tutto comodo verso il luogo dove giacevano i canotti, riferì in poche parole quello che era accaduto. Questa storia, di cui Ben Gunn, il "maroon" semi idiota, era l’eroe dal principio alla fine, interessò moltissimo Silver.

Nei suoi lunghi vagabondaggi per l’isola, Ben aveva trovato lo scheletro, ed era lui che l’aveva spogliato. Egli aveva trovato il tesoro, l’aveva dissotterrato (era il manico della sua vanga quello ritrovato nella buca), l’aveva trasportato sul dorso in molti faticosi viaggi dai piedi del gran pino fino alla grotta in cui abitava sulla montagna dai due picchi nella punta nord-est dell’isola, e là tutto quest’oro era rimasto immagazzinato e al sicuro fin da due mesi prima dell’arrivo dell’"Hispaniola".

Il dottore gli aveva strappato il segreto nel pomeriggio dell’attacco. L’indomani mattina, visto l’ancoraggio deserto, era andato da Silver; gli aveva lasciato la carta, inutile ormai; ceduto le provviste, poiché la grotta di Ben Gunn era ben fornita di carne di capra da lui stesso salata: ceduto ogni e qualunque cosa, pur di ottenere la possibilità di abbandonare sano e salvo il fortino e ritirarsi sulla montagna dai due picchi al fine di sottrarsi alla malaria e guardare il tesoro.

"Quanto a te, Jim" mi disse "è stato a malincuore, ma ho agito per il meglio di coloro che si erano mantenuti fedeli al loro dovere; e se tu non eri di questi, di chi la colpa?" Quel mattino, considerando che io sarei rimasto coinvolto nell’atroce delusione preparata agli ammutinati, egli era corso alla grotta; e lasciato il capitano sotto la custodia del cavaliere, portati con sé Gray e il "maroon", aveva attraversato l’isola in diagonale per andare ad appostarsi vicino del pino.

Accortosi peraltro subito che la nostra brigata era in anticipo su di lui, spedì avanti Ben Gunn, buon corridore, perché facesse del suo meglio da solo. A costui venne l’idea di sfruttare la superstizione dei suoi antichi camerati, e vi riuscì così bene che Gray e il dottore ebbero il tempo di arrivare a imboscarsi prima della comparsa dei cercatori del tesoro.

"Ah," fece Silver "è stata una fortuna per me avere qui Hawkins.

Lei, dottore, avrebbe lasciato fare a pezzi il vecchio John, senza dedicargli neppure un pensiero." "No, neppure uno" confermò il dottore allegramente.

Intanto avevamo raggiunto i canotti. Armato della vanga, il dottore ne demolì uno, e tutti quanti ci imbarcammo sull’altro dirigendoci, bordeggiando la costa, verso la baia del Nord.

Fu un tragitto di otto o nove miglia. Silver, sebbene fosse stanco morto, prese un remo anche lui come noi, e scivolammo veloci sopra un mare di seta. Presto passammo lo stretto, e doppiammo il capo sud-est dell’isola intorno al quale quattro giorni prima avevamo rimorchiato l’"Hispaniola".

Lasciataci dietro la montagna dai due picchi, scorgemmo il nero orifizio della grotta di Ben Gunn, e il profilo di un uomo in piedi, appoggiato a un moschetto. Era il cavaliere; sventolammo un fazzoletto, e gli lanciammo tre urrà irrobustiti dalla potente voce di Silver.

Tre miglia più in là, proprio all’imboccatura della baia del Nord, che cosa potevamo incontrare se non l’"Hispaniola" che navigava da sé, alla ventura? L’ultima marea l’aveva rimessa a galla; e se vi fosse stato un vento robusto oppure un forte riflusso come nell’ancoraggio sud, non l’avremmo mai più rivista, o per lo meno si sarebbe incagliata senza rimedio. Effettivamente, ad eccezione della vela maestra ridotta in brandelli, il guasto era di poco conto. Fu preparata un’altra àncora, e vi demmo fondo in un braccio e mezzo d’acqua. Poi riprendemmo i remi dirigendoci alla cala del Rum, l’approdo più vicino al tesoro di Ben Gunn; mentre Gray ritornava da solo col canotto all’Hispaniola dove avrebbe passato la notte a fare la guardia.

Una dolce salita conduceva all’entrata della grotta. In cima ci imbattemmo nel cavaliere. Con me egli fu gentile e affettuoso, e della mia scappata non disse nulla, né in biasimo né in lode. Il manieroso saluto di Silver gli fece salire un po’ di sangue alla faccia.

"John Silver" gli disse "voi siete un inqualificabile furfante e impostore, un mostruoso impostore. Mi si è detto che devo astenermi dal farvi processare: ebbene, me ne asterrò. Ma le vittime, signore, pesano sul vostro collo come macine da mulino." "Le mie cordiali grazie, signore" replicò Long John con un nuovo inchino.

"Vi proibisco di ringraziarmi" scattò il cavaliere. "E’ una grave infrazione al mio dovere. Levatevi di lì!" Entrammo nella grotta. Era un largo e arioso ambiente rallegrato da una piccola sorgente con una pozza di limpida acqua su cui si inclinavano delle felci. Il suolo era sabbia. Davanti a un vigoroso fuoco stava coricato il capitano Smollett, e in un angolo lontano, dove la fiamma svegliava appena qualche debole riverbero, intravidi grandi mucchi di monete e masse quadrangolari di verghe d’oro. Era il tesoro di Flint che eravamo venuti a cercare da così lontano, e che già era costato la vita a diciassette uomini dell’"Hispaniola". Quanto fosse costato ammassarlo, quanto sangue e dolori, quante belle navi affondate, quanta brava gente attratta in mare da quel miraggio, quanti colpi di cannone, quanto di offese, menzogne e crudeltà, nessuno al mondo forse potrebbe dire.

Ma c’erano ancora tre su quest’isola: Silver, il vecchio Morgan e Ben Gunn, ciascuno dei quali aveva avuto la sua parte in questi delitti, allo stesso modo in cui aveva invano sperato di ottenere la sua parte di ricompensa.

"Entra, Jim" mi disse il capitano. "Tu sei un buon ragazzo, nel tuo genere: ma io non credo che noi navigheremo ancora insieme.

Sei un po’ troppo un ragazzo viziato, per me. O chi vedo, John Silver? Che vento vi ha portato qui?" "Rientro nelle file, signore" rispose Silver.

"Ah!" fece il capitano; e non aggiunse altro.

Che cena, quella sera, attorniato da tutti i miei amici; e che pasto, con carne di capra salata da Ben Gunn, parecchie ghiottonerie e una bottiglia di vino vecchio dell’"Hispaniola"!

Gente più allegra e felice credo che non fu mai vista. E Silver era là, seduto in disparte, quasi fuori della luce del focolare, che però mangiava di gusto, pronto a slanciarsi quando si desiderava qualcosa; e accordando il suo riso, ma in sordina, al nostro: lo stesso calmo, garbato, ossequioso marinaio che era stato durante la traversata.

 

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Capitolo 34

e ultimo

 

L’indomani mattina ci si mise di buon’ora al lavoro, perché trasportare quel grosso mucchio d’oro a bordo dell’"Hispaniola", facendogli percorrere un miglio per terra fino alla spiaggia e poi tre miglia per mare fino all’"Hispaniola", era impresa tutt’altro che agevole per un così scarso numero di uomini. Dei tre banditi in fuga per l’isola ci davamo ben poco pensiero. Una semplice sentinella appostata sul dorso della montagna bastava a proteggerci da qualsiasi sorpresa; senza contare, del resto, che di battersi essi dovevano essere più che stufi.

Il lavoro fu dunque condotto speditamente. Gray e Ben Gunn andavano e venivano col canotto, mentre gli altri badavano ad accatastare il tesoro sulla spiaggia. Due sole barre legate insieme con una corda formavano un buon carico per un adulto, e camminando lentamente. Quanto a me, essendo poco adatto a quella fatica, rimasi tutto il giorno occupato nella grotta a imballare le monete nei sacchi da pane.

Era una curiosa collezione, simile a quella di Billy Bones, per la varietà dei conii, ma talmente più ricca e abbondante che io provai un immenso piacere ad assortirla. Monete inglesi, francesi, spagnole, portoghesi; giorgi e luigi, dobloni e doppie ghinee, moidori e zecchini con le effigi di tutti i re d’Europa degli ultimi cento anni; bizzarri pezzi orientali impressi di segni che somigliavano a fili di cordicelle o brani di tele di ragno; pezzi rotondi e pezzi quadrati e pezzi forati nel mezzo, come medaglie da portare al collo: tutte le varietà di moneta del mondo figuravano, credo, in quella raccolta; e quanto al loro numero penso che uguagliassero le foglie dell’autunno, perché avevo male alla schiena dopo tanto curvarmi, e male alla mano dopo tanto scegliere.

Il trasporto durò parecchio: alla fine di ogni giorno una fortuna era stivata a bordo, e un’altra attendeva il suo turno per l’indomani; e durante tutto questo tempo i tre superstiti ribelli non dettero segno di vita.

Finalmente, mi sembra che fosse la terza sera, io gironzolavo col dottore sul dorso della montagna nel punto che dominava le parti basse dell’isola, quando dalla fitta oscurità di laggiù il vento ci portò un’eco tra di grida e di canti. Non fu che un breve intermezzo, a cui seguì il silenzio dì prima.

"Iddio li perdoni" disse il dottore "sono gli ammutinati." "Tutti ubriachi, signore" risuonò la voce di Silver alle nostre spalle.

Silver, devo dirlo, godeva della massima libertà; e malgrado i quotidiani rimproveri sembrava considerarsi di nuovo come un dipendente a cui venivano elargiti privilegi e riguardi. In verità, c’era da stupire a vedere con che disinvoltura egli sopportava certe staffilate, e con quale inesauribile garbo continuava a sforzarsi di entrar nelle grazie di tutti. Nessuno però lo trattava meglio d’un cane, salvo Ben Gunn, che conservava una tremenda paura del suo vecchio quartiermastro; oppure io stesso, che realmente gli dovevo qualche gratitudine, nonostante che riguardo a ciò avessi forse ragione di pensare di lui peggio di chiunque altro, perché l’avevo visto sul pianoro meditare un nuovo tradimento. E perciò fu con un tono aspro che il dottore gli rispose.

"Ubriachi o deliranti" disse.

"Lei ha ragione" replicò Silver "ma ciò non fa differenza né per lei né per me." "Suppongo non pretenderete che io vi prenda per un uomo pietoso," ribatté il dottore con un ghigno "cosicché può darsi che i miei sentimenti vi sorprendano. Ma se io fossi sicuro che delirano (e sono moralmente certo che uno di loro ha la febbre) lascerei questo campo e rischierei volentieri la pelle per portar loro il soccorso della mia scienza." "Chiedo perdono, signore, ma lei avrebbe torto. Ci rimetterebbe la sua preziosa esistenza, stia pur sicuro. Io sono mani e piedi dalla sua parte, adesso, e non vorrei vedere le nostre forze indebolite e private della sua persona, tanto più che so quanto a lei devo. Ma quella gente laggiù non sarebbe capace di mantenere la parola, no, anche supponendo che lo volesse; e, ciò che più conta, non crederebbe che lei mantenesse la sua." "Difatti" disse il dottore "voi siete l’uomo capace di mantenere la parola: lo sappiamo." Furono quelle all’incirca le ultime notizie che avemmo dei tre.

Solo una volta udimmo, molto lontano, un colpo di fucile, e pensammo che cacciassero. Si tenne consiglio, e fu deciso, con grande giubilo di Ben Gunn e la piena approvazione di Gray, di abbandonarli sull’isola. Lasciammo loro una notevole provvista di polvere e di palle, quasi tutta la carne di capra salata, un po’ di medicinali, e alcune altre cose di prima necessità: degli arnesi, degli abiti, una vela di ricambio, parecchie braccia di corda; e, dietro richiesta del dottore, una buona provvista di tabacco.

Nient’altro ci restava da fare nell’isola. Già avevamo stivato il tesoro e imbarcato sufficiente acqua, insieme col resto della carne di capra, per fronteggiare qualsiasi eventualità; e finalmente un bel mattino salpammo l’àncora, operazione che richiese tutte le nostre forze, e uscimmo dalla baia del Nord sotto la stessa bandiera che il capitano aveva issato e difeso alla palizzata.

I tre ci avevano spiato più da vicino di quanto non immaginassimo, come presto constatammo. Poiché uscendo dallo stretto dovemmo costeggiare molto da vicino la punta sud, e li vedemmo là tutti tre inginocchiati l’uno accanto all’altro sopra una striscia di sabbia, tendendoci le braccia supplichevoli. Piangeva il cuore a tutti, io credo, ad abbandonarli in quel misero stato; ma noi non potevamo esporci al rischio di un altro ammutinamento; e riportarli a casa loro per consegnarli alla forca, sarebbe stato un atto di gentilezza alquanto crudele. Il dottore dette loro una voce, e li informò delle provviste che avevamo lasciate e del luogo dove le avrebbero trovate. Ma essi continuavano a chiamarci per nome, supplicandoci per amor di Dio di avere pietà e di non abbandonarli alla morte in quella solitudine.

Da ultimo, vedendo che la nave proseguiva la sua rapida corsa e stava per arrivare fuori portata di voce, uno di loro (non so chi) saltò in piedi con un rauco grido, puntò il suo moschetto, e una palla passò fischiando sulla testa di Silver e bucò la vela maestra.

Allora ci riparammo dietro il bastingaggio; e quando io tornai a guardare essi erano scomparsi, e la stessa striscia di sabbia si era perduta nella lontananza. Così era finita con loro; e prima di mezzogiorno, con mia indicibile gioia, anche il più alto picco dell’Isola del Tesoro s’era affondato nel cerchio azzurro dell’orizzonte.

Trovandoci a corto di uomini, dovevamo tutti dare una mano ai lavori di bordo; solo il capitano, disteso su un materasso a poppa, si limitava a trasmettere ordini, perché malgrado si fosse rimesso in forze aveva ancora bisogno di riposo. Non potendo affrontare il viaggio di ritorno senza rifornirci d’uomini, volgemmo la prua verso il più vicino porto dell’America spagnola; e quando vi giungemmo, ostacolati da venti contrari e da parecchie aspre raffiche, eravamo esausti.

Clava il sole mentre gettavamo l’àncora in un magnifico golfo; e subito ci trovammo attorniati da un nugolo di imbarcazioni piene di negri e di indiani del Messico, e mulatti che vendevano frutti e legumi e offrivano di tuffarsi per una piccola moneta. La vista di tante facce ridenti - i negri specialmente - il sapore dei frutti tropicali, e soprattutto le luci della città che incominciavano a brillare, formavano il più delizioso contrasto col nostro torbido e sanguinoso soggiorno nell’isola. Il dottore e il cavaliere, prendendomi con loro, scesero a terra a passarvi la serata. Là si incontrarono col capitano di una nave da guerra inglese, e attaccarono discorso con lui che li condusse a bordo; in breve le ore volarono via così piacevolmente che già sorgeva l’alba quando ci accostavamo al fianco dell’"Hispaniola".

Ben Gunn era sul ponte solo, e appena ci vide prese a raccontarci, tra le più buffe contorsioni, che Silver era fuggito. Il "maroon" aveva chiuso un occhio su quella fuga avvenuta poche ore fa sopra un canotto, e ci assicurava di essersi così comportato per salvaguardare le nostre vite, che sarebbero certo state compromesse qualora "quell’uomo dalla gamba sola" fosse rimasto a bordo. Ma ciò non era tutto. Il cuoco non se n’era andato a mani vuote. Aveva furtivamente praticato un buco in un tramezzo, e s’era impadronito d’un sacco di monete, del valore forse di tre o quattrocento ghinee, per provvedere alle sue ulteriori peregrinazioni.

Io credo che fummo tutti contenti d’esserci liberati di lui così a buon mercato.

Infine, per abbreviare questa lunga storia, prendemmo alcuni uomini a bordo, facemmo un buon viaggio; e l’"Hispaniola" toccò Bristol proprio mentre il signor Blandly si preparava ad armare la nave di conserva. Di tutti gli uomini che erano partiti con essa non più di cinque rimpatriavano. "Satana agli altri non ha fatto torto - con la bevanda li ha spediti in porto" spietatamente; nonostante che, a dire il vero, noi non ci trovassimo così mal ridotti come quell’altra nave della canzone:

"Con un sol uomo della ciurma in vita Che numerosa era sul mare uscita." Ciascuno di noi ebbe una larga parte del tesoro, che impiegò saggiamente o follemente a seconda della propria natura. Il capitano Smollett ha smesso di navigare. Gray non soltanto custodì il suo denaro, ma rapidamente preso dal desiderio di ascesa sociale, s’impratichì del suo mestiere, e ora è secondo sopra un bel bastimento di cui possiede una parte; e è anche ammogliato e padre di famiglia. Quanto a Ben Gunn, ricevette mille sterline, che scialacquò in tre settimane, o, per essere più esatti, in diciannove giorni, perché al ventesimo ricomparve con le tasche vuote. Allora gli fu dato un posto di portinaio, proprio come aveva temuto stando sull’isola; ed egli vive tuttora, circondato dalle simpatie dei ragazzi del luogo, che però ne fanno un po’ il loro zimbello, e è un distinto cantore in chiesa la domenica e i giorni festivi.

Di Silver non si seppe altro. Quel terribile uomo di mare con una gamba sola è finalmente fuori dal cerchio della mia vita; ma io credo che abbia ritrovato la sua vecchia negra e viva contento insieme con lei e il capitano Flint. Così almeno mi piace sperare, dato che non mi sembra molto probabile che la felicità lo aspetti nell’altro mondo.

Le verghe d’argento e le armi stanno ancora, per quel che ne so, dove Flint le ha sotterrate, e per conto mio ci resteranno per un pezzo. Neanche un tiro di buoi potrebbe riportarmi in quell’isola maledetta; e i miei più paurosi incubi sono quando sento i cavalloni tuonare lungo la costa, o quando salto d’improvviso sul mio letto, con negli orecchi la stridula voce del capitano Flint:

"Pezzi da otto! Pezzi da otto!"

 

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